Giuseppe Ferrante, Un treno lungo più di cent’anni sino ad Enna da Castrogiovanni, Palermo, Ila-Palma, 2010.

Storia siciliana del I Novecento 

Una storia siciliana dell’emigrazione, uno spaccato di usi e costumi siciliani misti a valori di un umanesimo novecentesco scomparso nei dedali della modernità repubblicana e dell’attuale nichilismo morale che lo scrittore Giuseppe Ferrante rievoca in questo romanzo della memoria, la cui trama s’intreccia con l’epoca fascista che nel 1936 ribattezzò la città di Castrogiovanni in Enna e con certe riflessioni del protagonista Giuseppe senza esondare nel genere del romanzo di idee. Dunque, un romanzo della memoria, a tratti storico. 

Giuseppe, natìo di Castrogiovanni, è un giovane sognatore, bello come un adone, in cerca di affermazione e riscatto dalla consueta arretratezza siciliana. Quando partì alle h. 4,50 per Catania, era riuscito a maritare Maria, la ragazza più bella del paese. 

La partenza è il cauterio secolare dei siciliani che tuttora partono in cerca di fortuna. Insieme alle tiritere dello stereotipo mafioso, questo dell’emigrazione è un tipico remarque della letteratura siciliana, che Ferrante ha avvolto in una prosodia nostalgica che permea tutta la narrazione. Il treno a vapore non solo simboleggia il progresso e le aspirazioni dei siciliani che sperano nel distacco veloce dall’arretratezza, ma nello stesso tempo è il feticcio narrativo di una ambiguità che non recide il cordone ombelicale con la terra natìa, e si presume mezzo di ritorno al punto di partenza. Uno stereotipo, dunque, che tuttavia l’opera di Ferrante impregna di una umanità che reagisce e non si piega alla protervia di un canone violento, ovverosia mafioso. Sotto questo profilo, èun’opera originale che ha meritato la fiducia dell’Ila Palma, nota casa editrice palermitana che pubblica all’insegna della qualità. 

Il viaggio di Giuseppe non è un percorso fine a se stesso, ma è uno slancio interiore che dura «più di cent’anni», ovverosia, oltre lo spirito d’iniziativa che scema in misura inversamente proporzionale all’etàanagrafica. Una statistica che sembra tanto ovvia quanto la necessità che l’esperienza del protagonista si tramandi ai suoi figli, lasciando subodorare al lettore la storia futura di questo prevedibile fato che non perde i connotati della sicilianità dopo avere perduto la congenita negligenza della sicilianitudine: un altro marchio impresso come un cauterio dalla cronaca e dalla letteratura nostrana. 

La struttura ellittica del romanzo si scopre presto, e il feedback è dietro l’angolo. Infatti, la tensione narrativa esaurisce tutta la sua energia nelle vicende amichevoli spese senza tradimenti o congiure. Un’amicizia di vecchissimo stampo, un legame indissolubile, quasi la realizzazione perfetta della filosofia epicurea incarnata da Mario, il maestro di vita di Giuseppe. Insomma, il vero amico è un filantropo, un ottimista capace di dare senza chiedere nulla in cambio. Ad onore del vero, la moglie di Giuseppe, Maria, sentirà spontaneamente il dovere di ricambiare l’ospitalità offerta senza condizioni, garantendo un felice desco quotidiano a tutti gli ospiti della grande casa signorile. 

Sappiamo bene che stature spirituali così alte, purtroppo, non esistono più. Ciononostante, dall’unità d’Italia in poi, è proprio la Sicilia a vantare il maggior numero di filantropi del fare e del dare in amicizia, con onestà e umanesimo solidale. E oggi, uno, non più di due, sono tuttora in vita: che Dio li renda immortali!, affinché siano esempio di abnegazione contro l’intoccabilità delle caste che approfittano dei più deboli fino al delirio d’onnipotenza. 

