Sàito narratore 

Sono passati più di trenta anni da quando lessi per la prima volta e scoprii Nello Sàito narratore. L’occasione mi fu data dall’attribuzione dei premi Viareggio 1970. Quell’anno vennero premiati Pietro Citati per la saggistica, Nelo Risi per la poesia e Nello Sàito per la narrativa. Una triade che apparve fin d’allora ben scelta, accomunata com’era, non tanto dal bisogno di dire quanto di contribuire con la scrittura a migliorare la società. 

Nello Sàito, che con Dentro e fuori era al suo terzo romanzo, aveva già evidenziato questa sua attitudine in Maria e i soldati (1948) e ne Gli avventurosi siciliani (1955), e così continuerà negli scritti che seguirono, nella narrativa, nel teatro e in quelli di letteratura o di altro, perché Sàito è un agguerrito germanista oltre che un giornalista che sa il fatto suo. 

Da buon siciliano qual è (il padre di Licata, in provincia di Agrigento, si era trasferito con la famigliola a Roma per motivi di lavoro), senza niente elemosinare, s’è fatto strada da solo, giorno dopo giorno, fidando nella sua caparbietà e nell’intelligenza, in anni del secondo dopoguerra quando era facile aggrapparsi al primo carrozzone e ottenere vantaggi. Caparbio, Sàito, nella sua coerenza d’uomo e di scrittore, anticonformista che di primo acchito può sembrare reazionario, anarchico, mentre invece è animato da sincere convinzioni e da un bisogno forte di andare contro il malcostume dilagante e le opinioni comuni che fossilizzano e rendono incapaci di agire positivamente e per il bene della collettività. 

È un discorso, questo, che va contro il tornaconto e che dovrebbe caratterizzare spesso l’operato di quanti sono chiamati a venire incontro alla gente ed invece, incuranti dei danni che arrecano, a tutto pensano fuorché a se stessi, eludendo per i più i bisogni elementari che poi sono sacrosanti diritti. Un esempio? Nel momento in cui si parla di ponte sullo Stretto, a che serve un ponte se nell’isola mancano le infrastrutture da garantire un vivere sociale più umano? Mentre tanti rimangono indifferenti, come se la cosa non interessasse, Sàito è una voce ferma nel panorama dell’ intellettuali tà siciliana che da subito si è alzata contro questo progetto mostruoso, fatto cadere come una spada di Dàmocle sulla testa di tutti senza interpellare nessuno, come se il popolo non esistesse e come se tutto fosse rose e fiori, dimentichi della gente che li vive, delle conseguenze che esso può avere sull’ambiente, in un punto geografico da sempre ballerino. 

La Sicilia ha bisogno di ben altro per concretare le sue possibilità, non di un ponte; come nel passato, essa deve ritornare ad essere ponte tra le genti, per la sua produttività, per la cultura, per i suoi uomini migliori che questo vogliono. Essa è già un ponte, così com’ è un centro; abbisogna solo delle condizioni per realizzarsi veramente, e basta con la deleteria pubblicità che la oscura nella sua immagine vera e nell’umanità che è nella sua gente! Ma dove sono i tanti altri a far da coro a questa voce? 

La sicilianità di Nello Sàito non è nel clamore, non nei colpi di testa e, tanto meno, nella Sicilia a cui non pochi scrittori hanno abituato a guardare, piuttosto pronti a cogliere consensi che a darne un’immagine veritiera. Egli ama la Sicilia e se la porta nel cuore con l’orgoglio del siciliano attaccato alla terra che gli è propria. Perciò ne parla col massimo rispetto, nel timore di poterla in qualche 

modo appannare, e ne evidenzia pregi e difetti, come è bene che sia. Sicché, tratti della Sicilia o dei Siciliani, è sempre pronto a cogliere il positivo e a sposare la causa giusta. Perché, a differenza di Sciascia, di Camilleri o dei tanti loro epigoni, Nello Sàito scrittore esalta la vita, gli uomini e i paesaggi, non la mafiosità e il male, dovunque imperanti (non solo in Sicilia) che distolgono dalla realtà e danno un’ immagine negativa. 

Il siciliano di Sàito (si tengano presenti Mauro di Maria e i soldati o Enrico di Una voce, tanto per citarne alcuni) non è mafioso, bensì uomo ricco di sensibilità, capace di agire e di reagire anche bellamente, e di uscire da situazioni incresciose con dignità, quasi col sorriso sulle labbra. Così anche il lettore è portato ad amare la Sicilia e la vuole conoscere per come è, con i problemi che la travagli ano e le caratteristiche proprie della sua gente, in particolare una che, come scrive H. Koenigsberger, tra tutte le è preminente: la sua umanità1. 

Maria e i soldati, pubblicato nel 1948, vincitore del Premio Vendemmia nello stesso anno, venne ripresentato al pubblico dei lettori nel 1970, conservando intatto quel clima di tensioni e di speranze che fu proprio di quanti vissero la guerra e la resistenza. Tanti scrittori riportarono sulla pagina la loro esperienza di uomini e di partigiani, spinti – come rilevava fin da allora Arnoldo Bocelli – «dall’urgere stesso di quella realtà, della sostanza umana e sanguigna di quella cronaca», altri preferirono tradurre quelle tensioni per vederci chiaro e «risalire dalla irrazionalità di un mondo di sensazione alla razionalità del pensiero, della coscienza2». Tra questi ultimi è il romanzo Maria e i soldati, salutato con i migliori auspici dai critici del tempo (Pancrazi, De Robertis, Gallo, Bocelli e tanti altri). Qui il fatto cede il posto allo studio psicologico del momento, incerto e per questo non meno ricco di risvolti che fanno dello scrittore, ancora alla sua prima opera di narrativa, uno tra i più promettenti e validi della nostra letteratura. 

