Virgilio Titone narratore 

Ci sono scrittori la cui fama dura si e no il tempo di una vita, altri la consolidano di più da morti, come se si dovessero prendere una rivincita per continuare a sfidare il passare inosservato del tempo e far parlare di sé. Di questi è Virgilio Titone scrittore. È noto e si ricorda lo storico, trascurando che fu un eclettico versatile e molto geniale, di vasta cultura che s’interessòdi tutto, lasciando una traccia indelebile. 

Al di là d’ogni tornaconto, guardò esclusivamente all’uomo e all’umanità che è in lui. Per questo continueremo a ricordarlo, mettendo in risalto lo studioso attento, il sociologo, il letterato, lo storico che dà importanza alle piccole cose, perché- diceva – sono la chiave di comprensione dei grandi fatti, e lo scrittore, capace di calarsi nella realtà per farla vedere nella sua luce migliore. 

Virgilio Titone, sia che trattasse di storia o di letteratura, sia che esprimesse, com’è nei Diari1, sue riflessioni, aveva il senso del giusto mezzo del vero scrittore, e tale è da ritenersi: uno scrittore che sa bene dosare la parola per andare subito al nòcciolo del discorso ed esprimere tutto quel mondo visibile o sotterraneo che l’uomo si porta dentro. 

Come narratore, nel senso proprio del termine, si rivelò nel 1971, quando pubblicò presso Mondadori la raccolta Storie della vecchia Sicilia. Nel 1987 la ristampò con alcune varianti presso la casa editrice palermitana Herbita con il titolo Vecchie e nuove storie siciliane. Già nel titolo “storia” sta per narrazione, com’è nella parlata del popolo siciliano, e lo scrittore Titone narra fatti con gli usi e costumi propri di una Sicilia che stava tramontando per sempre, sul finire degli anni Cinquanta, con l’avvento del boom economico; narra alla maniera diodorea ma con puntuali cognizioni di causa la Sicilia che lo aveva visto fanciullo e, nell’avanzare degli anni, con la nostalgia delle cose che furono ma non con rimpianto, perché c’è in lui la consapevolezza che la vita abbisogna di questo lento passare per rinnovarsi e continuare il suo moto, e insieme con quella delle cose, c’è la nostalgia degli uomini che passano, come un fiume in piena, lasciando un ricordo destinato anch’esso ad essere cancellato per sempre. 

Ad aprire Storie della vecchia Sicilia2 è “La zolfara”, seguita da “La pensione” e da “L’odio”. Le prime due nell’edizione palermitana prenderanno rispettivamente titolo “La fuga” e “Gli anni di Mazara”, mentre non verrà riproposta “L’odio” e così anche “L’annunciatore del traghetto” e “Il pranzo di Natale”. In cambio, a corredo della sezione «Nuove storie siciliane», verranno aggiunte “L’AIDS in Sicilia: storia di una colonna infame senza la colonna”, “Andrea” e “L’onorevole trombato”. Pare che l’Autore abbia voluto snellirla nella tematica e, al tempo stesso, rinnovarla per avvicinarsi all’attualità degli anni Ottanta. 

“La zolfara”, poi “La fuga”, e “L’odio” propongono l’immagine della Sicilia, con i suoi pro e i contro, con la mafia e con la povera gente che doveva farsi giustizia da sé rifacendosi del torto ricevuto, essendo lo Stato assente o forte con i deboli. Nella storia “L’odio” un poveraccio che s’era fatto tutto da sé Nicola Rizzo, che aveva conosciuto la vita di emigrato, il carcere, una posizione di agio, perché ci sapeva fare con gli uomini e con le cose, lui, ora don Nicola, non può godersi per una malattia i frutti del suo lavoro, non è ri- cambiato dalla moglie e, per giunta, deve subire le angherie del giovane avvocaticchio, suo cognato. Era questa la ricompensa di tutta una vita, che gli altri, irriverenti e ingrati, avrebbero goduto della sua roba? 

