“Il Ciclope Polifemo” 

Dio Padreterno nel Suo divino disegno. disponendo che i nonni si godessero i nipoti, usava bontà infinita con il poveraccio che non aveva saputo o potuto godersi i figli. 

La cosa, vera oggi, vera al tempo della Repubblica Romana se quell’impunito di Marco Porcio Catone a chi gli chiedeva perché vecchio continuasse a piantare alberi nel Tusculano, a suo modo ticcando rispondeva: “Perché i nipoti ne colgano i frutti” e il Tusculano sapeva sempre quello che diceva come quando, mostrando fichi freschi ai Senatori seduti in Curia, gridava: “Delenda Carthago!”, convinto che i fichi potessero più delle parole. 

Noi inquilini dell’Urbe abbiamo nipoti ma non avendo straccio di terra e alberi da frutta, passiamo ai nipoti affetto ed esperienza, ragioni che giustificano l’attaccamento dei nonni ai nipoti e, per converso, dei nipoti ai nonni. 

Quando la mamma Pia li porta, vengono a far visita al nonno Davide i nipoti Martina, Benedetta e Pietro; vicini d’età e di statura, i tre somigliano a canne d’organo capaci di suonare recondite armonie e sarabande stonate di strilli, e la nonna Ermelinda sgridando si comporta con essi come la mamma-picchio che non se la prende con i picchiotti che cinguettando a scassorecchio insistono a reclamare il cibo con i grossi becchi spalancati. 

Il nonno, circondato dai nipoti che mille ne gridano e cento ne vogliono, corre a chiudersi nella stanza-pensatoio quando Martina gli chiede di sentirle ripetere la lezione. 

«I Ciclopi., comincia a dire Martina tenendosi le mani in grembo, «erano uomini grandi e grossi, mostruosi, dei giganti con braccia lunghe e lunghe gambacce, coperti di pelle caprina, con un gran faccione e un tondo occhio in fronte. 

I Ciclopi che vivevano solitari sul monte Etna, al mattino portavano le greggi al pascolo suonando zufolo o zampogna a discrezione per vincere la noia di giorni sempre uguali. 

All’Etna approdava Ulisse che andava per mare per rivedere la cara Penelope, il caro Telemaco e il cane Argo. Ulisse e dodici compagni entravano nella grotta del Ciclope e, visti agnelli, capretti e tanti caci, la tentazione li assaliva di far man bassa per tornarsene carichi alla nave. Ulisse teneva predica ai compagni: non quella la maniera di comportarsi rubando; meglio aspettare il padrone per aver regali dall’ospite. 

A sera, il Ciclope rientrava e, sistemato il gregge nella grotta, chiudeva l’entrata con un masso enorme: un vero sproposito! 

Il mostro scoperti gli intrusi si presentava: “Polifemo, piacere”’, e Ulisse rispondeva: “Nessuno, piacere mio”’, ma senza tanta cordialità. 

Il mostro dopo aver sfracellati due compagni di Ulisse se li mangiava: ossa, carni, nervi e tutto, e faceva cena; al mattino faceva colazione con due altri poverini e di ritorno dal pascolo, a sera, cenava con due altri meschini. 

Il Ciclope avrebbe divorato tutti i suoi ospiti se Ulisse furbo non glielo avesse impedito. Ulisse puniva il mostro ubbriacandolo e con grosso palo aguzzo, frantumandogli la pupilla dell’occhio, l’accecava per sempre, 

Al mattino, l’accecato Polifemo dava la via dcl pascolo al gregge e levando il 

masso dall’entrata si consolava col montone che ultimo della lanosa e pelosa brigata melante usciva dalla grotta non affranto dalla disgrazia del padrone ma perché appesantito da Ulisse appesosigli sotto per uscire salvo dalla caverna e sano dalle mascelle del mostro. 

Salvo sulla nave, Ulisse lanciava insulti al Ciclope c, svelando la sua identità, gliene diceva quattro e quattro che fanno otto: non tante, non poche per Polifemo che aveva subito danno e pativa vergogna. Fuori di sé per le offese, il Ciclope lanciava pioggia di massi dal monte, mettendo in gran pericolo nave e uomini. Ulisse piangendo i compagni morti e rallegrandosi con i compagni salvi, faceva rotta su Itaca, voglioso di rivedere Penelope, Telemaco e il cane Argo•. 

Martina, recitata la sua lezione, insisteva per avere il voto. Il nonno disposto ad approvare la nipote, era anche disposto a disapprovare i libri di testo che si dan cura di presentare il Ciclope come l’aveva descritto Martina che, legata al testo, non sospettava che le cose potevano star diversamente. Martina felice andava a giocare con i fratelli nella terrazza, lasciando il nonno indignato contro chi continua a spargere corbellerie nei libri delle elementari, delle medie, delle superiori e delle università. Nell’indignazione la ragione della “Taratalla “. 

Riprendendo “ex novo” la questione, noi cercheremo di liberare dai veli la leggenda dei Ciclopi “brevibus verbis” per non tediare i lettori. 

Il racconto dci Ciclopi nel IX libro dell’Odissea, va sotto il nome: “Tà Kyklopeja”1. 

La Filologia Sperimentale nell’Odissea intende e vede la saga del Popolo Mediterraneo: capelli neri e crespi, occhi scuri e carnagione mora, che batteva i mari interni per ragioni di commerci e per amore di scienza2. 