Il pregio del romanzo, la sua originalità, sta proprio qui, nel trascurare volutamente gli accadimenti per dare più importanza ai soggetti (e alle loro reazioni) che quelle esperienze vivono, ciascuno secondo la sua sensibilità. Ormai siamo negli anni in cui il neorealismo cominciava ad uscire da un modo esasperato e soggettivo di intendere la realtà e la vita per dare inizio alla riflessione e passare così da una esteriorità rumorosa ad una consapevolezza che nella coscienza del singolo trova la sua immediata ragione3. 

Maria e i soldati (4), per questo, è un romanzo corale, nel senso che (popolazione, soldati, militi, partigiani) tutti concorrono a creare un’atmosfera di attesa dovuta all’incognita del domani, all’evolversi della situazione che sempre più diventa incandescente, mentre il paese è diviso e combattuto nel fisico e nella morale. E se prima questa situazione era maggiormente sentita tra quanti erano vicini al potere o in esso coinvolti e nei luoghi più direttamente interessati, ora (siamo intorno al 1944) vivono in stato di agitazione anche quelli che si erano ritenuti al sicuro e fuori di ogni pericolo. 

Il racconto è incentrato su un distaccamento di soldati che nei magazzini della Sussistenza di una non ben precisata località del Centro Italia, a pochi chilometri dalla borgata di Santa Fiora, lavora ai forni e fornisce di pane e di viveri la zona militare di sua competenza. Tutto tranquillo, fin quando non si verificarono le prime avvisaglie di incursioni aeree alleate, ma soprattutto fin quando ai magazzini non arrivarono i militi con l’ordine di tenere la situazione sotto controllo. C’era un sottile malessere tra i soldati, specie da quando le azioni dei partigiani cominciarono a coinvolgerli direttamente, e il comandante aveva pensato bene di chiedere rinforzi. Anche perché un giorno o l’altro potevano essere attaccati, cosa che alla fine del romanzo è già decisa e data per scontata. 

Su questo, poca cosa per la verità, ma sufficiente a creare lo stato d’animo particolare che è di guerra, Sàito tesse con sapiente regìa il suo discorso che traduce l’ambiguità, le diffidenze, ma anche la generosità che nonostante tutto ha terreno fertile pure in momenti così tristi, e poi le speranze con i dovuti ripensamenti, la dedizione alla causa. In poche parole, lo scrittore ritrae bene lo stato d’animo delle parti in guerra senza cadere negli eccessi di una retorica che è consueta in opere del genere. 

Tutta la notte Remo stette ad occhi aperti. Cercava una via d’uscita a quella situazione e non la trovava. Egli non credeva ai miracoli: calcolava, non fantasticava più, e se si fosse potuto vedere al buio, in un pezzetto di specchio, quell’ombra infantile che nel momenti di rilassamento affiorava istintiva e trasparente sul suo viso, era stata definitivamente vinta (p. 115). 

La monotonia dei magazzini rotta a poco a poco dalle imboscate ai camion, dall’arrivo dei militi, cede il posto ad un disagio interiore che pesa come una cappa sulla testa di tutti, sui soldati come sulla gente, e ciascuno lo vive a modo suo. Tutti risentono di quel clima di tensione senza sapere bene perché, disorientati, successivamente, solo dopo l’arrivo dei militi, consapevoli di doverli contrastare. La guerra che altrove opera una netta scissione tra nemici, qui è come se non avesse luogo, eppure logora gli animi e rende sospettosi. 

A risentire di questo, Remo è l’ esempio più lampante e più studiato, controfigura di Maria che, a prima vista, può sembrare ambigua, ed invece recita bene la sua parte per legare gli altri alla causa di quanti lottano per uscire dalla guerra. Questa apparente ambiguità si dipanerà alla fine, quando si offre per facilitare l’assalto ai magazzini. Sicché Maria si rivela nella sua luce più vera che va al di là dei sentimenti, e sacrifica tutto, persino se stessa, senza niente chiedere, senza niente dire; sa solo di rendersi utile e per questo aspetta nella dedizione totale il sacrificio. 

Maria è determinata, come Andrea, il capo partigiano, come Bianchetti, il soldato passato con loro insieme a Remo, che, però, non riesce a darsi interamente alla causa, a sentirla con dedizione come gli altri, perché si fa prendere dal sentimento ed è dibattuto dal pensiero di lei che «gli si era infiltrata in corpo lasciandogli come un veleno imprecisabile e vago, che tutti gli avvenimenti posteriori non erano riusciti a spremere dalle sue vene» e dei compagni relegati ai magazzini, dal desiderio di vederli liberi e dal bisogno di amare. Remo è un ostinato, non vuol rendersi conto che in guerra c’è poco posto per i sentimenti. Maria soffre ma non si tradisce, riesce ad essere forte, a far prevalere un’ anima, ed è solo all’ultimo compresa da Remo, quando già le cose precipitano e non c’è tempo per i ripensamenti. 

