Pirandello 

La rappresentazione, in tutti i teatri del mondo, che da più di un trentennio a ora, ininterrottamente, si fa delle commedie di Pirandello, è la riprova di una creatività e di una originalità fuori del comune proprie di questo autore che ha saputo rompere i ponti con la tradizione, col grande rischio dell’incomprensione dei critici – a partire da Croce(1), il cui giudizio per diversi decenni ne ha condizionato la fortuna – e degli spettatori che spesso rimanevano disorientati. 

Oggi la critica, unanime, riconosce la grandezza di Pirandello, considerandolo uno dei maggiori interpreti della società del suo tempo, e non solo italiana. Era il vecchio mondo ottocentesco che, frantumandosi, lasciava lacerazioni profonde che non andavano più nascoste sotto false apparenze e ipocrisie. Le contraddizioni fra il vecchio e il nuovo erano tali che non scuotevano solo la vita sociale, ma disorientavano l’uomo nella sua interiorità, scoprendolo meno stabile di quanto si era creduto. 

Pirandello, con le innumerevoli opere di narrativa e di teatro, traduce quello che era stato l’animo degli uomini di allora, specie quelli della piccola e media borghesia che vedevano deluse le loro aspettative, in vere situazioni di conflitto interiore tese a rafforzare l’idea del dubbio (in noi e negli altri) e l’incertezza del vivere, a sua volta, dominato da un impenetrabile assurdo. 

Interessante, sotto questo aspetto, è Il fu Mattia Pascal (1904), in cui il protagonista, Mattia Pascal, appunto, illudendosi di farsi una vita tutta per sé, incurante dei pregiudizi e delle convenzioni sociali, va a stabilirsi a Roma, prendendo il nuovo nome di Adriano Meis. Ma per poco, perché s’accorgerà subito che gli è impossibile inserirsi in un nuovo tessuto sociale senza i documenti che comprovano la sua identità. Inscenato un suicidio, rientra nelle vesti di Mattia e ritorna al proprio paese, dove nessuno lo accetterà, perché ritenuto morto. Tanto più la moglie che nel frattempo si era risposata. 

All’uomo, come avvenne a Mattia Pascal, non è facile svincolarsi dalle norme sociali, sicché egli non può essere mai se stesso, quale effettivamente sente di essere, ed è sempre quello che gli altri vogliono che sia, anche contro sua voglia, e senza riconoscervisi, perché non è né l’uno né l’altro per quale è ritenuto, bensì nessuno. 

Il grottesco pirandelliano, di cui Il fu Mattia Pascal è un mirabile esempio, consiste nel cogliere le contraddizioni proprie dei personaggi, nello scomporli, mostrandoli quali sono, al di là di ogni apparenza. E questo li porta a volersi rifare una vita tutta per sé, contro i conformismi e le convenzioni profondamente radicati nella società, a qualsiasi livello, anche se prima o poi dovranno fare i conti proprio con queste convenzioni e con questi conformismi, e l’uomo si troverà sempre più solo con se stesso. 

Quattro anni dopo Il fu Mattia Pascal, Pirandello pubblicò il saggio su L’umorismo, dove raccoglie le idee che poi verranno espresse qua e là nei suoi scritti e che costituiscono la sua concezione della vita e la sua poetica. 

«Tutti i fenomeni, o sono illusorii, o la ragione di essi ci sfugge, inesplicabile. Manca affatto alla nostra conoscenza del mondo e di noi stessi quel valore obiettivo che comunemente presumiamo di attribuirle. È una costruzione illusoria continua»(2). Così dice Pirandello. Sicché ne deriva che noi non sappiamo chi siamo veramente. 

La verità ci sfugge perché spesso non poniamo l’attenzione su ciò che siamo, ma quali vorremmo che fossimo. Siamo tentati a vederci in una probabile identità, e non in quella che ci appartiene. Quest’aspirazione ci rende insoddisfatti e diversi a secondo le circostanze. Ed è a questo punto che ricorriamo alla finzione, sia con noi stessi che con gli altri: perciò apparentemente siamo uno, ma ogni uomo si fa un’idea, ciascuno a suo modo, riferita a come ci vede. Il risultato è che siamo tanti (e non più uno) quanti sono gli altri, per cui, in quanto uno, siamo nessuno. Ci troviamo già dinanzi al cosiddetto relativismo pirandelliano su cui avremo modo di ritornare spesso, perché condiziona non solo la vita, ma anche il regno dell’arte. 

