La parola dell’essere del mosaicosmo

La poesia è. 

         La poesia evoca, non dice. 

         La poesia, geroglifico dei sogni che si fanno poesia.

        La poesia è l’unica umana creazione che vive nel deserto del nostro tempo.

        La poesia è vita che si manifesta umile ed essenziale anche in questa nostra vita amara: trovarla, saperla leggere e, quindi, intenderla con un supplemento d’amore nell’aridità dei giorni è fondamentale. 

       La poesia è l’essenziale nel contrasto e nel caos, è meditazione della parola nella caducità, pregna d’ironia ed etica insieme.

      La poesia, risonanza di sé stessi come testimonianza dell’orma che siamo, soli con i nostri versi, in compagnia della fantasia che è già l’eterno.

     La poesia è urgenza metafisica, laica e religiosa, a seconda le equazioni personali, e scruta da un microscopio, o come da una feritoia, il corso della vita e delle cose, proponendo la salvazione possibile. 

      La poesia, come acquisita consapevolezza dell’Essere, senza petulanti schiamazzi di gioia, di facili ed effimeri successi mondani

      La poesia è, prima che esercizio di scrittura, conoscenza ed esistenza, dono e non soltanto messaggio.

      La poesia, che è stata sempre la più alta rappresentazione del Mistero, è nella stessa natura della parola, epifania del sacro nella complessità e nel dolore, nell’attesa e nella contemplazione. 

     La poesia: universo parallelo e complesso che ha nella parola e nell’immagine il suo centro, la sua nudità e la sua incalcolabile ricchezza.

     La poesia, sequenza di verità intime, amicali, che entra dentro il cuore e si fa viaggio verso l’ignoto, infinito, per riscoprire insieme affetti e sentimenti, per sentire ancora il lieve rumore del cuore.

     La poesia. Il modo di essere. Per leggere l’anima di ognuno e del mondo. Dei sentimenti e delle sconfitte, delle gioie e delle angosce.

     La poesia è metànoia, cammino iniziatico, esercizio spirituale profondo, intuizione e sintesi, rigore e costanza, fede nella parola che sostanzia la vita, il bene, e la lega al cosmo, al divino, quasi a consacrare una universale corredenzione.

     La poesia come partecipazione affettiva, come centro spirituale, legame quasi religioso.

     La poesia accoglie e trasmette lucentezza e tenebra, colore e musica nella inesausta ricerca di quell’Armonia originaria che sostanzia di verità e di vita il fondamento dell’esistenza umana.

      La poesia appare come realtà vivente contro l’astrazione e il meccanicismo, bellezza, unità e verità, nella Tradizione rivelata.

     La poesia come “versus” ossia ritorno, speranza di redenzione, magia e mito, che dal proprio significato interiore diventa patrimonio e realtà totale di vita, per chi sa consapevolmente intendere la profonda, inesauribile Verità del linguaggio e del simbolo.

      La poesia deve essere intesa come sacrificio dell’occhio mortale che transustanzia la cecità nella visione ancestrale del divino.

      La poesia non è dolore, ma il senso del dolore, la poesia non è sangue, ma il senso che scorre nel sangue e lo congela.

     La poesia non è semplicemente un’espressione dell’anima, la poesia nasce dall’ispirazione che attraverso il pensiero si unisce alla cultura.

     La poesia non domanda, non consola, non impreca. È il supremo fiat che trasforma nell’universalità del mito l’umano destino e, attraverso l’accettazione del dolore, può redimerci.

      La poesia, sapienza della forma estetica, intuizione del principio e non logica del principio. Non razionalità, né irrazionalità: pensiero che svela, logos permanente del mutamento.

      La poesia come soffio che illumina la mente e l’anima di quei valori che sono primariamente bellezza e cultura, umile ascolto e potenti verità.

      La poesia non è intimismo fine a sé stesso o lamentosa accettazione della contemporaneità, non è sogno di improduttivi appagamenti letterari e di ricercate parole ad effetto o di consolatori ebetismi o ancora claunesco esibizionismo dell’apparire, bensì mistero dell’essere autentico nella gioia e nel dolore, accettazione di solitudine, preghiera, sacrificio, profezia, umiltà senza illusioni, agone di chi ama e muore in silenzio.

     La poesia si riduce troppe volte a scheggia senza senso, a estrinsecazioni di banali sensazioni, a proclama ideologico, a sciatteria, a nichilismo, perdendo, in questi non pochi casi, il valore alto della profezia. l’annuncio di un destino, il disegno di un viaggio decisivo.

      La poesia, la poesia… della vita, della sua anima insonne, della sua graffiante libertà.

     Resta sempre vivo il fascino e l’importanza della poesia scritta su un foglio, che si invia e  si riceve, senza i limiti imposti dalla velocità e dalla tecnica spesso disumanizzante.

      Nel tempo della ragione allucinata solo la lucidità del sogno riscatta gli uomini. E la consistenza del sogno è nella mirabile congiunzione fra musica e parola poetica.

      L’incontro con la poesia è sempre incontro con l’anima.   

      Solo il travaglio dona poesia. 

     Anche la memoria delle cose semplici, l’impronta, il suono, l’urto possono divenire poesia.

    Solo la poesia, l’arte e la conoscenza scientifica, possono assumersi – se non degradate a millanteria, artificio e pretesa – l’onere dell’impensabile, oltre le scogliere del corrente pensare vacuo.

    Filosofia e musica si fondano, nella loro essenza originaria, nel loro spirito autentico, grazie al cuore della poesia.

    Il mistero della poesia può farsi ansia di verità, monito di umiltà, strumento perenne di rigenerazione per l’uomo.

    Nulla serve alla disarmata parola lirica viva.

    Ed è universo molto più che verso.

    Il poeta, a volte, possiede la chiave della sintesi giusta e per questo può incidere in profondità nell’animo dell’uomo più di ogni altro artigiano della parola o di qualsiasi atto creativo, senza per questo assumersi o sentirsi investito da compiti profetici o salvifici, ma piuttosto rendendosi possibile strumento di un Disegno, non solo appartenente alla razionalità orizzontale.

      Il poeta non è un uomo astratto. È un uomo concreto che vive la sua storia, la sua realtà e quotidianità e che, quindi, trasferisce nel verso la sua personale visione.

      Il poeta è un uomo libero che , opponendosi alla cementificazione dello spirito, si riconosce in  modo totalizzante nel valore della parola. 

      Lo slancio quasi religioso del poeta è humus imprescindibile per una rinascita etica.

     Anche il poeta è primariamente un uomo che testimonia una scelta. Difficile, aspra, ma al contempo esaltante.

     Vita del poeta come alchimia, fra tanti tarli e acari, a cominciare dall’utilitarismo e dall’indifferenza.

     Non tutto è possibile svelare e non tutto il poeta può ricapitolare, rinsaldare, ma la poesia, è anche una metafisica concentrata che può liberarci dallo scopo e, quindi, dalla necessità del superfluo.

     La parola non è direttamente segno delle cose, ma segno di un altro segno, cioè dono del suono.

     La parola è troppo importante per poterne a piacimento abusare. Limitarla è un obbligo.

     La poesia è sempre magia che si appalesa perché nasce da un pensiero che si manifesta.

     La poesia ha un suo valore fondante che non può essere disperso, soprattutto, quando si tratta non della parola in quanto tale, ma in quanto esperienza forte di un linguaggio che è Verità.

     La parola è, nella sua essenza, segno, nel senso che essa indica, segna, altre cose da sé, altre cose che sé, o più brevemente, indica e segna delle cose.

     La terapia della parola veritativa allevia, anche chi ascolta. Questa è la profondità.

     Grazie alla parola, ogni uomo apparso sulla terra è capace di domande, di ideazione, di sogni, di relazioni e di atti realizzativi concreti.

     La parola lirica. Un linguaggio essenziale, espresso per sottrazione più che per abbondanza, teso verso la bellezza dell’Assoluto e nutrito costantemente dalla speranza vissuta, è come il consegnarsi ad una fede che oltrepassa la misura del quotidiano.

    Quante parole per spiegare ciò che non si può.

     Scrivere o comporre musica è un antidoto – non sempre efficace per essere chiari – una terapia da praticare contro il despressionismo, variante nobile della depressione. La lettura e l’ascolto sono altrettanto nodali per il raccoglimento del sé.

    Anche le increspature lievi delle parole poetiche sono capaci di acquerellare e di carezzare gli abissi.

   Resta sempre vivo il fascino e l’importanza della parola scritta su un foglio, che si invia e si riceve, senza i limiti imposti dalla velocità e dalla tecnica spesso disumanizzante.

   La creazione poetica, persa stessa natura aristocratica e atemporale, è inadattabile al potere mondano. 

   Un libro interessante può essere risolutivo o può dirigere verso una nuova determinazione o una ambigua e ingabbiante servitù. Legarsi o liberarsi dipende solo da noi.

    Il libro con la sua storia, la sua funzione insopprimibile, la sua atavica e sempre rinnovata veste, malgrado le profezie nefaste di morte e di annullamento, vive con le nuove, stupende tecnologie informatiche, non alterando la sua precipua vocazione, il suo valore non relativo, non estirpabile.

   Ogni momento importante della vita è accompagnato da un libro che pone fondamenta al dialogo interiore.

    Ciò che permane della conoscenza, malgrado l’accelerazione delle tecnologie che porta in sé la frantumazione dei saperi e la sparizione periodica delle memorie nel mutevole, è la scrittura non virtuale, è il libro – antico quasi quanto la ruota, che è il suo prolungamento.

    Raccontare è raccontarsi.

    Raccontare memoria è limitarne l’essenza.

    Ciò che è dettato dentro è difficile da esprimere.

                              T. R.

(Da Non bruciate le carte. Schegge del mosaicosmo, a cura di M.P. Allotta. Introd. di M. Veneziani, Prova d’autore, Catania 20222, pp. 41-49.)




Considerazioni isagogiche su Elegia per me stesso di Rodolfo Vettorello

       Chi in punta di piedi entra nella poesia di Rodolfo Vettorello si trova davanti un diagramma spaziale-evolutivo, che apre il lettore a una nuova dimensione antropometrica, derivata, in gran parte, dal perenne assioma ontologico, presente in maniera dominante nell’alveo della riflessione tanatologica, nata dalla sempre presente, e ossessiva, lezione eraclitea. Questa idea già presente, e ampiamente trattata da Leopardi e acutamente sviluppata da Foscolo nel suo capolavoro lirico-poetico, trova degno e felice epilogo in quest’opera di Vettorello, con la quale, in un avvenire non troppo remoto, dovranno cimentarsi intelletti di ben altra levatura, per compiti ben diversi. 

      Se Foscolo nel carme Sui sepolcri dal continuo fluire del tempo e degli elementi aveva tratto spunti di intenso lirismo, che si possono riassumere in questa manciatina di versi:

e una forza operosa le affatica

di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe

e l’estreme sembianze e le reliquie

della terra e del ciel traveste il tempo,

nei quali serpeggia latente, ma terribilmente evidente col suo spettrale potere Thanatos, nella silloge vettorelliana la morte è presente in quasi tutte le liriche e convoglia l’animo e la riflessione dell’attento lettore verso orizzonti pregni di infausti, ma reali presagi. Nel raffinato componimento poetico l’autore non soggiace al trito e stucchevole sentire comune, ma da considerazioni meramente riduttive come aquila si eleva, per spaziare dalla cristallina purezza dell’infinito su quella forza operosa, cui soggiace in modo ineluttabile l’uomo col suo destino.   