Maria e i soldati è un romanzo d’amore sofferto, dove l’uomo fatica a vivere la sua umanità con i sentimenti più puri per il trascinarsi di una guerra fratricida che snerva e disorienta, e risulta piacevole sia per i fili sottesi del discorso ‘ narrativo che è pure avvincente, sia per il linguaggio calato nella realtà dei personaggi che non sono nelle condizioni di sfoggiare chissà cosa ma di esporre e di esporsi nella crudezza del momento. Nonostante il disagio che è dovunque, essi sono ben delineati e formano il variegato mondo che vive quel definito periodo. Anche l’aria che essi respirano in quel fazzoletto di terra è la stessa di tante altre parti, e vi prende corpo l’attesa, pur nel precipitare discontinuo di avvenimenti che dicono la gravità delle circostanze: la reazione di Mauro e la sua conseguente uccisione da parte dei militi (e la rabbia rattenuta dei compagni), il malumore e la chiusura della popolazione. E ci sono anche i partigiani che fanno proseliti e incrementano la loro azione di disturbo, il furto della mitragliatrice, la corsa di Bianchetti e il suo incontro con Remo nella casa di Maria … 

Nello Sàito già in questo primo romanzo rivela le sue doti di scrittore inconsueto. Intanto, dimostra di conoscere bene l’uomo e lo sa scrutare senza farsene accorgere, senza far pesare la sua presenza che è pure vigile e sostenuta da una prosa asciutta, senza ricadute o abbellimenti vari, calata nella psicologia dei personaggi, nel loro modo di valutare le cose, nel cercare un perché e nell’agire nel modo più consono . Sicché la scrittura ubbidisce al movimento interno che spesso è concitato, libera espressione del sentire. di tutti. Lo stesso paesaggio è assorbito nella vicenda che i protagonisti vivono, e le descrizioni sono riferite più all’ ambiente che ad altro, un ambiente dove uomini e cose risentono di uno stato di pesantezza e quasi di depressione. 

Arrivarono alla borgata. Remo non era mai stato a Santa Fiora: quattro case strette intorno a una chiesetta dal campanile aguzzo e giallastro. Dalla parte opposta a quella da cui erano entrati, una strada di campagna, ridiscendendo con larghi giri, conduceva nell’inteno della pianura. Sebbene fossero le prime ore del pomeriggio, non c’era quasi nessuno fuori delle case. 

Da una stalla uscì un contadino con una treggia, tirata da due buoi, piena di paglia mista a concime naturale. I buoi, dalle cui narici fumavano nuvole di alito caldo, si guardarono lentamente intorno: e a un grido dell’uomo si fermarono . di mala voglia, in attesa che quello aggiustasse con un forcone la paglia e il concime che minacciavano di cadere fuori della treggia (5). 

Eppure non mancano momenti. di grande tensione. Si veda la pagina che descrive Mauro nell’osteria con i militi e, quella di Bianchetti e Remo che recuperano la mitragliatrice e vanno defilati alla casa di Andrea. E poi Remo che incontra per la prima volta Andrea e il tumulto che quell’incontro gli suscita. Remo osserva, valuta ma a modo suo, con gli occhi del cuore, e non potrà mai rendersi conto, anche se partecipa, della determinazione di quegli uomini, a partire da Giovannino che nel suo silenzio decide ed è ubbidito e, inoltre, non riuscirà a motivare e tanto meno a giustificare l’uccisione di Antonio o di quella del milite. 

Lo scrittore plasma i suoi personaggi come l’artista la materia grezza, e non è facile dimenticarli perché in ciascuno di essi è la vita con le sue luci e le ombre su cui, vuoi o no, siamo chiamati a riflettere. 

Il secondo romanzo, Gli avventurosi siciliani, fu pubblicato nei «Gettoni» Einaudi, diretti da Vittorini, nel 1954, in un momento in cui il realismo cerca nuova linfa per rendere più incisivo l’apporto della letteratura nella società. Sàito, al di là delle tendenze, continua la sua ricerca iniziata con Maria e i soldati nel segno della razionalità che vede l’uomo più orientato ad affermare la sua lindura morale piuttosto che a cadere nelle maglie di un malcostume rapace. Studiato nella struttura, che è già molto, perché l’autore fin dall’inizio sa dove vuole arrivare, il romanzo si svolge, pur nella sua coerenza logico-narrativa, in due momenti (se non in tre, se si considera a sé la sosta palermitana) collegati tra loro, e il tutto in una prosa ormai padrona e libera, in cui persino il paesaggio ha la funzione di contrappunto, partecipando dell’aria che tira e della disposizione 

d’animo dei protagonisti. Al centro di tutto la Sicilia, con l’ amore e l’odio propri di chi vorrebbe che la sua solari età non contrasti con la triste realtà della gente. 

Fulvia, giovane milanese di sangue siciliano, viene mandata dalla madre in Sicilia con la scusa che lo zio Rosario sta male e la vuole vedere, ma con lo scopo di darla in sposa al di lui figlio Ninl, frivolo e vanesio. La prima parte del romanzo è dedicata al viaggio della ragazza da Milano fino a Napoli in treno, e di qui per mare fino a Palermo, dove Fulvia farà una sosta con amici casuali (l’avvocato Pennisi e l’esportatore Petralia) che già dalla partenza l’avevano adocchiata per spirito d’avventura. Si vede subito in opera, in treno come sulla nave o nella sosta a Palermo, l’estrosità dei due, che rasenta la comicità, ed è tutto un tocco di colore che mette in risalto alcuni aspetti dell’ essere siciliani, riconoscendo loro la generosità e la genialità delle trovate, il senso dell’ amicizia e anche la loro cocciutaggine. 

