Sironi a Marsala

Dalla fine di Giugno al 30 Settembre 1989 l’Ente Mostra di Pittura di Marsala è balzato all’attenzione della stampa italiana ed estera per essere stato sede dell’esposizione di 54 figurini allestiti da Mario Sironi nel 1933 per le scene della Lucrezia Borgia di Donizetti al I Maggio Musicale Fiorentino. Si tratta di bozzetti che suscitano curiosità e allietano l’occhio del visitatore per la vivacità figurativa e per la gioiosa varietà cromatica e ci fanno pensare a quanto stretta sia stata in Sironi la perizia del disegno e del colore con la passione del ricercatore e dello studioso della moda e delle consuetudini delle corti rinascimentali. La storia del ritrovamento dei figurini, dovuto a Mario Penelope, è ampiamente esposta nel n. 3 della rivista ?AR?E in? e nell’esauriente catalogo Sironi – i figurini ritrovati stampato dall’Ente Mostra di Marsala presso l’editore Mazzotta (Milano), con la collaborazione, appunto, di M. Penelope, C. Marchegiani (organizzatrice dell’esposizione), E. Pontiggia e del musicista-musicologo G. Petrassi. La mostra dei figurini ha avuto lo scopo preminente di voler contribuire – ha scritto Penelope – ad affermare il posto di spicco che Mario Sironi, assieme a Casorati e a De Chirico, ebbe nell’?azione di rinnovamento della scenografia italiana portata avanti negli anni Trenta/Quaranta, che determinerà uno straordinario mutamento nei criteri estetici e funzionali della messinscena?, fino ad allora basati sulla stantia e stanca concezione della ripetitività e fissità dello sfondo scenico. Se lo scopo sia stato raggiunto non è facile asserirlo, ma indubbiamente con l’esposizione dei figurini di Sironi Marsala ha offerto “alla storia dell’arte, non solo italiana (se veramente negli anni Trenta/Quaranta Firenze – secondo l’aspirazione dell’ala culturale impersonata da Pavolini ed ostacolata dal rozzo e gretto conservatorismo di Roberto Farinacci – svolse la funzione di «palestra rinnovatrice della scenografia europea»), un importante tassello mancante del complesso profilo artistico e culturale della seria e inquieta personalità di Sironi. Certo è che con il ritrovamento dei figurini e con l’argomentata illustrazione che se n’è fatta vien fuori un altro suggestivo lato del prisma affascinante che fu, e sempre più va definendosi, Mario Sironi, il lato dello sceneggiatore. Si può infatti ammettere ancora oggi che Sironi negli anni precedenti la 2a guerra mondiale fu, suo malgrado e senza ombra di servilismo opportunistico, al centro del fragore plaudente ed interessato di certa critica «ufficiale» la quale mirò ad evidenziare di più gli accenti enfatici ed ipertrofici di alcune figurazioni architettoniche o monumentalistico-celebrative. Eppure non si può negare la forte tensione morale e culturale di un uomo che sperimentò e seguì le fasi dell’arte pittorica italiana ed europea del ‘900 mantenendo integra la sua autenticità, propugnando e forgiando teorie artistiche come quella del «Novecento storico», la quale tanta parte ebbe nell’evoluzione della pittura fino ai nostri giorni e nell’avviamento al successo di tanti pittori ancora viventi, o come quella contenuta nel «Manifesto della pittura nurale» sottoscritto assieme a Carrà, Funi e Campigli. Né si può negare il suo ruolo di messaggero dell’arte italiana all’estero e di interprete onesto e serio della società del suo tempo, a tal punto coerente da subire gli strali di Farinacci per la sua presunta arte bolscevica e antitaliana e da essere per sempre escluso dalla partecipazione alla Biennale d’Arte di Venezia. Fu anche vignettista e caricaturista, illustratore e grafico di giornali e riviste di alto livello culturale, disegnatore eccelso, critico d’arte, scultore, decoratore, architetto.