      Su una tomba nella chiesa di S. Francesco, a Fondi, anni addietro ho letto con molta attenzione un epigramma, che ha lasciato una traccia indelebile nel mio animo:

        Tendimus huc omnes: metam properamus ad unam;   omnia sub leges mors vocat atra suas.

      Che si può rendere: «Tendiamo tutti verso questo luogo: andiamo in fretta verso un’unica mèta; la tenebrosa morte raduna tutti i viventi sotto le sue leggi». È, questo, il monito, che con cruda verità la Natura rivolge all’uomo: all’ignoto autore non sfuggiva il potere tanatocentrico comunemente concepito. 

      Dopo la lettura della significativa silloge, che invita a riflettere su una realtà sempre presente, l’uomo sembra ebbro del nettare degli dei omerici con aggiunta di nepente; e molti, impressionati dalla lirica compostezza e dal messaggio, veicolato dal vigoroso afflato poetico, se ne stanno tristi, cupi, preoccupati, come se fossero stati condotti via con la orza dall’antro di Trofonio. Gli stretti vincigli della Natura, infatti, angustiano il loro animo traballante, spaventato, incerto per la cupa prospettiva del futuro non adeguatamente preparato dal presente, che, come insegna Seneca, scorre incerto tra mille occupazioni, per lo più inutili, perché nessuno è veramente padrone di sé e del suo tempo. 

      Immerso nel turbinio di mille faccende, continua l’antico filosofo, nessuno dà giusto valore a tempo e alla sua giornata, e non si rende conto come egli muoia giorno dopo giorno. L’uomo, come ripete Vettorello, che certamente ha assimilato il dettato senecano, vive nella continua illusione che la morte sia un evento destinato a un futuro lontano, quando è sotto il suo sguardo, e gran parte di essa è già alle sue spalle. Tutto il passato è in potere della morte. Ma Vettorello rende attuale l’antico insegnamento, quando nella lirica La rimpatriata scrive:

Il tempo che è passato da quei giorni

che si giocava insieme nei cortili

ha lavorato su di noi con cura

per farci diventare quel che siamo …

La vita si costruisce e demolisce

                       le cose e le persone a suo piacere. 

       Nell’aria rarefatta del puro lirismo, che si infutura in un archetipo spesso sfuggente ed evanescente, il poeta riporta il lettore alla realtà del presente, che si potrebbe individuare, rovesciando in modo adeguato i rapporti, nel carpe diem oraziano. È proprio questo tema di fondo che inciprignisce e costringe il lettore a rugghiare per contrarietà, per lo più mal gestite. 

      Significativo, quindi, è il titolo Elegia per me solo, che Rodolfo Vettorello ha voluto dare alla pregevole silloge. Il critico, per lo più, concentra l’attenzione sul primo lessema elegia e cerca di trovare agganci e riferimenti con la poesia fiorita in Grecia e il Roma. Sotto questo aspetto, degna di nota è la dotta e ben documentata Prefazione, vergata da Santo Gros-Pietro, che va, necessariamente, tenuta presente per la profonda dottrina e lo stile impeccabile; può bastare a sollecitare il lettore per un primo approccio, per contestualizzare un genere letterario, che nella tradizione letteraria ha trovato geniali esponenti e visioni diverse, pur nell’inveterato solco della tradizione. 

       Per Vettorello l’elegia non è flebilis, secondo la felice intuizione di Ovidio, perché non effonde lacrime di dolore per l’abbandono della donna amata o per un amore non corrisposto. Il poeta svuota il lessema  dall’interno e lo riporta a origini e luoghi più remoti nel tempo e nello spazio, da dove è partita, per giungere prima in Grecia e, successivamente, a Roma. In questo senso, almeno esteriormente, si potrebbe accostare a Callimaco, ma il discorso condurrebbe molto lontano e metterebbe in ombra lo sforzo e l’originalità del poeta, il quale si riallaccia direttamente al genere della lamentazione, presente in tutte le letterature orientali, come quella, più documentata, ugaritica ed ebraica. 

       Tralasciando disquisizioni storico-letterarie, si richiama l’attenzione del lettore sulla natura antropologicamente dialettica della poesia vettorelliana, che già nella lirica incipitaria, Le infinite agonie, traccia l’iter del percorso poetico, nel quale pone in piena evidenza la sua polarità perfettamente speculare rispetto ad altre raccolte, pur pregevoli. Il carme, sapientemente intessuto con accorta e ben studiata disposizione metrica, nella quale sintagmi e lessemi formano figure indelebili e sfumano nel non troppo velato lamento sulla fuga del tempo e della vita; condensa in un’amara sequenza di versi il già riportato sintagma foscoliano:

Agonie della vita;

un giorno dopo l’altro si consuma

una nuova agonia,

una infinità

di anelli una catena disumana.

La morte ci umilia e ci devasta

annulla ciò che siamo e le memorie

di un velo di silenzio le ricopre.  

      Il poeta non a caso apre la lirica, e con essa la silloge, con un sintagma estremamente significativo, l’agonia, gli attimi che precedono il trapasso e avviano in modo irrimediabile alla fine della vita terrena. Già da questo primo accenno, cui bisogna necessariamente sottendere un velato pessimismo di derivazione leopardiana, nella tanatocrazia vettorelliana, come nel suo referente immediato, è del tutto assente quanto ha caratterizzato e plasmato la cultura italiana ed europea negli ultimi due millenni: la speranza e la credenza nella vita oltremondana. Questo concetto, molto dibattuto sotto l’aspetto sia filosofico che teologico negli ultimi due secoli, anche se non è mai accennato in modo esplicito, di tanto in tanto emerge e rivela, seppur velata, l’intima aspirazione di un ego, che si dipana nei rivoli dell’umana sofferenza e cerca una pur terrena immortalità. Per cui molta attenzione richiede l’anaptitico emistichio e le memorie, che, in un intenso endecasillabo fratto, rivela l’intima sofferenza, causata, come dirà qualche verso dopo, dal  

sottile malessere gentile

ch’è malattia del vivere, assassina. 

       In questo distico, preceduto da acute riflessioni sullo svolgimento quotidiano della vita, si avverte in modo palese l’ormai noto, e abusato, sintagma montaliano, che tanta fortuna ha incontrato presso ingegni, che potrebbero starsene tranquilli nella fresca grotta di Trofonio e mettere da parte il nepente.

       Come per Montale, anche per Vettorello il percorso della vita è piuttosto accidentato, per la continua presenza di dolori, di sofferenze, di imprevisti. Tra gli altri, la vera poesia si assume il compito di analizzare e portare a conoscenza di tutti la sofferenza, che travaglia l’animo dell’uomo, nella segreta speranza che trovi la possibilità di porvi rimedio. Ma questo, di solito, non avviene, perché non esiste una ricetta o una formula, che, per mezzo del linguaggio poetico, di solito scarno ed essenziale, possa risolvere il dolore o la conseguente crisi esistenziale.

        Per esprimere questo male e per portarlo alla conoscenza del lettore trofoniano, Vettorello si serve dell’anafora, della climax per lo più ascendente, della metafora, dell’anastrofe e dell’allitterazione. Nel calcolato gioco di luce e ombra, negli sfumati chiaroscuri, nelle fuggevoli reticenze, in modo non diverso da Montale, Vettorello con visione  e intento innovativo propone la sua elegia sull’essere contemporaneo, che sfida l’ardua scalata della vita, con la certezza che la sua fine è imminente, perché la morte gli è accanto e cammina con lui. 

        Più difficile, almeno per chi non è aduso a leggere la poesia, è cogliere l’io lirico, introiettarlo e assumerlo come oggetto di riflessione, di meditazione, di miglioramento: è un efficace antidoto contro la sofferenza, che in modo più o meno palese striscia tra le pieghe della psiche umana. Solo in questo modo l’oscura e incombente tanatocrazia perde il suo mordente e sfuma come nebbia del mattino nell’alba luminosa della propria coscienza di essere esistente, parlante, cogitante. La fiducia in sostituisce la fede in Dio e Dio stesso, come nella medesima lirica incipitaria il poeta, non senza rancore e delusione, dice con orgoglio: 

Dio se mi ascolti 

lascia che ti dica

che ti respingo.

voglio che mi basti

la mia coscienza libera e nient’altro.

      Il poeta, con determinata decisione, rivendica la propria libertà di coscienza, cui si accompagna, come corollario necessario, la libertà di pensiero e di religione. In linea con  le più recenti disposizioni a riguardo, stabilite da autorità internazionali e adottate, in linea di massima, da un nutrito gruppo di nazioni, Vettorello si inserisce in quest’alveo, per determinati aspetti, ancora vergine e si rende interprete di un messaggio, che travalica i confini personali e internazionali, e diviene, nella pletora ciangottante di buffi e coprolitici verbigeratori il corifeo dell’eguaglianza tra gli uomini, perché la morte è, per se stessa e per ciò che rappresenta, l’uguaglianza personificata. Alle ingiustizie della vita, prima o poi, rimedia la morte, che non guarda in faccia a nessuno, non per vendetta, ma per la sua disposizione naturale. Blaise Pascal, infatti, nel dotto e istruttivo volume, Pensieri, nei riguardi della morte scrive: «Tutto quel che so è che debbo presto morire; ma quel che ignoro di più è, appunto, questa stessa morte, che non posso evitare». L’Uomo, infatti, come si evince dalla lettura della silloge vettorelliana, vive come se non dovesse mai morire e, forte della sua presunta supremazia sui propri simili e sugli altri esseri, si abbandona senza remore a ogni sorta di violenze e villanie, che non commetterebbe, se si fermasse un attimo a riflettere che a breve deve presentarsi davanti all’inevitabile tribunale della morte, la quale non concede sconti a nessuno. 

   Nella sua speculazione filosofica, anche se rudimentale e appena accennata per non incidere in modo negativo sulla sensibilità del lettore, Vettorello connette la morte alla riflessione filosofica e cerca di edulcorare, pur con un linguaggio scarno e realistico, il problema e della morte e del destino. Difatti la riflessione sulla morte, come evento naturale non diverso dalla nascita, è stata il principale stimolo per molti filosofi. Arthur Schopenhauer, ne Il mondo come volontà e rappresentazione, che Rodolfo Vettorello ha certamente letto, scrive che la cognizione sperimentale della morte, non dissociata dalla vista del dolore e della miseria, che caratterizza la vita di tanti esseri indifesi, ha senza dubbio impresso l’impulso più forte alla riflessione filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo. Del resto se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi perché il mondo esista e perché sia costituito proprio così, perché tutto cadrebbe nella banalità e nell’ovvietà.

  Movendo su questo sentiero, per certi aspetti impervio e di difficile soluzione, Rodolfo rinnova il concetto di elegia e le apre un altro orizzonte, in parte ignoto sia ai Greci, sia ai Romani. Per avere un’idea delle innovazioni apportate al genere letterario dal poeta milanese, accanto all’io lirico, che  scandisce il ritmo espressivo e compositivo prima del verso e, in un secondo momento, della lirica bisogna sfilacciare la tramatura narrativo-semantica ed esaminare i singoli lessemi, inglobati in strutturati e sostanziosi sintagmi, resi fluidi e fruibile dall’impeccabile struttura metrica, per la quale si può considerare il navalastro della più alta espressione poetica contemporanea.

