Alessio Di Giovanni poeta del popolo* 

Non esagera chi afferma che Alessio Di Giovanni è un grande poeta, sia pure dialettale, certamente uno dei maggiori del ‘900, e non solo siciliano. La sua è una poesia che esprime le variegate sfaccettature dell’ uomo nella quotidianità e nel contesto della terra in cui vive, facendola palpitare di vita negli usi, nei costumi, nella parlata della gente che quella terra popola. È una poesia che parla all’uomo, qualunque sia la sua appartenenza geografica, perché è a lui connaturata e, per questo, è universale. 

Il poeta, dopo le sue prime esperienze di scrittura che sono vere sperimentazioni di poetica e di una ricerca tutta sua, auspica un ritorno alla natura con i richiami che sono suoi: la campagna sterminata (‘a campìa), ove si sente la voce del vento e quella degli animali che pare dicano: ci siamo, e si tocca con mano il lavoro dell’uomo, sia quello all’aria aperta che nelle cavità del sottosuolo. Con la differenza, rispetto agli altri poeti siciliani (in dialetto e no, e il riferimento è al Veneziano, al Meli, allo stesso Verga, al Martoglio), che in Di Giovanni ci sono un’aderenza e una fedeltà al vero effettivo, cioè, non sono letterarie e di moda. La scelta del dialetto o, meglio, della parlata, ne è conferma, come lo confermano la sua adesione al felibrismo di Mistral e degli altri poeti di Provenza e le simpatie e le attrazioni per il Santo d’Assisi che esternò in diverse occasioni e con altrettante opere. 

L’intento di Alessio Di Giovanni fu quello di fare uscire dal solco tradizionale la poesia dialettale siciliana e di rinnovarla sotto il segno della semplicità e della verità delle cose. Scrive in una nota che pospone a Lu fattu di Bbissana: «Bisogna ritornare alla natura: all’osservazione amorosa, sincera ed ingenua del vero.» Ed è quello che farà in tutta la sua produzione, sia in versi che in prosa, nella lingua della gente. Perché, per lui come per noi, quelli che noi chiamiamo dialetti, vedi il siciliano, sono lingue che per ragioni storiche sono state asservite o, se vogliamo, soggiogate da altre, anche se continuano ad esserne linfa. 

Scrive ancora Di Giovanni: «La lingua è il gran fiume regale che può rispecchiare nitidamente il roseo e continuo trasformarsi delle nuvole vaganti per il cielo, e la massa verde degli alberi fluviali, e persino l’ombra d’un branco d’uccelli migratori, e può attraversare e fecondare pianure e città, senza correre il pericolo d’anneghittirsi in limacciose paludi e perdersi in selvatiche lande acquitrinose, solo fin quando gli ignoti fiumicelli montani non si dimenticheranno d’apportargli con inconsueta vena, le pure acque fresche, limpidissime acque che loro concede l’alta montagna inviolata. Fate che codesti fiumicelli inaridiscano e il gran fiume perderà tutta la sua maestosa travolgente bellezza, per diventare un polveroso sentiero, irto di ciottoli e di inutili erbacce1». 

Il dialetto, la cui importanza è fuori di dubbio, per Di Giovanni, è il mezzo migliore con cui non solo si comunica, ma permette di aderire meglio alla verità delle cose, perché rappresenta la parlata genuina della gente, spontanea e non mediata. E per soddisfare questa sua esigenza in lui non mancò mai né lo studio, né il bisogno continuo di confrontarsi con il patrimonio linguistico delle diverse parlate, né tanto meno l’esigenza di dare ascolto ai cunta della tradizione orale. 

Maju sicilianu è la sua prima opera, pubblicata nel 1896, divisa in tre parti: la prima, Amuri rusticanu, dedicata a «Garibaldu Cepparelli, pitturi a Firenzi »; la seconda, Vuci di li cosi, a «Ciccu Lujacunu, paesista»; e la terza, Tipi e sceni paisani, a «Luici Di Giovanni, pitturi». Sulla scia della poesia classica, il poeta apre la silloge con una invocazione alla Poesia, perché gli stia vicino e lo ispiri, e con essa motiva il titolo: «Ora ca, a maju, spuntanu li rosi / E li gigli s’adornanu pumpusi; /.../ Jetta supra di mia li to grann’ali / Eccu … t’aspettu cu affannu murtali2.» 

