Ponzio Pilato: vile indeciso o illustre magistrato? 

 Un personaggio da sempre discusso e criticato, accusato di viltà e di aver impunemente fatto condannare e crocifiggere nientemeno che il Cristo, può all’improvviso essere riabilitato? La risposta è senz’altro negativa, se si analizza la questione impiegando categorie contemporanee e notizie vulgate, se si chiudono gli occhi della mente per non-volontà di approfondire gli studi riguardo al personaggio o per la mancanza del coraggio necessario per accettare o affermare una teoria nuova e rivoluzionaria. In tal modo non si accettano le verità né si smentiscono le bugie, ma si imbrattano solo fogli di carta con l’illusione di aver scritto qualcosa di nuovo, ma, nella maggior parte dei casi, non si fa altro che perpetuare ignobili calunnie o presunte verità. È più opportuno, invece, chiedersi le ragioni degli eventi e dei comportamenti, cercando testimonianze attendibili che illuminino, al di là di ogni dogma o pregiudizio, la mente non solo dello studioso, ma anche dell’uomo della strada. 

Nel caso di Ponzio Pilato, il preambolo appena terminato era addirittura indispensabile, perché ci si trova in presenza di un personaggio discusso e bersagliato come “una testa di turco contro cui lanciare palle di stracci” per non aver avuto la forza, il coraggio o l’autorità di far assolvere Gesù. È opportuno, allora, riprendere la questione ab imis fundamentis, secondo i dettami della Filologia Sperimentale e, facendo tabula rasa di tutto ciò che si sa (o che si è accettato finora). cercare di ricostruire l’identità dell’uomo e il carattere del magistrato. 

Dell’esistenza di Ponzio Pilato si è assolutamente certi a causa di una epigrafe ritrovata nel 1961 durante gli scavi del teatro romano di Cesarea di Palestina dalla Missione Archeologica Italiana diretta da Antonio Froval. 

L’iscrizione, mutila sul lato destro e sinistro, dice: 

………..TIBERIEVM 
…….TNS PILATVS 
……ECTUS IVDAEE 
……E . 

Il filologo sperimenttale Davide Nardoni ricostruisce l’iscrizione, traducendo: “Ponzio Pilato Prefetto della Giudea, levava sacello in onore dell’Imperatore Tiberio nella città di Cesarea Marittima, sede della Prefettura di Giudea”2. 

Del Prefetto di Giudea conosciamo il cognome (nomen): Pontius e il soprannome (cognomen): Pilatus, ma non il nome proprio (praenomen). 

Il cognome Pontius consente di inserirlo nell’antica famiglia Pontia, di chiara origine sannitica, come è testimoniato da due iscrizioni presenti nella città d’Isernia3. Il cognomen Pilatus indica che Ponzio era stato un Pilus, ossia un Centurione Primipilare severissimo, poiché usava il pilum, il giavellotto e non il ramo di vite per esercitare il suo diritto e dovere di punire i soldati imbelli, percotendo le loro natiche scoperte4. Ciò consente già di delineare alcuni caratteri del personaggio: era Centurione Primipilare; consente, inoltre, di smentire con assoluta certezza la prima accusa, quella di viltà, infatti la carica di Centurione Primipilare si guadagnava sul campo, combattendo con valore degno di decorazione in almeno trenta occasioni. A ricoprire tale carica i Centurioni giungevano crescendo di grado, dal decimo al primo manipolo degli astati, dal decimo al primo manipolo dei principi, dal decimo al primo manipolo dei triari. 

Il Centurione Primipilare, oltre ad essere il capo di tutti i centurioni, aveva grandissima autorità ed era tenuto in conto di “cavaliere” (Eques)5. Ciò gli consentiva di aspirare ed, eventualmente, di ricoprire la carica di Prefetto di Giudea, che era risezvata agli uomini di rango equestre. 

Secondo quanto è dato sapere, Pilato conosceva tre lingue: il latino appreso da bambino, il greco appreso in età scolare e l’aramaico appreso durante il servizio militare in terra semitica6. Questa circostanza e l’indiscutibile valore di condottiero, oltre alle favorevoli presentazioni all’Imperatore da parte degli illustri parenti che frequentavano il Palatium, Ponzio Nigrino e Ponzio Fregellano, indussero Tiberio ad affidare a Pilato la Prefettura di Giudea. 