«La sera l’incendio aveva compiuto la sua opera. Pietro eseguì fedelmente gli ordini del padrone. […] Di là tutt’e due guardavano le fiamme che si levavano alte sul paese, mentre i pompieri, accorsi da Mazara, cercavano inutilmente di spegnerle. Nicola guardava il suo regno distrutto e ora si sentiva meglio. Sarebbe restato là Tutto ormai era dietro di lui, mentre la luna illuminava i campi tranquilli e in lontananza il mare di Mazara3». 

La luna è la testimone silenziosa, come lo è stata sempre, degli accadimenti umani e niente può se non alleviare con la sua luminosità il dolore che tutto avvolge, la solitudine che è nelle cose e negli uomini. 

Ne “La fuga” la malvagità spinge un bravo giovane a lasciare tutto, la senia e la madre con cui viveva, per andare alla macchia, dopo aver vendicato il torto subito, rinunciando ad una vita normale a cui aveva aspirato. Non gli mancheranno alcune vecchie amicizie, ma sarà forte in lui la lontananza dalla madre bisognosa di lui. 

Vi troviamo anche, oltre il motivo della vendetta, quello dell’omosessualità diffuso nella vecchia Sicilia, le cui origini affossano molto lontano nel tempo. Titone ricorda i pueri catinensis, ma era un uso normale e consolidato anche nella Sicilia greca e in quella delle miniere. La promiscuità e la solidarietà che si instauravano tra carusi e pirriatura, gli zolfatai, ne favorivano l’uso. È un aspetto poco conosciuto e, per questo, lo scrittore lo inserisce abilmente nella sua “storia”, perché si sappia. Lo storico non prevale sul narratore, ma tutte le occasioni sono buone per dare notizie e conoscenze attinenti alla Sicilia. Perciò non manca di inserire usi e costumi del tempo a cui si riferisce. Ecco un esempio tratto da “La fuga”: 

«Tra l’altro i contadini non vanno all’osteria, né bevono vino se non a casa loro, quando ne hanno, e sempre dopo i pasti. Una volta, come parte del salario di una giornata di lavoro, si usava darne una certa misura, che generalmente era il quartuccio, circa tre quarti di litro, e lo bevevano nei campi. Ora non si usa più Gli zolfatai invece, benché pagati meglio, spendevano tutto quello che guadagnavano ed erano frequentatori abituali delle osterie4». 

Il narratore è un osservatore attento a cui non sfugge niente ed è sempre pronto a cogliere quelle sfumature che concorrono a fissare e a far conoscere quel mondo che stava scomparendo. 

Il tema della vendetta offre lo spunto per scrivere quelle belle pagine che costituiscono la storia “L’esattoria”. Un arrogante, arrivato esattore, un certo Giacalone che aveva comprato anche il titolo di cavaliere, si accanisce contro l’impiegato Bertuglia, assiduo lavoratore che non scende a compromessi, e non manca occasione per riprenderlo e rimproverarlo. Bertuglia non cede ai ricatti e, da buon siciliano qual è ma senza voler spargere sangue, medita la vendetta, facendogliela pagare con la stessa moneta e con fredda impassibile determinazione. 

“Il pranzo di Natale” è ancora l’amara constatazione che la solitudine pesa come macigno sulla testa di ognuno e suona come una condanna con cui l’uomo è chiamato a fare i conti, ma deve trovare la forza per reagire, se non vuole soccombere. È questo, un motivo ricorrente e abbastanza presente nella narrativa del Nostro che così apre a tutto un filone proprio della letteratura europea di quegli anni. 

Col passaggio dalla vecchia alla nuova Sicilia, l’uomo si è scoperto più solo, perché se la modernizzazione ha migliorato materialmente il tenore di vita, nel contempo lo ha isolato ancora di più Allontanandolo dalla campagna, lo ha relegato apparentemente ad una vita più associata ma asociale e deprimente, fatta di apparenze e carente nei rapporti interpersonali che da soli danno senso alla vita. 