L’artista umorista (stando alla concezione della vita e, quindi, dell’umorismo di Pirandello) è consapevole del suo lavoro e non si affida all’estro, ma alla riflessione e al sentimento che, pure in contrasto, rivestono un ruolo di pari importanza, in quanto «la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice: lo analizza, spassionandosene: ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario»(3). 

L’artista umorista, in altri termini, non tiene conto dell’apparenza, e va ben al di là, mettendo a nudo la mutevolezza degli uomini, evidenziandone la caducità e le miserie. E l’uomo, così come nella vita, altrettanto mutevole risulta nella creazione artistica, che rende meglio questa mutevolezza con la discontinuità, senza seguire apparentemente un ordine prestabilito, dove tutto sembra affidato al caso. Da una siffatta concezione dell’arte come ricreatrice della vita deriva la drammaturgia di Pirandello che, rompendo con la tradizione teatrale, all’inizio disorientò i critici e gli spettatori, dando vita a quello che doveva essere il teatro contemporaneo. 

Se consideriamo che i due Colloqui coi personaggi (che poi Pirandello utilizzerà per i Sei personaggi in cerca d’autore) risalgono al 1915, a parte tutte le novelle, scritte, addirittura, prima di questa data, e che costituiranno la materia delle altre commedie, oltre il romanzo sopracitato, va detto che Pirandello è anche l’iniziatore del teatro “grottesco”, contro quanti, invece, indicano L. Chiarelli che nel 1916 rappresentava i tre atti de La maschera e il volto(4). 

Per l’occasione, cfr. L. Ferrante, Teatro italiano grottesco, Bologna, Cappelli, 1964, pagg. 26 e sgg. Non sono affatto d’accordo con Ferrante, quando afferma che «Pirandello non può essere considerato la matrice della drammaturgia italiana, ma deve, secondo la definizione di Luigi Russo, essere considerato il caposcuola del decadentismo (mentre D’Annunzio ne fu, ricorda il Russo, il “grande attore”. Spesso la critica italiana e straniera ha adottato il criterio inverso attribuendo a Pirandello un ruolo specifico di leader del nostro teatro, ed ha fatto del “pirandellismo” un genere». Evidentemente, il Decadentismo, per la portata di movimento qual è, dalla fine del XIX sec. a ora, ha condizionato gli uomini e le cose, e nessuno, chi più chi meno, ne rimane esente. Non vedo motivo per cui si debba etichettare così Pirandello, quando tutti viviamo le stesse crisi. Certo, se ci riferiamo all’aspetto culturale, per le sue opere, il Nostro si fa portatore delle istanze del suo tempo con maggiore conseguenzialità di tanti altri, proprio per il rapporto spontaneo che istituisce tra l’arte e la vita. Ma questo non esclude che il grande siciliano non sia al tempo stesso il commediografo che darà un’impronta personale e decisiva al teatro italiano e straniero. E, come la mettiamo col teatro detto dell’«assurdo»? La grande riforma dell’arte scenica, senza Pirandello, sarebbe stata inconcepibile, così come impensabili, tutto d’un colpo, un Ionesco, un Beckett o un Adamov, per citarne soltanto alcuni. 

L’umorismo è suddiviso in due parti diseguali. Nella prima, la più lunga, Pirandello, prendendo spunto da A. D’Ancona che definisce Cecco Angiolieri, in un saggio a lui dedicato, “un umorista”, parte dall’etimologia della parola “umore” per spiegare a sé e agli altri cos’è veramente l’umorismo. 