I Prefetti che precedettero Pilato furono Coponio (in carica dal 6 al 9 d. C.), Ambibulo (in carica dal 9 al 12 d.c.), Rufo (in carica dal 12 al 15 d. C.) e Grato (in carica dal1S al26 d.c.). Come si può vedere, se si esclude l’ultimo, nessuno di essi rimase in carica più di tre anni, a testimonianza della severità con cui l’Imperatore giudicava i suoi amministratori e i suoi magistrati. Il “cavaliere” Ponzio Pilato rimase in carica, invece dal 26 al 36 d. C., per ben dieci anni, e ciò prova che egli seppe bene interpretare la categoria romana suprema: l’imperium. Tale categoria che in origine indicava un “atto concreto di parificazione”7 e non il 

L’imperium, parte costitutiva della patria potestas era retaggio dei patres familias che morendo lo lasciavano al figlio maggiore o erede con l’ultimo bacio. 

I “padri di famiglia” che esercitavano l’Imperium come “potatori” nella vigna e come “aratori” nei campi, lo stesso imperium: “autorità suprema” che li rendeva sacri, esercitavano nella Curia nell’interesse di Roma, esercitavano nei castra sulle Forze Combinate Romane nell’interesse superiore della Pax Romana. L’obiettivo dell‘Imperium esercitato nelle vigne e nei campi era la “parificazione” delle viti potate ad occhi pari nei due tralci perché portassero uve per il nuovo vino, era la “parificazione” del terreno con aratro, erpice e rastrelli perché portasse buon grano. 

L’Imperium esercitato dai patres familias nell’ambito familiare mirava ad assicurare la “parità” dei diritti e dei doveri tra tutti i componenti: i figli liberi e i figli degli schiavi venivano educati alla “pari”: sub imperio matris. 

L’Imperium esercitato dagli Imperatores tra i legionari mirava a rendere “pari” le Forze Combinate Romane davanti alle fatiche di guerra, davanti al bottino di guerra, manubiae, davanti ai premi, alle promozioni e alle pene. 

L’Imperium esercitato nella sfera politica sui popoli “interni”, all’Orbe romano, mirava a dare ai popoli la “parità” dei diritti e dei doveri, concedendo a quanti se ne dimostravano degni la cittadinanza romana: ius civitatis.

comando, era esercitata nei riguardi di tutti coloro che, obbedienti alle leggi di Roma, si dimostravano degni di godere dello ius civitatis. L’atto di aggregazione era considerato un principio fondamentale della politica di diffusione dell’Impero; infatti, secondo quanto dice Virgilio nell’Eneide, lo stesso Giove aveva proclamato alla figlia Venere la missione assegnata dal Fatum a Roma e ai Romani: agire in vista della “parificazione” dei popoli: Imperium sine fine dedi8. 

La missione eterna assegnata dal Fatum a Roma veniva ripetuta dal padre Anchise al figlio Enea, nel lucòre dei Campi Elisi: 

Tu regere imperio populos, Romane, memento! 

“Romano ricorda di guidare i popoli al parime”9. 

Lo stesso padre Anchise al figlio Enea svelava le tre “arti” esercitando le quali Roma avrebbe dato la “parità” del diritto a tutti i popoli: 

1) Paci imponere morem10; 
2) Parcere subiectis 11; 
3) Debellare superbos12. 

I Romani, agendo in accordo a tal direttive di imperium, cercavano sempre e innanzitutto di applicare la prime e la seconda con l’intenzione di stabilire le condizioni, affinché potesse regnare la pace e di rendere produttivi i popoli sottoposti. Solo quando le prime due risultavano inefficaci, solo quando la pervicacia non poteva essere vinta con altri mezzi, Roma ricorreva alla debellatio, annientando la tracotanza con azione bellica violentissima. Si sa che l’applicazione della prima e della seconda “arte” d’imperium era lasciata alla discrezione dei vari governatori, amministratori e prefetti dei territori “aggregati”, mentre la terza poteva essere decisa solo dal potere centrale. 