Con “L’annunciatore del traghetto” c’imbattiamo in Gaspare Riccobono, un deviatore addetto alla cabina di controllo di mezzi e persone diretti a Villa San Giovanni che vive la sua solitudine nel disagio, così come altri personaggi. Come Nicola Rizzo de “L’odio”, non è amato dalla moglie, non ricambiato nell’amore dall’unica figlia insensibile e, senza darlo a vedere, ritardata mentale e, tanto per non cambiare, un lavoro monotono che lo rendeva automa. 

«Perciò aveva dovuto abituarsi anche a questo: a considerare la famiglia come si considera un male che non si possa né curare né evitare e per il quale non ci sia nulla di meglio da fare che pensarci il meno possibile. […] Aveva cominciato a lavorare nelle ferrovie da ragazzo. Poi si era sposato. Da anni si alzava ogni mattina, sempre alla stessa ora, per fare le stesse cose che aveva fatto e che avrebbe continuato a fare, fino a quando non fosse divenuto tanto vecchio da andarsene in pensione. […] Che senso c’era in tutto questo?5» 

Se la solitudine, come ne “Il pranzo di Natale”, che tratta dell’anziano pensionato cavalier Cataldi, può essere accettata e virilmente vissuta, non così è l’estraniamento che esaspera e rende impossibile il vivere. Riccobono, a lungo andare, diventa un estraniato e medita la vendetta per riscattarsi una volta per sempre. 

“La caccia” e “La visita” ci riferiscono alcuni aspetti della vecchia Sicilia, qualcuno dei quali resiste ancora, specie nell’entroterra o in certi paesi a spiccata vocazione agricola: le lunghe strette di mano di amici e parenti ai congiunti di un morto dopo l’accompagnamento e le visite a casa, il “consolo”, cioè le cibarie che vi si portavano, a consolare il lutto. Ne “La caccia” sono le consuetudini tarde a morire di grossi proprietari terrieri, come don Ciccio Saporito e il barone Merlo, dediti alla caccia che ormai per loro cominciava ad essere un ricordo di altri tempi; e ricordo lontano era ormai per don Ciccio la giovane Concetta, giovane che aveva amato e che ora rivedeva vecchia e appesantita dagli anni «curva sotto un sacco, troppo pesante per le sue povere spalle». 

«- Voscenza benedica! – Anch’essa veniva da quel tempo. Don Ciccio la guardò incerto. Sembrava lei, Concetta, quella che era stata Concetta. Ma era possibile? La vecchia veniva avanti, curva sotto un sacco, troppo pesante per le sue povere spalle. […] Concetta non era stata come le altre. Aveva gli occhi lucidi e le carni calde e bianche. Ed era accaduta una cosa strana, che lui non avrebbe mai confessata. A poco a poco aveva preso a volerle bene. E anche lei gli si era affezionata. […] A un nuovo scroscio di pioggia, la salutò – Addio, Concetta! – Lei non seppe rispondere subito al saluto. E, mentre lui si affrettava a tornare indietro, rimase lì col suo sacco ai piedi. Due lacrime le scendevano sulle guance scarne, mentre continuava a guardarlo sotto la pioggia6». 

A leggerlo (ma bisognerebbe leggere tutta la “storia”), è un passo di struggente tenerezza per il poco che dice e per il molto che fa intuire. Titone è un abile lettore e descrittore dell’animo umano. Come un bravo pittore, gli bastano poche pennellate per rappresentare quella vita che è in noi e che ai molti sfugge. Dire in poche parole qualcosa di complesso non è di tutti gli scrittori; lui punta all’essenziale e al vero che è quello che conta e il tempo non scalfisce. 

“Gli anni di Mazara”, intitolata prima “La pensione”, come “Il sogno” e “La strada” della sezione «Ricordi castelvetranesi», sono scritti che rivelano lo strato più intimo dell’uomo Titone, sensibile, umano, vicino ai più umili. Sono gli scritti più propriamente autobiografici che ricordano amici compagni di scuola (“Il sogno”), e uomini affermati che vivevano di ridenti lavori o benestanti nella strada principale del paese (“La strada”) che, ripercorsa dopo lungo tempo, non riconosce più spopolata, com’è da quella gente scomparsa per sempre insieme con le sue cose. 