Innanzitutto, sgombera il campo alla confusione che si fa a proposito, distinguendo tra ironia e umorismo , e chiamando in causa Federico Schlegel, secondo cui «l’ironia consiste nel non fondersi mai del tutto con l’opera propria, nel non perdere, neppure nel momento del patetico, la coscienza dell’irrealtà delle sue creazioni, nel non essere lo zimbello dei fantasmi da lui stesso evocati, nel sorridere del lettore che si lascerà prendere al giuoco e anche di se stesso che la propria vita consacra a giocare»(5). 

Pirandello rigetta una tale definizione, così come è pronto a dire che l’umorismo è sempre esistito ed è presente in ogni letteratura. Per quanto riguarda l’ironia retorica, dice che essa è «una contraddizione fittizia» che non ha niente a che vedere con l’altra che non si discosta affatto dal reale. In base a questo tipo di contraddizione «il Manzoni non si sdegna mai della realtà in contrasto col suo ideale: per compassione transige qua e là e spesso indulge, rappresentando ogni volta minutamente, in forma viva, le ragioni del suo transigere: il che, come vedremo, è proprio dell’umorismo»(6). 

Ironia, più o meno manifesta, riscontra Pirandello nei nostri poeti cavallereschi, soffermandosi con giudizi ben riusciti e tuttora validi sul Pulci, il Boiardo e l’Ariosto. Vero umorismo, secondo lui, è nel Don Quijote di Cervantes, dove «il comico è anche superato, non più dal tragico, ma attraverso il comico stesso. Noi commiseriamo ridendo. o ridiamo commiserando»(7). 

Ma ciò che trovo interessante in questa prima parte, anche in vista della produzione che Pirandello da lì a poco farà seguire, è la sua concezione dell’arte. A proposito dell’Ariosto, dice che ogni rappresentazione «che tutti ci facciamo di noi stessi e degli altri e della vita» è illusione, anche se riteniamo “finta” quella artistica e “vera” quella che deriva dalle sensazioni. Ma la differenza tra le due illusioni è dovuta alla volontà. 

La rappresentazione artistica è “voluta”, cioè desiderata e, quindi, cercata, senza niente pretendere, mentre l’altra non costa alcuna fatica e la si possiede in rapporto a quelli che sono i sentimenti di ciascun individuo, venendo così incontro a particolari interessi. Ne risulta che «la differenza tra questa creazione e quella dell’arte è solo in questo (che fa appunto comunissima l’una e non comune l’altra): che quella è interessata e questa disinteressata, il che vuol dire che l’una ha un fine di pratica utilità, l’altra non ha alcun fine che in se stessa; l’una è voluta per qualche cosa; l’altra si vuole per se stessa». 

La poetica di Pirandello è bene delineata e difesa a spada tratta, e il suo allontanarsi dal verismo è più che manifesto. Le illusioni che ci facciamo vengono ritenute vere, ma esse cozzano con la realtà, sicché il contrasto fra le immagini che sono in noi e il reale è grande, e lo stato d’animo che ne viene fuori è quello del sentimento del contrario, a cui abbiamo accennato e che costituisce la materia della seconda parte del saggio.  

Qui Pirandello, in polemica col Croce, difende le sue idee sull’umorismo e, quindi, la sua poetica. Come si può negare l’umorismo quando ci sono scrittori che diciamo umoristi? E, dando una definizione dell’umorismo, da lui chiamato «sentimento del contrario», distingue il comico dall’umoristico che, tutto sommato, costituiscono il rovescio di una medaglia, di cui il comico (l’esempio della vecchia signora che s’imbelletta e vuole apparire quella che più non è) è l’avvertimento del contrario che, col subentrare della riflessione, diviene sentimento del contrario. 

Gli esempi e gli autori citati (Giusti, Lipps, Croce, Manzoni) consentono al Pirandello di ribadire le idee, in parte già esposte, che, poi, costituiscono la sua poetica. Quella che più gli sta a cuore è la difesa dell’«attività della riflessione», nel contesto di una estetica in generale, trasferendovi, così, ciò che costituisce l’aspetto più saliente della sua arte e giustificandola. Ed era ciò che gli premeva di più, visto che lo si criticava per il continuo ricorrere alla riflessione in tutte le sue opere. 

