Mala tempora currunt et peiora premunt 

A questa espressione ricorrevano gli antichi romani per esprimere difficoltà in tempi presenti, prevedendone in futuro altre peggiori, e cioè nella traduzione: corron cattivi tempi e peggiori incalzano. 

C’è in quel premunt il precipitare di eventi connessi all’ineluttabile e all’indeterminato, ma anche dovuti alla volontà degli uomini ed al loro comportamento nel prevenire e quindi evitare i mali, quando non inclini a darsi ferocemente battaglia per fini utilitaristici. per libidine di potere, il più delle volte con ostentazione di falsi ideali, spinti da risentimenti se non addirittura da vendetta e quindi da propositi criminali. 

C’è in quel detto una malsopportata arrendevolezza al ripetersi di eventi inevitabili, una sorta di rassegnazione per ciò che si teme che accada nell’ora fuggente, in cui tutto si compie col ritmo dei ricorrenti cataclismi nel ciclo dell’eterno divenire. Ma i nostri antenati, quei casci Latini sapevano reagire alle avversità, con fortezza d’animo e, all’occorrenza, con biblico furore: noi, invece, abbiamo perduto l’orgoglio, tralignando dalle loro virtù, e ci siamo lasciati andare per le tortuose strade del malcostume. 

Non è certamente motivo di consolazione il non voler rimediare ai conflitti che travagliano l’umanità, e se le cose non vanno come dovrebbero andare, la non mai morta speranza di poterle in qualche modo renderle accettabili nel migliore dei modi non dovrebbe farci desistere dalle buone azioni e dalla determinazione di opporci, con ogni mezzo, alle forze del male. 

Di queste, in casa nostra e in ogni angolo della terra, se vuol essere di conforto il detto “mal comune mezzo gaudio”, ce ne sono tante e così perniciose da far pensare che non ve ne siano altre peggiori, se non fosse che il peggio, si sa, non è mai morto né morirà, forse perché rientra nella logica di un disegno arcano riservato ai mortali che con i loro strani comportamenti interrompono vecchi equilibri di usi e costumi per ricominciare in seguito un nuovo ciclo che, almeno nelle speranze dei più, agli inizi dovrebbe essere diverso dal precedente. In effetti, però, sin da principio si ripete l’eterno copione di fatti e misfatti che si moltiplicano in un clima di squallida ipocrisia, all’insegna dell’irrazionale e dell’incomprensibile. 

Gli è che l’uomo è uno strano animale, tanto strano che non lo si è ancora potuto definire, sia pure per sommi capi, nei confini del suo complesso mondo di luci ed ombre, di forze oscure, generatore di vita e di morte col mutare le sue forme attraverso cataclismi e indefiniti periodi di stasi, un mondo a tutt’oggi pur esso altrettanto strano, insensibile alle lamentose disperazioni di chi vuole vivere una vita intensamente operosa. Sta di fatto, d’altro canto, ch’egli, se andasse sempre avanti per fede prima che per religione, agirebbe diversamente perché la sua secolare esperienza, accumulata per quanto si voglia con discutibili teoremi, non è sufficiente a dargli assoluta certezza nemmeno del movimento degli astri, se cioè si muovano in maniera uguale e la stessa velocità. Nulla è definito in questo nostro pianeta, nulla è certo nell’esperienza, tutto è mutabile quando meno ce l’aspettiamo nel periodo della nostra esistenza, forse equivalente neppure a un miliardesimo di secondo del tempo universale. Come ci si potrebbe fidare, quindi, dell’esperienza di ciò che accade all’uomo nello spazio infinitesimale di una frazione di tempo e dargli credibilità di esperienza, quasi se la fosse portata dietro da millenni? Solo la fede può sorreggerci, la fede che ci rende credibili e ci eleva a superare altezze, la fede che dentro di noi non è esclusivamente nostra, invisibile leva possente delle nostre azioni, dalle più umili alle più esaltanti. 

Ma la fede, questa potenza vitale e polivalente implica anche una coscienza di sé, una morale che ci guidi nell’incerto andare della vita, ci distingua nelle nostre azioni, anche se a volte ci è causa di tormento, specie nel dubbio di non aver fatto appieno il nostro dovere, o di esaltazione se riteniamo di averlo fatto bene. 

Da questo stato d’incertezza della nostra coscienza, da questo interrogarci nel profondo del nostro io consegue un disagio, un travaglio che condiziona la certezza della nostra dignità. Da questa lotta interiore, da questo anelito di ricerca della verità, da questa incessante aspirazione ad essere soprattutto noi stessi ha origine la moralità e l’umanità, i soli tesori che non hanno prezzo. 

Questi concetti di kantiana memoria ritornano negli scritti di F. Schiller, Grazia e Dignità (1973): la denominazione degli istinti mediante la forza morale è la libertà dello spirito e l’espressione della libertà dello spirito nel fenomeno si chiama dignitàl. 