  Consapevole dell’inesorabile scorrere del tempo, Rodolfo vi ritorna con accorata insistenza in tutta la silloge, come se il virgiliano «sed fugit interea, fugit irreparabile tempus» gli martellasse di continuo nella mente e gli procurasse una certa ansia e inquietudine, come si può evincere dal messaggio, che vivifica la lirica Non è giunta ancora, della quale qui si riportano solo i più significativi lacerti:

Mi dico che sarà l’ultima volta,

me lo dico sovente,

come si fa con ciò che si vorrebbe

ripetere per sempre, all’infinito.

Andare via da questo luogo d’ora

avrà il sapore amaro dell’addio

ed ogni addio nasconde la paura

che andarsene sia un modo di morire,

    sia pure solo un poco e a poco a poco…

Potrei forse rinascere alla vita

se avessi la speranza che davvero

l’ultima volta non è ancora giunta.

Anche a un’attenta lettura della lirica, riferita solo in parte, sembra che il poeta voglia richiamare l’attenzione del destinatario con la martellante insistenza sull’imminenza della morte e sull’intensità della sua bruttezza. Questa realtà, che l’uomo sperimenta e tocca con mano in ogni momento della giornata, non viene collocata in un ambente determinato, nel quale l’Uomo, oggetto e soggetto di questa tremenda realtà, fornisce la misura per gli altri. Essa diventa tramite d’una realtà e intensità febbricitante. La sua rappresentazione, reiterata con crudo realismo e un sotteso e nervoso timore dell’aldilà, si insinua sensibilmente nell’anima e crea sconcerto, confusione, incertezza; diventa una straziante lamentazione nel bugno della silloge, che avvince il lettore in attesa di luminosi squarci di cielo. Ma anche l’aspetto della bruttezza, che turba i sogni soprattutto di chi ha varcato una certa età, rivela momenti di intensa liricità, che schiudono la mente a respiri liberatori soprattutto quando alle sofferenze ordinarie non si riesce a trovare una via d’uscita. E domina in questi casi la bellezza, che permette di percepire il profondo e rasserenante respiro della Natura, per lo più intesa e proposta in senso leopardiano. Sono, questi momenti, residui reali dei veri componimenti poetici. 

       Non solo nella silloge in oggetto, ma in tutte le raccolte poetiche di Vettorello si riscontrano belle pericopi, accattivanti per le immagini o anche per il canto della lingua. Sorprende, però, che essi non stanno soli, non formano un unico in sé, ma sono, necessariamente, parte di un’unità nella quale il poeta fonde pressanti richiami alla fugacità della vita e alla bruttezza del male di vivere. Bello e brutto, sebbene siano nella loro obiettività categorie opposte, nella poesia di Vettorello non forniscono stimoli contrastanti e inquietanti, perché sono accantonati, come la differenza tra vero e falso. 

         Lo stretto ed inevitabile accostamento del bello col brutto produce un’illuminante dinamica di contrasto, che diviene di volta in volta l’elemento più importante, l’asse che unisce mittente e destinatario. È ovvio che in Vettorello il brutto, la visione pessimistica della vita, il costante richiamo alla morte, diviene il tramite, col quale con innata maestria e mano sicura conduce sull’eccelsa vetta del Parnaso, a diretto contatto col puro cielo della divinità ispiratrice. 

        Il lettore, dopo pochi versi, si accorge subito che il brutto di Vettorello non è il grottesco o l’orrido, che ha caratterizzato per un certo periodo la letteratura italiana, e non  solo. Si pensi al Tersite dell’Iliade o all’Inferno di Dante, alla produzione poetica dell’alto medioevo, la quale raffigurava brutto chi non entrava nel novero dei cortigiani. Il diavolo, ovviamente, era brutto, e rimane ancora brutto. Vettorello, inserendosi sulla scia di Novalis prima e poi di Rimbaud, il brutto diviene un tramite interessante e necessario, per andare incontro e comprendere l’intensità e l’espressività della volontà artistica, che con la sua meliggine vellica il potere indagatore e immerge l’io lirico narrante nell’animo del fruitore. Con la sua assiologia la poesia di Vettorello ora serve, ora desta, ora allontana l’energia sensitiva, che aspira a una lettura obiettiva del reale e del sensibile, cui si avvicina e cerca di avvicinare. La produzione lirica contempla tanto i contenuti, quanto, e soprattutto, le relazioni, che ingenerano tensione sovraoggettive. Accenna al brutto della morte, perché con esso, come sfida al naturale senso del bello, insito nella vita, produce quella drammaticità sorprendente, che deve stabilirsi tra l’io lirico del poeta e il lettore. 

       La bruttezza e la deformità della morte, quale si riscontra nella poesia di Vettorello, è tratta dalla realtà, dalla diretta esperienza ricavata dall’esistenza quotidiana di un mortale qualsiasi, il quale vede la nascita d’una nuova vita e, in controluce, la morte, che accompagna il neonato fino al suo trapasso. Mancano nella silloge gli Esseri plurali del dovunque e del sempre: protagonista è l’uomo, la donna, il bambino, che non sono scheletri informi e cupi, ma persone vive e palpitanti, come quando, parlando in prima persona, il poeta dice in Ingannare la morte:

Amo i sogni di altrove

e cambiare ogni volta orizzonte

per riuscire a ingannare la morte.

Non mi trovi, se spera

di trovarmi nel luogo che crede

Tutto questo soltanto

per eludere ancora la morte.

        L’io lirico si esprime, in questo caso, con scherno, con disprezzo, con stizzosa alterigia davanti a una realtà assiologica, che viene calata nella quotidianità con un’efficace dissonanza tra la melodia e l’immagine, tra il possibile e il reale, tra il caduco e l’eterno. Il lettore in questo breve stralcio assapora i residui del bello, ma vede in controluce la tristezza della realtà, la bruttezza della morte, il dolore causato dal suo arrivo. Il poeta si sofferma con compiaciuta insistenza sulla dissonanza di quanto evoca e diventa egli stesso dissonante, quando unisce nella tramatura lirica primordiali potenze liriche e osservazioni, che, solo nell’apparenza, sembrano banali. 

     Commisurare i contenuti figurativi vettorelliani alla realtà non può avere che un valore euristico. Quando l’ermeneutica spinge il lettore a penetrare nel profondo, questi deve riconoscere di non esaurire la conoscenza lirica con concetti meramente legati al reale o all’irreale, ma col riferimento a valori immutabili insiti nell’ens cogitans, che diviene motore immobile di un processo analitico strettamente personale. 

        Nella silloge Elegia per me solo non esiste traccia di realtà deformata, anche se molto spesso il discorso declina verità per lessemi ben orchestrati, che confluiscono in sintagmi specifici, nei quali ogni singola parte o parola ha una qualità netta, sensibile. Tuttavia siffatti sintagmi combinano ciò che è realmente conciliabile sia con l’esperienza sensibile, sia con la logica aristotelicamente intesa. Con l’alta qualità delle immagini e con la loro strutturazione sul piano narratologico il poeta intesse un fitto dialogo sulla realtà, che cade sotto il vigile sguardo dell’interlocutore. Esse, e per qualità e per quantità, superano di gran lunga quella particolare libertà, che, grazie alle forze metaforiche fondamentali della lingua, sono magistralmente coniugate con immagini contemplabili. E ciò può avvenire solo nella poesia, mediante la quale riescono a trasmettere un’efficacia più tagliente alle caratteristiche presenti nelle realtà stesse, e tuttavia la loro direzione non è rivolta verso un ideale, bensì segue una dinamica riflessiva, la quale, per così dire in mancanza dell’Ignoto invisibile, rende il reale stesso un ignoto, sensibilmente eccitato ed eccitante mediante la dissoluzione dei confini tra le figure, mediante il logico accostamento degli estremi. Nella composizione lirica Vettorello cerca di scandagliare l’ordinamento reale, pur restando nel reale e nel sensibile, mediante procedimenti noti alla precedente poesia. In ogni lirica della silloge, però, si trova per lo più in germe a quanto nelle altre raccolte è pienamente sviluppato, per rendere la realtà più sensibile e pregna d’una semplicità d’urto, come si legge nella lirica conclusiva, La cagna rossa: 

domani sarà il giorno del trasloco,

andremo via di qua per altri luoghi.                                                                          

O.A. B.




Salvatore Maiorana e il suo ultimo romanzo, Anima (2020) di Vittorio Riera

      Dopo L’Archetipo (2018), Salvatore Maiorana si ripresenta ai suoi lettori con un altro titolo –Anima – tratto di peso dalla psicologia del profondo di cui è antesignano lo psicanalista James Hillman. Protagonista del romanzo non è uno scienziato, come nel caso di Daniel de L’Archetipo, ma uno psicoterapeuta, Julian. Julian, non a caso, è anche il nome del padre di Hillman, e sarà dunque un omaggio al pensatore americano cui si deve il rinnovamento della psicologia tradizionale, la guida, il sentiero lungo il quale si svilupperà e diramerà anche il romanzo.

      Ciò che accomuna i protagonisti dei due romanzi è che entrambi cercano di gettare luce l’uno, Daniel, nel mistero della vita, l’altro, Julian, di mettere a nudo le radici dell’anima, quelle radici che ci consentono di vedere noi stessi in relazione alla realtà che ci sta attorno. E vale pena osservare subito, a riguardo, che in Maiorana emergono diverse personalità artistiche che si manifestano e si intersecano lungo lo sviluppo del romanzo, un romanzo globale, circolare, che può essere letto da mille punti diversi e che noi si tenterà di leggere dal punto di vista del poeta, dell’innovatore della prosa d’arte, una prosa, una scrittura funzionali ai vari drammi rappresentati nel romanzo cui assistiamo, del pittore e quindi del romanziere, e poi ancora del linguista e infine, ma non ultimo, dell’esperto di neuroscienze, competenze, queste ultime, che gli hanno consentito di offrirci un giallo di nuovo conio.

La vicenda: una storia che cura

       La vicenda raccontata da Maiorana si inserisce, peraltro e forse polemicamente, in quel filone di romanzi gialli tanto di moda oggi, l’uccisione di una pianista e insegnante di pianoforte, Alison, sentimentalmente e teneramente legata al neuropsichiatra Julian, che dunque ne rimane sconvolto. Ma è un giallo del tutto particolare poiché il linguaggio non è quello, becero e sguaiato, cui certa letteratura ci ha abituati, inoltre il romanzo si svolge e si sviluppa su piani spaziali e temporali diversi e infine perché non vi sono stucchevoli e prevedibili commissari che indagano. Sì, la polizia scientifica interviene immediatamente in cerca di indizi o impronte più o meno digitali, il giudice delle indagini preliminari fa in maniera asciutta – neutra, annota lo scrittore –le domande di rito (come ha trovato il corpo della donna, se erano sposati, la professione, dov’era la notte in cui ha trovato il cadavere, l’alibi di cui disponeva, gli amici di cui si circondavano lui e la moglie Alison e così via). Poi delle indagini non si quasi più nulla se non verso la fine del romanzo in cui viene svelato il nome dell’assassino anzi dell’assassina e il movente del delitto, la gelosia, una gelosia cieca che può fare commettere i più atroci delitti come ci mostra quotidianamente la realtà in cui siamo immersi. Ciò non significa che le indagini siano del tutto assenti. Esse si svolgono su un piano terapeutico al centro del quale altra protagonista è Alison presente nel romanzo si può dire dal principio alla fine direttamente citata con il suo nome o indirettamente come un’ombra che incombe nello sviluppo del racconto. Soltanto verso la fine, che coincide con la ritrovata pace di Julian, i contorni di questa presenza si fanno sempre più sfocati fin quasi a scomparire anche se il nome di Alison viene citato ancora nelle ultime pagine e risuona come una eco prolungata. Al di là di ogni altra considerazione su come sia stato risolto il giallo, si ha la sensazione che il delitto, e per esso, appunto, il ‘giallo’, sia stato il pretesto per Maiorana per rappresentarci una quelle storie che come per magia hanno il potere di rinnovare e anzi di ricreare – il termine è di Maiorana – la psiche e che pertanto è da annoverare fra quelle che curano narrate da James Hillman cui si deve un’opera dal titolo omonimo, Anima. Non è la nostra una supposizione. Lo stesso Julian, dietro cui Maiorana si cela, confessa di essere rimasto come folgorato dalla lettura di un altro testo di Hillman che ha per titolo Le storie che curano.