Pirandello è ben lontano, ormai, dai canoni veristici. L’artista è portato non solo a vedere per descrivere, ma a vedere per pensare ed esprimere, affidando a se stesso o ad altri il compito di riferire la sua riflessione. E il lettore o lo spettatore è messo subito al corrente del pensiero dell’autore, cosa a cui non era abituato e, per questo, spesso si trova disorientato e fa difficoltà, sulle prime, a seguirlo. 

Adesso, il reale, quale esso ci si presenta, non è che il punto di partenza per un discorso sulla vita e sull’uomo che coinvolge e differenzia, perché ciascuno non solo ha un suo mondo interiore da esternare, ma è anche in continuo conflitto con sé e con gli altri, per cui fa difficoltà a trovare una propria identità, costretto com’è a camuffarsi ora in questa ora in un’altra maschera. 

Così egli dice: «Per noi tanto il comico quanto il suo contrario sono nella disposizione d’animo stessa ed insiti nel processo che ne risulta. Nella sua anormalità, non può esser che amaramente comica la condizione d’un uomo che si trova ad esser sempre quasi fuori di chiave, ad esser un tempo violino e contrabbasso; d’un uomo a cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un altro opposto, contrario; a cui per una ragione che egli abbia di dir sì, subito un’altra e due e tre non ne sorgano che lo costringano a dir no; e tra il sì e il no lo tengan sospeso, perplesso, per tutta la vita; d’un uomo che non può abbandonarsi a un sentimento, senza avvertir subito qualcosa dentro che gli fa una smorfia e lo turba e lo sconcerta e lo indispettisce».(8) 

Evidentemente Pirandello, nell’affermare questo, e con una certa amarezza, dice tutto il suo scontento per la vita e per l’uomo, svuotati, come se li rappresenta, da ogni ideale che possa risollevarli per guardare verso l’alto. Ne deriva che l’uomo pirandelliano è attirato esclusivamente dal suo simile e a lui solo guarda per trovarvi quasi la giustificazione del suo esistere. 

Continuando il discorso, Pirandello ribadisce la differenza che passa tra il comico e l’umorista e, prendendo come esempi Don Abbondio e Don Quijote, dice che nel comico manca il sentimento del contrario, per cui siamo portati a simpatizzare per Don Abbondio, e a provare tenerezza per l’altro. Ma, in sostanza, sia nel comico quanto nell’umorista è sempre la riflessione a giuocare un ruolo importante, sicché se «il comico ne riderà solamente, contentandosi di sgonfiar questa metafora di noi stessi messa su dall’illusione spontanea: il satirico se ne sdegnerà: l’umorista, no: attraverso il ridicolo di questa scoperta vedrà il lato serio e doloroso: smonterà questa costruzione, ma non per riderne solamente: e in luogo di sdegnarsene, magari, ridendo, compatirà» (9). 

Le ultime pagine del saggio sembrano una summa di esperienza di vita vissuta, quasi un voler accostare la teoria alla pratica per dare più consistenza alle sue convinzioni. Leggiamo, a esempio: «La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato non cessi». 0, ancora: «L’uomo non ha della vita un’idea, una nozione assoluta, bensì un sentimento mutabile e vario, secondo i tempi, i casi, la fortuna» (10). 

Queste e altre affermazioni si richiamano direttamente alla concezione di vita di Pirandello e costituiscono i motivi principali della sua arte. 

 

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Con il saggio L’umorismo Pirandello enuncia la sua poetica, e già in esso vi cogliamo alcuni spunti di quel relativismo che sarà facile scorgere nelle opere di narrativa e di teatro. 

La stessa definizione di umorismo, e il ritornarvi con argomentazioni diverse, ma per chiarire lo stesso concetto, ha in sé la convinzione che relega l’uomo in una condizione di continua mobilità psicologica, per cui egli è portato a riconoscersi, a seconda le circostanze, ora in una ora in un’altra personalità. 