Il tema che caratterizza la prima parte è quello dell’amore, contornato qua e là da spunti che richiamano la vita della natura nel tempo che incede. Per lo più si tratta di ottave siciliane, ma anche ottave e quarti ne abbinate, con rima alternata (ABABABAB, sulla scìa delle canzonette popolari e delle ottave classiche di Antonio Veneziano), come questa: «E cantanu li gaddi a lu matinu / Ji mi susu pi jiri a cacciari. / M’accumpagna pi via lu me vicinu: / Cu iddu ti vegnu, bedda, a salutari. / Sùsiti di ssu lettu beddu finu, / Sùsiti di ssu lettu e nun tardari. / Ca c’è l’amanti to, ccà, a tia vicinu, / Ca ti voli, o bidduzza, salutari3.» 

Il sentimento d’amore è qui espresso in modo rozzo, da contadini e da gente di paese quali sono. Essi non conoscevano altri modi, né giri di parole, eppure il loro è un amore sentito, espressione di uno stato d’animo che dice il bene che si vuole alla donna amata, un bene che spesso fa smaniare e non prendere sonno o, non potendolo godere nella realtà, sognare, come è nell’ottava IX (ottava toscana, rima alternata e negli ultimi due versi baciata, ABABABCC). 

Di Giovanni si rivela già abile conoscitore dell ‘uomo inserito nel contesto in cui vive; perciò ritrae strade e case di paese e campagne aperte, ricche di odori e di colori, come un bravo pittore sa fare. E si rivela anche abile dosatore della parola, capace di cogliere nel suo piccolo tanto sentire, com’era il parlare della gente umile, scarno nel suo insieme, di poche parole, ma ricco e aperto nel suo significante. Ma è pure un buon conoscitore di metrica, mai forzata nel glorioso endecasillabo e nella rima. Sicché la sua poesia è come un canto che ci è tramandato, perché possa dire la vita intimo è sempre lo stesso. 

La seconda parte della silloge, Vuci di li cosi, cambia registro dal punto di vista tematico, che è più variegato e ricco. C’è pure il tema dell’ amore, ma gareggia con le voci e i rumori propri della campagna. Leggiamo: «Passi ntra li lavura tu cantannu, / C’un fazzulettu russu a la to testa. / Ni la vuccuzza to perli ci stannu, Di ddà la vuci nesci duci e mesta. / Li lavura ti vannu curtiggiannu, / Comu tu passi abbàscianu la testa. / Li paparini dicinu lampiannu: / – Binvinuta, bidduzza! Oh chi gran festa!4» 

Ormai il poeta dà ascolto a tutto ciò che lo circonda. E sono i prodotti della terra, le semine, i lavori ciclici dei campi, e gli uomini che s’apprestano ad accudirvi, a dare voce ad una poesia che comincia a cambiare tonalità e ad essere più attenta alle cose degli uomini e della natura. Perciò, ora è la voce del padrone che chiama alla pausa le ciurme lavoratrici, ora è una considerazione che il poeta fa al termine della mietitura, ora sono il vento e il caldo afoso, che s’impongono e si fanno sentire, oppure è la solitudine della campagna, ove si sentono solo le stancanti serenate dei grilli. Ecco: «Ch’è occupusu lu cantu di li griddi / Nì la tacita notti rimitusa! / A du’, a tri, a quattru, a vinti, a centu, / a middi… / Ah! Cumincia l’urchestra piatusa. / E comu lu curaggiu a mia spiddi! / Comu si fussi arrè all’età scantusa: / Ca mi pari ci fussi ji sulu ed iddi / Ni sta gran sulitudini scurusa5». 

Nella terza parte, Tipi e sceni paisani, abbiamo un insieme di sonetti, in tutto venti nove, alcuni dei quali raggruppati sotto un unico titolo ma numerati, come «Priludiu», che si compone di due sonetti, i quali, a mo’ di monologo rivolto all’amico della dedica, introducono una nota di nostalgia, da parte del poeta, per i trascorsi giovanili comuni, per essere lontano dai luoghi cari, e per il senso del passato che non torna più. 

I sonetti sono tutti di buona fattura; risentono qua e là dell’influenza di Nino Martoglio, ma non più di tanto, come ben sottolinea anche Salvatore Di Marco6, perché in Di Giovanni c’è già l’esigenza di riprendere, attraverso l’arte di cui comincia ad essere padrone, nei pregi e nei difetti, la gente di Sicilia nella quotidianità della vita, che spesso nel suo lato comico nasconde il tragico dell’esistenza. 

In Centona di Martoglio il dialetto è più contaminato dalla lingua; volutamente è storpiato (tanto per citare un sonetto, «Il telefrico senza fili»: ci troviamo dinanzi al popolano che, abitando in un grosso centro, è più evoluto, rispetto a quello di un paese contadino) e, inoltre, nel poeta di Belpasso c’è una fine vena comico-burlesca che caratterizza la sua poesia. Cosa che in Di Giovanni non troviamo; nei suoi versi trapelano, e via via divengono più forti, il disagio e la miseria di una vita di stenti, e c’è anche un forte senso religioso che spinge all’accettazione e alla speranza. 