La temibile debellatio, come la storia c’insegna, fu applicata nei riguardi del popolo giudeo tramite le legioni stanziate in Siria, che, nell’anno 70, rasero al suolo la città di Gerusalemme. Ciò indica con chiarezza quanto difficile fosse il compito di Pilato, il quale venne a trovarsi tra gente che nulla faceva per farsi intendere dallo straniero e che nulla faceva per intendere lo straniero. Pilato veniva a trovarsi tra gente che non poteva amare il “barbaro” venuto da città lontana ad amministrare la terra e il popolo che riconosceva una sola autorità, quella dell’unico dio dei Padri: Jahwéh. 

Pilato veniva a trovarsi tra gente che nulla avrebbe fatto per facilitare al Prefetto il suo compito; tra gente sempre pronta a mandare rapporti a Roma per levare lagnanze contro la condotta del prefetto davanti all’Imperatore. 

II compito posto sulle spalle del Prefetto mandato da Roma, era gravoso. 

Il compito di amministrare e reggere la Giudea comportava incombenze per il Prefetto, che si concretizzavano in atti che a tempo e luogo dovevano essere fatti. 

Il compito del Prefetto di Giudea erano uguali ai compiti di tutti i governatori: alcuni compiti solo dei “prefetti” della Giudea: 

l) Risiedere a Cesarea Marittima: 
2) Salire a Gerusalemme durante la Pasqua; 
3) Cooperare con le autorità locali; 
4) Controllare i “pubblicani”; 
5) Inculcare il culto dell’Imperatore; 
6) Mantenere l’ordine pubblico; 
7) Tenere in ordine l’archivio; 
8) Dare l’allarme al governatore della Siria; 
9) Chiedere delucidazioni a Roma; 
l0) Aggregare la Giudea a Roma; 
11) Fare i lavori pubblici; 
12) Conservare nella Baris i paramenti del Sommo Sacerdote; 
13) Vigilare sulla condotta del Sommo Sacerdote e sulle Autorità locali; 
14) Riscuotere le tasse per l’erario e per il fisco; 
15) Amministrare la giustizia(13. 

Appena assunta la carica di Prefetto, Pilato fece il suo ingresso in Gerusalemme di notte e ad insegne spiegate. Come dice giustamente il Nardoni14, tale gesto aveva due spiegazioni: 1) le insegne recanti l’immagine dell’Imperatore, alzate nella Città Santa costituivano “sacrilegio” intollerabile agli occhi degli israeliti della Madrepatria e “profanazione” agli occhi dei credenti della Diaspora; 2) Le insegne con l’immagine dell’Imperatore, piantate nel cuore di Gerusalemme, agli occhi di Tiberio, di Seiano Praefectus Praetorii, del Prefetto, dei legionari posti a difesa dell’Impero e di tutti i romani, costituivano il primo tentativo del Prefetto per fare accettare ad Israele Roma e per “aggregare” territorio e popolo all’Orbe romano. 

Con quel gesto Pilato, dimostrando la sua intenzione, chiariva la sua azione nella Giudea: rispettasse la Giudea Roma come Roma rispettava la Giudea sine ullo discrimine15: senza differenze, senza discriminazioni. 

In opposizione a tale gesto, gli Israeliti manifestavano il loro disappunto e il loro rigetto alla proposta di “aggregazione”, sostando per ben cinque giorni in pacifica dimostrazione davanti alla sede della Prefettura di Cesarea Marittima ed ottennero la rimozione delle insegne. Tiberio non batté ciglio, non criticò Pilato: egli stava tentando di applicare la prima direttiva d’imperium. 

A Pilato è stato anche fatto il rimprovero di essersi impossessato del Tesoro del Tempio, Korbonàs, per costruire l’acquedotto di Gerusalemme. Non è difficile smontare anche quest’altra accusa. Si sa, infatti, che il Korbonas16, che era stato costituito da tredici casse o ceste contenenti gli “scicli” della tassa del Tempio e delle elemosine si trovava nell’azarah, nel cortile delle donne, ossia nella parte più interna del Tempio, alla quale i Romani, Gentiles, Goyìm, “infedeli”, “miscredenti”, giammai sarebbero potuti pervenire senza compiere un grave atto di profanazione che il Sommo Sacerdote avrebbe immediatamente denunciato a Tiberio. Ciò non accadde. Neppure le fonti ebraiche Filone Giudeo e Flavio Giuseppe lamentano tale profanazione. La conclusione è, quindi, semplice: i Romani non avevano preso in modo coatto il Tesoro, ma lo avevano ricevuto dal Sommo Sacerdote Caifa, il quale, anche in altre occasioni, dimostrerà di intendersela politicamente con l’illustre funzionario di Roma. 