Se fin qui tutto si svolge nel segno di un’esaltante euforia dei protagonisti, l’arrivo a Trapani, da parte di Fulvia e di Petralia che la volle accompagnare, segna il cambio di registro che qui diviene drammatico con punte alte che sfiorano il tragico. Fulvia arriva in un momento particolare per don Rosario Barrancu, lo zio, che è ricco ma è anche uno sfruttatore e abusa dei salinari che lavorano nelle sue saline, grandi come un regno. Basta la morte di uno di loro per scatenare una rivolta e per far capire anche che è un mondo da fuggire, materialmente e soprattutto moralmente. 

Al primo apparire de Gli avventurosi siciliani alcuni critici notarono una minor coerenza alla tematica. G. De Robertis e N. Gallo che avevano salutato positivamente e con i migliori auspici Maria e i soldati, ora rilevano un contrasto tra prima («rumoroso, eccedente») e seconda parte («essenziale»)6, ora la caduta nella «raffigurazione, tra il simbolo e la favola, di una mentalità e di un paese7». 

Com’ è strutturato il romanzo, è facile giungere a siffatte conclusioni, e Sàito lo sapeva bene sin dall’inizio, dal momento in cui si prefisse di trattare della Sicilia da due angolazioni diametralmente opposte: una dall’esterno, ed è la solita retorica campanilistica di chi da lontano, con nostalgia, reclama la sua terra, dando sfogo al sentimento e risolvendo tutto nel mito (i discorsi che l’avvocato Pennisi e l’imprenditore Petralia fanno sul treno, il dirsi e sentirsi siciliani, il loro agire), nel parodistico e nel comico, senza avvedersene. E quando l’avvocato Pennisi afferma: «la Sicilia è un paese avventuroso», dice la verità, perché non ha potuto essere altro, ed è stata sempre bistrattata terra di conquista (basta dire che lo è tuttora), e non si è potuta mai realizzare come avrebbe potuto e dovuto. E la realtà è che la Sicilia è sfuggita di mano ai Siciliani, per cui non resta loro che darsi all’ avventura. 

Sàito, che è nella mente e nel cuore siciliano, ha sperimentato a spese sue questo, e ne soffre, perché sa che a niente valgono i tentativi dei singoli, se non c’è la volontà di cambiare una volta per tutte le cose. Questa intima sofferenza è nella pagina e, al di là delle apparenze, s’intravede in filigrana, grazie ad una scrittura ben dosata e ad una vigile presenza, eppure discreta e mai invasiva. L’altra angolazione riprende la Sicilia dall’interno. Qui non c’è posto per la retorica, tanto meno per i sentimenti, perché tutto è abbrutito dalla misera quotidianità del vivere che non dà scampo alla povera gente costretta a vendersi più che a lavorare dignitosamente. Ed è la Sicilia del sopruso, dove i prepotenti o detengono il potere o fanno lega con quanti lo esercitano. Firdusi, l’uomo di fiducia di don Rosario Barrancu è l’esempio lampante di questa categoria di persone fautrice dello schiavismo moderno. 

Alcuni uomini lavoravano nella prima salina, erano a circa trenta metri da noi. Correvano come animali neri, une dietro l’altro, in su e giù, coi cesti pieni di sale sulle spalle. Salivano sull’argine opposto, scaricavano in fretta il cesto e poi tornavano. [ … ] In basso c’era un uomo con una grande paglia in testa; era seduto sull’argine e ogni tanto gridava perché qualcuno dei salinai rallentava8. 

E c’è Barrancu che dalla sua parte ha la ricchezza ed è tutelato da quella stessa legge che dovrebbe essere garante di giustizia. A che vale la rivolta se viene soffocata dalla consorteria dei poteri? Non resta che evadere. Fulvia, liberatasi dalle grinfie dei Barrancu, prima va ad assistere con i suoi amici ad uno spettacolo dei pupi (che è realizzare con la fantasia ciò che è difficile nella realtà), poi fugge insieme con gli altri per non essere compromessa, per essere libera dai condizionamenti. 

E magari dicevano a tutti Sicilia Sicilia ma in fondo erano contenti di esserne fuggiti; e magari dicevano Palermo […] ma poi fuggivano perché essi non volevano tradire, non volevano essere complici di quell’ambiente dove tutti erano con la loro omertà complici9. 

Si potrebbe a questo punto pensare ad un senso di sfiducia, di delusione diffusa, ma in Nello Sàito non viene mai meno la speranza. C’è più che altro una forte denuncia contro lo Stato latitante che, una volta per tutte, deve mettersi dalla parte della gente e rendere giustizia delle inconc1udenze e dei tanti problemi ultrasecolari irrisolti. 

Dopo una lunga parentesi di anni, Nello Sàito ritorna alla narrativa nel 1970 con Dentro e fuori, pubblicato da Rizzoli. Si nota subito che Sàito narratore punti sulla qualità più che sulla quantità, se consideriamo che al suo primo apparire il romanzo viene salutato con molto entusiasmo dalla critica e dai lettori, è finalista al Premio Strega e, sempre nello stesso anno 1970, vincitore del Premio Viareggio. Lo stacco temporale, comunque, non comporta un affievolirsi dell’ impegno o un allontanamento dalla tematica; essi risultano convalidati, e la stessa scrittura ne esce arricchita, sicura, corroborata da un raziocinio che scava nella realtà del momento, e denuncia un immobilismo cronico, asfittico dei Siciliani, pronti ad accogliere mai a rifiutare, vittime non protagonisti della storia, di quella di ieri e anche di quella di oggi, ma lascia pure intravedere una speranza che è quella di non cadere nella tentazione di mollare tutto ed andare come tanti fanno. 