Anima, ovvero un manuale, anche, di psicoterapia

      Anima si può considerare anche un manuale di psicoterapia. Non dimentichiamo infatti che Julian è uno psicoterapeuta e come tale non può non rappresentare col distacco dovuto il modo in cui avvengono gli incontri con i suoi pazienti. Solo che Julian è uno psicoterapeuta speciale, per così, perché il dramma vissuto, la morte di Alison, lo ha sconvolto e soltanto con l’aiuto della sua amica Sarah, Sarah Crawler, anch’essa  psicoterapeuta, può uscirne fuori. Sicché si ha un Julian nel duplice ruolo, da un lato un Julian malato, un paziente che si sottopone alle sedute con Sarah, dall’altro lato, un Julian apparentemente guarito che torna a esercitare la sua professione per guarire chi è affetto da turbe più o meno psichiche. Da qui, dei veri e propri incontri realisticamente descritti dove domande del terapeuta apparentemente innocue finiscono con l’avere risvolti profondi nell’animo e nell’anima di chi si sottopone a una terapia del genere. Ricostruiamo uno di questi incontri avvenuti, precisa Maiorana, al settantaduesimo piano di un grattacielo al centro di Manhattan di New York. Il cielo non poteva che essere grigio quando Julian comincia la terapia, come grigio, incolore il suo stato d’animo, il suo umore: “Nella sua mente si affollavano dei tristi pensieri” (p. 30) e tutti convergevano, come in un gorgo, alla morte inspiegabile di Alison. Le domande che Sarah rivolge a Julian sdraiato su un lettino sono empatiche, di immedesimazione nello stato d’animo del paziente, hanno proprio lo scopo di interrompere il flusso di pensieri che angosciano Julian. Dopo alcune considerazioni su taluni aspetti della psicoterapia, come ad es., sul transfert o sul potere che ha di rimuovere immagini conturbanti, Sarah manifesta, senza esitazioni, lo scopo di queste sedute: “Voglio, dice perentoriamente, che tu guarisca raccontando la tua storia” (p. 32) e aggiunge: “Le storie raccontate dai pazienti hanno un effetto terapeutico, guariscono” (Ivi). Da qui, in uno col mutare del panorama che comincia a farsi meno grigio e gravido di colori meno opprimenti, le domande che Sarah rivolge a Julian su un’immagine, su un colore, su qualcosa che lo ha impressionato o emozionato quando era bambino. Alle risposte di Julian, le domande di Sarah si fanno più impegnative, più incalzanti. Da qui, richieste di chiarimenti sulla musica, giusto perché Alison era una pianista, sul tempo che scorre, su Alison, sui genitori. Julian nel rispondere a Sarah sembra uscirne rinfrancato, guarito e ancora più convinto della indispensabilità dell’aiuto che uno psicoterapeuta può dare a una umanità malata, ferita da mille angosce tutte diverse e diverse per intensità. Ciò si può constatare quando Julian ritorna nell’isola non più come paziente, ma come medico, medico dell’anima. Vedremo nel prosieguo dell’analisi come in altri tratti il romanzo si fa saggio. Per il momento, è opportuno dare qualche ragguaglio sui personaggi che intervengono nel romanzo.

  I personaggi. I personaggi ‘comparse’

        Il racconto ci presenta due gruppi di personaggi antitetici fra loro, gli amici di Alison e Julian e i pazienti con turbe psicologiche, antitetici poiché nulla sappiamo sul piano psicologico del primo gruppo. Conosciamo soltanto i loro nomi, le loro tendenze artistiche o le loro professioni, anche se è proprio fra questi che si cela l’autore e meglio, come si è detto, l’autrice del crimine. Si tratta di vere e proprie ‘comparse’ che nulla aggiungono e nulla tolgono allo sviluppo del racconto. Marco Velani è un anestesista, e la sua compagna, Anne, una esperta d’arte e insegnante di pittura presso un’accademia. Si tratta di persone dalla vita apparentemente tranquilla, divisa tra lavoro e affetti. E così si può affermare di Claire e di Christian, che gravitano nel mondo fiabesco del balletto. Anche di Jane, Jane Melandri, e di Thomas Viviani sappiamo soltanto che come Julian sono affermati neuropsichiatri e così ancora di amici di cui Maiorana cita il nome e la professione. L’unico di questa cerchia di amici che possa far pensare all’autore del delitto è Thomas Dawson, allievo prediletto di Alison. La sua “possente struttura fisica, si legge nel romanzo, gli avrebbe permesso di sollevare Alison come un manichino” (pp. 37-38) e appenderlo afflosciato, inerte, disarticolato, al ripiano più alto della libreria così come venne trovato il cadavere. Lo lascerebbe pensare anche una telefonata dell’amica Jane che  informa Alison del prosieguo delle indagini secondo cui alcune impronte trovate appartengono a un uomo. L’uso dell’indicativo presente sembra avvalorare questa ipotesi. Pure, come ormai, sappiamo non è così.

I personaggi con turbe psicologiche: Soleil, Shana, Lara, Robert

        Agli amici di cui si traccia nel romanzo esclusivamente il profilo professionale e la cui vita sembra scorrere senza traumi sul piano psicologico, si contrappone un gruppo di personaggi con gravi turbe psicologiche. Julian dopo le sedute con Sarah crede di sentirsi meglio, di aver superato il trauma della uccisione di Alison e decide di tornare nell’isola in cui è nato e di riprendere il suo lavoro di neuropsichiatra.

      La primavera con l’esplosione dei peschi in fiore e le flagranze delle zagare sembrano preludere a una nuova vita per Julian, una ri-nascita, un ritrovare se stesso, la sua capacità di tornare a rendersi utile per la società e di tornare ad amare. Lara, Shana, Soleil, queste le sue prime pazienti, cui si aggiungerà in un secondo momento Robert.

       Col ritorno nell’isola, in uno dei tanti flashback, Julian rivive spezzoni della propria vita: Ariel, il suo primo amore, suicidatasi inspiegabilmente, gettandosi da una rupe, Chiara, altro suo amoruzzo con cui trascorreva ore e ore seduto sulla sabbia “a guardare il mare e a sognare il mondo” (p. 85), la casa dov’è nato e dove il tempo si è come fermato e tutto è rimasto come lo aveva lasciato. Ritorno dunque all’isola, a un’isola di cui Maiorana non cita mai il nome ma che da molti indizi sembra trattarsi della Sicilia. L’isola, confessa a Jane, “è un balsamo che lenisce ferite. Guardo il mare, l’alba, i tramonti e penso che l’isola sia il mondo” (p. 104), il mondo, cioè tutto anche perché vi è nato.

 

Robert, ovvero di un caso di psicosi 

       In Robert, Maiorana ci rappresenta un classico caso di psicosi, in cui la persona che ne è affetta perde il controllo delle proprie azioni ed elaborazioni mentali. Le cause, nel caso di Robert, sono da ricercare nel fatto che la madre , peraltro una tedesca e quindi lontana dalla nostra cultura, lo ha abbandonato proprio in un’età in cui maggiormente necessaria è la sua presenza. Da qui, la sua sofferenza e insofferenza maturatesi in anni e anni di macerazione interiore, di ricerca di qualcosa che non è riuscito a trovare. A ciò si aggiunga un insuccesso scolastico che lo ha portato a una sorta di ribellione e di rivalsa, di vedere nella scuola un nemico, un nemico da odiare e punire dando fuoco all’aula approfittando di una momentanea assenza dei compagni. Ma, si diceva poc’anzi, questi soggetti perdono anche il controllo dei propri pensieri e si inventano delle verità che non hanno riscontro nella realtà effettuale. A Julian che gli dice di volerlo aiutare a stare meglio, replica accusandolo di non essere un medico e addirittura di aver detto delle falsità sul suo conto. Robert non guarirà del tutto, pur avendo partecipato allo spettacolo conclusivo con cui si chiude il romanzo. Continuerà a sentire delle voci di dentro, delle allucinazioni uditive che tuttavia non sembrano schernirlo come una volta. Il lavoro di rider che procura lo distrae e aiuta a dimenticare le sue ossessioni che puntualmente riversa in un diario.

 Lara, ovvero un pizzico di pedagogia

       Il disagio psicologico di Lara non è, come si vedrà, di quelli traumatici vissuti da Shana e Soleil, ma è conseguenza ugualmente di un errato comportamento di chi ha invece il compito, come gli insegnanti, di non mortificare mai gli alunni che vengono loro affidati. È il caso di Lara che a una sua richiesta di rispiegare una lezione non del tutto da lei compresa, si sente investire dalla maestra che con occhi torvi e parole di fuoco le grida: “Sei una bambina disattenta…Non ascolti mai gli altri” (p. 100). Parole stridule che possono  provocare danni irreversibili se non opportunamente e tempestivamente curati. Maiorana non dà nessun giudizio sulla maestra limitandosi ad ascoltare la ragazza che lucidamente espone il suo disagio psicologico. “Quelle parole sono rimaste impresse, incise, nella mia memoria. Non sono riuscita a cancellarle o a rimuoverle. Ogni giorno sentivo la voce della maestra e la percepivo…come una affermazione della mia incapacità a non sapere relazionare con gli altri” (Ivi). Da qui l’insicurezza, la mancanza di autostima che possono a comportamenti compulsivi, fuori controllo, del tutto errati se non contrastati in tempo con opportuni suggerimenti. E il suggerimento che Julian dà è quello di scrivere un diario dove riversare emozioni senza infingimenti pensieri anche i più intimi, angosce, paure, sogni. “Devi essere vera, dirà Julian anche a Shana, la verità è fondamentale per guarire” (p. 116) e ritrovare la serenità perduta. E Lara ritroverà se stessa, la capacità di relazionarsi con gli altri. Apprendiamo, sul finire del romanzo, che lavora presso un artigiano dove si modella la creta e che fa volontariato andando a trovare dei bambini incurabili cui strappare un sorriso vestita da clown e raccontando loro delle fiabe tra le quali quella della maestra severa. La verità, vista ormai come qualcosa di lontano, di altro da sé, l’aveva guarita e ne poteva parlare come di qualcosa che poteva accadere solo nelle fiabe.