Sono pensieri e valutazioni che nel mondo di noi moderni hanno un fondamento di non poca incertezza rafforzato dall’irrefrenabile libidine di velleitario protagonismo di uomini che con le loro vuote ideologie. manifeste o implicite. stravolgono il significato primario di questi principi basilari, dimostrandosi rovinosi per sé e per gli altri con l’imporre una conduzione dissennata della cosa pubblica, culminante nella negazione dei diritti e della morale. in barba alla scienza o all’arte del governare. con evidente trascuratezza dei comportamenti intersoggettivi in seno alla comunità. 

Sicché l’onestà che in teoria dovrebbe essere la suprema virtù della sana politica, in pratica finisce per irridere alla rettitudine e ai buoni propositi quando non più in grado di determinare la forma del migliore stato possibile. 

E difatti tutti parlano di doveri da e per ogni dove attraverso i mezzi di divulgazione, accampando diritti che uno Stato che si rispetti dovrebbe riconoscere sì a tutti, purché dietro comprova che ognuno possegga alto il concetto morale di obiettività nel giudicare il proprio e l’altrui operato. 

Invece l’ambizione, l’arrivismo, la spregiudicatezza, l’equilibrismo di intriganti faccendieri offuscano gradatamente il prestigio delle istituzioni senza che la parola “Stato” sia sostituita da nulla di più ragionevole, che potrebbe essere, ad esempio, il risultato di un’azione compiuta non tanto per rispetto della legge, quanto per richiamo spontaneo di una retta coscienza. Altrimenti, che dovere è quello che ci si sforza di addimostrare soltanto perché costretti da condizionamenti legali quasi sempre illegali e da contratti sociali? Laddove il dovere non è spontaneo ivi viene a mancare la nobiltà dell’azione stessa e quindi l’essenza altamente morale in essa implicita. Ne consegue che allorché la dottrina del dovere è collegata a quella di un ordine nazionale necessario, di norme o di leggi, tendente a dirimere il comportamento umano, ponendo la felicità a fondamento etico, ad incremento della vita individuale e collettiva, la nozione di dovere non trova più posto. E maggiormente se consideriamo che l’etica non è un insieme di immotivati desideri o di preferenze senza costrutto, bensì dignitosa coscienza primigenia che distingue – o almeno dovrebbe distinguere – l’uomo da tutti gli altri esseri e lo eleva a quelle altezze dello spirito cui egli incessantemente anela. 

Purtroppo, ai nostri giorni, si è stravolto anche il concetto di Stato che, come ordinamento giuridico dovrebbe avere limiti di azione, non potendo raggiungere particolari fini se non coi soli mezzi di cui dispone, col ricorso, cioè, alla tecnica della coercizione, pur di mantenere in vita un sistema di strutture frananti, anche quando nel limaccioso pelago della corruzione languono i cittadini alla deriva. Ma uno Stato che si prefigge una stabile governabilità con l’impiego della forza aumentata tempo per tempo con sempre nuovi e massicci arruolamenti che ne consolidino l’efficacia repressiva, è già in declino e potrebbe rivelarsi rovinoso e quindi funesto per la società. E c’è di più grave nel nostro mastodontico Paese, non costituisce garanzia d’imparzialità, se è vero che tra loro, della stessa famiglia, non si mordono, specie quando di essa fanno parte corrotti e avallanti dei corruttori. 

Nella storia repubblicana italiana, ad esempio, non è bastato più di mezzo secolo per far capire ai governanti di turno che l’ordine è basato sul rispetto reciproco derivante da una sana cultura che determina il buon andamento delle istituzioni, non già sulla forza di una imposizione perversa, generatrice di gravi lutti e tanto meno su una giustizia che, come nella maggior parte dei casi corrotta e corruttrice, è sempre causa di numerosi mali. 

Non si può parlare di giustizia in uno Stato che mentre da una parte promette imparzialità a tutti i cittadini, dall’altro difende l’autogoverno della Magistratura, conferendo ai magistrati uno strapotere che è fuori della più elementare logica di un governo che si rispetti. Altra regolamentazione dovrebbe avere il Consiglio Superiore della Magistratura, ben altro il suo ruolo nell’applicare o fare applicare la legge che sia emanazione della volontà del popolo sovrano. Uno solo il criterio nel sentenziare uguale per tutti: che anche i giudici siano sottoposti a giudizio collegiale di altrettanti giurati scelti tra cittadini di accertata onorabilità. Meglio ancora che i giudici vengano eletti direttamente dal popolo. 

Tutti i mali di una società – lo dicemmo altre volte dalle pagine di questa rivista – derivano da una democrazia malgovernata particolarmente nella scuola e nella famiglia, basilari istituzioni dell’apparato equilibratore di una politica illuminata, non condizionata da scelte programmatiche di proprio tornaconto. 

