Rinnovamento e continuità nella poetica  architettonica siciliana dal 1930 al 1950 

Gli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale furono, per l’attività edilizia, anni di antinomia. Si ricercava, infatti, un equilibrio tra la necessità di operare e l’istanza di approntare un disegno organico di ciò che si dovesse fare. Le scelte operate in quegli anni affondano le proprie radici nel clima culturale che si era formato durante il ventennio fascista. In Italia, tra il ’20 e il ’30 si assiste ad una scarsità di contatti con l’Europa, accentuata dal protezionismo culturale del regime (che, in economia, doveva portare all’autarchia). Pochi, prima di Edoardo Persico, si erano resi conto di quello che succedeva nelle aree d’oltralpe. Questo clima è reso manifesto dalle sorprendenti parole con cui Marcello Piacentini descrive la situazione tedesca: «In Germania non si palesa ancora un carattere dominante e preciso: ancora perduta, in mezzo a grandi incertezze, la lotta tra la linea orizzontale e verticale»1. È soprattutto a partire dagli anni trenta che 1’Italia mostra notevole attenzione verso le nuove espressioni artistiche provenienti dal resto d’Europa. Le istanze di cambiamento, avanzate da più parti del nostro paese e caldeggiate in un primo momento anche dal regime, sembra possano coniugarsi alle novità in ambito architettonico promosse dal razionalismo; questo non risparmierà, tuttavia, di Raimondo Piazza l’accendersi di un dibattito tra i sostenitori del «tradizionalismo», inteso come la via più breve verso la soluzione dei problemi, e i promotori «dell’internazionalismo architettonico», secondo la definizione di Giuseppe Samonà2, che auspicheranno una concreta rivoluzione del linguaggio architettonico, nei metodi d’insegnamento e nell’ambito professionale. Entrambe le posizioni si pongono «come interpreti della modernità e fautrici di un ordine nuovo»3. 

L’accentuarsi delle posizioni conservatrici della dittatura e il conseguente intensificarsi del sentimento nazionalista, spinge comunque gli architetti verso la creazione di uno stile nazionale, fondato sulla riscoperta dell’architettura classica, ricco di toni celebrativi del potere del duce, scenografico e monumentale. L’imperativo del «ritorno all’ordine », contro l’eclettismo che aveva caratterizzato l’architettura del passato, in Sicilia si identifica con il superamento delle esperienze precedenti. 

Qui, come scrive Ettore Sessa, «l’ideale astratto di classicità assume quei connotati di “razionalità mediterranea” che, pur nelle dicotomiche valenze italico- monumentali [ … ] e italico-vernacolari […] ne assicurano l’appartenenza a quella “terza via dell’ architettura contemporanea” comune a Francesco Fichera e nella quale rientrano, fra le altre tendenze, il “classicismo moderno” scandinavo e il panslavismo architettonico di Kotera a Plecnick»4. 

Forse il maggiore esponente palermitano della nuova poetica architettonica è Salvatore Caronia Roberti, la cui sede del Banco di Sicilia a Palermo (1932-1938) ne è certamente l’esempio più paradigmatico. 

Lo scoppio della guerra frena com’è naturale, il maturare di una coscienza architettonica. Con la liberazione dell’ Italia, l’impegno maggiore cui vengono chiamate le forze della cultura riguarda non solo la ricostruzione materiale dell’isola, ma si rivolge anche ad una sorta di rieducazione delle masse affinché prendano coscienza del ruolo di cittadini della nuova Italia democratica: nuovi slogan predicavano un progressivo sviluppo culturale capace di mutare quelle condizioni esasperate che fino ad allora avevano favorito il fiorire del degrado. Anche gli architetti sono chiamati a svolgere il loro lavoro con un mutato spirito: dovranno farsi interpreti del cambiamento con le loro opere e sperimentare nuovi schemi funzionali, adatti a soddisfare le urgenze provocate dalle distruzioni della guerra. 