 Shana 

      La vicenda di Shana ci riporta ai giorni nostri con la fuga di tanti diseredati su barconi precari in cerca di un asilo che li metta al sicuro da fame, guerre intestine, pestilenze stupri. Shana ha vissuto esperienze del genere, ma è riuscita a fuggire dall’inferno siriano dove un missile aveva distrutto la sua casa e ucciso i genitori e un fratellino. Sindrome post-traumatica. Questa la diagnosi. Da qui  un disagio psicologico devastante, la paura del buio, l’immagine dei genitori e del fratellino distrutti, inghiottiti dalle macerie sempre davanti agli occhi, gli incubi nel silenzio della notte. Si leggeva nei suoi occhi terrorizzati la richiesta di aiuto a superare questo suo stato d’animo, queste sue paure, queste ombre che oscuravano la sua idea di mondo e per ciò stesso si mostrava decisa a volere collaborare con Julian per ritrovare se stessa e la sua tranquillità. Lo mostrano le sue risposte chiare, ampie, date senza imbarazzo alle domande di Julian che la invita a raccontare dei suoi sogni, dei suoi incubi popolati di esplosioni, di cadaveri, di uomini senza volto che le usano violenza, la stuprano. Queste confessioni sono un toccasana per chi è affetto da queste turbe. Apprendiamo infatti più in là che Shana ha ripreso a dipingere e messo in atto le tecniche apprese a Damasco quando, prima della guerra civile, frequentava la Scuola d’Arte.

    Soleil, invece, ha inizialmente difficoltà, come vedremo, a rievocare i suoi disagi, i suoi tormenti dinanzi ai quali l’atteggiamento di Julian è in genere quello che ci si aspetterebbe da uno psichiatra dinanzi alle confessioni dei suoi pazienti, un atteggiamento empatico, di immedesimazione apparentemente distaccata dalle loro sofferenze. “Penso che l’arte, la poesia, la narrativa, la pittura, la danza, il teatro” (p. 92), annoterà Julian nel suo diario, siano i rimedi che soli possono aiutare a superare disagi del genere. In questa notazione c’è peraltro l’annuncio di uno spettacolo in cui poesia, musica, arte in genere convergono in un capitolo conclusivo e risolutivo per tutti i pazienti.

Soleil, o di un amore nascente

       In Maiorana spesso le situazioni drammatiche sono precedute da descrizioni che non lasciano presagire nulla di buono. Così è, a. e., per l’incipit del romanzo allorché Julian scopre la morte violenta di Alison. Tutto si fa spettrale in questo inizio del romanzo: il silenzio che rimanda a mondi lontani, sconosciuti, una luna arida, smorta, l’accenno alla Terra Desolata di T.S. Eliot, la luce  giallastra dei lampioni, il tanfo di morte, di carcasse di animali in disfacimento, perfino il miagolio di un gatto simile ai vagiti di un bimbo appena nato. Lo stesso accade con i nomi sia quelli comuni che propri di persona, che si caricano di un significato simbolico. Si è visto come l’accenno alla primavera sia come un risveglio, un rinascere a nuova vita. Analogamente avviene per Soleil, in francese Sole. Non è un nome scelto a caso, né la motivazione va ricercata nel fatto che la madre era francese. Anche in questo caso Soleil è sinonimo di luce, di vita, quella vita che soltanto un innamoramento puro, non viziato dall’idea di possesso può suggerire. E infatti – è opportuno dirlo subito – Soleil finirà con l’occupare il posto che Alison occupava nella vita di Julian. 

      Soleil ha subìto diversi traumi tra i quali quello della morte della madre vissuta come un abbandono, trauma al quale si è aggiunto quello del ragazzo di cui s’era innamorata e che era scomparso prima della nascita del loro bambino. Sofferenze, queste, abbandoni che ne hanno fatta un’anoressica preda di una inevitabile depressione. Soleil, annoterà Julian nel suo diario – ed è qui, come in altri passi , che il romanzo si fa saggio – “non ha fiducia in se stessa” (p. 91), vede solo le brutture del mondo nel quale vive. “La psicoterapia dovrebbe stimolare la sua ‘anima’ a produrre immagini di vita, immagini positive” (Ivi). Ed aggiunge, ripensando a quanto aveva pensato per Shana: “Un’esperienza artistica le permetterebbe di avere maggiore fiducia in se stessa”(Ivi). Si vedrà come maturerà questa esperienza artistica. Per il momento, è opportuno ripercorrere brevemente il percorso che condurrà la ragazza alla guarigione.

      Il primo incontro con Soleil non sembra produrre risultati. La ragazza risponde con riluttanza alle domande che Julian le pone, ma lascia trapelare l’odio per l’isola dove ha sofferto. Julian capisce il disagio della ragazza e interrompe la seduta rimandandola ad altra seduta. Ma, a questo punto, accade qualcosa di straordinario tutti e due fanno uno stesso sogno. È proprio qui che il romanzo si fa palesemente saggio, perché il sogno simultaneo dà a Maiorana l’opportunità di inserire il concetto di sincronicità già descritto, ci avverte lo scrittore, da Jung nel corso delle sue ricerche. La sincronicità, spiega Maiorana, non è “un problema di comunicazione telepatica, ma qualcosa di più complesso” che annulla “le categorie di spazio-tempo” (p. 98) come accade, precisa Maiorana, “con due particelle etangled” (Ivi) e come gli confermerà più tardi Sarah arricchendo le sue osservazioni con altri particolari (p. 134). Almeno questa è anche la tesi ultima di Maiorana così come possiamo leggerla nell’ultimo capitolo del racconto: “Julian e Soleil erano come due anime inseparabili. Pensavano le stesse cose, provavano le stesse emozioni di fronte a un tramonto o a un’alba” (p.199). Insomma, le due anime si erano fuse come in un unico organismo che vive e pensa le stesse esperienze. “Le nostre anime, conclude Maiorana forse pensando al suo precedente romanzo, L’Archetipo, sono come due elettroni che, lontani anni luce, sanno cosa fa l’altro” (Ivi).

       Il sogno sincronico è foriero peraltro di qualcosa di buono destinato ad accadere. Più avanti, infatti, Maiorana riporta testualmente quella che è stata definita l’equazione dell’amore descritta dal Premio Nobel per la fisica 1933, il britannico Paul Dirac: “Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema” (p. 104). “Questa forma di etanglement, commenta ancora Maiorana pensando ai suoi futuri rapport con Soleil, “esiste tra due menti che siano legate da un vincolo d’amore o di affetto” (Ivi). È quanto gli conferma Sarah nel corso dell’ultimo colloquio telefonico nel corso del quale Julian le parla del sogno sincronico (p. 137). È una breve seduta alla fine della quale Julian mostra di  essere del tutto guarito. Nell’anima di Soleil accade contemporaneamente lo stesso fenomeno. Ne è segno il fatto che la ragazza abbraccia Julian prima di andar via dopo un incontro, abbraccio che è da interpretare come l’inizio della sua guarigione. Soleil vede in Julian un’ancora di salvezza, qualcuno di cui ci si può fidare ciecamente. Infatti, al terzo incontro, alla sollecitazione di Julian a raccontare di sé e della infanzia, Soleil si apre ricostruendo senza infingimenti i suoi rapporti con il padre, la madre, le sue delusioni, i suoi desideri, la danza, il pianoforte, il primo vero amore per un artista di strada improvvisamente scomparso prima che il frutto della loro relazione nascesse. Le sue risposte alle sollecitazioni di Julian ampie, circonstanziate, sono dunque segno che la ragazza è ormai avviata verso il superamento delle sue angosce, trasformazione, questa, avvalorata dal fatto che l’abbraccio della seduta precedente si è trasformato in qualcosa di più intimo, in un fuggevole bacio sulla guancia di Julian. Ma c’è più, l’innamoramento avviene per gradi. Alcuni pescatori trovano il cadavere di un giovane che, come Ariel, si era gettato dalla tristemente ormai nota Rupe. Si forma una piccola folla attorno al cadavere. Julian ne fa parte e così Soleil terrorizzata perché crede trattarsi di André, il padre del bambino. Si avvicina a Julian e gli sfiora la mano. È come una scintilla. Julian ha la sensazione che stesse accadendo qualcosa di nuovo e alla mano di Soleil che lo sfiora risponde stringendola nella sua e abbracciando la ragazza teneramente. Quel filo invisibile che la legava a sé si stava materializzando. La guarigione era più vicina, qualcosa ormai di incontrovertibile, contro cui nessuna forza ostile poteva opporsi (“Soleil e io abbiamo bisogno di una nuova vita” (p. 130) confesserà Julian lasciando intendere così di non essere del tutto guarito). Soleil torna a casa e ricordandosi di quanto le aveva detto Julian (“L’arte ti aiuterà a guarire dalle tue paure e dalle tue ansie” p. 113) prende la Leica che la madre le aveva lasciato e comincia a dare corpo alla sua creatività, a dare segni di un nuovo interesse a partecipare fotografando ciò che le sembrava degno di incidere su una lastra. Sembra, come si vede, che tutto si risolva per il meglio. Ma non è così. Improvvisamente si rifà vivo Andrè che vorrebbe il bambino e che tenta di violentare Soleil. Soleil riesce a fuggire con il bambino dirigendosi verso la Rupe dove la trova Julian mentre contempla il mare con l’intenzione di farla finita. Sono attimi di angoscia interminabili a cui pongono fine le lacrime che inondano le guance di Soleil mentre Julian la cinge per le spalle allontanandola dal precipizio. È a questo punto che il legame tra paziente e psicoterapeuta si trasforma in amore annunciato, come spesso accade in Maiorana in altre situazioni da immagini simboliche, in questo caso è il vento il protagonista: “In quel momento il vento di ponente che veniva dal mare soffiò forte e spazzò via le foglie degli alberi” (p. 143). Non a caso Maiorana precisa che si tratta di un vento di ponente. Ponente è la parte dell’orizzonte dove tramonta il sole. Qualcosa dunque sta per finire, per concludersi in maniera definitiva. E questo qualcosa non è altro che la fine dell’amore per Alison avvalorato dal verbo usato – ‘spazzò’ -, un verbo forte, violento, come a dire che non si trattava di amore a senso unico e cioè dal paziente verso il medico che la cura e che quindi è amore come un risarcimento o come riconoscenza. È un amore reciproco perché anche Julian non èdel tutto guarito. È quanto lui stesso confesserà quando annota sul suo diario: “Provo per lei un sentimento di tenerezza. Soleil è una piccola stella che brilla nel cielo della mia anima” (p. 150). Ma del resto, ‘ponente’ risuona ancora simbolicamente qualche rigo oltre e a proposito proprio di Alison. Julian è in partenza per Milano per uno dei pochi incontri con il magistrato inquirente e annota ancora sul diario: “Penso ad Alison quando guardo il cielo stellato dell’isola” (p.  150), e qui sembra che l’immagine di Alison sia incancellabile dall’animo di Julian, ma subito dopo, a fugare ogni dubbio, scrive: “Mi sembra di vedere il suo volto tra le nuvole quando il vento le trascina verso ponente” (Ivi). Il vento dunque, un vento di ponente trascina definitivamente con sé le nuvole e il ricordo di Alison e se anche sognerà ancora di Alison, sarà un incubo, sarà come sognare il nulla come mostra quanto ci apprestiamo a citare dove dietro a ogni parola si celano significati reconditi e simbolici: “(Alison) era nuda in un prato verde. Sembrava un fantasma. Julian la prendeva per mano e cercava di coprirla. Il suo volto era irriconoscibile (…). Julian si era tolto la camicia e aveva coperto il suo corpo quasi trasparente” (p. 157). Ma come si può coprire un fantasma, un corpo che non è più corpo, che è qualcosa di immateriale, che altro non è ormai che un ricordo? Infatti lei improvvisamente si dissolve, “la camicia vuota era caduta come un lenzuolo bianco sui fiori di campo” (Ivi) dove il lenzuolo bianco richiama il sudario, il panno con cui una volta si velava la salma di un defunto, e gli umili fiori di strada riportano agli omaggi che si fanno ai propri cari che non sono più. Il dado è tratto, è il caso di dire. Alison non è ormai che un ricordo sbiadito. Ne è una ulteriore prova il lungo bacio che Soleil e Julian si scambiano pubblicamente al ritorno di quest’ultimo da Milano dopo un ulteriore colloquio con il magistrato inquirente. Ma c’è di più. A suggello di questa intesa, i due fanno l’amore. Fuori, l’azzurro copre mare e cielo che formano  un tutt’uno “come i loro corpi e le loro anime” (p. 160). Julian sognerà ancora una volta Alison, un sogno ricco di significati che tuttavia Julian non ha voglia di interpretare. Il suo pensiero è rivolto allo spettacolo d’arte che tutti coinvolgerà amici visibili e invisibili e tutti immergerà in un bagno di bellezza.   