Il secondo tentativo di far accettare agli Ebrei la presenza di Roma, Pilato lo fece esponendo i clipei virtutis sul Palazzo di Erode, sede del Prefetto. Tali scudi non recavano l’immagine di Tiberio, ma solo la sua “nominatura”: 

Ti. Claudio Neroni, divi Aug. F., Imp.? 
Con.? Trib. Potest.? P.P. 

Anche ciò fu ritenuto un oltraggio dagli Israeliti, i quali ne chiesero l’immediata rimozione e, poiché Pilato non esaudì tale richiesta, gli stessi inviarono un rescritto a Tiberio, il quale ordinò al suo magistrato di togliere i clipei. Pilato obbedì. L’Imperatore non rimosse il Prefetto dalla sua carica, dimostrando chiaramente di aver capito quale era la funzione politica della sua mossa. 

Altra accusa comune diretta al celebre Ponzio è quella di essere stato spietato e sanguinario. A sostegno vengono addotti due passi del Vangelo. Il primo è quello in cui Luca dice: “In quel tempo. alcuni presenti riferivano a Gesù di Galilea, il sangue dei quali Pilato aveva mescolato con il sangue delle vittime sacrificali” 17, volendo dire che le forze legionarie profanarono addirittura il Tempio massacrando i Galilei mentre compivano i loro sacrifici. Ancora il Nardoni18 fa giustamente ed acutamente notare che la voce greca “Thysiòn”, genitivo plurale di “Thysia”, indicando le “vittime da sacrificio”. non fa alcun riferimento al luogo del massacro. Lo stesso evidenzia che. poiché Israele era suddiviso «in tanti maamadoth con il compito di fare i sacrifici nel Tempio, questi quel giorno toccavano ad un maamad galileo. Salivano i rappresentanti del maamad galileo a Gerusalemme ma prima che entrassero nella Città Santa venivano affrontati dalla forza Romana in ricognizione perché allarmata. Romani e “Galilei” si affrontavano; dopo lo scontro, sul terreno “Galilei” uccisi e bestie sgozzate. Il massacro avvenne fuori del Tempio». 

L’altro episodio, riferito da Marco19, parla di una repressione operata dalle forze romane contro “ribelli che avevano commesso assassinii durante una rivolta”. 

Mi sembra che in entrambi i casi non si possa parlare di “sete di sangue” del “prefetto”, ma semplicemente di due azioni di polizia tese a preservare l’ordine pubblico. compito questo che. come si è già detto. era fondamentale per il Prefetto e per tutti i magistrati e governatori di Roma. 

Oltre agli eventi citati, se si fa eccezione per l’esecuzione di Cristo, di cui parleremo ampiamente. non si rilevano altri eventi di spicco in Giudea durante il mandato di Pilato e, sembra, durante il regno di Tiberio, che fu un periodo di quies, come sostiene l’insigne storico Tacito20. 

Prima di affrontare la difficile analisi delle vicende di Cristo, è opportuno ricordare che, al tempo di Pilato, vigeva la Magna Charta Libertatum, che Cesare aveva concesso agli Israeliti, come riconoscimento dei validi aiuti ricevuti durante il Bellum Alexandrinum, grazie ai quali era riuscito a vanificare gli attacchi di AchUla, il generale di Tolomeo XIII, fratello di Cleopatra Filopàtore21. La Magna Charta riconosceva agli Israeliti il diritto di professare liberamente la loro religione sia nella Madrepatria che nella diaspora, nonché il diritto di giudicare ed eventualmente di condannare a morte (pena che le legioni avevano l’obbligo di eseguire), coloro che fossero risultati rei e condannati a tale pena dal Grande Sinedrio; il Bet Din haGadol. La forza romana e quella giudaica avevano, quindi, una chiara, rigida sfera d’azione entro la quale agire: l’una giudicare secondo lo ius romano, l’altra secondo la Torah, la Legge dei Padri. 