Pirandello si rivela innanzitutto un abile conoscitore dell’animo umano, essendo dotato di un grande spirito di osservazione e, soprattutto, un uomo, prima che artista, che ha sperimentato in proprio le difficoltà e le amarezze del vivere. Ora, queste qualità e la concezione amara che s’era fatta della vita trasferisce nel mondo dell’arte. Così operando, s’allontana dal verismo dell’inizio e insegue una forma d’arte che nasce spontanea, senza niente di predisposto, e rimane immutata, mentre cangianti sono gli aspetti della vita. 

Vediamo in che cosa consiste la sua concezione amara della vita e da dove scaturisce. Dice Pirandello in una delle tante asserzioni: «In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in sé stessa la vita, quasi in una nudità arida, inqUietante: ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che norma1mente percepiamo, una realtà vivente oltre la vita umana, fuori delle forme dell’umana ragione. Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo; e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini si sono scisse e disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si sprofondasse negli abissi del mistero. […] La vita, allora, che s’aggira piccola, solita, fra queste apparenze ci sembra quasi che non sia più per davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica. E come darle importanza? Come portarle rispetto?»(11). 

Secondo Pirandello, le illusioni che l’uomo via via si crea, lo distolgono dal suo vero essere, senza nemmeno rendersene conto. Ma se per un momento egli rientra in sé, mettendo da parte il velo delle illusioni, allora si scoprirà fragilissimo e senza alcuna certezza. In sostanza, ciò che ha un ruolo importante anche in questa fase è la riflessione, la quale lascerà un segno profondo nell’animo del singolo che, nonostante il ritornare alle sue abitudinarie illusioni, né ora né mai riuscirà più a cancellare. 

Certamente, dietro questo pensiero desolato e desolante di Pirandello, ci sono l’interesse all’introspezione e le influenze che le dottrine scientifico-filosofico- letterarie del tempo esercitarono su di lui, e queste idee successivamente svilupperà, quando lo scrittore sarà ancora più provato dalle vicende familiari. Ma c’è anche in questa introspezione così acuta tutto il relativismo di cui la sua opera è piena(l2). Appena qualche pagina prima, aveva scritto: «È appunto le varie tendenze che contrassegnano la personalità fanno pensare sul serio che non sia una l’anima individuale. Come affermarla una, difatti, se passione e ragione, istinto e volontà, tendenze e idealità, costituiscono in certo modo altrettanti sistemi distinti e mobili, che fanno si che l’individuo, vivendo ora l’uno ora l’altro di essi, ora qualche compromesso fra due o più orientamenti psichici, apparisca come se veramente in lui fossero più anime diverse e persino opposte, più e opposte personalità?»(l3). 

Rosario Chiàrchiaro, ne La patente (1911, trasformata in atto unico nel 1918), chiederà al giudice D’Andrea non che venga assolto, cosa su cui si dibatteva il povero giudice, ma riconosciuto effettivamente jettatore, visto che l’opinione pubblica lo ritiene tale. Nell’impossibilità di rigettare l’etichetta che gli hanno applicato, vuole dal giudice la patente, perché solo così potrà, nonostante tutto, vivere e sfamare la famiglia. 

Il Chiàrchiaro si adegua alla nuova realtà, perché sa che non può fare diversamente. Ha capito l’ingranaggio della vita, e ha capito anche che reagendo avrebbe ottenuto un effetto ancor più disastroso. La realtà è che la maschera è indispensabile, anzi diviene un’imposizione sociale a cui non si può sfuggire. Il vivere in società impone dei pedaggi a cui l’uomo, per forza di cose, deve sottostare(14). Una realtà, perciò, amara, senza dubbio, che toglie la libertà di agire come si vorrebbe, innescando certi meccanismi di convenienza a cui, per il proprio bene, non si può rinunciare. È il caso del protagonista dell’Enrico IV e di tanti altri che, come lui, o il Chiàrchiaro, sono costretti a vivere nella finzione. 

Questo modo di concepire la vita e gli uomini è una costante pirandelliana che non farà registrare alcuna variazione; cambierà, magari, il movente, ma nessuna certezza rischiarirà il cammino dell’uomo che spingerà l’umorista Pirandello prima al riso e, poi, alla pietà. E questo atteggiamento risoluto nei confronti dell’umana condizione farebbe di lui un beffardo, se non si andasse un po’ al di là di una semplice lettura. Ma, dietro la prima impressione che un lettore attento trae, c’è una compassionevole comprensione che accomuna tutti e porta gli uni e gli altri, comunque, a compatirsi. 

