Natura come essenza d’arte 

I luoghi della memoria dove aleggiano i ricordi dei nostri padri hanno in sé quell’essenza religiosa che ci invita al raccoglimento e ci ammutolisce in riflessioni profonde. 

L’uomo antico, oltre al sole, ci ha lasciato in eredità i suoi paesaggi simbolici che, in terre perdute e lontane, contengono messaggi misteriosi. Singolari rovine, sconcertanti solchi ed iscrizioni sul terreno, operati da una maxicalligrafia fantasiosa, visibili soltanto da un aereo in volo, sono i luoghi sacri dove egli cercava la comunione con il soprannaturale. Certamente elevava inni suonando rozzi strumenti d’osso e canna e percuotendo pelli distese: il luogo avrà avuto risuonanza particolare perché essa si elevasse senza echi. 

Oggi, le imponenti pietre di Stonehenge o gli immensi disegni del deserto di Nazca in Perù o, ancora, i monoliti scultorei dell’isola di Pasqua, sono i luoghi dove senti vibrare una tensione religiosa a testimonianza di una sacrale vitalità passata. 

Il monolito, in particolare, è una tra le più alte espressioni di preghiera dell’uomo verso un Ente supremo, quale muta richiesta intercedente per attraversare l’Ade. 

Isolato o aggregato in file lunghissime, come nei viali megalitici di Camac resta il segno tangibile delle fatiche immani e del tempo spesi dall’uomo per ingraziarsi l’Altissimo. 

E fatto religioso è sembrato il mio causale ritrovamento di un monolito, quale scoglio perduto, del peso di circa tre tonnellate dai chiari connotati artistici per le sue sembianze antropomorfe che da una discarica al bordo stradale di una via secondaria nel trapanese mi è apparso emergente tra massi informi. Calamitato il mio interesse e provveduto a farlo districare, mediante una potente gru, da quanto gli si sovrapponeva, d’improvviso si è stampato nell’indaco del cielo mentre roteava lentamente su se stesso a mostrarsi come creatura nascente dal grembo della grande madre natura. 

Il richiamo mentale immediato agli «uomini di pietra», tema ricorrente da decenni nella mia pittura e l’emozione di veder materializzata la visione dei miei uomini della fantasia hanno reso indimenticabile quel momento di grande suggestione. 

Tale «opera d’arte della natura» figliata da un terreno su cui si accanisce la speculazione edilizia. porta in sé il martirio delle onde marine che per millenni hanno scavato ed eroso la sua superficie in modo assai singolare. Numerose conchiglie fossili. infatti. lo testimoniano. Le sue cavità, di diversa profondità e larghezza, alcune attraversate dalla luce. appaiono come parti segrete messe in evidenza dalle rifrazioni solari che nel volgere del giorno creano su di esso inattesi volumi. 

Effettuati gli opportuni interventi manuali, come per purificarlo dal liquido amniotico che lo avvolgeva, ho provveduto ad elogiarlo come opera d’arte sistemandolo in un residence Club di Campobello di Mazara, dove ero ospite. 

La natura si esprime con linguaggio muto e sarebbe doveroso saperla leggere. Essa appare solenne a chi ne sa cogliere il senso misterioso oppure umile a chi guarda e non vede. 

È tempo di tralasciare le frenesie cittadine per ritrovarsi in quei luoghi religiosi che la natura e non l’uomo ha creato. È tempo di soffermarsi ad addolcire il proprio spirito immergendosi senza scia nell’abbraccio totale di un paesaggio come nell’osservare un insetto al lavoro. 

Il monolito e il menhir recano in sé i segni decifrabili dell’uomo mentre la pietra che reca naturalmente i segni della lontananza dei millenni ci si mostra come vivido messaggio artistico della natura. 

Mario Tornello

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 43-44.