Vittorio Morandini, Cronaca di un’amicizia, Edigraf, Roma, 2005. 

È la storia fedele che muove non da ispirazione unitaria di un patriottismo soltanto a parole e da un’amicizia al limite del sublime, bensì da una fattiva e intensa partecipazione a straordinari eventi tra innumerevoli sofferenze in una guerra che non le risparmia a vincitori e vinti. La morte dell’amatissimo Piero colpito da piombo nemico genera nel protagonista un angoscioso turbamento che lo accompagna tutta la vita, nell’incessante ricordo dei giorni trascorsi con l’amico del cuore, quando, ardimentosi entrambi, profondevano energie per il raggiungi mento dei loro ideali. Nell’estremo tentativo di salvarlo: «Quel corpo Vittorio sollevò con fatica, sotto quel corpo scivolò nel fango e l’acqua motosa entrò nella bocca del vivo e del morto; avvinti i due amici avanzarono lentissimi nella melma fino alla scarpata! Qui Vittorio cedette, la carne esausta, lo spirito affranto. Un pianto lungo, convulso, urlato, chino sopra l’amico che giaceva sulla riva del gran fiume con tutta la propria morte addosso.»

Prodigo di ricordi, ora tristi ora lieti, l’Autore ce li fa conoscere attraverso carrellate di lontane memorie, con descrizioni che esaltano la sua narrazione ricca di rincorsi ideali, di audaci speranze, di affetti profondi ampiamente espressi anche nei fluidi versi di Momenti lirici, oltre che nella limpida prosa delle sue varie vicende. 

Particolare commozione suscita la raccolta dei miseri resti del citato Piero Menichetti sottratti all’inclemente incuria del tempo, dopo essere stati a lungo sul margine del Po, finché ricuperati e tumulati accanto a quelli del padre e della madre. Il tutto in un clima di religiosa compostezza, nel rimpianto struggente dell’adorato commilitone caduto nel fiore degli anni. 

In questo diario di guerra, amore e morte dominano lo scenario di contrapposti ideali: un valido stimolo per allargare la conoscenza dei tanti fatti e misfatti che i deprecabili conflitti comportano con distruzioni devastanti, come quella, ad esempio, di Amburgo, orrenda e inespiabile, e di tante altre volute in forza di un presunto diritto di superiorità e di preminenza, diritto che in ogni tempo, tirate le somme, non ha mai avuto obiettivi riscontri di vera giustizia per vinti e vincitori, né mai è stato foriero di pace duratura tra la stirpe degli uomini. 

Diario pieno anche di esuberante freschezza giovanile, di sincerità, di altruismo: sentimenti gentili eppure non privi di disapprovazione per il mancato riconoscimento di quegli ideali di patria negati ai ragazzi della R.S.I. che avevano operato fino all’ultimo giorno, saldi nella loro fede per la quale «il nemico rispettoso e ammirato concesse loro l’onore delle armi in quei campi di Conselve, quella notte del 29 aprile 1945». 

Mai retorica, mai posizioni di parte, mai vedute distorte nelle pagine di tutto il diario, ma fedele corrispondenza dai resoconti inalterati, all’insegna della più scrupolosa obiettività, la stessa che spinse il Maresciallo Montgomery, visconte di El Alamein e comandante dell’VIII armata inglese, ad affermare: «Penso che l’armistizio del Savoia e di Badoglio sia il più grande tradimento della storia.» Distacco sereno di chi prende le dovute distanze da coloro che, esibendosi col pretesto di fare ad ogni costo cosa gradita ai fuoriclasse del trasformismo e voltagabbana al cambiar dei venti, spesso stravolgono verità storiche dando a divedere lucciole per lanterne, in un intreccio di improvvisati soloni, figli della menzogna, squallidi nel cuore e nella mente ottenebrata dalla torbidezza d’insane passioni. 

Si può dire che, prima di essersi dato cura di trovare uno stile e una forma di distinzione a lui ascrivibile, il Morandini ha preferito esprimere la propria umanità lontano dal fare accademia. Scelta, questa, che può essere sgradita a chi è abituato ad esprimersi con magniloquenza, viceversa gradita presso un pubblico che apprezza l’arte dell’onestà in una narrativa lontana da inflazionistici premi letterari e comunque ricca di appropriate capacità espressive di un’apprezzabile tecnica che ci riporta a un verismo più vicino ai sentimenti del Nostro. 

Habent sua fata libella, avverte Terenziano: i libelli hanno un loro destino, ed anche i libri che tali non sono, aggiungiamo noi, augurando all’autore il successo che merita per avere scritto qualcosa di buono. 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 47-48.

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