Pregi e difetti di gente paesana e campagnola, dicevamo. E Di Giovanni sa bene coglierli, come in «La carità di la genti» o i sonetti del «Jòvidi Santu», e in tutti gli altri, nei quali ci sono usi e consuetudini assodati nel tempo, registrati dimenticati. Anche perché ci troviamo dinanzi a un dialetto che è la lingua di questi popolani, siano essi i garzoni di bottega che i contadini. Essi parlano la loro lingua, e sono veri e ci si stagliano davanti, e s’impongono all’attenzione dei lettori per quelli che sono; con gli assensi e le battute asciutte che nella loro essenzialità dicono tutto. Perciò, quando ci si crede come abbia fatto il Nostro a passare dalla poesia al teatro, la risposta si trova proprio là, in quel modo di fare poesia che è la sintesi di tante voci raccolte, a cui il poeta ha posto l’orecchio e il cuore. Ancora non è nella sua piena maturità (si nota sia nei temi, che saranno diversi, sia in certe ricadute nella lingua), ma già conosce bene il suo mestiere e riesce a fare proprio un sentimento di tutti, come in «La Batti Matri», che dice tutta la religiosità che è nella gente nel giro di quattordici versi che sembrano cesellati a misura. 

«Ch’ è bellu, ad ata notti, l’ascutari / La Batti Matri, ddu piatusu cantu! / O chi durmiti o chi stati a vigliari / Sempri è pi vu’ un suavi, duci, ‘ncantu. / […] Tu sula, Matri pia, m’arricupari, / Tu sula m’à salvari nni ssu mantu. / […] Acchiànanu li vuci a lu rimpiantu. / Ni la quieti vasta a risunari: / – Tu, Matri, stàvatu a la cruci accantu7». 

Il poeta fa degli altri quello che è un suo stato d’animo, un sentire religioso che lo prende tutto e gli fa respirare un desiderio di pace, solo a sentirsi tutelato dalla Madonna, che conosce il dolore e il perdono e, perciò, a lei si rivolge e da lei vuole essere tutelato («Tu sul a m’à salvari nni ssu mantu») e, nel canto che s’innalza e si diffonde nel silenzio della notte, la sua diviene una preghiera composta e riverente che tutti accomuna nel ricordo dell’atroce sofferenza di Cristo e al pensiero della pia Madre che, desolata, non lo lasciò un istante. 

L’anno 1900 fu un anno proficuo per Alessio Di Giovanni, sia dal punto di vista della produzione, che lo vide impegnato nell’ode Cristu, pubblicata poi nel 1905, nel saggio Contadini di Valdensa e Villani di Realmonte, in Lu fattu di Bbissana e in Fatuzzi razziusi, sia da quello di una elaborazione di poetica che caratterizzerà le sue opere successive. Fino a questa data, dietro l’influenza di amici, quali Garibaldo Cepparelli e Giuseppe Tumbarello, aveva sperimentato, aderendovi, il fonografismo in piena stagione veristica, e lo scopo era quello di voler riportare sulla carta la parlata viva della gente, riproducendo con la grafia anche i suoni (Bissana: Bbissana; ziti: zziti; bonu: bbonu; ecc.). Dopo quell’anno, Di Giovanni accantonerà la fonografia per scrivere in un dialetto fedele alle varie aree linguistiche isolane. Già anni prima aveva scritto: «Ma certamente nella poesia non si può trovare la vera arte che non è posseduta dal contadino e dal popolano. Il poeta dialettale, quindi, deve ricorrere alla grazia del dialetto nativo ma non può dimenticare la sua arte e i suoi studi. La poesia dialettale possiede una spontaneità riflessa, cioè una spontaneità popolare, unita all’ Arte. Il poeta deve dare a quella poesia la forza immaginosa e fantastica della sua mente8.» 

Più semplicemente, egli anticipava quanto, a proposito dello scontro-incontro che Di Giovanni ebbe con Verga (il Ciancianese non accettava che I Malavoglia fossero stati scritti in lingua dialettale), ebbe a scrivere P. P. Pasolini: «Il dialetto è materiale che riceve forma da una poetica che la trascende, che appartiene alla cultura in lingua, i cui centri non sono solo nel continente italiano, ma in Europa. Di Giovanni appartiene a questa cultura come ci appartiene il Verga. In realtà, tra I Malavoglia, scritti in lingua dialettale ma non ancora in dialetto, e Lu fattu di Bbissana, scritto nel più chiuso dei dialetti, la differenza è solo apparente. Ambedue sono scritti in un linguaggio che non è in realtà né lingua né dialetto, ma è contaminazione, non solo fisica, non solo grammaticale o sintattica, ma di cultura e cultura. La cultura superiore dello scrivente e la cultura inferiore del parlante9.» Che significa che è il poeta, con gli strumenti di cui dispone, qualunque essi siano, il manipolatore della materia grezza della sua poesia, l’artefice capace di elevarla, perché di venti patrimonio e documento, e canto indelebile e vero, capace di sfidare le intemperie del tempo e le miserie degli uomini. 