Quando mancavano pochi giorni alla Pesach, la Pasqua degli Ebrei, Gesù fu arrestato da una forza “combinata” di guardie del Tempio e di legionari dell'”Antonia” (n.d.r.: la torre Antonia, la Baris, fungeva anche da carcere locale), in presenza dell’ “accusatore”, Giuda22, che, come si sa, non poteva mancare, dal momento che la legge e la prassi romana non accettavano le denunzie anonime, segno di tirannia e corruzione23. Poiché Cristo non aveva commesso reati contro Roma, l’impiego di una forza “combinata” è giustificato dal tentativo di Pilato di mantenere l’ordine nella città di Gerusalemme in un periodo particolare, quello della Pasqua, in cui confluivano nella Città Santa, fedeli da tutte le comunità ebraiche, locali e non. La prova di ciò sta nel fatto che il Cristo fu condotto in giudizio dinanzi ad Anna24, suocero di Caifa e capo del Bet Din (Piccolo Sinedrio), e non dinanzi al magistrato romano. Inoltre, il fatto che Gesù non fu lapidato, come accadeva di solito in presenza di un sacrilego (perché tale era l’accusa contro Gesù, tacciato di essere un “bestemmiatore del nome di Dio e un nemico del Tempio” per essersi proclamato Rex Judaeorum e la lunga durata nella carica di Sommo Sacerdote di Caifa durante la Prefettura di Pilato, testimoniano una tacita intesa tra il Sacerdote e il Prefetto. Dopo la condanna del Bet Din, Gesù fu condotto, per un giudizio scontato, dinanzi a Caifa, Sommo Sacerdote in carica e capo del Bet Din haGadol25. Condannato, fu condotto da Pilato26, perché il Prefetto, nelle cui mani era lo ius gladii, procedesse all’esecuzione. Sappiamo, infatti, che i due Sinedri avevano la capacità giuridica di arrestare, processare e condannare chi si macchiava di colpa religiosa, ma non quella di eseguire la sentenza. Sappiamo anche che nessuna delle due parti, ebrea e romana, avrebbe tollerato che l’altra ne usurpasse le competenze. Il Sommo Sacerdote e i suoi complici sapevano che il Sinedrio, non avendo potere politico, non poteva pronunciare condanne su chi era accusato di aver commesso un reato politico. Sapevano anche che sarebbe stato perfettamente inutile portare Gesù dinanzi a Pilato accusandolo di colpa religiosa, perché lo stesso, senza infrangere le rispettive sfere di azione, li avrebbe liquidati dichiarando che l’accusa non era di sua competenza, Era indispensabile che Gesù venisse riconosciuto colpevole di reati politici, perché Pilato fosse costretto ad agire. Per queste ragioni, Gesù fu condotto dal Prefetto sotto l’accusa di essere un malefactor27. Dopo l’interrogatorio, Pilato proclamava l’innocenza di Gesù davanti a Roma con la frase: Ego nullam invenio in Eo causam. Il Prefetto, dichiarato Gesù innocente verso Roma. credendo di poter chiudere l’affare, chiedeva se poteva rimettere il libertà Gesù: “Re dei Giudei”.28 La risposta del popolo fu: Non Hunc, sed Barabbam/29. “Non Lui, ma Barabba!”. 

Come rileva giustamente il Nardoni30. •Giovanni non parla di un aut-aut posto dal Prefetto alla folla: Gesù o Barabba: Giovanni non dice neppure che Pilato abbia liberato quel latrò di Barabba: Giovanni dice il vero e si deve credere a Giovanni se Pilato non poteva mettere sui piatti della stessa bilancia l'”Innocente” verso Roma e il latro sicarius- (“terrorista”) nemico dell’Urbe; “Barabba era stato arrestato dagli uomini dell’Antonia-, Gesù, invece, “dagli uomini del Tempio e dai legionari dell’Antonia; Pilato non avrebbe potuto giustificare agli occhi di Tiberio la liberazione di un sicarius e la condanna di Gesù. Pilato non desisteva dal tentativo di rimettere in libertà l’accusato, perché è dovere del giudice -liberare gli innocenti e punire i colpevoli-o Anche la flagellatio, a cui fu sottoposto il Cristo, fu un ultimo tentativo di dimostrarne l’innocenza. Pilato, mostrando l’uomo inerme al popolo, gridava, Ecce Homa31, ripetendo per altre due volte: Ego non invento in Eo causam32. 

