I sentieri della pace

Vivere in pace significa vivere in libertà tranquilla: «Pax est tranquilla libertas», diceva Cicerone nelle sue filippiche. Ed invero la pace non è soltanto la cessazione di uno stato di guerra, come voleva Hobbes, o più generalmente la fine del conflitto universale tra gli uomini. bensì una situazione instabile di pace. non essendo in essa stessa durata perenne per legge di natura. Da ciò la necessità di istituire lo stato di pace perché «la mancanza di ostilità non significa ancora sicurezza. e se questa non è garantita da un vicino ad un altro (il che può aver luogo solo in uno stato legale) questo può trattare come nemico quello a cui tale garanzia abbia richiesto invano». 

Ma nel suo disquisire metafisica è il Whitehead che ha dato la definizione più completa del concetto di pace. Questa, egli dice, non è altro che l’armonia delle armonie, quella che placa la turbolenza distruttiva e completa la civiltà. Ed in effetti quest’ultima definizione rispecchia ed integra quella ciceroniana, quel vivere in libertà tranquilla, intesa come espressione di maturità dei popoli liberi nel rispetto reciproco, senza tumulti e travagli che ne condizionino lo sviluppo. 

Libero è veramente colui che ha per sé tutta la libertà di azione e di pensiero, che la difende in pace scongiurandone frizioni e tentazioni conflittuali, ma più libero è colui che crede nell’inutilità di questi perniciosi malanni e si adopera per annullarne completamente le cause che li determinano. 

Credere che, deposte le armi e cessato lo sterminio di vite umane in guerra, la pace possa essere più che garantita è un’ingenuità e nel contempo un errore molto grave perché si dimentica che alla guerra ci si prepara proprio in tempi di pace, non è che quella esplode all’improvviso, senza motivi che ne abbiano determinato lo stato di belligeranza. 

Volere quindi bandire le guerre con fatti e non a parole vuol dire, innanzitutto, combattere con tenacia e lungimiranza gli squilibri sociali approntando per tempo rimedi preventivi, significa diagnosticare i mali sociali e combatterli tenacemente con leggi accettate dalle nazioni più evolute, che difendano gl’interessi di tutti gli uomini, che siano veramente imparziali, moralmente accettabili e rispettose dei diritti di ogni singolo cittadino, mai dimenticando nel promulgarle e nell’applicarle, che «la Giustizia è la volontà costante e perpetua di non negare a ciascuno ciò che gli è stato dato o riconosciuto suo e di difenderlo dai ladri, dai briganti o da qualsiasi accozzaglia di gente che si metta in comune a far qualcosa di ingiusto». 

Dopo tanti secoli questa massima di Platone, ripresa poi da Ulpiano e adottata dai giureconsulti romani come principio cardine di ogni rispetto reciproco, è pur sempre valida e fondamentale. Ma, ai tempi nostri, con tanto incontenibile travaglio sociale che per l’eccessivo progresso ha condizionato il corso della nostra civiltà, da sola non è più sufficiente per dare pace e tranquillità agli uomini del ventesimo secolo, stretti nella morsa di tante difficoltà, squilibrati nei loro principi fondamentali, vincolati ad un mondo ben diverso da quello per cui sono nati. Sono indifferenti, rinunciatari, inoperosi, senza slancio necessario per uscire fuori da certi intrighi artificiosi, e intanto aumentano le rapine a qualsiasi livello, gli omicidi, i decessi per AIDS e altre malattie del secolo, gl’inquinamenti del suolo, dei fiumi, dei mari, dei laghi, la distruzione della foresta amazzonica, le violenze sessuali, le violenze mafiose, ma anche, diciamole pure, le violenze legali, le violenze di Stato. Altro che pace! Questa è guerra spietata e cinica più di quella che si combatte in campo tra opposti eserciti. È come dire che possiamo cessare di autodistruggerci coi mezzi tradizionali per continuare ugualmente a morire ricorrendo ad altri sistemi di morte. A nulla vale cambiare il metodo se gli effetti sono uguali o peggiori. 

Se vogliamo una pace duratura dobbiamo fare un’inversione di rotta: rivedere ciò che non va nel nostro sistema di vita e avere la saggezza e la forza di rinunciarvi, di abbandonare senza ripensamenti e rimpianti la strada percorsa sino ad oggi. Innanzi tutto occorre rinunciare alle comodità della maggior parte dell’industria chimica, diffidare dei suoi elementi velenosi che seminano morte e anticipano un futuro ancor più funesto ad opera di responsabili di tante stragi continuate nell’ambiente in cui viviamo ed operiamo. La lotta sarà asperrima per contrapposti interessi in ballo, ma alla fine lo spirito di abnegazione sorretto dall’ansia di vita prevarrà sull’indifferenza e la sconsideratezza di monopolizzatori abietti e inverecondi. La passione per il bello e per il bene comune ci spronerà a superare prove difficili, consapevoli della nostra opera meritoria. Occorre però procedere ad un’accorta selezione per riuscire nei nostri intenti, dobbiamo scegliere collaboratori validi, temprati al sacrificio, guardarci da coloro che non hanno mai sofferto nella vita, che non hanno mai provato la sferza vivificante del dolore, che hanno ottenuto le cose desiderate senza fatica, senza provare il tormento della ricerca, rifuggendo l’impegno che è proprio dell’uomo saggio. Costoro non sono uomini su cui si possa fare affidamento, non capiranno mai il vero significato della vita, tanto meno capiranno che i mali dell’umanità non si cancellano come per incanto, con un colpo di spugna o ad un tocco di bacchetta magica. Essi non daranno mai il benché minimo apporto alla tanto auspicata costituzione di una società migliore, non ne cureranno i mali cronici che la travagliano. 