Tutti questi aspetti dell’arte e della vita di Sironi, oggi, dopo l’oblio e la coltre dei pregiudizi successivi al crollo del fascismo, vanno approfonditi e volti alla ricerca del filo unitario che li collega. È questo insomma il compito essenziale dell’opera di riconsiderazione e rivalutazione equilibrata e disinteressata della questione sironiana. A tale scopo il catalogo Sironi – (figurini ritrovati fornisce una ricca bibliografia, utilissima a chi voglia avventurarsi in una ricerca seria ed efficace. A noi piace sottolineare che anche a questa domanda di ricerca dell’unità nella molteplicità sironiana la mostra di Marsala ha cercato di dare un tentativo di risposta, quanto meno perché assieme ai 54 figurini della Lucrezia Borgia ha offerto ai visitatori, venuti da ogni dove, la visione di 58 opere tra dipinti a olio e tempera, manifesti pubblicitari, schizzi e disegni a carboncino, a inchiostro, a matita, che abbracciano tutto l’arco della produzione sironiana dal 1902 al 1960. Sorprende nel confronto di tali dipinti con i figurini la differenza di tonalità cromatica: vivace nei bozzetti scenografici e prevalentemente solenne nei dipinti. Ma negli uni e negli altri predomina la scrupolosa serietà del segno e delle linee. Un’altra questione da affrontare nella ricerca su Sironi è la diversità del suo stile di vita e della sua produzione artistica degli anni successivi alla 2a guerra mondiale rispetto a quelli antecedenti. Nel periodo che precede la guerra si avverte una diffusa tendenza a non disdegnare le plaudenti frequentazioni e cerimonie pubbliche e a rivolgere messaggi «costruzionistici» all’utenza sociale dell’arte fino al punto di sentenziare il ripudio del quadro da cavalletto, perché – diceva – serviva solo per la distrazione del proprietario, per l’intimità del salotto e il gelido e marmoreo silenzio delle pinacoteche. Dopo la guerra, e sino alla fine della sua vita, Sironi si chiude in se stesso, dentro una solitudine asociale e scontrosa della quale mi sembra sia la più emblematica parossistica e sublime trasposizione quel dipinto famoso, l’Invocazione o l’Urlo, che avemmo modo di ammirare nella 1a Mostra Collettiva Nazionale di Pittura Contemporanea svoltasi a Marsala nel 1961, anno stesso della morte del pittore.

La soluzione della questione, intrecciata implicitamente con quella dell’evoluzione materica della sua pittura, non è facile. Ma può azzardarsi l’ipotesi

che il crollo di un’epoca e dei sogni esistenziali e prospettici ad essa connessi abbia inciso profondamente nell’animo dell’artista fino a fargli intendere che tutto ciò che l’uomo presume di costruire finisce travolto e distrutto dagli eventi inevitabili del tempo e che l’unica architettura che resta eterna, fino a identificarsi con il Dio da lui negato per tutta la vita e forse invocato nel dipinto l’Urlo, è la materia o natura che dir si voglia. A tal proposito mi pare che il giudizio più valido e più sintetico sulla pittura di Sironi sia quello espresso da Massimo Bontempelli che magistralmente così definisce l’oggetto delle prevalenti e conclusive attenzioni pittoriche dell’artista: «un mondo millenario che pare prosciugato dai miliardi di occhi che lo hanno veduto esistere».

Gaspare Li Causi

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 51-53.




 Pavese e il «Taccuino segreto» 

Nell’estate del ’90 il cielo della cultura letteraria è stato percorso dall’elettrizzante balenio della polemica intorno alle inopinate o presunte novità insite nel «Taccuino segreto» di Cesare Pavese pubblicato da Lorenzo Mondo su «La Stampa» di Mercoledì 8 agosto 1990. 

Per la verità, già il 22 Luglio 1990, Roberto Cotroneo aveva sentenziato sul settimanale «L’Europeo» che di Pavese è rimasto molto poco nella cultura italiana al punto da essere diventato personaggio d’archivio da «scrittore-simbolo» che sarebbe stato per diverse generazioni dalla Resistenza in poi. 

Con chiave problematica invece il quotidiano «La Repubblica» sul supplemento Mercurio del 10-3-90 gli aveva dedicato una serie d’interventi critici e di interviste di Giorgio Manacorda, di Alberto Moravia e di Edoardo Sanguineti. 

Il 1° Settembre ’90, ancora su «L’Europeo», Saverio Vertone accennava a una lecita demolizione che starebbero subendo i miti culturali e antifascisti della Casa Editrice Einaudi e quindi anche i miti di Pavese e di Vittorini. 

Si potrebbe obiettare che ciò può essere vero e può non stupire, se si pensa agli alti e bassi che la storia e la critica letterarie hanno riservato alternativamente ai grandi scrittori e poeti e se si tiene presente che il padre stesso della nostra lingua nazionale, l’Alighieri, per il lungo tempo in cui la nostra storia fu caratterizzata dal sonno e dalla sottomissione dell’Italia al resto d’Europa, rimase trascurato e qu~si dimenticato e se anche ai nostri giorni, forse per la sferzante moralità della Divina Commedia e per lo sconcerto da essa suscitato fra tanti idolatri dei miti della dissoluzione, aleggia la tendenza a tenerlo ben conservato negli archivi dei dimenticatoi. 

Quanto a Pavese si può asserire serenamente che il vasto interesse e i controversi commenti provocati dalla pubblicazione del suo «Taccuino segreto» sono sufficienti a dimostrare che l’intellettuale Pavese ha ancora, e lo avrà nel futuro, sia pure fra le carte d’archivio, qualcosa da dirci. 

