Pavese e il «Taccuino segreto» 

Nell’estate del ’90 il cielo della cultura letteraria è stato percorso dall’elettrizzante balenio della polemica intorno alle inopinate o presunte novità insite nel «Taccuino segreto» di Cesare Pavese pubblicato da Lorenzo Mondo su «La Stampa» di Mercoledì 8 agosto 1990. 

Per la verità, già il 22 Luglio 1990, Roberto Cotroneo aveva sentenziato sul settimanale «L’Europeo» che di Pavese è rimasto molto poco nella cultura italiana al punto da essere diventato personaggio d’archivio da «scrittore-simbolo» che sarebbe stato per diverse generazioni dalla Resistenza in poi. 

Con chiave problematica invece il quotidiano «La Repubblica» sul supplemento Mercurio del 10-3-90 gli aveva dedicato una serie d’interventi critici e di interviste di Giorgio Manacorda, di Alberto Moravia e di Edoardo Sanguineti. 

Il 1° Settembre ’90, ancora su «L’Europeo», Saverio Vertone accennava a una lecita demolizione che starebbero subendo i miti culturali e antifascisti della Casa Editrice Einaudi e quindi anche i miti di Pavese e di Vittorini. 

Si potrebbe obiettare che ciò può essere vero e può non stupire, se si pensa agli alti e bassi che la storia e la critica letterarie hanno riservato alternativamente ai grandi scrittori e poeti e se si tiene presente che il padre stesso della nostra lingua nazionale, l’Alighieri, per il lungo tempo in cui la nostra storia fu caratterizzata dal sonno e dalla sottomissione dell’Italia al resto d’Europa, rimase trascurato e qu~si dimenticato e se anche ai nostri giorni, forse per la sferzante moralità della Divina Commedia e per lo sconcerto da essa suscitato fra tanti idolatri dei miti della dissoluzione, aleggia la tendenza a tenerlo ben conservato negli archivi dei dimenticatoi. 

Quanto a Pavese si può asserire serenamente che il vasto interesse e i controversi commenti provocati dalla pubblicazione del suo «Taccuino segreto» sono sufficienti a dimostrare che l’intellettuale Pavese ha ancora, e lo avrà nel futuro, sia pure fra le carte d’archivio, qualcosa da dirci. 

Quanto all’utilità dell’iniziativa. della pubblicazione, come anche della annunciata (sempre da Lorenzo Mondo su «La Stampa» dell’I-9-90) stampa dell’inedito giovanile pavesiano «Frammenti della mia vita trascorsa» nella edizione integrale del «Mestiere di vivere», non dovrebbero sussistere dubbi, sebbene Fernanda Pivano, per comprensibili motivi di affettuosa stima da cui in qualità di sua fidata ex alunna era stata legata a Pavese, abbia dichiarato, con dolente rammarico, che «non è possibile, in alcun modo, varcare il muro della vita privata». 

Va, anzi, detto che se gli eredi dell’autore hanno consentito la pubblicazione dell’inedito e se è vero (e in ciò è da condividere la tesi esposta da Vittorio Strada su «La Stampa» del 14-8-90) che esso .riguarda una realtà intellettuale già di per sé significativa e, attraverso di essa, una realtà collettiva, di ancora più vasto significato», l’analisi del documento è provvidenziale per la cultura italiana e, se condotta con serenità immune da .intenzioni scandalistiche, può, pur non aggiungendo nulla – come dice Natalia Ginzburg – alla grandezza dello scrittore, servire a vederne i lineamenti con maggiore chiarezza e può indurre a una più rigorosa ripresa di ricerca e di rivalutazione non solo di Pavese, ma anche di tutta una grande stagione della cultura italiana. 

Il punto più esplosivamente stupefacente per molti lettori sembra essere stato e sia quello della presunta scoperta di una segreta simpatia, intorno al 1942/43, di 

Pavese per il fascismo e addirittura per i famosi punti del Manifesto di Verona e per la Repubblica Sociale. 

Da qualunque angolo visuale la questione venga osservata (da quello della Pivano, la quale negli appunti del Taccuino vede nient’altro che meditazioni per la definizione del personaggio Lucini de «La Casa in collina»; o da quello di Alessandro Galante Garrone che collega l’appunto relativo alla sterile litigiosità degli antifascisti al ricordo della discussione effettivamente avvenuta nel 1942 in casa del filosofo Geymonat e della veemente sfuriata di Pavese nei confronti dell’ex detenuto comunista Capriolo e di tutti gli altri presenti per il «loro almanaccare e brancolare incerti sul da farsi»), o si voglia riferire il detto appunto del Taccuino alle controversie politiche in seno alla Casa Editrice Einaudi, cui aveva fatto cenno Giaime Pintor nella lettera da Roma all’amico Pavese del 26 agosto 1943, una cosa balza evidente: che il Taccuino, oltre ad aiutarci a lumeggiarne l’autore nella sua interiorità, ci persuade, ancor più di prima, della emblematicità dolorosa ed ambiguamente radicata nell’humus del «vizio assurdo» di un intellettuale che riflette letterariamente e poeticamente il dramma collettivo di una generazione in traumatica crisi storica. 