In quegli anni c’erano tutte le condizioni perché poeti e letterati cominciassero realisticamente a interessarsi di ciò che stava loro attorno. Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, in Europa come in Italia, sulle ceneri del romanticismo andava covando il naturalismo-verismo con tutta una serie di problematiche che aprivano a nuovi scenari sociali mai prima di allora evidenziati: lo sfruttamento e le condizioni di miseria dei lavoratori, sia nel Nord che nel Sud, sfruttato, questo, dai grossi proprietari di terra e di miniere. Ad appesantire il disagio delle popolazioni c’era la disastrosa politica economica di Crispi, in attrito con la Francia, e tesa a concretare e potenziare l’idea di rendere grande l’Italietta con possedimenti oltremare. 

Forte era il malcontento della povera gente, ora sostenuto dal movimento operaio che stava organizzandosi (il «Partito dei lavoratori italiani», fondato nel 1892, diventerà «Partito socialista italiano» nel 1895) ora dalla Chiesa che aveva fatto sentire la sua voce di protesta con l’enciclica Rerum Novarum (1891). Ci fu così nell’aria un bisogno di giustizia e di solidarietà che si traduceva in richieste di terra, di aumenti salariali e di un’adeguata legislazione che mettesse fine ad ogni forma di sfruttamento e di ingiustizie, anche da parte dello Stato. Proprio in questo periodo i contadini e minatori dell’agrigentino si organizzavano nei «Fasci dei lavoratori » (1892-1894) che in poco tempo si estesero in quasi tutta la Sicilia. Ed era tutto da sperare, se Crispi, ridivenuto capo del governo nel dicembre 1893, non avesse stroncato tutto sul sorgere, proclamando lo stato d’assedio. 

L’amarezza in tutto il paese fu grande, e alle reazioni di piazza subentrarono quelle degli animi più eletti che cominciarono a fare proprie le altrui sofferenze e aspettative per riproporle nelle varie forme artistiche. Alessio Di Giovanni fu uno di questi e sentì, ancor giovane, l’esigenza di un rinnovamento della poesia che desse voce ai fatti per evidenziare l’umanità che è in essi, o denunciasse, per dare inizio ad un riscatto, la miseria e i lavori disumani in cui la povera gente era stata da sempre relegata. 

Lu fattu di Bbissana (Bbotta di sangu) è il poemetto, composto di sei sonetti, che dà inizio alla grande poesia di Alessio Di Giovanni. L’argomento già faceva parte della tradizione orale. Attratto dal cuntu di un contadino, il poeta lo elabora e poeticamente lo ricrea, dando risalto al sentire degli uomini e al dramma che essi consumano, a cui sembra partecipare anche la natura con i suoi odori, i colori e i rumori che la animano, pur nell’afa d’un meriggio assolato. Non spargimenti di sangue, non risse; è un dolore forte, cupo, tutto interiore che prende Caluzza tradita nell’amore e la stramazza a terra come folgorata. È uccisa da una «botta di sangue», mentre nessuno sa niente e tutt’attorno continua la vita di sempre, allorché il canto dei mieti tori invita al lavoro usato. 

I sonetti di Fatuzzi razziusi riprendono nel dialetto di Noto il tema dell’ amore e della bellezza femminea. Solo a chiusura della silloge un sonetto affronta il tema del lavoro nella zolfara e della sofferenza dei carusi («Iu la sientu ssa vuci ri tirruri / c’acciana, acciana sempri cciù ccunfusa / comu timpesta ri milli furturi»), che fanno venire i brividi a sentirli nel loro lamento angoscioso, indistinto, come tempesta combattuta da mille altri fortunali. Ancora poca cosa, ma già il poeta comincia a calarsi nell’«osservazione amorosa, sincera ed ingenua del vero». 

L’ode a Cristu, composta in quegli anni e pubblicata nel 1905, segna il definitivo trapasso dalla poesia tradizionale a quella nuova, fatta di sussulti e di richiami che spingono a guardare in faccia una realtà di stenti e di miseria, sia che si tratti della vita dei campi, sia che riprenda il lavoro duro, faticoso e inumano della zolfara, lavoro fatto di lamenti («ddi lamenti / ca pàrinu suspira, e ‘na prijera / Scura di morti») imprecanti l’essere nati e lo stesso Dio che li tiene in quelle condizioni di vita, «misi comu li cani a li catini». 