Quanto all’utilità dell’iniziativa. della pubblicazione, come anche della annunciata (sempre da Lorenzo Mondo su «La Stampa» dell’I-9-90) stampa dell’inedito giovanile pavesiano «Frammenti della mia vita trascorsa» nella edizione integrale del «Mestiere di vivere», non dovrebbero sussistere dubbi, sebbene Fernanda Pivano, per comprensibili motivi di affettuosa stima da cui in qualità di sua fidata ex alunna era stata legata a Pavese, abbia dichiarato, con dolente rammarico, che «non è possibile, in alcun modo, varcare il muro della vita privata». 

Va, anzi, detto che se gli eredi dell’autore hanno consentito la pubblicazione dell’inedito e se è vero (e in ciò è da condividere la tesi esposta da Vittorio Strada su «La Stampa» del 14-8-90) che esso .riguarda una realtà intellettuale già di per sé significativa e, attraverso di essa, una realtà collettiva, di ancora più vasto significato», l’analisi del documento è provvidenziale per la cultura italiana e, se condotta con serenità immune da .intenzioni scandalistiche, può, pur non aggiungendo nulla – come dice Natalia Ginzburg – alla grandezza dello scrittore, servire a vederne i lineamenti con maggiore chiarezza e può indurre a una più rigorosa ripresa di ricerca e di rivalutazione non solo di Pavese, ma anche di tutta una grande stagione della cultura italiana. 

Il punto più esplosivamente stupefacente per molti lettori sembra essere stato e sia quello della presunta scoperta di una segreta simpatia, intorno al 1942/43, di 

Pavese per il fascismo e addirittura per i famosi punti del Manifesto di Verona e per la Repubblica Sociale. 

Da qualunque angolo visuale la questione venga osservata (da quello della Pivano, la quale negli appunti del Taccuino vede nient’altro che meditazioni per la definizione del personaggio Lucini de «La Casa in collina»; o da quello di Alessandro Galante Garrone che collega l’appunto relativo alla sterile litigiosità degli antifascisti al ricordo della discussione effettivamente avvenuta nel 1942 in casa del filosofo Geymonat e della veemente sfuriata di Pavese nei confronti dell’ex detenuto comunista Capriolo e di tutti gli altri presenti per il «loro almanaccare e brancolare incerti sul da farsi»), o si voglia riferire il detto appunto del Taccuino alle controversie politiche in seno alla Casa Editrice Einaudi, cui aveva fatto cenno Giaime Pintor nella lettera da Roma all’amico Pavese del 26 agosto 1943, una cosa balza evidente: che il Taccuino, oltre ad aiutarci a lumeggiarne l’autore nella sua interiorità, ci persuade, ancor più di prima, della emblematicità dolorosa ed ambiguamente radicata nell’humus del «vizio assurdo» di un intellettuale che riflette letterariamente e poeticamente il dramma collettivo di una generazione in traumatica crisi storica. 

Perché stupirsi di un Pavese che nel 1942/43 abbia nutrito, sia pure nel riservato laboratorio della fantasia di poeta, pensieri di eventuale adesione a un fascismo che, «avendo imparato molte cose dalla guerra», avesse «troncato gli indugi» e si fosse liberato dagli sfruttatori o stesse sul punto di «dare all’Italia l’unità repubblicana dopo averle dato quella nazionale»? 

Tutta una generazione di giovani intellettuali e, comunque, di giovani pensosi del loro destino vissero in bilico fin dalla fine degli anni ’30 tra le incerte prospettive dei cospiratori antifascisti con cui venivano sporadicamente o frequentemente a contatto e la routine della realtà quotidiana, oppure maturarono nella riflessione sui concetti di giustizia sociale proclamati dalle varie fronde germogliate all’interno dei G.U.F., dei Littoriali e dei Ludi Iuveniles le premesse della loro adesione all’antifascismo e soprattutto al PCI nel fuoco della lotta di liberazione al Nord e in Sicilia nel bel mezzo dello sbarco (o della sua imminenza) degli Anglo-Americani. 

A documentazione di tale travaglio generazionale c’è tutta una serie di testimonianze e di pubblicazioni fiorite intorno agli anni che vanno dal 1946 al 1960 e che probabilmente oggi danno fastidio a certa estesa tendenza alla superficialità. Per tutte basta ricordare «Il lungo viaggio attraverso il fascismo» di Ruggero Zangrandi, edito da Feltrinelli nel marzo del 1963. Ognuno, poi, di coloro che hanno vissuto l’adolescenza o la prima giovinezza intorno agli anni 1937-47, avrebbe ricordi a mai finire da trasferire alla vita dell’arte poetica o narrativa, se avesse l’estro d’un artista come Pavese. 