Sono “storie” che ripercorrono la vita di un uomo, con i suoi incontri, le sue cose care; ricordi che s’intrecciano e che offrono uno spaccato tra il nostalgico e il comprensivo, l’accettazione consapevole ma anche il chiedersi perché viviamo e dove andiamo che in Titone trova ferma risposta nella vitae, quindi, nel viverla con dignità nel rispetto degli umili e dei diseredati, com’è ne “Gli anni di Mazara”. Qui fa le sue prime esperienze lontano dal suo paese e nuove amicizie (quella con il falegname e con il maestro, o col sordomuto suo coetaneo che rivedrà poi in età adulta), e scoprirà un mondo che si porterà dietro per sempre. 

«Quando vediamo in campagna i lunghi filari degli alberi e calpestiamo le zolle che ci danno il nostro pane e ce l’hanno dato da secoli, non pensiamo alle generazioni di contadini che sono vissuti in silenzio, gli uni dopo gli altri, su queste stesse zolle, per andarsene poi e altri li avrebbero seguiti. Il loro silenzio era simile a quello degli alberi e alla voce del vento. Non aspettavano nulla dagli uomini, ma sapevano che la terra poteva qualche volta ripagare le loro fatiche. Ora nessuno più li ricorda, né può ricordarli7». 

Titone scrive le “storie” col cuore in mano, e queste pagine di “Gli anni di Mazara”, che sono tra le più belle della sua produzione, sono tutto un poema in prosa, poesia vera, perché sentita, oltre che vissuta. Si può mai dimenticare l’incontro del piccolo Titone con don Vito il falegname, o la figura generosa e buona del mezzadro di Seggio, Peppe Balsamo, e l’approccio e poi l’amicizia col sordomuto? Sono figure difficili da dimenticare, perché hanno un’anima e una vita loro, lontane da quelle di di un certo realismo che non va oltre il proprio orto. 

Le “Nuove storie siciliane” trattano temi di attualità che sono ripresi più avanti nel romanzo. Solo “L’onorevole trombato” affronta il tema dell’estraniamento e dell’ineluttabilità della vita che sono anch’essi ampiamente presenti nell’opera di Titone. In tutte queste “storie” la Sicilia è di sfondo. Eppure ci appare nella sua luce più vera, popolata di un’umanità spesso dolente, ma aperta e ricca di suggestioni. 

Titone detestava l’accademismo, così come l’arroganza dei colti senza cultura (il Nostro parlava di incultura, propria di quelli che non credono in quello che scrivono) e dei boriosi; e una satira abbastanza pungente la si trova in “L’AIDS in Sicilia: storia di una colonna infame senza la colonna”. 

Egli non ammetteva giocare sull’uomo-persona, qualcosa di sacro che va rispettato, al di là delle convinzioni o delle tare di ognuno. Al centro di tutto c’è infatti, l’uomo, con le sue aspirazioni, i sogni, i problemi che lo attanagliano e che cerca di risolvere, le contrarietà della vita che, imprevedibili, lo sbattono da una parte all’altra senza rendersi conto di niente, e quando tutto sembra giocargli a favore, ecco un’altra contrarietà ancora maggiore lo stringe quasi come in una morsa e, addirittura, lo porta alla morte. 

* 

Altra opera di Virgilio Titone scrittore, a parte gli inediti, è il romanzo Le notti della Kalsa di Palermo, pubblicato da Herbita nel 1987 e riedito postumo, dopo un laborioso lavoro di lima dello stesso autore, nel 1998 dalle Edizioni Novecento in cooperazione con il Comune di Castelvetrano. Ma già molti anni prima, aveva scritto un altro romanzo (La morte del Vescovo), smarrito e poi riscritto, come si legge nei Diari, e tuttora inedito, come scrive in una nota Calogero Messina8. 