Perché stupirsi di un Pavese che nel 1942/43 abbia nutrito, sia pure nel riservato laboratorio della fantasia di poeta, pensieri di eventuale adesione a un fascismo che, «avendo imparato molte cose dalla guerra», avesse «troncato gli indugi» e si fosse liberato dagli sfruttatori o stesse sul punto di «dare all’Italia l’unità repubblicana dopo averle dato quella nazionale»? 

Tutta una generazione di giovani intellettuali e, comunque, di giovani pensosi del loro destino vissero in bilico fin dalla fine degli anni ’30 tra le incerte prospettive dei cospiratori antifascisti con cui venivano sporadicamente o frequentemente a contatto e la routine della realtà quotidiana, oppure maturarono nella riflessione sui concetti di giustizia sociale proclamati dalle varie fronde germogliate all’interno dei G.U.F., dei Littoriali e dei Ludi Iuveniles le premesse della loro adesione all’antifascismo e soprattutto al PCI nel fuoco della lotta di liberazione al Nord e in Sicilia nel bel mezzo dello sbarco (o della sua imminenza) degli Anglo-Americani. 

A documentazione di tale travaglio generazionale c’è tutta una serie di testimonianze e di pubblicazioni fiorite intorno agli anni che vanno dal 1946 al 1960 e che probabilmente oggi danno fastidio a certa estesa tendenza alla superficialità. Per tutte basta ricordare «Il lungo viaggio attraverso il fascismo» di Ruggero Zangrandi, edito da Feltrinelli nel marzo del 1963. Ognuno, poi, di coloro che hanno vissuto l’adolescenza o la prima giovinezza intorno agli anni 1937-47, avrebbe ricordi a mai finire da trasferire alla vita dell’arte poetica o narrativa, se avesse l’estro d’un artista come Pavese. 

Conosco non poche persone della mia città che, al pari del personaggio Pippo del racconto pavesiano «Il Capitano» scritto nel 1942/43, frequentavano in pieno fascismo un comunista (tale Cecé Azzaretti) reduce, in seguito a condanna del Tribunale Speciale, da cinque anni di carcere e che contemporaneamente frequentavano i campi DUX e partecipavano alle festose manifestazioni e adunate ginnico-sportive della G.I.L. Più d’uno di essi (che poi sono diventati e sono comunisti), condividendo le utopiche idealità di giustizia sociale trasudanti dalle letture del «Tallone di ferro» di Jack London e dei romanzi «La madre» e «La spia» di Massimo Godo, procurati loro clandestinamente, finivano spesso con il soggiungere nei colloqui con l’Azzaretti che la giustizia sociale, in fondo in fondo, se era tradita dai gerarchi fascisti, era tenacemente voluta da Mussolini e che ci sarebbe voluto un Mussolini per ogni città. Altri, ancora adolescenti, attraverso l’offerta insistentemente propinata dai libri di testo, dell’apologo di Menenio Agrippa o dell’esempio di vita dei Gracchi e di Cornelia loro madre virtuosa, avevano con angelica ingenuità creduto nel corporativismo come scudo protettivo della classe lavoratrice e degli oppressi. 

Tale credenza durò fino a quando la guerra e il mercato nero tolsero il velo alla verità e indussero molti a riporre o, meglio, a trasferire nella forza politica che più accanitamente aveva lottato contro il fascismo e da questo era stata altrettanto accanitamente combattuta e perseguitata, cioè nel P.C.I., l’ideale di giustizia dal fascismo solo a parole proclamato. 

Molti altri giovani, almeno in Sicilia, videro, proprio come il Pavese del Taccuino segreto, nella monarchia in fuga da Roma e poi da Pescara a Brindisi, la fonte del marciume del regime fascista e aderirono al P.RI. e stracciarono platealmente in piazza le cartoline rosa con cui erano stati chiamati dal governo ancora monarchico a combattere a fianco degli Alleati contro la Germania di Hitler. 