Conosco non poche persone della mia città che, al pari del personaggio Pippo del racconto pavesiano «Il Capitano» scritto nel 1942/43, frequentavano in pieno fascismo un comunista (tale Cecé Azzaretti) reduce, in seguito a condanna del Tribunale Speciale, da cinque anni di carcere e che contemporaneamente frequentavano i campi DUX e partecipavano alle festose manifestazioni e adunate ginnico-sportive della G.I.L. Più d’uno di essi (che poi sono diventati e sono comunisti), condividendo le utopiche idealità di giustizia sociale trasudanti dalle letture del «Tallone di ferro» di Jack London e dei romanzi «La madre» e «La spia» di Massimo Godo, procurati loro clandestinamente, finivano spesso con il soggiungere nei colloqui con l’Azzaretti che la giustizia sociale, in fondo in fondo, se era tradita dai gerarchi fascisti, era tenacemente voluta da Mussolini e che ci sarebbe voluto un Mussolini per ogni città. Altri, ancora adolescenti, attraverso l’offerta insistentemente propinata dai libri di testo, dell’apologo di Menenio Agrippa o dell’esempio di vita dei Gracchi e di Cornelia loro madre virtuosa, avevano con angelica ingenuità creduto nel corporativismo come scudo protettivo della classe lavoratrice e degli oppressi. 

Tale credenza durò fino a quando la guerra e il mercato nero tolsero il velo alla verità e indussero molti a riporre o, meglio, a trasferire nella forza politica che più accanitamente aveva lottato contro il fascismo e da questo era stata altrettanto accanitamente combattuta e perseguitata, cioè nel P.C.I., l’ideale di giustizia dal fascismo solo a parole proclamato. 

Molti altri giovani, almeno in Sicilia, videro, proprio come il Pavese del Taccuino segreto, nella monarchia in fuga da Roma e poi da Pescara a Brindisi, la fonte del marciume del regime fascista e aderirono al P.RI. e stracciarono platealmente in piazza le cartoline rosa con cui erano stati chiamati dal governo ancora monarchico a combattere a fianco degli Alleati contro la Germania di Hitler. 

Perché Cesare Pavese avrebbe dovuto essere un eroe antifascista puro e senza eventuali simpatie per la parte, diciamo così, apparentemente sociale e salvifica del fascismo, ammesso che tali simpatie non siano da considerarsi frammenti, inconsciamente e distaccatamente contemplati, del canovaccio delle sue costruzioni poetico-narrative? 

Cesare Pavese, indubbiamente, non fu un eroe o un politico militante come Capriolo o Guaita di cui parla Alessandro Galante Garrone su «La Stampa» e nemmeno fu un partigiano della tempra di un Giancarlo Paietta; anzi ebbe la sorte, dovuta forse all’asma di cui soffriva, di non andare sotto le armi (benché lo desiderasse più per unirsi agli altri e vincere la sua anomala e morbosa solitudine che per adesione agli ideali guerrieri) e quindi di non essere coinvolto nel vortice della guerra come tanti altri suoi coetanei costretti a diventare martiri o carnefici per forza, come si arguisce dalla lettura del romanzo -Gioventù che muore» di Giovanni Comisso. 

Ma voler fare apparire l’infelice Pavese come un voltagabbana e un’ipocrita che, interiormente filofascista, al momento giusto e opportuno salta sulla tradotta vincente dell’antifascismo, sembra, oltre che improponibile, una sottile tentazione mirante subdolamente a svalutare una personalità eccelsa della nostra cultura del ‘900 e a svilire sull’altare di certe spregiudicate tendenze a deprimere ogni rigore morale e ad esaltare certo frivolo consumismo e facilismo letterario, la base culturale su cui si fonda la democrazia italiana rinata dalla catastrofe della 2a guerra mondiale. 

Pavese non fu, certamente, negli anni 1942/43 – lo ripetiamo – uomo politico. Lo dichiara egli stesso nella lettera da Torino a Fernanda Pivano del 2-8-43: «Non ho niente da guadagnare dalla politica» e lo dichiarerà più tardi, a liberazione avvenuta, quando ad Einaudi che gli chiederà quale fosse il suo ideale partitico risponderà semplicemente di essere poeta. Lo si deduce dalla lettera a Giaime Pintor del 13-8-43 in cui l’impegno letterario sembra decisamente prevalere, pur in momenti tragici come quelli dei primi giorni dopo l’arresto di Mussolini, su quello politico. Egli infatti così scrive: 

«Caro Pintor, grazie del giornalino. Ma ormai ne escono tanti che io torno alla mia tradizionale indifferenza verso ogni periodico». Poi aggiunge (e l’allusione amara al discutere parlamentaristico degli antifascisti suoi amici sembra molto analoga a quella degli appunti del Taccuino segreto): «Qui echi di casino senatoriale. Prevedono lunga e sanguinosa guerra intestina e del resto me ne infischio. Se invece di far giornali, faceste libri, sarebbe un po’ meglio. Ciao». 