Pirandello non denuncia, come avevano fatto i veristi, uno status sociale, non si chiede cosa sarà dell’uomo o come potrà migliorare il suo essere, e non si pone nemmeno il problema di quale sarà stata la causa (come farà Svevo) che ha portato l’uomo alla crisi d’identità e al crollo dei valori tradizionali. Pirandello ritrae l’uomo nel suo travaglio interiore, nell’urto e nel contrasto fra l’essere, qual è nell’intimo, e il fittizio, tra l’aspirare ciascuno a un qualcosa, nobile o no che sia, e l’impossibilità di realizzarlo, perché forze opposte, per niente controllabili, lo ostacolano e frenano. E Pirandello è maestro nella descrizione di questo contrasto e di quest’ urto interiori, perché nessuno – meglio e prima di lui – aveva scavato tanto in profondità nell’animo umano, scoprendolo miseramente debole e indifeso. 

Il mondo pirandelliano non è popolato da uomini fuori del comune, non ha posto per gli eroi, per il semplice fatto che l’uomo nel suo intimo non differisce affatto dagli altri e lamenta le stesse pene. Ma la piccola e media borghesia è quella che meglio degli altri ceti scopre se stessa. Ed è proprio questa l’oggetto dell’attenzione del Nostro: essa è la più emergente e, come tale, la più esposta e incline a esternare i propri travagli esistenziali. 

Canta l’Epistola, scritta anch’essa nel 1911, è una tra le più belle novelle dove il dramma del personaggio trova il suo epilogo nella morte. Venutagli meno la fede, Tommasino Unzio si vede tagliato ogni legame con la vita associata, e il mondo gli cade addosso ogni giorno di più. Indifeso e debole, cerca rifugio nella natura e con essa colloquia dando ascolto alle piccole cose. L’incomunicabilità tra gli uomini viene marcata ancor più dall’abbandonarsi da parte di Tommasino alla riflessione e alla contemplazione del mistero che tutto e tutti coinvolge. 

Il non determinato, l’incerto e, quindi, il senso dell’umana provvisorietà e dell’effimero, vengono intercalati qua e là dalla voce del narratore che, usando l’infinito, traduce così lo stato d’animo del protagonista: «Non aver più coscienza di esser, come una pietra, come una pianta: non ricordarsi più neanche del proprio nome: vivere per vivere, senza saper di vivere, come le bestie, come le piante: senza più affetti né desiderii, né memorie, né pensieri; senza· più nulla che desse senso e valore alla propria vita. Ecco: sdrajato lì su l’erba, con le mani intrecciate dietro la nuca, guardar nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti, gonfie di sole: udire il vento che faceva nei castagni del bosco come un fragor di mare, e nella voce di quel vento e in quel fragore sentire, come da un’infinita lontananza, la vanità d’ogni cosa e il tedio angoscioso della vita»(15). 

Pirandello non descrive o, se lo fa, la descrizione non è fine a se stessa, perché il centro della narrazione è il capovolgimento psicologico che il personaggio fa registrare, fino alla morte che il materialismo invadente non può spiegarsi e, perciò, assurda agli occhi dei tanti che non possono immaginare, e tantomeno accettare, che Tommasino Unzio è morto per un filo d’erba. 