L’andante è discorsivo, e chi parla è il poeta, mentre Cristo non fa alcun cenno. Perché tanto silenzio? «Chinu di scantu, / Cu la vuci ca trema puru idda, / Cu lu pettu affannatu di lu chiantu, / Ti gridu e dicu: / – Chi è ca penzi? Puru tu, tu puru / Vo’ abbannunari stu munnazzu anticu?10». E in quel silenzio il poeta riscopre l’umanità del Cristo, impotente dinanzi alla malvagità del male, implorante serenità, gioia di vivere, auspicante maggiore giustizia e un mondo di liberi e uguali. 

L’ode è intrisa di una forte spiritualità, ed è un’ode bella, ricca di armonia, ma drammatica, forte. Alessio Di Giovanni qui ha recuperato il senso del divino, che è nelle cose e negli uomini, ma perché ritorni ad essere palese e vivo, perché Cristo non continui a guardare triste («Ma di lu muru, / ora cu l’occhiu ‘nfuscu mi talii» ), è bene che quelle ingiustizie vengano denunciate: l’uomo deve tornare libero e non deve essere più crocifisso. Per questo il poeta chiede un lampo di quello sguardo, perché la sua sia voce di fuoco, e di sentenze: «Dammi, o Signuri, un lampu di ssu sguardu, / Dammi vuci di focu e di sintènzii»!) 

È la stessa spiritualità che riscontriamo in A lu passu di Girgenti del 1902. Fra’ Matteo, animato di buona volontà, è travagliato dalle contraddizioni, ma non vuole venir meno al suo credo e alla sua missione, e niente può se non dare un esempio di dedizione e di coraggio, andando incontro alla morte. Ma è anche la stessa spiritualità che troviamo in Lu puvireddu amurusu (poema francescano), pubblicato nel 1907. Sono diciotto componimenti in siciliano con traduzione italiana a fronte, costituiti di quartine di settenari ed endecasillabi a rima baciata, andante, carica di una musicalità che dice la gioia di vivere nell’armonia e nella pace tra le creature, figlie tutte di un Dio, a cui devono essere riconoscenti. «Pirchì in ogni armaluzzu / Sempri vidi vi tu lu Signiruzzu! / Nni tia tutti l’armali, / Puru li vermi, puru li cicali, / Truvavanu la mamma / Cu lu sò amuri ardenti comu ciammall.» 

L’anelito alla fratellanza e all’amore reciproco è il tema portante del poema, in cui il poeta riprende i momenti salienti della vita del Santo d’Assisi, calandoli nella campìa della sua Valplàtani, nella zona della Difisa, e rivivendoli col desiderio di vedere attuato ovunque quel disegno evangelico che tutto riporti nella luce gioiosa del Creatore. È l’anelito ad un socialismo umanitario, cristiano, un socialismo di cui i cattolici più spinti, come Miglioli e Murri, si facevano portatori. Ma in Alessio Di Giovanni non c’è alcuna spinta alla lotta sociale, non c’è nemmeno una rivendicazione, c’è una ferma fiducia negli uomini, nel loro buon senso e nella capacità che hanno di compenetrarsi nei bisogni altrui. 

Il poeta di Cianciana è come se stesse al di sopra delle parti, speranzoso di concordia («Pòviri cci nni su’, / Ma ‘un stannu cu li ricchi a tu pir tu … / Invidia, no, nun n’hannu / E pàssanu la vita travagghiannu12», fiducioso che prima o poi potrà realizzarsi una pace sociale capace di annullare ogni contrasto e di vivere in una amorosa cooperazione. È l’aspirazione di Francesco e, ancor prima, di Gesù, di Pascoli e di tanti altri che esularono dalla realtà, dimenticando che l’uomo rimane sempre abbarbicato nel suo egoismo che fa rivendicare a sé quello che dovrebbe essere degli altri. 

Al 1904 risale un opuscoletto, Nella Valplàtani. Versi siciliani, pubblicato per il matrimonio dell’amico Giuseppe Tumbarello di Realmonte, comprendente tre componimenti («La fava», «Morti scunzulata» e «Ni la massaria di lu Màvaru», con traduzione francese a fronte di Tommaso Cannizzaro), che successivamente Di Giovanni inserirà in Voci del feudo. Sono tre gioielli di vivo realismo nei quali il poeta infonde un senso di virile accettazione. La miseria, il freddo, le privazioni sono come se fossero un dato di fatto naturale che solo l’avanzare della bella stagione porta via. 