E allora come può spiegarsi la sua adesione al P.C.I. dopo 11 25-4-45? La domanda meriterebbe una approfondita ricerca, ma si può pensare che essa si può spiegare con l’individuazione della motivazione del suo distacco dal P.C.I. nel periodo della polemica di Togliatti con Vittorini e con altri per la questione dell’indirizzo del «Politecnico». 

Pavese, come sostiene Gianni D’Elia, fu travagliato da una disperata lotta tra desiderio e paura di desiderio, tra desiderio di solitudine e desiderio di unione. Nel P.C.I. egli in un certo momento della sua vita credette di trovare realizzato quel bisogno di confondersi e di unirsi con la parte più giusta e più valida (e per giunta vincente) della società e successivamente, affievolitosi il calore solidaristico dei primi mesi del dopoguerra, sentendo altrettanto prepotente il bisogno di appartarsi, di non essere intruppato, di non essere ridotto a semplice megafono degli altri, di salvaguardare la propria individuale autonomia di scrittore, si staccò dal P.C.I. Di lui, comunque, sono incontrovertibili alcune cose: 1) che non fu un intellettuale conformista e che profuse tutte le sue energie, con scrupoloso e puntiglioso lavoro presso la Casa Editrice Einaudi, nell’opera di sradicamento dell’Italia dalla autarchia culturale imperante sotto il fascismo e puntò alla rottura di quei vincoli che durante il fascismo avevano costretto all’isolamento «da torre d’avorio» gli intellettuali non contagiati dal fascino tentatore e travolgente dell’adulazione parolaia e retorica; 2) che per le amicizie che lo legarono costantemente agli amici antifascisti fu confinato a Brancaleone Calabro, per aver mostrato dignitosa fermezza davanti alla polizia fascista; 3) che fervidamente mai cessò di coltivare, pur tra i bagliori e i pericoli sempre più vicini della guerra, la sua azione di consigliere e di coordinatore culturale nei riguardi dell’avanguardia letteraria e culturale del suo tempo: Pintor, Muscetta, Bobbio, Vittorini, Alicata, Zancanaro e altri; 4) che, se intese la solitudine come pericolo di rottura dei ponti con la gente e anche come momento e occasione per immergersi nel mondo della fantasia e per rielaborare il frutto dei suoi contatti con la realtà, fu proteso a sentire e a soffrire, come l’Io narrante di «Conversazione in Sicilia» di Elio Vittorini, il dolore del mondo e di conseguenza ad ipotizzare (ipotesi realizzata nei suoi capolavori) un linguaggio poetico e narrativo fatto per l’uomo. Si legge, infatti, in un suo saggio su «L’Unità» di Torino del 20-5-45: «Parlare. Le parole sono il nostro mestiere. Lo diciamo senza ombra di tristezza o d’ironia. Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro. Sentiamo tutti di vivere in un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nitida nettezza di quando l’uomo le creava per servirsene… Sono uomini che attendono le nostre parole, poveri uomini come noialtri quando scordiamo che la vita è comunione… Deluderli sarebbe tradirli, sarebbe tradire anche il nostro passato». 

Qualcuno, fra i tanti assetati di facile successo con l’osanna al nuovo clima di mercificazione e sofisticazione culturale, potrebbe anche sospettare di propagandismo filocomunista il predetto saggio pavesiano. Ma questo tema del superamento della solitudine attraverso la comunione (che è anche intimamente connesso con la difficoltà di vivere derivata dalla sua ambiguità psico-sessuale) traspare in tempi non sospetti di propagandismo e precisamente in alcune lettere indirizzate alla Pivano. Basti, per tutte, quella del 30-5-43: «La solitudine si vince andando verso la gente e «donandosi» invece di «ricevere»… Si tratta di un problema morale prima che sociale e Lei deve imparare a lavorare, a esistere, non solo per sé ma anche per qualche altro, per gli altri. È solo chi vuole esser solo. Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri, bisogna umiliarsi e servire». 

Un messaggio culturale e morale quale è quello contenuto nella predetta lettera e nello stralcio precitato del saggio del ’45 sarebbe espressione di quella cultura di regime indicata da Saverio Vertone su «L’Europeo» dell’1-9-90? Sarebbe, quella di Pavese e di tanti altri, cultura di regime perché, pur non essendo mai stato (nemmeno quando aderì al P.C.I.) un intellettuale organico, come la gran parte della giovane intellettualità del suo tempo, partecipò all’empito delle speranze di rinnovamento e di rigenerazione umana sognata sulle macerie dei bombardamenti e sul sangue della Resistenza? No! Non fu cultura di regime quella di Pavese e degli altri intellettuali suoi contemporanei. Come non fu, per esempio, cultura di regime l’arte narrativa di un Domenico Rea che portò al massimo compimento nel suo capolavoro premiato a Viareggio «Gesù fate luce» la convivenza o, meglio, la sua connivenza umana e artistica con la gente della sua Nocera Inferiore e raggiunse così un verismo più vivo e più umano di quello verghiano e tuttavia non accettò né lo zdanovismo né la limitazione esogena della sua musa narrativa fino al punto che, allorquando durante una sosta di viaggio a Praga ne scoprì lo squallore nel 1954, coraggiosamente lo descrisse in un articolo di «Paese Sera» e poi preferì far parte per se stesso. 

