Antonello da Messina.  In un giorno di pioggia, al Prado. 

Quel giorno, a Madrid, c’era lo sciopero dei ristoranti e dei bar. Con il mio vecchio amico De Rosa, famoso storico, varcai per la prima volta la sede angusta del grande Prado. Lui, docente all’università, ed io pittore, avevamo appuntamento fin dai banchi di scuola, da una vita: visitare il Prado, insieme. 

Eravamo inquieti e già un po’ affamati (forse per via dello sciopero…). A mano a mano che ci inoltravamo nelle sale della Pinacoteca più vasta e più completa del mondo, tutto mi appariva come al buio, in un’atmosfera quasi lugubre. Fuori pioveva, l’aria era umida e scura. Ma io mi ero immaginato quel luogo sapientemente illuminato, da poter “leggere” tutti quei capolavori in maniera esauriente, tale da erudire il mio amico sulle particolari qualità di forme e colori dei Rubens, dei Velasquez, del Greco, di Goya. Ed invece, attraversammo in silenzio quelle sale. Non mi veniva di dire niente. Mi sembrava di non aver occhi, di essere proprio al buio. Lo stesso amatissimo Goya mi appariva scuro, fumoso; persino le ombre dei personaggi vedevo come dipinte all’incontrario rispetto alla fonte di luce… un disastro. Che tristezza, e quale delusione! (Alla fine della visita lasciai, nell’apposito registro, una violenta critica alla direzione del Museo, per !’inefficienza delle luci, !’impossibilità di una “lettura” conveniente delle opere, nell’aria tetra ed umida delle sale. Forse la mia protesta ebbe un effetto, se, mi dicono, la situazione è alquanto migliorata). 

Eravamo, dunque, delusi, inappagati; e l’eventualità di non poter fare colazione ci rendeva stizziti e desiderosi di guadagnare l’uscita. Ricordo che per avere un’idea generale della straordinaria raccolta di opere nel Prado, mi misi a scorrere l’elenco degli autori, nel catalogo: decine e decine dei più grandi pittori spagnoli e italiani del Rinascimento e del formidabile Seicento. In questa sfilza di nomi celeberrimi e con le loro opere migliori. il mio indice si posò su un nome che appariva solo, unico. in mezzo a quel ben di Dio: Antonello da Messina. 

Presi il mio amico per un braccio e subito cercammo il quadro. Era in una piccola sala, fra due Botticelli. Da una finestra vicina arrivava, anche se fioca. la luce del giorno. accarezzando il dipinto. Eccolo lì il Cristo muerto sostenido par un àngel di Antonello. In effetti quel Cristo è morto o sta per morire? 

Credo che la magica fantasia del pittore di Messina lo abbia immaginato che “esala l’ultimo respiro” e non sulla croce – come nella consuetudine – in un qualsiasi giardino, tra vecchie mura, fuori città. L’uomo si accascia, colpito a morte. Dalla ferita sul costato, sgorga sangue. e così dalla mano sinistra (un sangue vero, agghiacciante). Con l’altro braccio, quello destro, il condannato non fa a tempo a sostenersi; e la mano, anziché poggiare con il palmo sul piano della pietra su cui è adagiato, appare rivolta all’indietro, in una immaturale e penosissima torsione del polso. che rende più straziante la fine repentina. 

La luce diafana che arriva sul dipinto, esalta e rivela il color verde-rosato del corpo ed i lineamenti del volto di un uomo qualsiasi, come Antonello amava ritrarre i suoi Cristi: forse il suo autoritratto, oppure la faccia di un contadino, di un notaro, di un uomo onesto o di un gaglioffo, o di un pittore, un sicario, un poeta? 

Un piccolo angelo con ali di madreperla viene in soccorso di quell’uomo morente. Gli abbranca il braccio destro per tirarlo su e fare in modo che la mano destra poggi in posizione normale. Non ci riesce. Già la rigidità della morte è scesa nelle membra del Cristo. Ed allora l’angelo incomincia a piangere, con quel 

pianto sommesso dei bin1bi ai quali si sottrae un giocattolo: due lacrimucce sgorgano dagli occhi senza pupille, di infinita espressiva dolcezza. 