L’arte come terapia

       Una cifra che distingue il libro e quindi Maiorana è l’incipit di ogni singolo capitoletto che, a seconda di ciò che lo scrittore si appresta a rappresentare si carica di un’atmosfera poetica più o meno intensa e più o meno densa di significati simbolici. È anche il caso del capitoletto nel quale l’arte si fa terapia curando e guarendo ogni malessere psichico. “C’era all’orizzonte un chiarore insolito. La luce era di una polifonia che si rifletteva nell’acqua creando misteriosi riflessi” (p. 175). Già in questi brevi righi si posso cogliere significati nascosti. ‘Chiarore insolito’, scrive Maiorana, dove l’enfasi è posta sull’aggettivo ‘insolito’, perché insolito, eccezionale, straordinario è quanto sta per accadere. La luce che si smembra in più parti ciascuna a sé stante e diventa musica polifonica richiama la danza, la poesia, la musica che di lì a poco saranno le vere protagoniste di qualcosa di indimenticabile. I ‘misteriosi riflessi’ che questa luce scomposta forma nell’acqua richiamano il miracolo che la bellezza di un evento può operare in un’anima più o meno turbata.

      All’evento partecipano tutti i protagonisti del romanzo. Ritornano figure che avevano partecipato al funerale di Alison: Alexandra seduta al pianoforte, Neil Ferri, pronto col violino, e Thomas con la tromba, gli artisti Christian e Claire avevano messo su una scenografia per Soleil, Shana, Lara e Chiara. La neuropsichiatra Jane coordinerà gli interventi di quanti leggeranno poesie mentre una piattaforma sul mare doveva servire da pista da ballo. Come si può vedere musica, danza, poesia si intersecano, si fondono in un tutt’uno di gradevole efficacia tanto da destare la curiosità dei rudi pescatori del villaggio, che, lasciate le reti sulle barche, si accostano ai musicisti toccati dalla dolcezza di quanto vedevano e delle note che udivano. Siamo alla fine. È quasi l’alba. Gli strumenti tacciono. S’ode soltanto il respiro del mare nel quale si riflettono le luci di un cielo stellato mai visto prima. Qualcosa di nuovo è accaduto simboleggiato anche dalla stella ancora luminosa che l’astro che annuncia l’aurora e reca la luce del giorno, cioè il Pianeta Venere, non a  caso la dea dell’amore e della bellezza. Una dea dunque che esorta gli esseri umani ad amarsi e ad amare il bello, l’armonia, quell’armonia che è “l’anima del mondo”(p. 180).

La poetica dello sguardo

      Il libro di Maiorana si caratterizza anche per gli aspetti poetici di cui è pieno. Anima infatti si apre con tre poesie dedicate alla madre, anzi Madre, da non confondere con la madre biologica; la Madre, in questo caso, è “l’Archetipo della Bellezza” – lo capiremo verso la fine del romanzo dove le tre poesie vengono riprese testualmente alle pagine 178-179-. E l’Archetipo della Bellezza altro non è che la specie umana cui affidare senza timore di venire respinti i nostri sogni, le nostre angosce, le nostre paure, il nostro vivere.

            I versi

  I versi si aprono con una invocazione:

  Vieni, dammi la mano

Andiamo ai confini del mondo

Alla ricerca di una stella

Per vivere

     Un atto d’amore e riconoscenza, si direbbe quasi di risarcimento, in quel ‘vieni’ che si ripete nella seconda poesia con delle varianti che ne allargano, ne dilatano l’orizzonte:

  Vieni, andiamo dove le stelle illuminano

Le gocce di rugiada

Di questa notte d’autunno

L’alba brillerà nei nostri occhi pieni di stelle

Guardando l’aurora.

 

       Già si notano in questi primi versi il cromatismo (azzurri abissi, riferiti agli occhi e poi, ricorrendo alla figura retorica della sinestesi dove il suono, l’udito si fonde con la vista, esplosione di colori ancestrali, primordiali, mai visti), il tempo (le mani della Madre che lo carezzano quasi fosse il tempo un essere vivente), lo spazio, il sogno.

        Anche da questo punto di vista, il libro si può considerare come un manuale di psicanalisi almeno per chi si trovi psicologicamente in una situazione di disagio. Allora bisogna ricreare – il termine è del Maiorana – correggere l’inconscio che è in noi fin dalla nascita. Ma sappiamo anche –è ancora Maiorana che scrive – dallo junghiano James Hillman che l’inconscio è un contenitore, un miscuglio di immagini che spesso “ci fanno male, creano in noi dei malesseri, delle patologie (p. 31)”. Da qui, la necessità di “creare dentro di noi altre immagini positive, immagini di bellezza…immagini di parole, di suoni, di musica, di sensazioni, di percezioni” (pp. 30-31). Non a caso viene rivolto da Maiorana l’invito all’ascolto di brani musicali quali Melody of Love di Beethoven o Notturno di Chopin o ancora Claire de Lune di Debussy o infine Ravel, Mozart, tutti brani che Alison amava suonare e dinanzi ai quali Julian provava come un senso di benessere tale da rimanerne ‘estasiato’.

        Accanto alle sensazioni uditive, ecco quelle visive che si imprimono nella nostra anima attraverso gli sguardi, gli occhi. Gli occhi non sono soltanto l’organo della vista, sono le visioni, gli occhi dell’anima attraverso i quali è possibile penetrare e fare nostro l’affascinante mistero della vita. E qui è ancora James Hillman che ci soccorre, e non soltanto perché anche lui ha scritto un libro dal titolo Anima, ma per come ha letto il pittore americano Edward Hopper. Si guardino le sue opere. In diverse tele del pittore americano compare una finestra da cui guardare gli interni di una casa o da cui, se lo sguardo è proiettato all’esterno, fissare ipnoticamente orizzonti immobili, privi di ogni forma di vita che li animi. Le immagini appaiono come inerti, fissate, incollate sulla tela. Ma non è solo questo che conta sottolineare in Hopper. Anche chi guarda ha la sua funzione e chi guarda è in genere una donna vista di profilo o di spalle.

      Anche in Maiorana si può rinvenire una poetica dello sguardo. Non è un caso che la poesia alla madre al terzo verso fa riferimento agli occhi, occhi luminosi, e nell’altra, la  seconda, gli occhi ne sono il titolo: Se non dovessi mai più rivedere i tuoi occhi. Ma ecco la poesia che si trascrive quasi per intero:

            Se non dovessi mai più rivedere i tuoi occhi

            I tuoi occhi mi vedrebbero dal profondo

           della mia anima

           Se non dovessi mai più rivedere il tuo volto

           Sognerei il tuo volto tutte le notti per riportarlo

           alla memoria

           Se non dovessi mai più vedere la tua immagine

           Essa vivrebbe dentro di me nell’intimo

           del mio essere

     Ancora gli occhi ritornano nella terza e ultima poesia dal titolo Non spegnere mai la luce dei tuoi occhi, un vero e proprio inno agli occhi paragonati al ‘mare d’autunno’, ai ‘colori dell’arcobaleno’, a ‘diamanti feriti dalla luce dell’aurora’, alle ‘gemme di primavera’.  Non si finirebbe mai di esaltare la delicatezza e il profondo significato di questa poesia che andrebbe letta e riletta più volte per coglierne a ogni lettura significati nuovi come accade quando la poesia è autentica poesia.

      L’inno agli occhi non si ferma qui. Risuona a più riprese all’interno del romanzo. Qui  gli occhi – il riferimento è ad Ariel, ‘la ragazza più bella dell’isola’ (p. 41) sono verdi e vengono paragonati al ‘colore del mare’ (ivi), ma non di un mare qualsiasi, ma di un mare, precisa l’Autore ‘nelle vicinanze della costa’ e quindi in primo piano, e quindi intensamente verdi che diventa di un verde sempre più sbiadito man mano che ci si allontana e ci si avvicina alla linea dell’orizzonte. Il riferimento agli occhi non è solo quello citato, altri ve ne sono e tutti risplendenti di una luce nuova, vivida, “d’oro, dice il poeta, che illuminava il fondo del mare”.

La prosa poetica notturno n. 9 –

      Complementare al poeta Maiorana è il poeta in prosa, complementare perché egli anche in questo settore innova. Innova nel senso che non si pone sulla scia di Baudelaire e dei suoi Petits poèmes en prose per il quale c’era sempre un intento pedagogico al fondo dei suoi poemetti. Né rimane interessato alle poesie e alle prose poetiche dei vari Giampiero Neri, Tommaso Ottonieri, Eugenio De Signoribus nei quali l’intento etico e sperimentale è prevalente.

      A Maiorana interessano immagini di bellezza filtrate attraverso le ‘parole’ e quindi attraverso una prosa che si fa poesia o una poesia che si fa prosa. Ecco qualche esempio, ma se ne potrebbero portare tanti quanti sono i capitoletti, non numerati peraltro, nei quali si dipana il racconto. Nell incipit di uno dei primi al primo capitoletto fa il suo ingresso la luce, ma non è una luce qualsiasi, è una luce che illumina ‘alberi spogli’ (p.29) lasciando così intuire che si è nella stagione in cui tutto è letargo e silenzio e che si è in una zona dove sembrano scorrere rigagnoli: “La luce del mattino entrò nella sua camera da letto. I tiepidi raggi del sole illuminavano gli alberi spogli e lasciavano nell’acqua luminescenze dorate”. Ecco un altro esempio – siamo nel bel mezzo del romanzo – nel quale è il pittore che annota e qui vale la pena ricordare che Maiorana è anche un pittore. Maiorana osserva e descrive “Era l’alba. Una linea sottile azzurra con sfumature di rosa pallido separava il mare dal cielo. Il cielo e il mare sembravano fossero uniti come i corpi di due amanti in attesa dell’aurora. Il cielo era coperto di piccole nuvole bianche spinte da una leggera brezza…” (p. 85). Ed ecco infine un ulteriore brano coincidente con la ritrovata gioia di vivere di Julian e Soleil. Tutto si fa colore, luce, movimento quasi fermo, immobile, lento ritorno alla vita che riprende discretamente il suo corso: “Era un tiepido mattino di primavera. Il mare era di colore azzurro come il colore del cielo senza nuvole. Il grande disco dorato illuminava la scogliera e il faro. Un vento leggero increspava il mare. Delle piccole vele bianche, verdi e blu si muovevano lentamente verso la costa” (127). Tutto viene visto come in lontananza quasi a non volere  turbare un momento di felicità pura, in una atmosfera di leggerezza, di levità, di inafferrabilità si direbbe quasi, come quando si sfiora con le mani un tessuto di seta e se ne avverte appena il fruscio.