L’immagine delle fave che cuociono e l’attesa gioiosa di chi aspetta per mangiare sono indimenticabili; così pure non è da dimenticare la morte a cui va incontro la zz’Annuzza, che dopo una vita di stenti e di fame muore nell’abbandono e nella solitudine come era vissuta («Pari ca dormi, ‘n’arma nun si senti … / Comu si ‘un asistissi cchiù lu munnu»). Come se il mondo non esistesse! È quello che capita a questa povera donna, ma tanti nel mondo vivono ai margini, sconsolati e soli! 

Non così è nel terzo componimento. «Codda lentu lu suli […] Mancu ‘n’arma si vidi nni lu feu, / ‘Mmenzu li terri gerbi e li ristucci, / ‘Ntra poja e ‘ ntra vaddati, e la campana / Di li vacchi ca pàscinu, arrispunni, / Cu ‘na mota ca pari ca chiancissi, / A ‘na vava di ventu ca trasporta / Pi ddi timpi lu sciàvuru di l’ervi13.» 

Qui è la natura, con le sue voci, i rumori e il gesticolare delle creature che la popolano ed animano, ed essa s’impone offrendo un idillio di vita campestre che distende e riposa. Non c’è il tema teocriteo dell’amore, anzi il poeta fa trapelare un certo malessere (il boiaro è vecchio, stecchito e pallido), eppure la descrizione è tutta un palpitare di vita fino a tramonto inoltrato, quando i grilli fanno ancora sentire il loro canto. E l’attaccamento alla terra, alla propria terra, che, spinge il poeta ad allargare lo sguardo e a cogliere tutto in un insieme che piace. 

La silloge Nni la dispensa di la surfara, pubblicata a Palermo nel 1910, si compone di quarantaquattro sonetti e, a dire di Alessio Di Giovanni, dovevano far parte di ‘Nfernu veru, rimasto incompiuto. Qui il poeta riprende usi e costumi della sua gente e, in particolare, degli zolfatai. II tutto è affidato al cunta-cunta, ad un affabulatore assoldato dai padroni per abbonire con racconti, che si tramandavano oralmente, i lavoratori stressati e smunti dall’inumano lavoro delle miniere. Unico diversivo sono il vino e il gioco delle carte, poi poche altre ore di riposo per riprendere a lavorare con le prime luci dell’ alba. L’intento del poeta è, sì, letterario, perché realisticamente descrive la vita fuori delle miniere, nell’unico ritrovo di dopolavoro, ma il suo vero scopo è far conoscere la miseria e gli stenti degli zolfatai, e il loro disagio esistenziale che fa preferire loro il non vivere piuttosto che soffrire ed essere sfruttati. 

Voci del feudo è del 1938. II poeta vi include alcuni componimenti già pubblicati e i Sunetti di la surfàra, anch’essi destinati a far parte di ‘Nfernu veru. In Voci del feudo c’è tutto il mondo poetico di Alessio Di Giovanni, consistente nella poesia che canta la vita nel feudo, accostata a quella che tanta altra povera gente vive nelle miniere di zolfo della zona. È un mondo accomunato da enormi sacrifici e da miseria, da cui non sembra esserci scampo. Il poeta lo ritrae nelle voci, nelle cose, nella gente che lo vive, ma non va oltre. Solo in qualche tratto assume un tono di protesta, di una denuncia silenziosa, come se tutto dipendesse da una mano misteriosa che da un momento all’ altro potrebbe alleviare ogni ingiustizia e ridare dignità all’uomo. 

Il poeta dà voce alle cose e agli uomini: il lamento dei mieti tori, una giornata al pascolo nelle terre del Màvaro, un ritorno nella casa natìa, reso amaro dai ricordi e dal tempo passato che non torna più. 

«Lu vidi ca turnavi? / Cchiù vecchiu, è veru, e stancu: ma chi ‘mporta? / Lu me’ cori nun cancia: ‘un ti scurdavi14.» E il poeta enumera oggetti familiari, rievoca una persona cara, e la sente vicina, intenta a lavorare, mentre la consapevolezza che s’impossessa di lui gli fa dire che è inutile «ripensare a quel tempo felice che non torna più». Bellissimo componimento, in cui Di Giovanni ricrea un momento di pathos indimenticabile e lo partecipa al lettore che con lui condivide la nostalgia degli anni che furono vissuti nella casa che lo vide crescere e gioire. 