I migliori non hanno trovato di meglio che fuggire da qui. A me verrebbe invece la voglia di non tornare più su, comprarmi un pezzo di terra e inchiodarmi qui non per isolarmi sdegnosamente come il professore di filosofia o trincerarmi nel pessimismo totale di Guardione: ma per cominciare qualcosa proprio da qui, per risalire la corrente, non per me, io sono ormai morto dentro, ma per gli 

altri 10. 

È l’io narrante che pensa, ma è anche il nerbo del pensiero di Sàito che in questo come in altri suoi scritti spinge alla consapevolezza che vuoI dire fare storia, non subirla, bensì cercare di combattere per uscire dai condizionamenti ultrasecolari che oscurano la Sicilia e non la fanno apprezzare. 

Il titolo la dice lunga: Dentro e fuori, in Sicilia e fuori di essa, guardare dentro ma anche fuori, a confronto continuo con gli altri, sentirsi parte viva di un tutto e non chiudersi nel sordo settarismo, come fanno i professori di cui si parla, innalzando muri di incomprensioni e di chiusura. Allora il romanzo si connota come la continuazione ideale de Gli avventurosi siciliani. In entrambi l’io narrante espone lo stato d’animo di chi non vuole accettare, anzi non può accettare situazioni di compromesso e vuole essere se stesso, preferendo piuttosto fuggire o resistere rimanendo e portando avanti coerentemente la propria idea. 

Un professore universitario, nominato presidente di Commissione, da Roma viene in Sicilia per gli esami di Stato, e dovrà imporsi per ottenere un risultato più consono alle aspettative degli studenti piuttosto che un responso distaccato, freddo, dei professori, sempre in combutta e pronti a rintuzzare qualsiasi cosa, ma uniti quando si tratta di difendere il loro operato e il ruolo di cui sono investiti, come se si trattasse di una casta da difendere ad ogni costo. Nelle riunioni e durante gli esami il clima è teso; c’è tanta chiusura mentale ed è inutile affermare che la scuola deve essere viva, se vuole suscitare interesse e continuare la sua opera educativa; perciò, deve cambiare crescendo dentro, ma anche fuori, visto che ormai le informazioni vengono da tante parti. Ma di questo poco si curano i professori, presi come sono da interessi privati, a tutto pensano che ai giovani studenti considerati numeri più che persone. Alla fine, dietro le prese di posizioni del presidente, viene salvato il salvabile con buona pace di tutti. 

Il presidente, sin dal primo giorno va a stabilirsi a Portopalo, sul mare, in provincia di Siracusa, e preferirà viaggiare, pur di tutelare la sua libertà e la integrità morale. Così, al clima pesante degli esami alterna altri momenti che pure fanno scuola, vissuti con gli amici, a stretto contatto con l’ambiente paesano e il mare che gli danno il vero senso dell’ isola e lo mettono in posizione di privilegio, perché gli consentono di guardare dal di fuori dentro, la Sicilia e l’Italia, la scuola come si svolge in un’aula e come è nella vita. Terminati gli esami, il presidente rimane a Portopalo, anche perché col passare di agosto sarà impegnato con la seconda sessione. È la scuola della vita che lo affascina ed è l’amicizia di pescatori come Nunzio, o di Lorenzo e Michele, che lo legano ancor più alla Sicilia. 

Di qui l’idea di volersi stabilire definitivamente a Portopalo, la ricerca di un pezzo di terra e gli ostacoli che, almeno per il momento, non gli consentono di acquistarla. 

A parte gli incontri e le discussioni, la visita a Pantàlica, il riproporsi del contrasto fra passato e presente, più frequenti e vive sono qui, meglio che nella prima parte, le presenze immaginarie del padre e di Fosca che permettono al narratore di fare il punto su temi già anticipati (politica, antifascismo, Nord e Sud) che danno misura della molteplicità di interessi e spingono ad un confronto più aperto e sereno. Per la Sicilia che è musica, ora dolce ora triste, che invade tutto, come acqua del mare, punto fermo di tutto il romanzo. 

Nello Sàito è una voce sicura della nostra letteratura, che affida alla parola scritta ciò che si porta dentro e alla parola s’affida, auspicandosi una società più umana e più consapevole. 

Questo è il suo sentire, questo bisogno gli urge dentro, ed è un discorso di cultura più che di politica. Ed è magistrale ed esemplare insieme il modo come tutto questo è detto. L’autore ha nel sangue il teatro, e la Sicilia è un aperto scenario dove viene rappresentata la storia di tutto un popolo che ha sete di giustizia, che stenta ancora a farsi protagonista e rivendica a sé ciò che da sempre le viene imposto. 

I colloqui col padre lontano e con Fosca sono un efficace espediente con cui Sàito tesse il romanzo e lo arricchisce di pezze d’appoggio solide che gli conferiscono una forte valenza didattica, e gli danno anche materia per la narrazione, scavando in profondità nel tentativo di capire e, di conseguenza, agire. 

«Ma che vai a fare in Sicilia?» 
«Sono venuto proprio per questo, per capire», volevo dirti. «Ti ho disobbedito, lo so.» 
«Ma perché?» 
«Perché non ho mai condiviso questo tuo astio verso la Sicilia che ormai dura da quasi cinquant’anni, mi pare un astio irrazionale; ed io almeno non ne conosco le ragioni. Sei tu piuttosto che devi risponderrni, che non hai mai risposto alla mia domanda: perché sei venuto via di qui? Me lo dici perché?11» 

Vicinanza e distacco, riconoscenza e disobbedienza, portano non tanto a disconoscere l’operato dei padri, ma a verificarlo e perciò a continuarlo, a riconoscerlo. 