Il romanzo è ambientato bene. Inizia dalla fine del XVIII secolo e si conclude alla metà del XIX. Nel mezzo, il tempo del dominio regale dove incise l’arretratezza culturale, ma anche un periodo di transizione storica dalla terra all’industria: la posa delle strade ferrate e le macchine a vapore sono la nuova forza motrice applicata al servizio dell’uomo e della produzione; la radio e le traversate transoceaniche fanno sognare il popolino curioso di alterità e l’incetta di notizie è preda di esagerazioni popolari che ingrandiscono a dismisura il mantello della fama; il mito dell’Arcadia è ricorrente, ma lo scrittore Ferrante non esagera, anzi lascia decidere a Giuseppe di quale fato fidarsi. E lui, artigiano del berretto, decide bene, non volta le spalle alla fortuna e insieme alla famiglia raggiunge Alessandria d’Egitto. 

L’autore intesse la sua trama intorno al saggio Mario, il ricco borghese di origini triestine, benefattore di Giuseppe e mentore dell’umanità Dopo la morte di costui, il romanzo si inonda di nostalgia e rammarico. La morte del filantropo porta pesantezza esistenziale, i rapporti economici e sociali di Giuseppe con la gente d’Alessandria d’Egitto si adombrano di sospetto e malafede e Giuseppe entra in crisi, diventa abulico. La borghesia alessandrina è ipocrita e snob, incline alla sufficienza e all’affettazione della verità. E mentre scivola nell’ozio, tradisce Maria per la seconda volta, ma Elisa non è innamorata, ama la lussuria. Egli si sente usato. La società egiziana è volgare e violenta, non tollera neanche la marachella di un bambino. 

Il punto di vista del narratore esterno che corrompe il contesto rivela al lettore la natura melodrammatica della stesura. Il treno è un simbolo onnipotente. Come trascina i vagoni, esso trascina con leggerezza i sogni di Giuseppe, a cominciare dall’amore indelebile della moglie Maria capace di resistere ai rovesciamenti a favore di una meticcia che tradirà il marito incapace di apprezzare la sua femminilità e dolcezza. Fatima è una bella donna. Questa parte centrale del libro denuncia un Ferrante nello stato di grazia che, purtroppo, coincide frettolosamente con l’inizio del denuement. Non inizia la stesura di un romanzo di idee, bensì il contesto si piega alle introspezioni destinate ad esaurirsi subito, perché le paturnie sono dichiarate, non traspaiono fra le righe. 

Giuseppe decide di tornare a Castrogiovanni, dove produrrà berretti insieme ai figli, ormai giovanotti. La svolta è rosea, gli nasce una figlia, gli affari vanno bene, Maria indossa abiti da sera e gioielli da mostrare alla cittadinanza. Il primogenito che nel 1909 si specializza a Torino, tornato a Castrogiovanni, apre la premiata sartoria di piazza Balata. Sull’abbrivio del successo Giuseppe fa innamorare ancora, tradisce di nuovo e lancia una sfida commerciale ai ricchi commercianti della via Etnea di Catania. Tuttavia, la Sicilia di Ferrante danza il ballo del mattone, la vita di paese è quella della piazza e delle speranze riposte nei nuovi ideali fascisti. 

Il fervore patriottico investe anche Castrogiovanni che nel 1936 diviene capoluogo di provincia con il nome di Enna, dove Benito Mussolini è al centro di un aneddoto divertente che riguarda la preparazione di un minestrone. 

Scoppia la guerra. Se le notizie dal fronte non fossero state disastrose, queste pagine sarebbero lietamente intonate con la «sensazione che un passato stava per morire e che il sogno, anche degli ennesi, di un’era di grandezza e di progresso stava per avverarsi». Giuseppe morirà vittima non solo dell’età avanzata, ma di una brutta notizia che alimenterà un senso di colpa mortifero fino al crepacuore. 

Marcello Scurria 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 59-61.

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