Il feudo era anche luogo di insidie e di morte. In La minnitta il poeta riprende un agguato, ritraendolo nei particolari, tra la malvagità dell’uomo e lo stupore della natura che assiste inorridita e senza parole: «Niscìu di lu pagghiaru / E s’appustò ddassutta la trazzera: / Eccu du’ cani … doppu un picuraru. / Po’ mancu ‘n’arma … / … ‘Na lustrura, / ‘Na botta … un sgriddu: ahjai! ‘na vuci: mori! / E lu punenti / Chiuji … Spunta la luna e talìa tutta / Scantata unu ca scappa, e poi… cchiù nenti15.» 

C’è uno sbalordimento generale, un rimanere di stucco proprio di chi assiste, quasi inconsapevolmente, ad una malvagità, e qui a rimanere stordita è la natura che non concepisce la vendetta, perché non sta scritta in nessuna parte. 

Troviamo inseriti in Voci del feudo alcuni sonetti dedicati ai minatori di zolfo16, sfruttati in modo inumano e senza ritegno da padroni privi di scrupoli. Le zolfare, veri e propri «carnai, non di morti ma di vivi», sono il terrore degli zolfatai che invidiano gli animali i quali, se non altro, vivono a cielo aperto e godono del sole. In «Scìnninu a la pirrera», ecco come il poeta esprime la loro amarezza: «Oh, putìssiru, allura, abbannunari / Dda vita ‘nfami, dda vita assassina, / Comu l’armali, ‘nfunnu a li vadduna!» 

I Sunetti di la surfàra sono componimenti nei quali dominano la desolazione e lo sconforto dei minatori, costretti a lavorare dalle prime luci dell’alba al tramonto, chiusi nella profondità della terra e soli. Sembra siano stati abbandonati da tutti, persino dal vento, che nelle poesie del feudo fa sentire viva la sua voce, scuotendo le cime degli alberi o carezzando le biade, facendole ondeggiare, mentre qui, nella zolfara, esso tace o, se dapprima sibila qua e là, sentendo il lamento dei minatori, simile ad un pianto, esso va subito a rintanarsi, facendo perdere le sue tracce. 

Leggiamo da «Lu cantu di li surfàri»: «E sempri di ddassutta veni un cantu / Ca pari di ddu scuru lu lamentu. / Si ferma un pocu … ddoppu, ad ogni tantu, / S’jsa cchiù malancònicu, cchiù lentu. / Ogni acidduzzu, pigghiatu di scantu, / Fùji ddu locu scuru, ddu spaventu: / Li timpi, muti, ascùtanu ddu chiantu / E si va ‘ntanari macari lu ventu17.» È un lamento che si diffonde ovunque e nessuno vorrebbe sentire, perché è innaturale, oltre che struggente. Lo si può ben notare: al poeta non sfugge niente, ma tutto è intriso di questo dolore che attanaglia e strugge. 

Poco sopra è stato citato «Scìnninu a la pirrera»: agli zolfatai è negato persino il sole («Cà no pi iddi, pi l’ervi di lu chianu, / Luci lu sul i biunnu a la campìa», che splende per le erbe dei campi, e non per gli uomini. È uno splendido sonetto nel quale il poeta delinea con tratti da pittore conoscitore dell’animo umano, l’intimo sentire degli zolfatai e dei carusi, il loro interiore contrasto, la ribellione che non porta a niente, se non all’accettazione di quello stato di cose. 

Alessio Di Giovanni è il cantore della sua terra e della sua gente, sia che lavori nei campi, che si cali nel fondo di una miniera, ed egli ne rimane il custode depositario della storia, che spesso non viene scritta, degli usi atavici, come lo furono il padre Gaetano e l’amico Corrado Avolio. La sua importanza è certamente destinata a crescere, perché con la sua opera, che andrebbe divulgata anche nelle scuole, rappresenta una pietra miliare nel contesto letterario del primo quarantennio del Novecento. Egli, da grande poeta qual è, ha saputo fare verismo nel senso vero del termine, senza fronzoli, senza sguainare coltelli, con una parola sempre pesata, lavorata, scavata come pietra dall’acqua, martellata dall’uso secolare che ne avevano fatto i padri; una parola ricca di significati che sa di cantilena e, anche, di cristiana speranza. 