Ma per Saverio Vertone quella di Pavese, di Rea e di Vittorini e di altri sarebbe cultura di regime o, meglio, il rovescio della cultura del regime fascista, del quale la politica antifascista sarebbe la continuazione alla rovescia. Se tutta la cultura antifascista ha avuto come precedente storico quella fascista o, se da essa si è, in parte, enucleata, non per questo può essere definita l’altra parte della stessa medaglia, quanto meno per lo stesso motivo per cui l’Innominato non può che considerarsi, dopo la conversione, un uomo nuovo. Se poi il nuovo nasce sempre dal vecchio, come un fiore da un altro fiore precedentemente diventato bulbo, non possiamo farci nulla, e non è giusto e corretto dire che il nuovo e il vecchio appartengono allo stesso regime. D’altronde nessuna cultura nasce dal vuoto o dal nulla e lo stesso cattolicesimo non si spiegherebbe senza la preesistenza del classicismo greco-romano e delle culture ebraica ed orientali. 

Gaspare Li Causi

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 11-17.




 L’itinerario umano e artistico di Germana Parnykel 

Nel 1988 cadeva il decennale della morte di Germana Parnykel a Torre Pelice e il novantesimo della sua nascita a Kiev. 

Un po’ per la singolare coincidenza di date, un po’ per la validità di questa donna inconsueta che tanto incise nella vita artistica italiana negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, l’Ente Mostra Nazionale di Pittura Contemporanea della città di Marsala ha voluto renderle un omaggio, curando una retrospettiva delle sue opere, con l’intento di recuperarne la memoria, i pregi e i meriti, e di ripresentare alle nuove generazioni una nobile e singolare figura di artista. 

Un suggestivo profilo della pittrice e dell’autenticità dei suoi personalissimi valori artistico-culturali l’ha tracciato Gioacchino Aldo Ruggieri, dandoci un segno tangibile della grandezza della Parnykel. Un’altra bella testimonianza la dà Umberto Palestini che per l’occasione ha curato il catalogo: «Germana Parnykel è un’artista del Novecento di cultura cosmopolita, poliglotta, partita dalla Russia zarista con la convinzione che l’arte realista aveva una sua funzione sociale, oltre a contribuire a strappare il velo delle apparenze, purché supportata dalla forza delle idee: opere coerenti con il suo incrollabile credo nel valore dell’uomo e nella ricerca del vero. Essenzialmente ritrattista – con notevoli risultati nel paesaggio e nella natura morta – sonda attraverso questo tema il grande problema del superamento della fisicità anatomica, della schematizzazione somatica, per giungere all’unitarietà artistica in cui si esprime il rapporto inscindibile tra materia e spiritualità». 

Ma, dopo averne contemplato le opere e dopo avere avuto l’occasione di guardare con gli occhi della mente e dell’anima i ritratti, i dipinti paesaggistici, le raffigurazioni dei gatti tra i comignoli e i «dammusi», le nature morte, i disegni, gli schizzi, le grafiche, cioè il patrimonio d’arte e di cultura che la pittrice ha lasciato agli eredi e ai tanti amici sparsi un po’ dovunque, si ha effettivamente la sensazione di trovarci al cospetto non delle solite dilettantistiche produzioni di un’artista di provincia, brava e inevitabilmente limitata dall’esiguità dei confini storici e geografici della sua vita, bensì di una grande, forte e tenera insieme personalità di elevatissimo talento che travalica i limiti del circuito nazionale. 

Basti pensare al fatto che le testimonianze del suo impegno mai interrotto di interprete pittorica del mondo e della vita spaziano dalla raffigurazione del Contadino Tumminia di Calatafimi a quella di un’altissima palma che sorgeva davanti al porto di Marsala, da un quadrettino di paesaggio russo dipinto nel 1917, ove sembra aleggiare l’influenza di Kandiskiy, al ritratto della Contessa Sbordoni, in cui si avverte una potenza impareggiabile di penetrazione psicologica, dalle decorazioni proprie dell’iconografia russa alle immagini solari nostrane (Campagna romana del 1960 o Saline del 1954). 

Abbiamo appreso dalla conversazione col figlio Oliegh – sia pure sommariamente – l’accidentato percorso della vita di Germana Parnykel e le tappe più significative della sua esperienza artistica. 

Nasce a Kiev nel 1898 da una famiglia di nobile borghesia intellettuale (il padre, laureatosi a Colonia, era stato ingegnere costruttore della transiberiana); giovanissima studia a Mosca con due famosi maestri della pittura russa, le cui opere si trovano presso la Galleria Tretiakov e, cioè, con l’accademico Kassàtkin e con il paesaggista Iuon «premio Stalin per la pittura». Poi frequenta lo studio del pittore d’avanguardia Maskov. 