Pilato con quel brachicologico: Ecce Homo! voleva significare ai Giudei che Gesù di Nazareth non era un Rex, se lo era mai stato, se la flagellazione ne aveva dimostrato l’innocenza nell’inesistenza delle pretese regali. 

Gesù dichiarato “Uomo”, cadeva l’accusa politica presentata dal Tempio e, caduta l’accusa, Pilato poteva procedere a liberarlo: Ponzio tentava di rimetterlo in libertà ma non ci riusciva: la legge non gli dava questa facoltà. Caduta l’accusa politica, restava l’accusa religiosa che, restando in piedi con la condanna che ne derivava33, costringeva Pilato a procedere all’esecuzione. La “Legge” dai Romani era rispettata in modo assoluto anche se essi sapevano che: Summa Lex summa iniuria34. Inoltre, in risposta alla ennesima richiesta rivolta al popolo e tesa alla liberazione di Gesù, a Pilato furono ironicamente ricordati i suoi obblighi di rispettare la Magna Charta Libertatum, alla domanda: “Crocifiggerò il vostro Re?”, il popolo rispondeva: “Solo Cesare è nostro Re”’. È chiaro che, dato l’odio nutrito dagli Ebrei nei riguardi dei Romani, considerati infedeli al punto che gli stessi Ebrei facevano lunghe abluzioni purificatorie anche dopo aver solo toccato un Romano, non si può che dare alla frase il significato di: “Ricorda ciò che Cesare ci ha concesso e che tu devi rispettare!”. Pilato infatti, sapeva che se avesse violato la Legge, il Sinedrio, che ne aveva facoltà, lo avrebbe fatto rilevare al governatore della Siria e allo stesso Imperatore con rapporti e legazioni. La punizione da Roma sarebbe giunta implacabile: reprimenda, rimozione dalla carica. processo e, forse. il perentorio codicillo seca venas! Pilato non aveva scelta e, anche se cosciente di commettere una grave ingiustizia, da buon magistrato. applicò la legge attirando su di sé l’enorme quantità di critiche e damnationes, che gli sono piovute addosso nel corso dei secoli. Ciò nonostante, fino al momento in cui i calones non inchiodarono il Messia alla croce, egli ebbe grande rispetto per la persona del Cristo, sia dal punto di vista umano che da quello giuridico. Egli non lo fece flagellare per la seconda volta, come si faceva di solito con i colpevoli politicamente, non lo fece maltrattare durante la Via Crucis, gli consentì di avere un titulus con la nominatura completa sulla croce (JESUS NAZARENUS REX JUDAEORUM). cosa che non era concessa ai peregrini. Ciò prova che Cristo, non colpevole verso Roma, godeva ancora dello jus civitatis, e Pilato lo fece rispettare sino alla fine, facendolo crocifiggere da Romano e non da straniero da quel buon magistrato e amministratore della Lex Romana quale era, nonostante le accuse rivoltegli. A riprova di ciò è il fatto che Tiberio non censurò le sue decisioni. Pilato, infatti, rimase in carica per altri tre anni e fu destituito solo quando commise l’errore di attaccare i Samaritani, alleati dei Romani (e nemici giurati dei Giudei) a Tirathana, forse con l’intento di procurarsi simpatie tra gli Israeliti. Da Samaria partiva legazione al Governatore della Siria, Vitellio, il quale riconobbe che Pilato aveva attaccato un popolo amico senza nessuna valida giustificazione e, depostolo dall’incarico, lo inviò a Roma affinché fosse sottoposto al giudizio dell’Imperatore. 

Ma, -navigando da Cesarea verso Ostia e Roma, Ponzio Pilato si perdeva dalla storia35. ed entrava nella leggenda. 