Il prototipo di questi arditi navigatori il Poeta lo descrive nel personaggio di Odisseo che, lasciata la bella Calipso nella lontana Ogigia, su zattera, cercava di tornar in patria portando con sé tesoro di notizie sulle terre viste e sui popoli incontrati e sui pericoli superati: Ciconi, Sirene e Ciclopi. L’Odissea: il brogliaccio di bordo di quei navigatori serviva ad educare al mare le nuove generazioni3. 

Sbarcando in terra di Sicilia, Odisseo saliva l’Etna per conoscere quei luoghi e per notizie di prima mano sui Ciclopi che abitavano quel monte. 

“(Gli) lasciò ricadere le crespe chiome simili a fior/di giacinto”. 

– Il color nero dei capelli d’Odisseo non lo spiegavano i tanti che non sapevano spiegarselo, tanta la nequizia degli umani ingegni. Leggiamo: Nigros capillos poeta Ulixi tribuit XVI, 175 sq. : etiamne nostro loco et vs. par.? E comparatione quaeftt cumjlore hyacinthi, effici id nequit, nam quam jlorum speciem poeta hoc nomine signyrcaverit non constat” (J. Van Leeuwen J. F., Odyssea, A. W. Sijthoffs Uitgeversmaatschappij, Lugdun. Batav., 1917, p. 167, noto 231), Al sofone risponde la Filologia Sperimentale: possono mutare gli occhi ma i colori dei fiori non cambiano, come non cambiano i fiori. 

– “YakinUlinos, ou, o; hyacinthinus, purpureus vel subniger, in modum Yacinthi” (J. Scapula, Lexicon Graeco-Latinun, J. F. Dove, Londra 1820, p. 676, s. v.). 

– Le parole del Poeta non sarebbero bastate a spingere la Filologia Sperimentale su una diversa e nuova visione del Poema; decisivi i “murales” di I-1aghia Triada, Festo e Cnosso e quelli di Thera che rappresentano agli occhi di chi li intende un popolo moro di neri capelli che con le navi andava per mare e dal mare oltre che dalla terra traeva sostentamento. 

La salita al monte e l’incontro col Ciclope Polifemo si risolveva sinistramente per Odisseo e la ciurma: sei di dodici uomini perivano ingoiati dal mostro Ciclope. 

Siamo al nodo della questione: “questi Ciclopi erano uomini mostruosi o raffigurazioni di mostruosi eventi nascosti sotto il velo dell’antropomorfismo?”. Questo il punto: “Hic Rhodus, hic salta!”. 

La voce greca: “Kyklops” intesa: “occhio rotondo” confermava i sofoni nella rappresentazione antropomorfica, ad essi interdicendo la verità per due ragioni: I) la voce greca non significa: “occhio rotondo”; 2) la voce greca malintesa non trova appiglio nella realtà se sulla faccia della Terra non sono mai andati uomini con un “occhio solo” e “rotondo” per giunta. Può squarciare il velo dell’antropomorfismo solo chi dà alla voce: “Kyklops” il suo vero significato: “aspetto rotondo”, ‘1acciarotonda”(4). Pertanto, se “Kyklos” vale “rotondo”, se “ops” vale ‘1accia”, la voce greca composta indicava il “cratere” dell’Etna “solo” e “rotondo” che ingoiava i compagni di Ulisse fracellandoli nella furia dell’eruzione. Ulisse cercando di por fine al massacro con grosso palo appuntito tappava l’occhio del cratere, ostruendone il canale adduttore. Fuggiva Ulisse con i compagni rimasti e dalla nave imprecava contro il “Ciclope=cratere”, ma il vulcano per i gas compressi eruttando lava, bombe, lapilli e ceneri e lanciando pioggia di massi metteva a rischio la nave al largo, gli uomini di mare e lo stesso Ulisse. 

Rientrato in Itaca, Ulisse raccontava a Penelope le sue avventure e stupiva la moglie esponendo i fatti del Ciclope Polifemo. Siamo sicuri che la casta Penelope, ignara dei vizi umani e delle virtù, si rappresentava come mostro il “Ciclope Polifemo” non come “cratere borbottone”, epiteto adatto ai crateri che borbottano quando in quiete, non diversamente da come oggi se li rappresenta la nipote Martina. come a dire: nella Filologia discutono i sofoni ma si incontrano gli innocenti e che Dio li Benedica. 

Davide Nardoni 

l) Odiss. IX, 106-566; 
2) Odiss. V, 231. 
3) In successione, le venture d’Odisseo: i Ciconi, i Lotofagi, i Ciclopi, Eolo, i Lestrigoni, Circe, l’Ade, le Sirene, Scilla e Cariddi, i Buoi del Sole. sbarco nella Feacia: questi per il lettore semplici nomi o al più inverosimili avventure, ma per quei navigatori rappresentavano punti di riferimento e luoghi, genti e persone da evitare. 
4) Le radici: “or”, “op”, “Vid” non hanno mai significato la stessa cosa se la lingua, tesa a raggiungere il massimo rendimento col minimo sforzo, elimina tra due parole d’ugual significato la meno adatta perché la legge della selezione viva tra gli uomini, opera anche nelle “paroles” come nella “langue” veraci prodotti della mente umana. Il radicale: “Vid” aboriginalmente significava: “vedere” ma nel diacronico se manteneva l’aoristo perdeva nel perfetto e nel futuro adattandosi a cambiare in: “sapere”; 11 radicale “op-” indicando come persona o cosa appaiono, nel futuro passava a significare: ·vedere”; il suffiziale: “or” perdeva dei tempi ma in quelli che conservava continuava a significare: “vedere”. Nei cambiamenti sta riposta parte della vera storia del popolo greco. 
– Kalon … tèn òpsin” (Pl. Parm. 127).

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 7-9.

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