Per quanto riguarda l’edilizia residenziale, le prime costruzioni sono realizzate principalmente grazie ai finanziamenti del «Piano incremento occupazione operaia», attuato dalla legge Fanfani. Queste realizzazioni, in genere, sono improntate all’applicazione dei canoni del Razionalismo e attingono dalle esperienze degli anni venti, portate avanti dal Movimento Moderno nei «quartieri manifesto» tedeschi. Nel recupero, comunque, di quell’ eclettismo ereditato dall’Ottocento, ma avvilito dal progetto di unità stilistica nazionale messo a punto dal fascismo, vengono ripresi elementi tratti dalla tradizione costruttiva mediterranea, che contrassegnano molti quartieri abitativi. 

Dopo il conflitto, infatti, l’architettura cerca di rigenerarsi attraverso la storia che la letteratura ufficiale aveva ignorato, cioè rileggendo le manifestazioni spontanee dei luoghi. L’interesse per queste opere, per le tecniche costruttive tradizionali, che coinvolge progettisti come Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi, Giuseppe Samonà e molti altri, rivela la volontà morale di instaurare un discorso con la realtà semplice della vita quotidiana. È soprattutto nell’abitazione che verranno alla luce i primi frutti di questo rinnovato rapporto con la storia5. Abbandonata l’immagine della città-giardino degli anni venti, si tenta di ricreare l’unità e la ricchezza d’immagine dei centri storici, recuperando forme tradizionali di scale esterne, ritmi di finestre, deviazioni che disegnano strade non rettilinee, slarghi e piazze6. In qualche modo si cerca così di fondere schemi razionalisti ed elementi caratterizzanti della cultura vernacolare. 

In un clima culturale che non manca di evidenziare incertezze, come denota lo stesso bando di concorso per la creazione della nuova via del Porto a Palermo (1949), si può identificare nel progetto dell’Istituto tecnico nautico di Palermo (1948) di Giuseppe Spatrisano (con V. Ziino, A. Bonafede, P. Gagliardo), la prima opera dove si approfondisce il metodo progettuale sostenuto dal Movimento Moderno, che comporta l’abbandono dei localismi. 

Il nuovo Istituto doveva inserirsi in un’area particolarmente delicata in quanto densa di emergenze architettoniche e fomentatrice di relazioni spaziali complesse. Come scrive Edoardo Caracciolo nel 1950, «la sistemazione verso il mare risolve egregiamente la funzione di cerniera. La rigida massa parallelepipeda nella quale è incastonata la vecchia loggia dell’ospedale continua la “parete” formata dai palazzi sulle mura, dal De Seta al Trabia, e la conclude. Il tumulto di superfici, più che di masse, verso la cala, stacca nettamente la composizione aulica precedente e preannunzia i volumi frammentari estendentisi lungo l’ansa del vecchio porto»7. 

Edoardo Caracciolo mette in evidenza, inoltre, uno dei caratteri progettuali moderni dell’istituto, ovvero la scomposizione dell’edificio in «masse diverse a seconda delle esigenze funzionali interne»8. 

Il linguaggio aggiornato e sensibile dell’ Istituto nautico, sostiene Gianni Pirrone, «sembrava dovesse dare il via ad un nuovo corso dell’architettura palermitana»9. 

Il progetto, il cui nitore cristallino ricorda le opere dei milanesi Mario Asnago e Claudio Vender, viene però mutato in corso d’opera, forse per motivi economici, mortificando lo spirito dell’idea originaria ed evidenziandone, in definitiva, i difetti. Pur con le sue deviazioni dall’idea originaria, tuttavia, l’opera può essere considerata il primo tentativo cosciente di un’ interpretazione antiletteraria dell’architettura, forse il modo più corretto di inserimento in un luogo così delicato, analogamente alla stazione ferroviaria Michelucci, costruita a Firenze dietro le absidi di Santa Maria Novella. 

Creare un’ architettura per l’ uomo, fruitore dell’ opera dell’ architetto, è il motto che impera fra la maggior parte degli architetti italiani già all’indomani della guerra. Un imperativo che punta alla democratizzazione dell’ architettura e che proviene da lidi lontani, come l’America e la Finlandia. Le nuove vie dell’architettura indicate da maestri come Wright o Aalto hanno larga eco nell’Italia postbellica, promosse da Bruno Zevi con la fondazione dell’ Apao. 