Salvatore Vecchio 

NOTE 

* Cianciana (Ag.), 1872 – Palermo, 1946. Poeta, romanziere, drammaturgo, demopsicologo, scrisse le 
sue opere in siciliano, in versi e in prosa, alcune delle quali con la traduzione italiana a fronte. In lingua pubblicò saggi di demopsicologia, di arte e letteratura: Canti popolari agrigentini, 1894; Saru Platania e la scuola popolare siciliana, 1896; Federico Mistral, 1915; Larte di Giovanni Verga, 1920; Il dialetto e la lingua, 1924 e La vita e l’opera di Giovanni Meli. 
1 A. Di Giovanni, L’arte di Giovanni Verga, Palermo, Sandron, 1920, pago 20. 
2 Id., Maju sicilianu (a cura di S. Di Marco), Comune di Cianciana, 2003, pag. 30: «Ora che a maggio sbocciano le rose / E i gigli s’adornano pomposi; / / Getta su di
me le tue grandi ali / Ecco … t’aspetto con affanno mortale.» 
3 Ivi, pag. 34: «AI cantare dei galli, al mattino, / Mi alzo per andare a cacciare. / M’accompagna per via il mio vicino: / Con lui ti vengo a salutare. / Alzati da un letto così comodo, / Alzati dal letto e non tardare. / C’è l’amante tuo, qui, vicino, / Che ti vuole, belluccia, salutare.» 
4 Ivi, pag. 55: «Passi tra le biade cantando / Con un fazzoletto rosso in testa. / Nella boccuccia tua perle ci stanno, / Di là la voce esce dolce e mesta. / Le biade ti vanno corteggiando, / Al tuo passare abbassano la testa. / I papaveri dicono lampeggiando: / Belluccia, benvenuta! Che gran festa!» 
5 Ivi, pag. 55: «Vero soffocante è il canto dei grilli / Nella tacita notte solitaria! / A due, a tre, a quattro, a venti, a mille … / Ah! Comincia l’orchestra pietosa. / Sembra che il coraggio venga meno! / Come se fossi ancora nell’età delle paure. / Sembra esserci solo io e loro / In questa gran solitudine tutta scura.» 
6 A. Di Giovanni, Maju sicilianu (a cura di S. Di Marco), cit., pag. 16. 
7 Ivi, pag. 72: «Ch’è bello, a notte fonda, ascoltare / Lo Stabat Mater, quel pietoso canto! / Sia che dormiate sia che siate svegli / Per voi è sempre soave, dolce incanto. / ... / Tu sola, Madre pia, devi accogliermi / Tu sola devi salvarmi sotto il tuo manto. / ... / S’innalza il canto al rimpianto. / Nella quiete immensa senti risuonare: / – Tu stavi, Madre, alla croce accanto!» 
8 A. Di Giovanni, Saru Platania e la scuola popolare siciliana, Napoli, Chiurazzi, 1896, pag. 61. 
9 P. P. Pasolini, Noterella su una polemica Verga-Di Giovanni, in “Galleria”, a. VI, nn. 5-6, sett.-dic. 1956, pagg. 330-332. 
10 «Preso di paura, / Con la voce tremante anch’essa, / Col petto ansante di pianto, / Grido e dico: / Che pensi? Pure tu, tu pure / Vuoi abbandonare questo mondaccio antico?» 
11 «Perché in ogni bestiola / Tu vedevi sempre il Signore! / In te, tutti gli animali, anche i vermi, anche le cicale / Trovavano la madre / Con il suo amore ardente come fiamma.» 
12 «Poveri ce ne sono; / Ma non stanno in contrasto con i ricchi … / Non hanno invidie / E passano la vita lavorando…» 
13 «Tramonta lento il sole […] Non c’è anima viva nel feudo, / Tra terre incolte e stoppie, / Tra poggi e vallate, e la campana / Delle mucche che pascolano risponde, / Con un tocco simile ad un pianto, / Al lieve venticello che trasporta / Per i dirupi il profumo delle erbe.» 
14 «Lo vedi che sono tornato? Più vecchio, vero, e stanco: che importa? / Il mio cuore non cambia: non ti ho scordato.» 
15 «Uscì dal pagliaio / E s’appostò sotto la trazzera: / Ecco due cani … poi un pecoraio. / Dopo neanche un’anima … / … Un lampo, / Un botto … un grido: ahjai! Una voce: muori! / E il ponente / Chiuse … Spunta la luna e guarda tutta impaurita uno che scappa, e poi … niente. 
16 Salvatore Di Marco ha dedicato un interessante studio all’argomento dal titolo: Sopra fioriva la ginestra. Alessio Di Giovanni e la Sicilia delle zolfare, Palermo, Nuova Ipsa, 2006, che si consiglia, perché, nel contesto dell’opera digiovannea, dà un ampio quadro di questa realtà isolana che dava ricchezza, in cambio di lavoro sfruttato e disumano. 
17 «E sempre da lì sotto sale un canto / Che sembra il lamento del buio. / S’arresta un poco … dopo, di tanto in tanto, / S’alza più malinconico, più fioco. / Ogni uccellino, impaurito, / Fugge quel luogo buio, quello spavento: / I poggi, muti, ascoltano quel pianto / E lo stesso vento va a rintanarsi.» 
Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 7-15.