L’incendio della Rivoluzione d’ottobre la sorprende a Odessa, ove si trovava con la famiglia per motivi di salute; da qui passa a Istanbul, rimanendovi per due anni e mezzo nell’angosciante attesa, mai soddisfatta, di ritornare in patria una volta che le acque si fossero calmate. Tra le opere più significative di questo periodo vanno ricordate Casa tartara e Tetti di Odessa, dove già il dosaggio dei colori evidenzia il tocco magistrale della Parnykel più matura. Ecco cosa dice Umberto Palestini: «Ne la Casa tartara del 1917, l’artista, attraverso piccoli tocchi di colore accostati con raffinato equilibrio tonale, esplora la lezione dell’impressionismo, movimento filtrato attraverso Iuon; ne i Tetti di Odessa del 1919, la composizione si iscrive in un rigoroso e severo ordine di campiture strutturate su elementi orizzontali e verticali, dove probabilmente la Parnykel tenta di fare propria la magistrale lezione cézanniana». 

Successivamente, nel 1921, come gran parte degli indesiderati dalle forze rivoluzionarie, la famiglia Parnykel approda a Parigi, ove Germana frequenta l’Accademia di Belle Arti, soffermandosi nell’assidua contemplazione del Louvre e conoscendo da vicino le esperienze degli impressionisti e dei post-impressionisti. Poi è la volta di Venezia, 1926, dove consegue il diploma di Magistero e si dedica appassionatamente alla difficile arte dell’affresco. 

Dal 1940 al 1941 ricopre l’incarico di lettrice di lingua russa presso l’Istituto Superiore di Commercio alla Ca’ Foscari, dopo aver conosciuto il marsalese Tommaso Giacalone Monaco, docente di economia e diritto, che sposerà nel 1931. Risalgono a questo periodo veneziano opere come Autoritratto con marito, Contadina ampezzana, Oliegh, dove la pittrice rivela un forte senso introspettivo nella perfetta simbiosi di colori e di tecnica. 

A Marsala visse in dolce e schivo colloquio con l’ambiente dal 1946 al 1959, producendo buona parte delle sue opere. Leggiamo, in proposito, Palestini: «La tavolozza dell’artista esalta i suoi caratteristici colori marroni caldi, rossi, ocra – derivati dall’arte bizantina – immergendoli nella concertata sinfonia di tonalità chiare e luminose, riflesso della preziosa luce della Sicilia e omaggio allo splendido paesaggio marsalese come le Saline del 1954. Nello stesso periodo l’artista realizza due ritratti del padre in cui nella fierezza aristocratica dello sguardo si insinua una cocente malinconia, preludio anticipatore di una crisi esistenziale che Germana Pamykel avvertirà sempre più forte e che la porterà ad intraprendere un nuovo viaggio verso Roma nel 1959». 

Il gusto artistico isolano a quei tempi non era certamente tale da capire interamente il valore della Pamykel e può darsi che l’esigenza di sentirsi più a proprio agio rabbia spinta a trasferirsi prima a Velletri e poi a Roma. 

La prima affermazione della pittrice è del 1932 alla Galleria «Il Milione» a Milano, ove fu presentata da ugo Nebbia. Poi, seguono le altre tappe importanti dei suoi incontri col pubblico: una personale alla Galleria Charpentier di Parigi e altre in varie Gallerie di Venezia, la partecipazione nel 1938 alla XXI Biennale d’Arte di Venezia con Autoritratto e Carnevale a Istanbul e alla Quadriennale d’Arte di Roma. Negli anni di permanenza a Marsala espone alla Galleria Virzì e a Trapani. Va detto anche che prima di lasciare la Sicilia consegue il premio Selezione organizzato dall’Amministrazione provinciale di Trapani e conclusosi a Roma con una mostra a Palazzo Venezia. 

Nel 1961 si afferma ancora con una personale alla Galleria «Il Traguardo» di Forte dei Marmi e nel dicembre del 1962 alla Galleria «Albatro» di Roma. Ottiene l’ultimo suo successo alla Galleria «Club Migros» di Losanna con una personale di olii, tempere, pastelli, nel dicembre 1977. 

Dinanzi ad una produzione così vasta e molteplice, ad un’esperienza tanto travagliata e sofferta e ad un humus artistico-culturale veramente imponente, si è fatto bene a rendere omaggio alla memoria della pittrice con una retrospettiva delle testimonianze del suo ciclo pittorico. 

È augurabile che a questa iniziativa dell’Ente Mostra Città di Marsala altre ne seguano e, soprattutto, è auspicabile che si dia impulso ad uno studio attento e approfondito della sua storia di artista inconsueta. 