C’è anche la visita a Pantàlica. Per il presidente è una nuova esperienza, un tuffo nel passato che non deve coinvolgere più di tanto, perché è il presente che va preso in considerazione. Di qui la sfuriata con Turicchio e contro quanti si chiudono in un immobilismo che è rinuncia ed anche accettazione. Bella, a proposito, l’immagine del contadino che corre dietro al suo mulo che scappa sotto un sole cocente in una terra che è un deserto, ma è altrettanto bella l’immagine del presidente che inveisce ora contro Turicchio ora contro i professori, perché si ribella a questa staticità, lui scheletrico ma deciso ad andare avanti per dare una lezione di coraggio e di grande umanità. 

Dentro e fuori credo sia uno tra i libri più belli scritti in quello scorcio di secolo; a parte il fatto che non cede agli indirizzi di moda, esso non si stacca dalla realtà e ubbidisce al cuore e alla fantasia del suo autore. Di certo, comunque, è il romanzo più interessante, utile, tuttora attuale, che descrive una Sicilia sofferente e meravigliosa al tempo stesso.  

Quattro guitti all’ Università viene pubblicato a Roma, presso Bulzoni, nel 1994. È ancora il tema della scuola, allargato all’Università, che viene ripreso e affrontato in modo aperto, critico e certamente di accusa degli altari della cultura o, meglio, di tanta pseudocultura. Se ne I cattedratici (1969) e in Dentro e fuori Nello Sàito mette a nudo le sfasature, il tornaconto, il solipsismo e l’arrivismo che condizionano spesso i professori, tutti presi da ben altro piuttosto che dal lavoro di competenza, dal di dentro, perché conosce bene l’Università, essendo lui stesso un professore, in questo romanzo denuncia la grettezza e l’ignoranza che li porta a chiudersi in sé, presi dall’orgoglio e da una smania di potere che li mette l’uno contro l’altro. Di quale potere? viene subito da chiedersi, come anche fa il protagonista, e, in ogni caso, ne vale la pena, se a farne la spesa è sempre l’uomo? 

Quattro guitti (Bakunin, Anguilla, Marta e Cipolla) vivono di teatro e non ne possono fare a meno, perché il teatro è la loro vita, in quanto, in uno spazio pur ristretto, la verità prende corpo ed è la dominatrice della scena. Ma le cose non vanno bene. Proprio perché questi guitti dicono il vero, viene loro tolto il teatro di Mola di Bari e vengono a trovarsi in mezzo alla strada con pochi soldi e un camion che fa loro da mezzo di trasporto e da casa, visto che una casa non l’hanno. A Bakunin, un ex studente universitario, viene in mente il teatro dell’Università di Roma, e i quattro, dopo un viaggio movimentato, nottetempo, si presentano nella capitale, sperando nel professor Colapietro che proprio quella notte muore, e con lui la speranza di essere presentati al rettore: dovranno fare da sé, magari servendosi di Francesca, la giovane moglie del morto che niente potrà fare. Sarà Francesca a dire che il marito non andava d’accordo con i colleghi, e un diario trovato sul tavolo di Colapietro darà a Bakunin la dimensione di quel contrasto. 

Il teatro verrà negato, e la reazione è sempre imprevedibile e il più delle volte scatena violenza che si colora di rosso sangue quando i quattro guitti, usciti dalla casa della Colapietro, penetreranno nell’Università e s’impossesseranno del teatro. 

Questa è la trama che però è intessuta da acute notazioni che danno movimento all’ azione. È come se i protagonisti recitassero in un grande palco, ed è il teatro della vita che si apre loro davanti, tra realtà e sogno, anche se a dominare è la realtà che fustiga e tarpa le ali a chi avrebbe e potrebbe dire e fare qualcosa per la collettività. 

Avevamo un piccolo teatro a Mola di Bari, grazioso, ottocentesco, una gemma. Eravamo riusciti a raccogliere dopo due anni di fatiche intorno a noi alcuni giovani, poi adulti: insomma un pubblico, cui volevamo appunto dal teatro aprire gli occhi. Non ce l’avevamo con nessuno, semmai contro il mondo che continuava a camminare ad occhi chiusi e secondo cui siamo noi i sonnambuli. Per essere veri. O se volete finti ma di modello agli altri che secondo noi si sono dimenticati di essere uomini12. 

La tematica è di grande attualità: il teatro e la cultura che non vengono valorizzati come dovrebbero, i professori che s’allontanano sempre più dalla didattica e a tutt’altro pensano che al proprio insegnamento, la violenza che dilaga, il venir meno dei buoni sentimenti e, ancora, il divario Nord-Sud. Eppure il teatro e la cultura che aiutano ad aprire gli occhi non interessano più di tanto ai detentori del potere. Ne è che i finanziamenti sono sempre meno e, nel romanzo, ai quattro guitti non verrà ceduto il teatro e i professori, come Colapietro, che vorrebbero fare bene il loro lavoro sono emarginati. 

L’autore, con una scrittura agile e più che mai essenziale, ha saputo ancora una volta mettere il dito su una piaga che travaglia la nostra società, ed ha parole dure contro i responsabili di questo stato di cose, non per puro gusto di mettersi dall’altra parte, bensì per evidenziare i lati oscuri e aiutare a correggerli. 