Adolfo Panarello 

1. Cfr. A. DE GRASSI, Scritti vari d’Antichità, Venezia, 1967, vol. III, p. 268.
2. D. NARDONI, Sotto Ponzio Pilato, Roma 1987, p. 10. 
3. Cfr. M.J. OLLIVlER, Ponce Pilate et /es Pontii, in RB 5 1986, pp. 247-254; pp. 594-600. 
4. Cfr. D. NARDONI. op. cit., p. 15, nota 16. 
5. Cfr. AG.H. NIEUPOORT, Rittum apud Romanos explicatio, Venezia 1749, Sect. V, Cap. II, § 2 p. 357: Optima quoque praemia capiebat et pro equite erat. 
6. Cfr. D. NARDONI, op. cit., p. 18. 
7. D. NARDONI, op. cit., p. 28, nota 34: “Imperium: “atto concreto di parificazione”, “Pàrime”, “Oleichgeltungsreich”, “Ausgleichungsreich” ancor prima che “comando”, “impero”. Nel Sermo rusticus: parlata dei campi, dal quale tutti gli altri sermones derivavano le espressioni: imperare vitibus, imperare arvis indicavano l’attività del “potatore” nella vigna e dell’ “aratore” nei campi; nello stesso sermo rusticus, la voce imperator indicava il “potatore” nella vigna e l’ “aratore” nei campi; la voce imperium: “attività parificatrice” indicava l’attività del “potatore” nella vigna e dell’ “aratore” nei campi. 
8. Cfr. VERG., Aen, I, 279. 
9. VERG., Aen, VI, 851. 
10. VERG., Aen, I, 852. 
11. VERG., Aen, I, 853. 
12. VERG., Aen, I. 853.
13. Cfr. D. NARDONI, Op. cit, p. 37. 
14. Cfr. D. NARDONI, Op. cit., p. 115. 
15. VERG., Aen, I, 574. 
16. Cfr. D. NARDONI. Op. cit., p. 119.
17. LUC. XIII. 1. 
18. Cfr. D. NARDONI. Op. cit., p. 125-126. 
19. Cfr. MARC. XV. 7. 
20. Cfr. TAC., Hist. • 9: Sub Tiberio quies.
21. Cfr. R NEHER-BERNHEIM, Le Judaisme dans le moncle romaine, Parigi 1959, p. 27: “César, lors de son expedition d’Egypte…trouve une aide appréciable auprés des Judeéns, dont il se fait dés lors le protecteur, il autorisa notamment la reconstruction des murs de Jerusalem”; JOS. FLAV., Ant. Jud. XlV, 8. 
22. Cfr. JO. XlIX, 3; MAITH. XXVI, 47; MARC. XlV, 43; LUC. XXI, 47: Judas ergo cum acceppiset cohortem et a Pont!ficibus et Phariseis ministros venit Uluc cum latemis et Jacibus et armis. 
23. Cfr. PLIN. JUN., Paneg. Traiani: Vidimus delatorum indicium quasi grassatorum, quasi latronum Non solitudinem illi, non iter, sed templum, sed forum insederant. Nullajam testamenta secura, nullus status certus, non orbitas, non libri proderant. Auxerat hoc malum principum avaritia. 
24. Cfr. JO. XlIX, 13; MAITH. XXVI, 57; MARC. XlIII. 53; LUC. XXII, 34:Et adduxerunt Eum ad Annam. 
25. Cfr. JO. XlIX, 24: Et misit Eum Annas ligatum ad Caipham Pontificem. 
26. Cfr. JO. XlIX, 28; MATTH. XXVII, 2; MARC. XV, l; LUC. XXIII, 2: Adducunt ergo Jesum a Caipha in praetorium.
27. Cfr. JO. XlIX, 30; MATTH. XXVII, 12; MARC. XlV, 3; LUC. XXII, 3: Responderunt et dixerunt ei: si non esset malefactor, non tibi tradidissemus Eum. 
28. Cfr. D. NARDONI, Op. cit., p. 160. 
29. Cfr. JO. XlIX, 40; MATIH. XXVII, 17; MARC. XV, 11; LUC. XXIII, 18. 
30. D. NARDONI, Op. cit., p. 160-161. 
31. Cfr. JO. XIX, 5. 
32. Cfr. JO. XlIX, 38; XlX, 4; XIX, 6; LUC. XXIII, 4; XXIII, 14; XXIII, 22. 
33. D. NARDONI, Op. cit., p. 165. 
34. Ivi, p. 165. 
35. Ivi, p. 132.

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 20-30.