In Sicilia, l’adesione al movimento fondato da Zevi, viene accolta come un momento d’ incontro e di collegamento con le vicende che si svolgevano altre lo Stretto; a Palermo nel 1949 si tiene una riunione dell’ Apao, alla quale partecipano i nomi di spicco dell’architettura locale. Qui la lezione organica viene assimilata e rivisitata alla luce di quella atavica tendenza conservatrice, che opta per una rilettura dei nuovi canoni lessicali e per un loro accostamento ad elementi tipici dell’ architettura mediterranea. Si può dunque parlare di un’esperienza che acquisisce toni originali in quanto si lega alla riscoperta del concetto di sicilianità. Il confronto tra l’Istituto tecnico nautico, del 1948, e il posto di ristoro sul Monte Pellegrino, del 1954, dello stesso architetto, evidenzia chiaramente la mutata concezione architettonica. 

Tuttavia l’idea di dover fare (o di non dover fare) un’architettura organica, che si contrappone a quella definita razionalista, porta con sé anche aspetti piuttosto negativi, poiché abitua a pensare la tradizione moderna in termini indebitamente ristretti. Infatti, il dibattito si sposta inavvertitamente sui vecchi temi culturali e la storia dell’ architettura moderna appare allineata con quella dell’architettura antica come una successione di indirizzi formali, che si soppiantano tra loro all’infinito 10. 

La vastità degli stimoli formali, sia essi riferiti all’ architettura internazionale, sia riferiti a quella mediterranea, porta, in antitesi con le istanze iniziali, a trattare ogni tema più come occasione isolata che come proposta per il rinnovamento organico della città. Si apre così una nuova strada, che è quella della ricerca della perfezione qualitativa della singola opera o del singolo complesso. 

La momentanea conciliazione di tradizione e modernità mostra, a distanza di tempo, che solo una parte di questa attività vale come contributo alla soluzione di alcuni problemi della città moderna – la museografia11, l’ambientamento di nuovi edifici nei quartieri antichi monumentali, la ricerca di una identità regionale -, mentre alcune limitazioni implicite hanno pesato negativamente sulle esperienze successive in misura notevole. Tra queste, l’ abitudine di trasferire l’esigenza della continuità storica sul terreno formale e spaziale e soprattutto la difficoltà di affrontare sopra una determinata scala i problemi che condizionano sempre più urgentemente la vita della città moderna, quindi la mancata continuità tra l’impegno architettonico e urbanistico. Questa diviene il punto cruciale della cultura architettonica, non solo siciliana, che mostra i propri esiti nella scarsa vivibilità di molte città italiane. 

Raimondo Piazza

NOTE 

1 M. Piacentini, Architettura doggi, Roma 1930, p. 34. 
2 M. C. Ruggieri Tricoli, Salvatore Caronia Roberti architetto, Palermo 1987, p. Il. 
3 M. Capobianco. Gli anni quaranta. “La via più dura» dellarchitettura italiana, in M. Capobianco (a cura di ), Architettura italiana 1940·1959, Napoli 1998, pp. 61·145, cit. p. 70. 
4 E. Sessa, Salvatore Caronia Roberti. Opere e poetica, Dipartimento di Storia e Progetto dell’Università degli Studi di Palermo, «Bollettino della Biblioteca», n. 2, gennaio-dicembre 1993, pp. 130·133, cit. p. 131. 
5 Cfr. C. Conforti, Roma, Napoli, Sicilia, in F. Dal Co (a cura di), Storia dell’architettura italiana, il secondo Novecento, Milano 1997, pp.176-241, cit. pp. 178-179. 
6 V. Fontana, Profilo dell’architettura italiana del Novecento, Venezia 1999, p. 219. 
7 E. Caracciolo, il teatro marittimo di Palermo, «Urbanistica», n. 3, gennaio-marzo 1950, pp. 75-77, cit. p. 77. 
8 Ibidem. 
9 G. Pirrone, scheda «Istituto tecnico nautico», in Architettura del XX secolo in Italia, Genova 1971, pp. 122· 123, cit. p. 122. 
10 Si veda a tal proposito: B. Zevi, Saper vedere larchitettura, Torino 1948. 
11 Si veda, per esempio, la sistemazione museale di palazzo Abatellis a Galleria nazionale di Sicilia, realizzata a Palermo da Carlo Scarpa negli anni 1953-54.

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 22-26.

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