Uno dei fili conduttori di tutta la produzione di Nello Sàito è il senso della vita, la moralità e, quindi, l’impegno che ognuno deve fare suo, perché il mondo diventi più umano. Può sembrare un’utopia, eppure alla luce di quanto avviene giorno dopo giorno bisogna puntare su questo, se si vuole evitare il peggio. Dire le cose, gridarle, uscire dal conformismo, è il modo migliore per essere prima di tutto se stessi e poi per ritrovare l’umanità che è in noi e negli altri. 

Con il suo nuovo romanzo Una voce, Sàito si serve di una voce che a poco a poco prende corpo e si manifesta perché predomini il bene e se ne tragga vantaggio, e l’uomo s’avvicini all’uomo per creare insieme condizioni di vita più consone, lontani il frastuono e la materialità. Tanti scrittori, pensatori d’ogni tempo (viene di pensare, a proposito, ad Antoine de Saint-Exupéry), attraverso le loro opere, cercano l’uomo; la stessa cosa è in Sàito particolarmente in quest’opera, dove la piena consapevolezza del modo come gira il mondo fa presagire l’andare incontro all’irreversibile. 

Come in tutti i suoi romanzi, la trama sembra appena abbozzata, eppure è ricca di immagini e contenuti profondi, e la penna è quasi una matita leggera che lascia un segno indelebile e connota persone e cose nella loro luce più vera, perché l’autore vuole arrivare al cuore e alla mente dei suoi lettori, convincere per farli ragionare. E come negli altri, anche in questo romanzo c’è molto autobiografismo, un recupero della giovinezza, la vita in famiglia, un richiamo della Sicilia che si fa sempre sentire, specie nei suoi figli migliori costretti ad andar fuori per realizzare la loro vita. 

Enrico, un giovane professore di storia e filosofia, stanco della stagnazione e del conformismo di provincia, dopo la morte dei suoi lascia la Sicilia insieme con il fratello Tommaso e va a Roma, dove si trasferisce per dare un senso alla vita, a quella sua e del fratello. Il contrasto fra la vita di città e quella del paese è enorme già al primo impatto: è un passaggio dalla noiosa staticità all’assordante caos, da un posto dove ognuno conosce ed è conosciuto fin nei particolari ad un altro dove si è nessuno e si passa inosservati tra una folla senza nome. In attesa di prendere servizio, Enrico e Tommaso vanno in giro per Roma, visitano la basilica di San Pietro e la trovano fredda, con poche persone e per lo più preti che si muovono nella piazza semi vuota come «tanti scarabei neri». Qui è la prima avvisaglia della voce che rimprovera il fasto, mentre altrove come a Gerusalemme è miseria; voce che si fa ancor più insistente all’inizio della partita di calcio cui i due fratelli avrebbero dovuto assistere. Difatti la partita non ci sarà perché essa punirà l’idolatria dei tanti scalmanati e succederà un putiferio: attacchi della polizia, scontri fra tifosi. Tommaso, mentre escono dallo stadio, viene scaraventato a terra, la gamba spezzata. La corsa al Policlinico, il ricovero, tra l’indifferenza dei medici e le proteste dei malati. Anche qui la voce minaccia e punisce l’arroganza di chi cura solo il suo tornaconto. 

Enrico deve per forza di cose ridimensionare le sue attese. La nuova scuola che si rivela conservatrice, il caos e il disagio sociale di Roma, la tracotanza e l’interesse che hanno sede laddove non dovrebbero aver luogo (nel Parlamento come al Policlinico), lo stordiscono talmente che la «voce» che si porta dentro si materializza e diventa più esplicita. A lui e a Carla non resta che fuggire, e da lontano, dall’alto del Gianicolo potranno guardare Roma. Enrico, provato, immagina la distruzione. 

Sàito con questo nuovo romanzo conferma le scelte e i temi altre volte affrontati ed enunciati. Il lettore può leggere Una voce a suo piacere, limitandosi alla narrazione, che è piacevole e fuori degli schemi comuni, soffermandosi magari su qualche particolare che più lo attrae. Ma per quel che mi riguarda, ritengo più utile soffermarmi sugli approcci che l’autore combina, perché egli fa parte di quella schiera molto ristretta di scrittori che insieme ‘ con il piacere della buona lettura regala spunti di riflessioni che non è facile dimenticare. Piacere della mente, ma anche dello spirito che ha pure bisogno di respirare aria nuova e di confrontarsi. Specie in un momento in cui i condizionamenti fanno capire quanto siamo soli e in che stato ci troviamo. 

Altro motivo in più per apprezzare i libri di Sàito, e non mi stancherò di ripeterlo, è che espone con distacco inconsueto la materia trattata e l’immagine che ne viene fuori, sia della Sicilia, dei Siciliani o di altro, rispecchia la realtà e, inoltre, non la esagera e deforma come spesso avviene. Questione di stile ma anche di onestà professionale che spinge lo scrittore ad essere obiettivo e coerente con sé e con gli altri. Va detto anche che le argomentazioni sono attualissime e se pure riferite il più delle volte alla sua terra, hanno un valore che vanno al di là dell’isola e interessano l’uomo ovunque si trovi. La fuga, il viaggio, il conformismo, il rapporto Nord-Sud, quello tra padri e figli, la scuola e i giovani, non sono temi cosmopoliti? 