Tra i personaggi invisibili, il sogno

       Accanto ai personaggi per così dire fisici, i protagonisti a vario titolo della vicenda, ve ne è uno che si può etichettare come personaggio invisibile, il Sogno e, meglio, i Sogni di cui il romanzo è peraltro costellato.

       I sogni sono stati sempre oggetto di ricerca e di riflessione degli studiosi della psiche umana. Per Freud, neurologo e fondatore, come è noto, della psicanalisi, i sogni altro non sono che l’emersione, la rappresentazione di desideri inconsci e, come tali, si direbbe quasi inconfessabili; per altri neuroscienziati, Klein, a esempio, è da vedere in essi il mistero della nostra coscienza. Maiorana non si pone il problema di spiegare questo mistero. Lui si limita a descrivere i sogni, a coglierne i contorni, gli aspetti ancestrali. I sogni da lui descritti sono curiosi, nel senso di straordinari, di non comune e lunghi. E così è nel primo sogno da lui descritto alle pagine 25-27: è notte fonda, sferzata da un vento gelido. Julian raggiunge un parco al centro del quale una donna suona un piano, mentre poco distante un uomo suona un violino. L’atmosfera è surreale. La donna indossa un vestito azzurro, laminato, precisa l’Autore, e sul quale, è da presumere, si riflette la luce del globo lunare che illumina anche il biondo dei lunghi capelli ondulati e l’avorio delle mani che si confonde con l’avorio dei tasti. Tutto appare come sospeso, vissuto in un tempo lontano reso ancora più lontano dal brano che la donna suona in perfetta armonia con l’uomo: Ave Verum Corpus, un testo del XIV secolo musicato da numerosi compositori fra i quali Mozart che è quello suonato dalla donna. Questo sogno non finisce qua. Esso continua per un’altra pagina con altre ombre che si stagliano nel parco mentre in lontananza riecheggiano le note del Concerto n, 23 Adagio di Mozart, il brano, come si sa, tra i più carezzevoli se non il più carezzevole dei concerti di Mozart.

     Sogni simili sono descritti alle pagine 45-47 e alle pagine 79-80. Ma sono soltanto dei sogni che si apprezzano anche per la delicatezza con cui vengono raccontati. Sono sogni che ci trasportano al di là del tempo e dello spazio, che annullano il tempo e lo spazio così come la vita quotidiana ce li fa percepire. Un tempo immobile nella sua fluidità, nel suo trascorrere lento. Un tempo senza tempo.

Brevi considerazioni conclusive

       Quali conclusioni trarre da quanto si è detto? Intanto, va affermato con convinzione che il libro di Maiorana andrebbe letto da tutti, perché tutti siamo in misura minore o maggiore presi da turbe psichiche e che quindi non se può trarre che giovamento da quanto Maiorana ci segnala e segnala a se stesso (il protagonista, Julian, lo ricordiamo è il personaggio dietro cui Maiorana si cela, finisce col curare e guarire se stesso riconciliandosi con la vita, superando l’angoscia andando a vivere con Soleil e ritrovando così la sua pace, l’equilibrio e l’armonia interiori). Anima è inoltre un libro godibile sotto tutti i punti di vista. A parte il fatto che si è davanti a un romanzo complesso, come afferma Ubaldo Giacomucci in sede di postfazione, Anima, val bene ricordarlo, ricalca il titolo di un omonimo libro di James Hillman. Ciò non significa che si è davanti a una ripetizione. Anima è un libro unico, irripetibile, inimitabile. Unico anche e forse soprattutto perché Maiorana ha prodotto un giallo a lieto fine non perché come in tutti i gialli il colpevole del delitto viene individuato, ma perché ci affranca da tutto ciò che ha il sapore, rancido, della morte, da annoverare, come si è detto, tra quelli che curano, di Hillmaniana memoria; unico, infine, per la prosa poetica e la poesia che lo pervadono, per la levità di un linguaggio che è tutto da scoprire e da gustare.

      Come non accogliere allora il messaggio di Maiorana? come non fare nostro l’assunto che la bellezza emenderà il mondo, lo purificherà, lo guarirà e lo salverà? Tutta la vicenda narrata da Maiorana mostra che, sì, si può. Si deve, a parte l’augurio che un regista si accorga del libro di Maiorana e ne tragga un film. Il giusto dosaggio tra l’inevitabile lentezza di alcune scene e meglio visioni oniriche e le scene piene di movimento, concitate lo lascerebbero sperare.                                                            

                                                               V. R.




Pioggia notturna

Un tiepido sole

m’ha inondata di raggi

nel mattino. Tra questi rami

spogli dell’inverno, parla di gioie

remote, di pigre estati in cui

spirano zefiri nella dolcezza

amara che l’anima respira.

Passeggio sulla terra 

che ha accolto la pioggia del Buon Dio

la notturna pioggia che benefica l’anima;

penetro nell’intrico di ramaglie

bagnando un poco le mie vesti

un poco il viso.

Sento gli effluvi, sotterranee essenze

spargersi in muschi e in capelvenere

nelle orme che segnano i miei passi.

Mi sento benedetta da questa lacrima

di cielo in un baluginio iridiscente,

da questa pioggia che fu data alla terra

come dono e, forse, inopinabile promessa.

Rossella Cerniglia

(da Mito ed Eros. Antenoro e Teseo con altre poesie, Genesi ed., Torino 2017, p. 31)




Ufo

Sospeso nel vuoto

riluce

scheggia di specchio

nell’etere azzurrino

e brilla indifferenza

come quando dalle mani del giorno

ti giunge l’evento quotidiano.

Così furono nel cielo terso

diamantino

un mattino forse di maggio

tanto tempo fa.

Rossella Cerniglia

(da Il retaggio dell’ombra, Guido Milano ed., Milano 2019, p, 96)




 Francesco Oliviero – Corrado Barba, Il Test Kinesiologico Quantistico (TKQ), Firenze 2021, pp. 420.

Guarire con la kinesiologia quantistica

     Abbiamo seguito molto da vicino l’attività e l’opera di Francesco Oliviero, napoletano di nascita e siciliano di adozione, e restiamo sempre meravigliati per la dinamicità con cui si dà anima e corpo alla professione medica e alla diffusione dei ritrovati della scienza, per quanto riguarda la medicina non convenzionale, che, prendendo le mosse da quella di origine orientale, dà risalto all’uomo e alle sue capacità di autoguarigione.

     Dopo le pubblicazioni che documentano il percorso umano e professionale di Oliviero (Benattia, Acqua e coscienza, Manuale del benessere ed altre ancora) nel campo dell’omeopatia, dell’omeosinergia, supportato dalla fisica quantistica, il nostro autore è approdato alla kinesiologia che già aveva cominciato a fare i suoi primi passi negli anni Sessanta. Ad essa è dedicato questo nuovo lavoro, Il Test Kinesiologico Quantistico (TKQ), pubblicato a Firenze nel 2021 per i tipi della Libreria Salvemini, in collaborazione con Corrado Barba che tratta l’aspetto storico e psicologico, mentre Oliviero quello strettamente kinesiologico quantistico. È un lavoro ben riuscito, ricco di spunti che aprono alla conoscenza e spingono il lettore ad approfondire aspetti che, pur avendo attinenza con la vita pratica, non è di tutti conoscere. 

     L’argomento del volume è la kinesiologia, che come ricordano gli autori nella prefazione, in senso etimologico, altro non è che «lo studio dei muscoli e del loro funzionamento, applicato alle condizioni fisiche o correlato a degli stimoli». Nella sostanza, essa ci mette a tu per tu con il nostro corpo, in quanto entità  vibrante, capace di far conoscere i lati oscuri che albergano dentro di noi e che ci portiamo dietro. Conoscerli significa poterli eliminare, e così armonizzare e dare benessere al corpo, tramite il test kinesiologico. Indispensabile è, comunque, la “consapevolezza”, che è alla base di ogni riuscita. Come è bene che sia, non mancano i consigli.

     «La Kinesiologia quantistica è una disciplina di indagine interiore prettamente pratica e il suggerimento è quello di effettuare anche un corso con un docente esperto proprio per verificare il proprio grado di acquisizione delle tecniche. In ogni caso una delle cose sulle quali di solito si sorvola è il retroterra teorico che va ben oltre una semplice disamina di aspetti storici e culturali (ib. p. 11).

      Il volume contempla due parti: la teorica e la pratica. La teorica è quella più ampia (13 capitoli), la pratica si compone di 2 capitoli (14 e 15) ed offre esempi di test e considerazioni, molto utili per chi vuole avventurarsi in emozionanti scoperte, perché di scoperte si tratta.

      Corrado Barba rifà in sintesi la storia della kinesiologia, che si sviluppa a partire dagli anni Sessanta negli U.S.A. per merito di George Goodheart e i suoi seguaci, e in Europa negli anni Novanta come Metodo INTEGRA, ad opera di Roy Martina. A svilupparlo e a farlo meglio conoscere fu Marcello Monsellato, di cui fu allievo Francesco Oliviero. Scrive a proposito Barba:

      «Il dott. Francesco Oliviero ha imparato il test kinesiologico direttamente dal dott. Monsellato e l’ha applicato per più di dieci anni sotto forma di test kinesiologico omeosinergetico fino al 2011, quando ha ideato il nuovo TKQ, integrandolo con le applicazioni pratiche della fisica quantistica nella realtà quotidiana» (ib., p. 18). 

     Barba supporta e documenta in questo interessante lavoro d’insieme le conoscenze acquisite e praticate da Oliviero prima e dopo il 2011, da quando cominciò a praticare il test kinesiologico quantistico, fino alla data odierna. Non si limita a fare la storia del TKQ, ma aggiunge considerazioni proprie e fa riferimento a filosofi antichi e moderni che rendono la pagina allettante e ricca, tale da allargarne la prospettiva, e il lettore con maggiore cognizione di causa può farsi idea di quello che ruota attorno e dentro di noi.  A mo’ di esempio, nel capitolo 3, dove affronta e riprende il tema de “I ricordi e la memoria”, sviluppato dal punto di vista di medico-terapeuta dal dott. Oliviero, per essere più incisivo, si rifà a Platone e ne ricorda i miti che ad esso si collegano; tema, come giustamente ricorda, ripreso non soltanto da Platone e da tanti filosofi dopo di lui, a cominciare da Aristotele, Agostino o, in tempi più vicini, da Bergson, Ricoeur ed altri, oltre che dai  pionieri della psicanalisi e da Freud. C’è negli autori, e qui nello specifico in Barba, l’interesse di partecipare alle tante conoscenze che dovrebbero essere di dominio di tutti. Riprendendo, ad es., il dott. Oliviero, a proposito della memoria (ib., pp. 26-28), Barba scrive:

      «La memoria comune, quella che nessuno mette in dubbio e, forse, l’unica esistente per i molti, è quella cosciente o esplicita che ci serve in tutte le attività quotidiane; ma sotto la punta dell’iceberg si cela la cosiddetta memoria implicita primaria, che rappresenta tutta la parte inconscia e lascia le sue tracce nel corpo e nella mente. La memoria, che ci rende quello che siamo o che pensiamo d’essere, è un’articolata scelta di immagini, diciamo che è un puzzle di fotogrammi o di pixel che sono impressi nel cervello; ogni immagine è la fusione di tanti frammenti» (ib., p. 53).