L’attenzione dell’autore, in questa come nelle altre sue opere, è rivolta all’uomo, ma più che all’uomo che in sé è identico a tanti altri, al personaggio o ai personaggi che egli impersona. E non gli interessano, quindi, i fatti che servono solo da pretesto, quanto la problematica che ne viene fuori. Certo, la psicanalisi avrà giuocato un ruolo determinante in questo cambio di ottica, così come il crollo dell’ideologia positivistica, e non solo in Pirandello, o nel campo della letteratura, ma nelle arti in genere; sicuramente, però, ha contribuito moltissimo il disorientamento prodotto negli uomini di quel tempo dai cambiamenti morali e sociali che la vecchia Europa stava registrando. e furono questi cambiamenti ad acuire di più i dissidi esistenziali. Ma come non si voleva accettare. e si faceva fatica anche a riconoscere, questa crisi, allo stesso modo non si tenevano in considerazione i tentativi di quelli che la condizione dell’uomo denunciavano coi loro scritti. Pirandello fu uno di questi e, cosa risaputa, venne stimato e ammirato più altrove che in Italia. Tutto questo, però, servì a svecchiare la letteratura e il teatro italiani che, con Pirandello, diedero il via a un’apertura e a un’innovazione di respiro mondiale. 

Va detto anche che la gente, uscita fortemente provata dalla Grande Guerra, aveva bisogno di tutt’altro che delle conclusioni pirandelliane. Eppure, ecco cosa dice Diego, personaggio di Ciascuno a suo modo (1924): «Niente. Che vuoi concludere. se è così? Per toccare qualche cosa e tenerti fermo, ricaschi nell’affiizione e nella noja della tua piccola certezza d’oggi, di quel poco che, a buon conto, riesci a sapere di te […]» (16). 

Ma la gente, in quel periodo, sentiva la necessità di evadere, e di ricorrere ai “sogni”, era presa dalle smanie del vivere e non poteva stare là a immalinconirsi pensando alla fragilità e alla mutevolezza del suo essere(17). Intanto la dialettica pirandelliana porta alle estreme conseguenzialità situazioni che apparentemente riguardano questo o quello, e coinvolge, ciascuno nella propria solitudine e pur volendone rimanere al di fuori, tutti nel vortice sfaccettato che è la vita. 

Salvatore Vecchio 

(1) B. Croce, L. Pirandello, in <<La Critica>>, Bari, 1935, ora in Letteratura della nuova Italia, VI, Bari, Laterza, 1957. 
(2) L. Pirandello, L’umorismo, in Saggi, Poesie, Scritti varii (a cura di M. Lo Vecchio-Musti), Milano, Mondadori, 1973, pag. 146. 
(3) Ivi, pag. 127. 
(4) Si veda, anche, M. Lo Vecchio Musti, L’opera di Luigi Pirandello, Torino, Paravia, 1939, pag.175. (5) L. Pirandello, L’umorismo, cit., pag. 24. 
(6) lvi. 
(7) lvi, pag. 98.
(8) Ivi, pag. 138. 
(9) lui, pag. 146. 
(10) Ivi, rispettivamente. pagg. 151 e 154. 
(11) Ivi, pagg. 152-153. 
(12) Aveva esercitato un fascino particolare su Pirandello il libro di A. Binet, Les altérations de la personnalité, più volte citato nei suoi scritti. Nei Sei personaggi in cerca d’autore il Padre dirà: «Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi veda – si crede “uno” ma non è vero: è “tanti”, signore, “tanti”, secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi[…]». 
(13) Ivi, pag. 150. 
(14) Croce, in Etica e politica (Bari, Laterza, 1973, pag. 103), parlando di responsabilità, scrive che: «… la società […] impone certi tipi di azione e dice all’individuo: Se tu vi ti conformi, avrai premio; se vi ti ribelli, avrai castigo; e, poiché tu sai quello che fai e intendi quel che io ti chiedo, io ti dichiaro responsabile dell’azione che eseguirai». 
(15) L. Pirandello, Novelle per un anno (a c. di C. Alvaro), vol. I, Milano, Mondadori, 198012. (16) L. Pirandello, Ciascuno a suo modo, in “Maschere nude” (a cura di M. Lo Vecchio Mustil, voI. I, Milano, Mondadori, 1985, pag. 172. 
(16) L. Pirandello, Ciascuno a suo modo, in “Maschere nude” (a cura di M. Lo Vecchio Mustil, vol. I, Milano, Mondadori, 1985, pag. 172.
(17) Vedi il discorso commemorativo di M. BontempeIli del 17 gennaio 1937, ora in Introduzioni e discorsi, Milano, Bompiani, 1945.

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 7-18.

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