Le notti della Kalsa di Palermo, scritto tra la fine degli anni Settanta e i primi dell’Ottanta del secolo scorso, è come avvisa lo stesso scrittore nell’”Avvertenza” premessa all’edizione del 1987, datata Selinunte – Triscina, 20 agosto 1981, un romanzo storico, ambientato in Sicilia proprio in quegli anni, anzi è anche un documento sociologico, storico e psicologico insieme, di una psicologia che non sa di manuali, bensì di vissuto umano e sociale. 

L’edizione del 1998 ha subito molti tagli e varianti. L’Autore vi lavorò con tanta solerzia; si era reso conto che il romanzo così non andava bene e bisognava sfoltirlo dei tanti riferimenti e personaggi che offuscavano le figure centrali e il finale. Ne parlava con Calogero Messina e lo scriveva agli amici Montanelli, Koenigsberger, Caruso. Allo storico Helmut Koenigsberger così scriveva: «La Kalsa è un romanzo sbagliato, sotto tutti i punti di vista: anche per i molti personaggi lontani dalla conclusione finale dell’azione. Infatti se ne sta pubblicando un’edizione ridotta a metà delle pagine», e ad Indro Montanelli: «La pietà per il protagonista, quel ragazzo sepolto senza un nome e cui ho tentato di dare un nome, si è risolta in un romanzo sbagliato: sbagliato come romanzo. Ho perciò tentato di rimediare mostrando nella premessa che protagonista è tutta la Kalsa – e lo è veramente – negli antichi e strani costumi di quell’isola nell’isola, dai poveri pescatori al principe di Lampedusa, anch’egli un quasi kalsitano, né solo per la via in cui abitava9». 

Titone si faceva scrupoli, ma anche nella sua prima stesura il romanzo si legge con piacere. Pur nella densità di contenuti, non è prolisso; è la vita di questo popoloso rione che viene alla ribalta e sembra esplodere, con le strade piene di gente e il vocìo che arriva lontano, a Mazara e pure a Torino o a Malta e Amsterdam, perché fin là s’allarga e si svolge l’azione dei personaggi. 

Certo, snellito com’è nella nuova stesura si fa accostare meglio dal lettore, ma non ha perso niente nella sua sostanza, che è diventata più fluida e coinvolgente. 

Le notti della Kalsa di Palermo è un insieme di fatti ben amalgamati come tessere di un mosaico che nella sua singolarità contribuisce a dare un quadro d’insieme abbastanza convincente e armonico. Sono ripresi e approfonditi i motivi già espressi nelle Storie, e nel movimento sembra che essi vengano fuori per caso, fatti propri dai singoli personaggi che popolano quest’opera, degna, al pari di altre (e forse meglio) di essere letta nelle scuole e studiata, perché oltretutto, ne viene fuori un’immagine della Sicilia a cui non siamo stati abituati dai tanti altri scrittori che invece si servono di essa per fare cassa, una Sicilia auspicante un riscatto che le potesse ridare la dignità di cui solo nel passato poté godere. Titone auspicava un Risorgimento umano e sociale della Sicilia che la facesse risollevare dalla condizione di disagio e di abbandono in cui si trova dall’unità d’Italia ad oggi, perché niente è cambiato in questi ultimi decenni e il romanzo avanza ancora quelle aspettative che non vuole deluse. Per questo fu inascoltato da quanti politici avevano interesse perché tutto rimanesse invariato. 

Dal I capitolo leggiamo: 

«La strada, come tutti avevano capito, era sicuramente inutile. L’avevano progettata per farsi pagare le tangenti sugli appalti. Di strade la zona non mancava. Dopo la costruzione dell’aeroporto di Punta Raisi, era stata aggiunta un’autostrada. Tuttavia anche per essa s’invocava una sacralità che non si doveva negare: il Mezzogiorno, sempre sfruttato, sempre calunniato dall’avido Nord, che mai nulla aveva fatto per i poveri meridionali. Tutto questo si continuava a ripetere, anche se quell’autostrada da un giornalista straniero era stata dichiarata “un’opera faraonica”10». 