       Molto esplicativo, a proposito, è il riportato mito di Iside ed Osiride. Come i pezzi ricomposti delle membra di Osiride, i «tanti frammenti» di memoria seppelliti nell’inconscio e ripescati con l’aiuto del terapeuta sono alla base della guarigione del paziente, novello Osiride. 

      La narrazione di un argomento non a tutti noto e non sempre facile, come la kinesiologia, procede così, suscitatrice di curiosità ed interesse. Il lettore che si accosta al libro, per  questo ed altri motivi che lo rendono piacevole alla lettura, ha modo di apprezzarlo e di rendersi conto che esso è una risorsa per l’anima e per il corpo, da leggere, preferibilmente soffermandosi su certi punti chiave che lo aprono ad una maggiore comprensione.

 ***

      Argomento del capitolo 2 è “Il TKQ e le memorie”, svolto da Francesco Oliviero e ripreso, come abbiamo visto, dal punto di vista storico e psicologico da Corrado Barba. È, in fondo, l’argomento su cui permea tutto il libro, di grande interesse, perché alla sua base c’è l’uomo e la sua anima, la parte che si dissolve e quella eterna.

     Rifacendosi ad Hamer, il dott. Oliviero riprende il tema della malattia, affrontata in altri suoi scritti, tra cui in Benattia (20042), e ritenuta un conflitto causato da «un’angoscia inespressa», che spesso, cogliendo di sorpresa e non essendo facile poter gestire, procura disagio e rende psicologicamente provati. Leggiamo:

    «Il senso della malattia è quello di ristabilire un equilibrio; una malattia riequilibra simbolicamente l’individuo in disequilibrio a causa della sua intima sofferenza. Per tale motivo, il terapeuta deve portare alla coscienza ciò che è stato occultato nell’inconscio. In sintesi, possiamo dare un nuovo significato alla malattia, alla luce di una nuova Consapevolezza. La malattia è dunque la necessità di una compensazione simbolica a una sofferenza non espressa, a un’angoscia vissuta in un istante, che crea un conflitto del quale non abbiamo più coscienza» (ib., p. 20).

      Compito del terapeuta è quello di portare allo stato di consapevolezza il malato, rendendo conscio l’inconscio, per restituirlo allo stato di benessere. Continuatore dei tanti che lo hanno preceduto, compreso Monsellato, che è stato – ripetiamo – l’amico medico omeosinergetico che lo ha avviato a questo modo di concepire la malattia, Oliviero insegna nei suoi seminari (sedi fisse del suo studio sono Palermo e Bergamo) in Italia e altrove come stare bene, nonostante le difficoltà e i disagi in cui l’uomo è costretto a vivere.

      La memoria è al centro dei suoi interessi, perché spesso è la causa dei malanni e delle malattie. Qui non si tratta della memoria esplicita, quella a cui ricorriamo giornalmente per i nostri bisogni fisici o culturali, ma della memoria implicita, a cui fa riferimento Barba, che relega cose, immagini e ricordi nell’inconscio, memoria che «perde la dimensione del tempo, come se fosse in un eterno presente, e si attiva nonostante la nostra volontà» (ib., p. 23). Questa memoria che alberga nell’inconscio ed è causa di malattie altro non è che energia repressa.

     «L’accumularsi continuo dei ricordi corporei (memoria somatica) – scrive Oliviero – schiaccia col suo enorme peso il nostro corpo, e ci fa ammalare. I ricordi profondi del corpo ci accompagnano fin della nascita e anche prima; ecco perché non esiste un organo specifico della memoria, in quanto tutto il corpo si ricorda di precedenti esperienze. Ogni parola, ogni gesto, ogni azione è il risultato di un processo fisico che si è stabilizzato nel corpo» (ib., p. 25).

        È, quindi, il conflitto che viene a generarsi all’interno del nostro corpo il generatore di malattia, sintomo di richiesta, sempre da parte del corpo, di un intervento per autoguarire; esso porta a galla memorie che sono causa di malessere, e di qui il bisogno di dargli ascolto. Oliviero, come altri studiosi, ne è convinto e insiste a parlare di “benattia”, lo stare e come poter stare bene, traguardo che si può soltanto raggiungere attraverso l’accettazione della stessa malattia. Il consiglio, che come medico dà, è quello di non allarmarsi, di aver fiducia, addirittura di parlare con la parte del corpo lesa e di essere consapevoli di ciò che si sta vivendo. Proprio per questo, dando valore alla parola, egli, medico e terapeuta, fa un salto di qualità, passando dall’applicazione del test kinesiologico omosinergetico a quello kinesiologico quantistico.

       Partendo dalla logosintesi di W. Lammers che utilizza la parola per fare emergere nel paziente energie bloccate che lo condizionano e dargli così consapevolezza e benessere, Oliviero se ne serve, dopo aver eseguito il TKQ nel paziente, utilizzando la LMI (Liberazione di Memorie inconsce) tramite il ricorso al “Qui ed ora…” all’inizio di ogni frase. Scrive:

     «La diagnosi energetica viene svolta interamente dal TKQ attraverso l’individuazione dei conflitti primari, collegati con le memorie dell’inconscio, che riverberano nel presente della persona e ne condizionano la vita. Poi si applica la tecnica di scioglimento delle memorie conflittuali. Tutto diventa lineare e semplice, incisivo e delicato al tempo stesso, utilizzando il grande potere creativo della parola, ed esaltandone ancora di più lo scopo finale: la liberazione dell’individuo dalle sue schiavitù cognitive, dalle sue convinzioni e credenze che lo tengono prigioniero della mente egoica, del diaballon [parola che deriva dal greco antico e che significa “ciò che divide, che separa”] (ib., pp. 316-317). 

       Lo studio, la ricerca, la fisica quantistica, sono i fondamenti su cui il dottore e terapeuta Oliviero costruisce il percorso di guarigione del paziente, restituito alla consapevolezza. Ne risulta che il TKQ è liberatorio e il paziente può ricominciare a vivere la sua vita di sempre. Al centro del test non c’è l’ammalato-cavia, costretto a prendere medicine che bloccano il sintomo ma non guariscono, ma l’uomo che, avendo sbloccato conflitti dimenticati e occultati nel suo inconscio, ritrova la fiducia in sé e negli altri. Per questo, a chiusura del volume, è riportata la parte pratica, con esempi di test, i cui risultati sono abbastanza positivi e sono da stimolo per il miglioramento degli studi e delle tecniche in tale direzione. 

       Il bello di questo libro è che apre il lettore ad una maggiore comprensione di sé e del mondo che lo circonda, non tutto visibile, ma confortato da consolidate leggi della fisica e da un inconscio che andrebbe da tutti esplorato e conosciuto per vivere appieno la propria vita. Questo è il messaggio che traiamo dalla lettura, ed è un messaggio di amore e di comprensione con una forte spinta all’unità per riconoscerci parte del Tutto che alberga in noi e nel mondo. 

        Salvatore Vecchio




La guerra e le sue vittime: «Quando scoppia la guerra la prima vittima è la verità.» Senatore Hiram Johnson, 1917

       Un vecchio proverbio recita: «Chi semina vento, raccoglie tempesta». Ed è quello che avviene quando si entra in guerra. I nostri detentori del potere, incuranti della volontà del popolo e della Costituzione1, invece di dirimere diplomaticamente controversie e attriti fra nazioni, non fanno altro che schierarsi a favore di una o dell’altra delle parti belligeranti, come è avvenuto per le guerre russo-ucraina e israelo- palestinese, mandando aiuti ed armi, con i conseguenti aggravi sul popolo, “sovrano” nella Carta, ma nei fatti chi subisce le conseguenze di eventuali allargamenti dei conflitti o l’aumento esagerato dei prezzi di ogni genere, compresa la benzina. Una tempesta che vede in crescita i disoccupati, il numero dei poveri e dei senza tetto, e la ricaduta in negativo sugli enti pubblici e privati, la sanità, ridotta agli estremi, la scuola e tutto il resto.
      Il vento della guerra non cessa mai, perché non cessa nelle menti dei potenti l’ingordigia, la sete di dominio e di ricchezza. Ma l’homo omini lupus, ripreso da Hobbes, spesso non fa notizia, non se ne parla e non si sa niente delle tantissime guerre che si combattono nel mondo; interessano ai promotori e a chi sta loro dietro. In ogni caso, la prima vittima a cadere, come scrisse il senatore Johnson, è sempre la verità, accompagnata dalle tante vittime dell’una e dell’altra parte, spesso innocenti che non avevano niente da spartire con la guerra, tolte barbaramente alla vita e all’amore dei propri cari.
       La verità è la prima cosa che in guerra si oscura per insabbiare l’orrore, annebbiare le menti e farle parteggiare. Prima di agire, la stampa e l’etere vengono asserviti e non si fa altro che leggere o vedere immagini contro la parte avversa, con tutti gli orpelli che la tingono di nero; il tutto per giustificare azioni e stragi distruttive e seminatrici di morte. Sicché, dal febbraio 2023 ad oggi, assistiamo ad una danza di notizie, e siamo portati a credere come pecore al pascolo. Si condanna così la Russia, senza conoscere ciò che sta dietro alla guerra, trascinato per anni; si condanna Hamas, dimenticando che gli accampati dal 1948 aspettano una soluzione che ponga fine alla situazione precaria in cui sono costretti a vivere. Ma non si è portati a condannare soltanto, si è spinti anche ad accettare ogni sorta di reazione, bombardamenti a tappeto, senza pietà. Non importa se il tutto ricade sulle popolazioni inermi e indifese. Si arriva così a condannare l’orrore, ricorrendo all’orrore, senza un freno e con il beneplacito di tanti.
      Le grandi potenze e l’America, a parole, si danno da fare e dicono di impegnarsi per risolvere le questioni sul tappeto, ma in concreto non muovono un dito per una pacifica soluzione. Israele è una finestra aperta su quella parte di mondo, e la gestiscono a loro uso e costume. Perciò, vanificata rimane la promessa del costituendo Stato palestinese, promessa nel 1948 e non mantenuta. Così si vuole, così piace. Il «divide et impera» non è cosa passata, d’altri tempi; è attuale, attualissimo, e se ne giova chi sta dietro le quinte, che fa finta di mediare, mentre sottobanco impone.
Stando così le cose, le questioni in campo non si risolveranno mai, ed Eros e Thanatos, la pulsione di vita e la pulsione di distruzione, di freudiana memoria, non avranno pace. Questo i potenti lo sanno, ma curano il loro interesse, dimentichi che, se Thanatos dovesse avere il sopravvento, Eros languirà, e la sua caduta si ripercuoterà su di essi.
                                                                                                                                    S. V.
1 Art. 1: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
Art. 11: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».