Finché si farà politica di mirati e perversi accomodamenti per ingannare il prossimo con spergiurate promesse mai mantenute, l’ansia di non subire più le indiscriminate vessazioni un giorno o l’altro spingerà le folle alla disobbedienza civile: l’arma più micidiale di cui si è a conoscenza ed alla quale si ricorre come ad estrema ragione, se è vero, come è altrettanto sacrosanto, che non è permesso ad alcuno di calpestare i diritti altrui. E finché riterremo indispensabili metodi del genere per risolvere i mali che ci affliggono, senza piuttosto lasciarci guidare dalla tenace volontà di sfatare l’ineluttabilità del male contrapposto al bene, quando è d’obbligo invece rilevarne a gran voce l’abissale differenza del loro significato per farci meglio capire, senza nulla nascondere, il subdolo comportamento di chi trama per proprio tornaconto, le cose dell’umano stato continueranno a peggiorare in quel ciclico alternarsi dell’eterno divenire di cui abbiamo scritto all’inizio, tra poche luci e ombre secolari riproponendo trascorsi nelle spire materialistiche dell’esasperato egoismo che un giorno, non si sa quando, ci spingerà prematuramente nel buio che mai più cederà alla luce. 

Sulla infinita strada dell’ignoto il cammino del progresso subirà allora interruzioni e vuoti di tempo spaventosi e la progenie degli uomini subirà contraccolpi e scompensi per disarmonie dell’ordine universale delle cose. 

Il mondo è in fermento, non sappiamo più che cosa vogliamo né dove andare 

perché abbiamo dimenticato la nostra origine, ci siamo lasciati adescare dal culto dell’effimero, sperperiamo miliardi per fini goderecci: per follia di sterile esibizionismo orgiastico a suon di musica· dopo esserci sfibrati al ritmo forsennato di motivi assordanti e, al colmo dell’indifferenza, nemmeno ci curiamo di aiutare chi muore sotto i nostri occhi, povero e alienato, abbandonato e solo nel grigiore di un gelido mattino, con sul petto il muso di un fido dagli occhi pensosi e pieni di malinconia! Questo è il nostro mondo. Questa è anche una cattiva parte della nostra Italia nel pantano della corruzione e nella farsa di un diritto grottesco. 

Siamo certi che i governi che contano sono quelli impersonati da autorità forgiate nella fucina dell’imparzialità e dell’onestà, capaci di imprimere carattere alla compagine che rappresentano e scongiurare interruzioni e, peggio ancora, disfacimenti. Sappiamo pure che questi governi sono possibili solo a condizione che i componenti siano determinati ad interrompere ogni legame, qualora ci fosse stato, coi loro predecessori implicati in malaffari e ad instaurare un clima di fiducia che affranchi i giusti dalle ingiustizie subite e diano prova di ricercare la strada del vero diritto uguale per tutti libero da vincoli di privilegio, quale l’odiata immunità parlamentare – tuttora prevista anche se condizionata, causa di scontento e motivo di provocazione alla dignità altrui. Compito arduo per realizzare tanto ardite conquiste, ce ne rendiamo conto, specialmente se consideriamo che la giustizia, intesa come severa e imparziale giudicatrice, non è mai esistita, ma almeno la si applichi il più approssimativamente possibile, nei limiti raggiungibili da una retta coscienza. E non ci sfugge nemmeno il pericolo di una giustizia troppo punitiva che escluderebbe persino indulgenze che fanno parte della morale cristiana quando il perdono deve subentrare alla vendetta e l’espiazione diventa balsamo nell’esacerbato cuore dei mortali. Ma se manca la voce della virtù primaria, quale appunto è la coscienza che durante la vita di ciascuno di noi si evolve, si rafforza e ci guida sulla strada dell’amore e della comprensione, non ci potrà essere giustizia né rispetto per i propri simili, né istituzioni volte al bene dei cittadini né iniziative di pace e di salutare progresso tra le nazioni; non ci saranno aneliti religiosi puri e tanto meno consultazioni dal cui esito si possa bene sperare. A noi moderni quel che manca è la luce che viene sempre dall’alto, mitigatrice degli umani affanni, fonte di vita serena e di divine armonie. 

Ma la coscienza non si sviluppa nei parlamenti o nelle fredde aule dei tribunali, va invece protetta sin dall’esordio della persona alla quale integralmente appartiene, coltivata come una pianta che viene affastellata per rinforzarla, alimentata – non ci stancheremo mai di ripeterlo – nelle famiglie e nelle scuole per poi sentirne e goderne i benefici da grandi, una volta al servizio della comunità. A tal fine, per un sereno e soddisfacente insegnamento, è saggio non far mancare mai i mezzi sufficienti per raggiungere traguardi di vita operosa e di sia pur sofferto appagamento. 

Qualcuno di noi o dei nostri posteri, se un giorno gli capiterà di leggere questo scritto, forse scoprirà che coloro i quali furono ritenuti paranoici perché dissenzienti dal pensiero dei più furono invece i veri saggi, se è vero, secondo la logica di Portoreale, che anche qualche pazzo dice a volte la verità e che chiunque dice la verità merita di essere seguito, per cui, in conclusione, meritano di essere seguiti alcuni che non cessano di essere ritenuti pazzi2. E quanti saggi sono stati ritenuti pazzi! 

Donato Accodo

1. Werke, ed. Karpeles, XI, pag. 202.
2. Arnauld, Logique, III, 8

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 11-16.

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