Una voce è un romanzo loico-riflessivo che condanna la materialità e il conformismo, malattie della modernità, pericolo che ottenebra la quotidianità e rende infelici, lontani dai sentimenti puri. Narratori e filosofi del secolo scorso, drammaturghi (basti pensare a Camus e a Ionesco), hanno affrontato questi temi nella loro cruda drammaticità e hanno prospettato la rivolta, ma l’uomo s’è trovato spesso solo o non è riuscito nel suo scopo o si è chiuso in sé stesso. Il protagonista Enrico reagisce, dà voce alla sua coscienza e senso alla vita. Lui e Carla si salvano perché ascoltano e non sono attaccati ad alcunché, e si rendono uomini. Essi, ed anche Tommaso, sono personaggi ben delineati, e positivi. Miracolo dell’anticonformismo e dell’ anarchismo di Enrico-Sàito! 

Anarchismo? Da professore di filosofia ero abituato a ragionare, a non prendere per principio posizione contro nulla. L’anarchia dell’ 800 era stata utopia, ansia di libertà e per meglio dire di liberazione. Gesù, se era vero che era la sua voce, non era stato il primo anarchico, il primo ribelle contro l’ingiustizia? Che egli all’ ingiustizia contrapponesse l’amore, bene, ma non dimenticava nemmeno, citando spesso l’Antico Testamento, che il problema principale era quello dell’ingiustizia prima dell’amore. E me, siciliano, nonostante ogni critica sulla Sicilia ma per l’umanità, mi trovava particolarmente sensibile. Tornava il giovanile interesse per l’universalismo di me cittadino del mondo? E anche Bruno e Gesù non erano prima di tutto cittadini del mondo? Ribelli l’uno, lui ebreo contro la cultura ebraica del suo tempo e l’altro contro il conformismo, la struttura, la visione non certo italiana dell’inquisizione. Interesse per l’umanità non per se stessi, era questo che mi affascinava13. 

Il lettore sin dalle prime pagine noterà bene la serietà e la compostezza di questa ispirazione che mette in risalto l’invadente amoralità del nostro tempo, ed anche il disagio in cui sono costretti a vivere quanti vogliono starne fuori, come se fossero anormali, mentre sono i portatori sani di un malessere generale che rifiutano e combattono. 

Il mondo saitiano è fatto di documento umano, ma anche è ricco di tanta invenzione, di intreccio, di entrate e uscite di scena con freschezza e disinvoltura, dovuta, credo, alla frequentazione del teatro, anzi, alla professione di drammaturgo dell’autore, ai cui effetti deve anche la sua originalità. E questo perché Sàito non segue la moda, bensì quello che sente e come lo sente, pronto a far macerare la materia destinata a prendere forma. 

A popolare questo mondo sono personaggi comuni ma di alta levatura morale, che si chiedono il perché delle cose per aggiustare il tiro, mai per denigrare o adeguarsi passivamente alla realtà. È gente che si ribella per essere se stessa e dare prova di umanità, e si serve della dialettica dell’anticonformismo, coadiuvata però da motivazioni sempre fondate, calate nella realtà e perciò molto attuali. Più sfumati risultano i ritratti femminili. Tranne Fulvia de Gli avventurosi siciliani, essi sono abbozzati, eppure veri e vivi nella loro misurata presenza. Fulvia è tra le meglio disegnate, esplode vita dai pori e sa il fatto suo e in un modo o nell’altro sa farsi valere. Maria del primo romanzo si staglia e delinea in quel clima di guerra che giustifica la sua equivocità e la fa eroina. Ma tutte sono positive, come Carla di Una voce o la stessa Marta o Fosca degli altri romanzi, tutte ricche di una profondità d’animo che dà loro tono e le risalta. 

Personaggi vivi che a poco a poco prendono corpo e si delineano nella loro luce più vera. Come’ nel conterraneo Pirandello, in Nello Sàito vogliono evidenziare la loro presenza per essere emulati nella realtà. Che è forse la cosa più importante e bella per uno scrittore, e anche per il lettore che nella pagina scritta si riconosce. 

Salvatore Vecchio 

NOTE 

1. H. e D. Koenigsberger, Atmosfere di Sicilia (Una frequentazione che dura da cinquantanni), Terzo Millennio, Caltanissetta, 2002, pag. 13. 
2. A. Bocelli, Maria e i soldati, «II Mondo », 26.3. 1949. Dello stesso anno sono i contributi di P. Pancrazio «Corriere della Sera», 15.3. 1949 e G. De Robertis, «Tempo», 29. 5. 1949. 
3. Si legga, a proposito, G. Manacorda, «L’età del neorealismo», in Storia della letteratura italiana contemporanea / 1940-1965), Editori Riuniti, Roma, 1972,2″ rist., pagg. 27-49. 
4. N. Sàito, Maria e i soldati, Garzanti, Milano, 1970. 
5. Ivi, pag. 29. 
6. G. De Robertis, Gli avventurosi siciliani, «Tempo rivista». 
7. N. Gallo, Siciliani di Sàito. 
8. N. Sàito, Gli avventurosi siciliani, Garzanti, Milano, 1973, pagg. 141-142. 
9. Ivi, pagg. 176-177. 
10. N. Sàito, Dentro e fuori, Garzanti, Milano, 1973, pag. 131. 
11. Ivi, pag. 22. 
12. N. Sàito, Quattro guitti all’Università, Bulzoni, Roma, 1994, pagg. 8-9. 
13 N. Sàito, Una voce, Terzo Millennio, Caltanissetta, 2001, pagg. 95-96.

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 9-23.

Print Friendly, PDF & Email

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato.


*