Come cambiare se, così com’è è fonte di profitto? Quella di Titone è un’analisi puntuale, obiettiva, fatta sempre con cognizioni di causa, che copre un arco di tempo abbastanza ampio, riferibile a quasi tutto il Novecento, se consideriamo che tanti problemi sono tuttora aperti e non c’è ancora la volontà di volerli una volta per tutte risolvere. Il Nostro non tralascia niente, perché tutto fa parte integrante dell’uomo, viva egli alla Kalsa di Palermo o altrove. Perciò argomenta di scuola, omosessualità emigrazione, devianza giovanile e, quindi, di droga, e denuncia le anomalie sociali che condizionano e rendono difficile la vita: il burocratismo diffuso, la furbizia dei falsi invalidi, l’arroganza dei politici. E c’è anche il decadere delle cose e degli uomini che, non dando il giusto peso al passato, non riescono a cogliere il presente. Di qui il senso dell’abbandono e la solitudine che relega l’uomo a chiudersi in se stesso e a subirne anche le conseguenti ripercussioni sociali. 

Il riferimento alla mafia gioca nell’insieme un ruolo di rilievo. Titone distingue tra quella che era la vecchia mafia, ben rappresentata dal personaggio don Peppino Novacco, e la nuova, aggressiva e delinquente. Ad essa connessi sono la corruzione, il latrocinio, la richiesta di tangenti, la collusione tra mafia e politica, in un momento in cui di tutto questo non si parlava. 

E c’è il ricco tema degli affetti che dalle prime pagine alla fine è svolto con maestria e tanta delicatezza. Pietro, attaccato morbosamente alla famiglia, Nino alla sorella Lia, e don Peppino, e poi Gianni che per amore muore! È un libro che non vuole intermediari, va letto e per questo ad esso rimandiamo. 

A distanza di più di vent’anni dalla pubblicazione, il romanzo è molto attuale. L’Autore, da storico qual è ha saputo leggere il passato, scorgendovi i pregi e anche le storture che continuano a condizionare il presente, dando una chiave di lettura che è andata oltre la semplice registrazione degli eventi; sicché quelle che erano soltanto le sue intuizioni ora sono di dominio pubblico e ancora valide, se si volesse porre rimedio a certi malanni che affliggono la nostra società. 

Virgilio Titone è uno tra i realisti più veri del XX secolo, nel senso che ha trascritto nella pagina il suo modo di sentire e di vedere il mondo con nobiltà di sentimenti, aderenza e partecipazione alla realtà e con una capacità espressiva che bene si coniuga con uno stile sempre controllato, curato anche nei particolari e mai artefatto né artificiale. I più tendono a fare arte, la fanno o vi si avvicinano. Il Nostro ha avuto solo a cuore di esternare il suo mondo, che è poi il mondo in cui viviamo e ci confrontiamo, anche se si è disorientati da ciò che si vede e si sente e spesso disincantati. 

C’è tra gli studiosi e i critici la brutta consuetudine di incasellare un autore secondo parametri precostituiti, collocandolo prima, dopo o sullo stesso piano di un altro autore; si potrebbero addurre tanti esempi attinenti al verismo o al realismo. Ma è cosa che poco interessa, perché ogni scrittore ha una sua personalità e si differenzia, se vero scrittore, dagli altri. Con Titone ci troviamo dinanzi ad uno che, conoscendo la letteratura italiana e straniera, sa bene il fatto suo e opera nella piena libertà e senza condizionamenti, seguendo solo il suo nume ispiratore e facendosi trascinare dal magma che gli esplode dentro. 

A differenza di tanti altri e dello stesso Verga, lui, conoscitore di storia, non fa arte avulsa dalla realtà ma vi arriva, utilizzandola con molta onestà intellettuale. Sicché il suo realismo, dando voce ai tanti popolani, tende a riscattarli in senso sociale e morale, raggiungendo gli obiettivi che si prefigge e vi rimane coerentemente legato con i suoi principi umani e sociali. Perciò chi voglia cogliere nel vivo la Sicilia, e senza preamboli leggere nelle sfumature il presente che è anche il nostro tempo, non ha che accostarsi alle opere di Titone, questo solitario che, disdegnando i compromessi, cercò di avvicinarsi, per capirli, a tutti, da amico tra amici, come lui stesso scrive, a proposito di padre Giacinto da Favara, guidato da «un singolare intuito dell’animo umano e una conoscenza profonda della società in cui viveva11». 