Antonello da Messina è tutto qui, in questa mirabile inarrivabile tela, unica nel Prado. Nei testi e nei saggi – innumerevoli – sull’artista di Sicilia, si trova menzione di altri quadri, pur famosi e avvincenti. Ma il Cristo del Prado ha in sé la suggestione e l’emozione del miracolo artistico in terra. Basta, per capire e ammirare l’arte di questo maestro “pictor egregius et unicus” che Leonardo Sciascia, nella stupenda presentazione di una monografia. così descrive: «… un uomo irreversibilmente siciliano, come personaggio e come artista. Nella sua pittura. il rapporto tra figure sacre e quelle umane è uno dei più perfetti che siano mai stati perseguiti in arte. L’esecuzione tecnica una delle più magistrali e inimitabili mai concepite. Nel suo testamento si legge come un siciliano intenda “oggettivamente” la vita e la morte, e sappia descrivere – nel più alto grado espressivo – con la magia della pittura, “la cosa oggettiva quanto più oggettiva possibile” e cioè l’anima». E conclude: «…Un uomo straordinariamente oggettivo, che si trova a vivere e ad esprimere compiutamente, in maniera impareggiabile, dipingendo, il momento più oggettivo che la storia della pittura abbia mai toccato…». 

Usciamo dal Prado commossi. Antonello ci ha estasiati. Madrid, anche se piove ancora, appare meno grigia e più accogliente. La traduzione nella realtà naturale in termini di poesia, in quel Cristo, ci ha avvinto. Alieno da ogni astrazione, indifferente ad ogni indugio formale, iridescente di pura invenzione, quel quadro non si dimentica più. É qui – mi viene da sussurrare all’amico – è qui la misura più vera di Antonello e dell’unica sua opera del Prado: le figure, il Cristo, l’angelo che tenta di sostenerlo e piange, assurgono a simboli universali, ripalpitano di umana quotidiana poesia. 

La mano distorta è l’incredibile invenzione di un intelletto ai margini di una divina follia. Non c’è , in tutto il Rinascimento, un segnale di pari espressiva fantasia. Il grande siculo tutti gli altri sovrasta e confonde. 

Ci si domanda come poté assurgere a tale grandezza. Viaggiatore accanito, studiò i fiamminghi e i veneziani, con il risultato, ritornato a Messina, di aver immesso nella propria sorgiva vocazione, ingredienti di grammatica fiamminga nella sintassi italiana, tutto risolvendo nell’umanità della sua terra, della sua isola, in una espressione finale assoluta ed eterna che attinge la sfera dell’universale. Forse Antonello è “nato estraneo” al Rinascimento, ma del Rinascimento si fa forza viva, portante, inarrestabile, legandone i fasti all’umana temperie dei nostri giorni. 

Siamo sull’aereo che ci riporta in Italia. Riattraversando il Mediterraneo, scambiamo, l’amico “storico” ed io “pittore”, pensieri e riflessioni – che ci competono per il nostro lavoro – su Antonello che ci ha toccato il cuore. Egli esprime il genio della razza, dice Gabriele De Rosa, ed abbraccia in un amplesso storicamente accertabile, tutte le civiltà isolane, inondate dai Greci dagli Arabi dai Normanni, con l’esito di bellezze secolari, sotto il sole di Sicilia. Sì, aggiungo, l’impasto che fa dei colori, rendendoli subito luce, è misterioso, indecifrabile. 

Lo sfumato delle fanne si risolve in un polverio atmosferico che anticipa di quattrocento anni i più grandi impressionisti; e la prospettiva aerea che aiuta quella lineare? Ma come diavolo fa a dipingere così? 

Antonello è una di quelle genuine miracolose apparizioni, sulla scena del mondo, di esseri privilegiati sulla cui fronte balena la carezza di Dio. 

Carlo Montarsolo

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 65-67.