Perché Cesare Pavese avrebbe dovuto essere un eroe antifascista puro e senza eventuali simpatie per la parte, diciamo così, apparentemente sociale e salvifica del fascismo, ammesso che tali simpatie non siano da considerarsi frammenti, inconsciamente e distaccatamente contemplati, del canovaccio delle sue costruzioni poetico-narrative? 

Cesare Pavese, indubbiamente, non fu un eroe o un politico militante come Capriolo o Guaita di cui parla Alessandro Galante Garrone su «La Stampa» e nemmeno fu un partigiano della tempra di un Giancarlo Paietta; anzi ebbe la sorte, dovuta forse all’asma di cui soffriva, di non andare sotto le armi (benché lo desiderasse più per unirsi agli altri e vincere la sua anomala e morbosa solitudine che per adesione agli ideali guerrieri) e quindi di non essere coinvolto nel vortice della guerra come tanti altri suoi coetanei costretti a diventare martiri o carnefici per forza, come si arguisce dalla lettura del romanzo -Gioventù che muore» di Giovanni Comisso. 

Ma voler fare apparire l’infelice Pavese come un voltagabbana e un’ipocrita che, interiormente filofascista, al momento giusto e opportuno salta sulla tradotta vincente dell’antifascismo, sembra, oltre che improponibile, una sottile tentazione mirante subdolamente a svalutare una personalità eccelsa della nostra cultura del ‘900 e a svilire sull’altare di certe spregiudicate tendenze a deprimere ogni rigore morale e ad esaltare certo frivolo consumismo e facilismo letterario, la base culturale su cui si fonda la democrazia italiana rinata dalla catastrofe della 2a guerra mondiale. 

Pavese non fu, certamente, negli anni 1942/43 – lo ripetiamo – uomo politico. Lo dichiara egli stesso nella lettera da Torino a Fernanda Pivano del 2-8-43: «Non ho niente da guadagnare dalla politica» e lo dichiarerà più tardi, a liberazione avvenuta, quando ad Einaudi che gli chiederà quale fosse il suo ideale partitico risponderà semplicemente di essere poeta. Lo si deduce dalla lettera a Giaime Pintor del 13-8-43 in cui l’impegno letterario sembra decisamente prevalere, pur in momenti tragici come quelli dei primi giorni dopo l’arresto di Mussolini, su quello politico. Egli infatti così scrive: 

«Caro Pintor, grazie del giornalino. Ma ormai ne escono tanti che io torno alla mia tradizionale indifferenza verso ogni periodico». Poi aggiunge (e l’allusione amara al discutere parlamentaristico degli antifascisti suoi amici sembra molto analoga a quella degli appunti del Taccuino segreto): «Qui echi di casino senatoriale. Prevedono lunga e sanguinosa guerra intestina e del resto me ne infischio. Se invece di far giornali, faceste libri, sarebbe un po’ meglio. Ciao». 

E allora come può spiegarsi la sua adesione al P.C.I. dopo 11 25-4-45? La domanda meriterebbe una approfondita ricerca, ma si può pensare che essa si può spiegare con l’individuazione della motivazione del suo distacco dal P.C.I. nel periodo della polemica di Togliatti con Vittorini e con altri per la questione dell’indirizzo del «Politecnico». 

Pavese, come sostiene Gianni D’Elia, fu travagliato da una disperata lotta tra desiderio e paura di desiderio, tra desiderio di solitudine e desiderio di unione. Nel P.C.I. egli in un certo momento della sua vita credette di trovare realizzato quel bisogno di confondersi e di unirsi con la parte più giusta e più valida (e per giunta vincente) della società e successivamente, affievolitosi il calore solidaristico dei primi mesi del dopoguerra, sentendo altrettanto prepotente il bisogno di appartarsi, di non essere intruppato, di non essere ridotto a semplice megafono degli altri, di salvaguardare la propria individuale autonomia di scrittore, si staccò dal P.C.I. Di lui, comunque, sono incontrovertibili alcune cose: 1) che non fu un intellettuale conformista e che profuse tutte le sue energie, con scrupoloso e puntiglioso lavoro presso la Casa Editrice Einaudi, nell’opera di sradicamento dell’Italia dalla autarchia culturale imperante sotto il fascismo e puntò alla rottura di quei vincoli che durante il fascismo avevano costretto all’isolamento «da torre d’avorio» gli intellettuali non contagiati dal fascino tentatore e travolgente dell’adulazione parolaia e retorica; 2) che per le amicizie che lo legarono costantemente agli amici antifascisti fu confinato a Brancaleone Calabro, per aver mostrato dignitosa fermezza davanti alla polizia fascista; 3) che fervidamente mai cessò di coltivare, pur tra i bagliori e i pericoli sempre più vicini della guerra, la sua azione di consigliere e di coordinatore culturale nei riguardi dell’avanguardia letteraria e culturale del suo tempo: Pintor, Muscetta, Bobbio, Vittorini, Alicata, Zancanaro e altri; 4) che, se intese la solitudine come pericolo di rottura dei ponti con la gente e anche come momento e occasione per immergersi nel mondo della fantasia e per rielaborare il frutto dei suoi contatti con la realtà, fu proteso a sentire e a soffrire, come l’Io narrante di «Conversazione in Sicilia» di Elio Vittorini, il dolore del mondo e di conseguenza ad ipotizzare (ipotesi realizzata nei suoi capolavori) un linguaggio poetico e narrativo fatto per l’uomo. Si legge, infatti, in un suo saggio su «L’Unità» di Torino del 20-5-45: «Parlare. Le parole sono il nostro mestiere. Lo diciamo senza ombra di tristezza o d’ironia. Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro. Sentiamo tutti di vivere in un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nitida nettezza di quando l’uomo le creava per servirsene… Sono uomini che attendono le nostre parole, poveri uomini come noialtri quando scordiamo che la vita è comunione… Deluderli sarebbe tradirli, sarebbe tradire anche il nostro passato». 