Salvatore Vecchio

* Virgilio Titone, nato a Castelvetrano (Tp) nel 1905, insegnò Storia moderna presso l’Università di Palermo. Ebbe molti interessi e fu uno studioso attento di letteratura italiana ed europea. Fondò e diresse tre riviste: “La nuova critica”, “L’osservatore” e “Quaderni reazionari”. Tra le sue opere, ricordiamo: Espansione e contrazione (1934), Cultura e vita morale (1943), La poesia del Pascoli e la critica italiana (s. d.), La Sicilia dalla dominazione spagnola all’unità d’Italia (1955), Origini della questione meridionale. I. Riveli e platee del regno di Sicilia (1961), Storia, mafia, costume in Sicilia (1964), Machado e Garcia Lorca (1967), Introduzione alla Rivoluzione francese (1966), La storiografia dell’Illuminismo in Italia (1969), Il pensiero politico italiano nell’età barocca (1975). Morì a Palermo nel 1989. 

Note 

1 V. Titone, Diari (a cura di C. Messina), III t., Palermo, Novecento / Comune di Castelvetrano – Selinunte, 1996 / 1997. Un mio saggio, “ I Diari di Virgilio Titone”, si trova in “Spiragli”, XIV, 1999-2002, pagg. 4-12, dove, tra l’altro, scrivo: «I Diari di Virgilio Titone aprono il lettore a tutto un caleidoscopio di idee e di pensieri che costituiscono il fondo della sua vasta produzione. E il lettore, o lo studioso, che si accinge ad esplorarla, non può non tenerli in considerazione, se vuole davvero comprenderla». E ancora, a proposito delle sue opere: «in tutte c’è il rispetto della parola, ponderata e messa al posto giusto, indice di padronanza del lessico che s’accompagna alle idee, di cui l’autore si fa portatore, ma c’è anche il rispetto del limite, cioè la capacità di dire molto nella stringatezza, senza che ciò pesi nell’economia della pagina, anzi la rende agile e piacevole.» 
2 Storie della vecchia Sicilia, nell’edizione del 1971, è così composto: “La zolfara”, “La pensione”, “L’odio”, “La caccia”, “La visita”, “L’annunciatore del traghetto”, “Una notte inquieta”, “Il pranzo di Natale”, “Il terremoto”, “L’esattoria”. Citeremo l’edizione postuma (introd. di L. Zinna) Racconti, Novecento / Comune di Castelvetrano, 1999. Il titolo non è condivisibile per la ragione sopra esposta e nemmeno Titone l’avrebbe accettato, visto che nelle sue edizioni ha usato il termine “storie”. 
3 V. Titone, Racconti, cit., pag. 30. 
4 Ivi, pag. 55. 
5 Ivi, pag. 32. 
6 Ivi, pag, 112. 
7 Ivi, pag, 81. 
8 V. Titone, Le notti della Kalsa (Introduzione di L. Zinna), Novecento/Comune di Castelvetrano), 1998, pag. 22. Vedi Diari (1977-1989), III t., cit. pag. 212: «Ore 3 del mattino. Mi sono svegliato all’ora solita. Sto finendo il Vescovo1». La nota è di Messina. Il nostro auspicio è che quanto prima il romanzo si pubblichi per aggiungere qualche altro tassello alla conoscenza del nostro autore. 
9 V. Titone, Diari (1977-1989), III t., cit., pagg. 271 e 274-275. A pag. 276, nella lettera a Vincenzo Caruso, scrive: «… spero di fare una nuova edizione corretta. È un libro troppo affollato di persone e cose che allontanano dalla conclusione. L’ho ridotto di 70 pagine». 
10 V. Titone, Le notti della Kalsa , cit., pagg. 38-39. 
11 Ivi, pag. 90. 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 19- 26.

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