Se l’uomo moderno non si determinerà a lavorare tenacemente per vincere lo squilibrio profondo ch’è sorto dalle esigenze dei nuovi tempi contrapposte alle abitudini del passato, se non riscoprirà le efficaci e immense disponibilità interiori, la nostra generazione, nel giro di qualche decennio non avrà più storia, questa nostra terra, questo paradiso creato per le delizie del genere umano, che noi stessi, con diabolica caparbietà, abbiamo cominciato a trasformare in uno squallido paesaggio di morte, ci propinerà il veleno che incautamente e sconsideratamente le spargemmo al tempo della nostra follia. Periremo vittime espiatrici delle nostre stesse colpe, impigriti, imprigionati come il baco nel suo bozzolo, disperati perché quando stimeremo improrogabile ricorrere ai ripari, sarà troppo tardi. 

L’opera di bonifica, a tutti i livelli, va quindi iniziata subito, ché la fatica è ardua e passerà molto tempo prima di vederne e goderne i benefici effetti. 

Ma finché non decideremo di farci governare da uomini integri, ligi all’assolvimento del mandato che man mano andiamo loro affidando, finché con vigore non esigiamo amministratori saggi e coraggiosi, pronti a riconoscere diritti e doveri e a combattere ogni forma di corruzione a qualsiasi livello, la speranza in una società di pace rimarrà per sempre un pio desiderio. 

L’epoca in cui viviamo ha molto bisogno di uomini validi, capaci di sviluppare forze possenti cui hanno fatto ricorso i grandi dell’umanità, le stesse che, se ritrovate e bene impiegate, accresceranno il nostro fervore e ci spingeranno lungo i sentieri di una meritata felicità. 

Per raggiungere il traguardo della sua riabilitazione morale l’uomo si deve impegnare nel massimo sforzo di operosità, è necessario che senta entro di lui il richiamo prepotente al senso della giustizia e che qualche volta, dato che in quanto mortale egli è fallace, venga subito assalito dal dubbio di non avere fatto appieno il suo dovere – non fosse altro che per dimostrazione di umiltà -, è necessario che i principi di amore verso il prossimo e di rigore verso ogni forma di sopraffazione non vadano indefinitamente ignorati, altrimenti la giustizia non sarà mai uno strumento di liberazione, ma di costrizione, e la pace continuerà a restare un sogno lungamente vagheggiato e mai raggiunto. 

Un ordinamento giuridico che risponda alle esigenze di tutti, che raggiunga un compromesso tra le opposte convivenze e ne riduca sensibilmente le frizioni su scala internazionale, è il solo che possa contare su un’esistenza relativamente serena. 

«Non c’è altra via d’uscita», sostiene l’illustre economista e sociologo Umberto Villari, «se si vuole rinnovare la società, se la si vuole serena e trasformata, occorre ristabilire il diritto, bisogna risanare lo Stato e quindi, in primo luogo, chi amministra le istituzioni dello Stato, la politica che emana dall’alto. Si può vivere per la politica ma non di politica, specie se essa lascia alle coalizioni compromissorie l’esercizio dei pubblici poteri facendola soggiacere alla continua imposizione di leggi e adempimenti vari, secondo gl’interessi di parte, senza che vi sia un chiaro e puntuale impegno di programma da realizzare nel corso della legislatura». Il che è molto pericoloso: quando la politica è sorda alle esigenze della democrazia, prima o poi si trasformerà in dittatura. 

Obbligare i cittadini a rispettare leggi e leggine, decreti e decretini che risultano chiaramente in contrasto coi dettami della propria coscienza, significa spingerli ai limiti estremi della sopportazione, significa disporli all’insofferenza, alla rivolta, non alla pace. 

Coerenza, quindi, rispetto reciproco, lealtà occorrono per raggiungere traguardi di vita, ma per avere la certezza della felice riuscita non dobbiamo trascurare, soprattutto, la nostra azione educatrice nelle famiglie e nelle scuole, gloriose palestre di libertà, spesso trasformate in luoghi sediziosi. 

Dall’interesse e dal modo con cui i giovani attendono al loro lavoro di formazione educativa, dal modo di vedere le cose da grandi dipenderanno il progresso e il regresso della società, la rovina o la salvezza di essa, l’ignoranza nell’amministrare e l’incapacità a difendere le istituzioni nei basilari principi della civile convivenza. 

Ma la scuola e la famiglia attraversano, purtroppo, una crisi molto profonda. Non è mio proposito indagare analiticamente in questa esposizione sulle cause che spesso sconsacrano il culto di queste due insostituibili istituzioni, sarebbe troppo lungo e correrei il rischio, oltrettutto, di essere frainteso e di stancare chi ha avuto la cortese pazienza di leggermi sin qui. Dirò solo per sommi capi, come in un ritornello svegliarino, che la colpa di tanti sussulti e di tanti travagli è sempre di noi stessi, della mancanza di sani principi che correggano eventuali deviazioni al loro primo insorgere in qualsiasi momento della nostra vita. Non dimentichiamo che la decadenza delle grandi civiltà fu dovuta in gran parte alla morte morale dei popoli. E gli uomini continueranno ad affannarsi nel tentativo di ridurre gli squilibri sociali, ricorreranno a nuove leggi per arrestare il deterioramento di strutture vacillanti, potranno a tal fine adottare sistemi odiosi per indurre alla ragione o per annientare processi degenerativi, ma tutte queste misure non daranno i risultati sperati finché le leggi saranno inefficaci, finché non poggeranno su basi morali, finché saranno permessi la vergogna e lo squallore dell’esasperato profitto. Donato Accodo 

da “Spiragli”, Anno I, n. 1, 1989, pagg 13-17.

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