Qualcuno, fra i tanti assetati di facile successo con l’osanna al nuovo clima di mercificazione e sofisticazione culturale, potrebbe anche sospettare di propagandismo filocomunista il predetto saggio pavesiano. Ma questo tema del superamento della solitudine attraverso la comunione (che è anche intimamente connesso con la difficoltà di vivere derivata dalla sua ambiguità psico-sessuale) traspare in tempi non sospetti di propagandismo e precisamente in alcune lettere indirizzate alla Pivano. Basti, per tutte, quella del 30-5-43: «La solitudine si vince andando verso la gente e «donandosi» invece di «ricevere»… Si tratta di un problema morale prima che sociale e Lei deve imparare a lavorare, a esistere, non solo per sé ma anche per qualche altro, per gli altri. È solo chi vuole esser solo. Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri, bisogna umiliarsi e servire». 

Un messaggio culturale e morale quale è quello contenuto nella predetta lettera e nello stralcio precitato del saggio del ’45 sarebbe espressione di quella cultura di regime indicata da Saverio Vertone su «L’Europeo» dell’1-9-90? Sarebbe, quella di Pavese e di tanti altri, cultura di regime perché, pur non essendo mai stato (nemmeno quando aderì al P.C.I.) un intellettuale organico, come la gran parte della giovane intellettualità del suo tempo, partecipò all’empito delle speranze di rinnovamento e di rigenerazione umana sognata sulle macerie dei bombardamenti e sul sangue della Resistenza? No! Non fu cultura di regime quella di Pavese e degli altri intellettuali suoi contemporanei. Come non fu, per esempio, cultura di regime l’arte narrativa di un Domenico Rea che portò al massimo compimento nel suo capolavoro premiato a Viareggio «Gesù fate luce» la convivenza o, meglio, la sua connivenza umana e artistica con la gente della sua Nocera Inferiore e raggiunse così un verismo più vivo e più umano di quello verghiano e tuttavia non accettò né lo zdanovismo né la limitazione esogena della sua musa narrativa fino al punto che, allorquando durante una sosta di viaggio a Praga ne scoprì lo squallore nel 1954, coraggiosamente lo descrisse in un articolo di «Paese Sera» e poi preferì far parte per se stesso. 

Ma per Saverio Vertone quella di Pavese, di Rea e di Vittorini e di altri sarebbe cultura di regime o, meglio, il rovescio della cultura del regime fascista, del quale la politica antifascista sarebbe la continuazione alla rovescia. Se tutta la cultura antifascista ha avuto come precedente storico quella fascista o, se da essa si è, in parte, enucleata, non per questo può essere definita l’altra parte della stessa medaglia, quanto meno per lo stesso motivo per cui l’Innominato non può che considerarsi, dopo la conversione, un uomo nuovo. Se poi il nuovo nasce sempre dal vecchio, come un fiore da un altro fiore precedentemente diventato bulbo, non possiamo farci nulla, e non è giusto e corretto dire che il nuovo e il vecchio appartengono allo stesso regime. D’altronde nessuna cultura nasce dal vuoto o dal nulla e lo stesso cattolicesimo non si spiegherebbe senza la preesistenza del classicismo greco-romano e delle culture ebraica ed orientali. 

Gaspare Li Causi

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 11-17.

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