Gaspare Li Causi 

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 51-55.




L’eredità di Andrei Zacharov 

Giovedì sera 14 Dicembre 1989 si spegneva sul tavolo di lavoro, mentre era intento a preparare il suo intervento al Congresso dei Deputati del Popolo dell’U.R.S.S., Andrei Dimitrievic Zacharov, Premio Nobel. 

La scomparsa del grande scienziato, padre della bomba atomica sovietica e tuttavia esiliato a Gorkij da Breznev per avere preferito ai privilegi e agli onori degli accademici ligi alla nomenklatura del regime neostalinista, la difesa coraggiosa della libertà intellettuale e della verità sulla situazione del suo paese e sui pericoli incombenti sul genere umano, ha costernato tutta la gente del mondo. «È una grande perdita – ha detto Gorbaciov -, egli era un uomo importante per la perestrojka. Era un uomo che aveva le proprie idee, i propri convincimenti. e li esprimeva direttamente, senza infingimenti». Più di un giornale lo ha definito, appena resa nota la notizia della sua improvvisa scomparsa, «l’interprete della coscienza morale del suo paese». 

Seppi dell’esistenza di Zacharov nella prima metà di settembre del 1968, quando in una libreria di Conegliano Veneto, ove mi trovavo in qualità di commissario di esami di maturità, acquistai e avidamente lessi il suo opuscolo (già da tempo ciclostilato e privatamente diffuso tra gli intellettuali non conformisti dell’U.R.S.S.) «Progresso, coesistenza e libertà intellettuale» edito nell’agosto del 1968 dalla casa editrice Etas Kompass. 

La lettura del libro mi ridiede un po’ di ‘quell’entusiastica e fiduciosa speranza di affermazione anche in Italia del socialismo dal volto umano che mi aveva trasfuso la lettura degli opuscoli di Dubcek e la primavera di Praga e che la susseguente repressione dei carri armati sovietici aveva spento. 

Capii che non tutto era perduto, che uno spiraglio di luce e di speranza rimaneva per chi ama la giustizia e la libertà e per la salvezza stessa della vita e della civiltà del genere umano. Ebbi pertanto la sensazione di vedere nei concetti esposti da Zacharov lo specchio delle aspirazioni elementari e nel contempo universali di tutti gli uomini di buona volontà viventi sul nostro pianeta, e sinceramente rimasi frastornato e rammaricato nel leggere un articolo su “L’Unità” del 28-9-1968 di Giuseppe Boffa il quale, dopo avere messo in risalto le positive novità che trasparivano dal libro di Zacharov e concordato sulla necessità della libertà di discussione nell’U.R.S.S., scriveva: «È una pericolosa illusione quella di chi crede che i grandi problemi umani si possano risolvere con alcune intuizioni e sistemi da laboratorio. Simile metodo è scientifico (allusione questa alla scientificità sulla quale Zacharov diceva di basare le sue idee e aperture democratiche) solo in apparenza. Certo, non è democratico». 

Ho riletto attentamente l’opuscolo e sono giunto alla persuasione ferma che Zacharov in esso appare non solo !’interprete genuino della coscienza del suo paese e del mondo intero, ma anche il profeta lungimirante degli avvenimenti che stanno rapidamente evolvendosi sotto gli occhi di tutti. Altro che pericolosa illusione quella che egli ci ha tramandato. Si tratta, invece, di una serie di idee cardine che hanno valore di certezze illuminanti e di binari sui quali non può evitare di correre la storia del genere umano, se vuole sfuggire al suo suicidio universale. Non è il caso in questa sede di recensire analiticamente Progresso, coesistenza e libertà intellettuale, ma alcuni suoi passaggi essenziali penso doveroso rinfrescare alla memoria di tutti. 

Innanzitutto appare vero, oggi con luminosa chiarezza, che l’opuscolo zacharoviano rappresenta il risultato di un’ampia spaccatura determinatasi più di vent’anni fa nelle alte sfere del Partito Comunista, della classe dirigente e dell’intellettualità dell’U.R.S.S. e dello scontro già allora in atto sull’interpretazione della realtà dell’U.R.S.S. e del mondo. Ma soprattutto sorprende la lucidità premonitrice con cui vengono additati i principali pericoli che tutt’oggi incombono sull’umanità: la guerra nucleare, la catastrofe per fame per la maggioranza degli uomini, l’intossicazione prodotta dalla «droga» della cultura di massa, il dogmaticismo burocratizzato, i miti di massa generatori di capi demagoghi crudeli e impostori, la degenerazione e distruzione dell’ambiente naturale dovute alle imprevedibili conseguenze di rapidi mutamenti nelle condizioni di vita del pianeta. 

Zacharov sostiene che tali pericoli possono essere neutralizzati solo se l’umanità supererà la sua divisione (la cui accentuazione egli definisce una follia criminale) fino a pervenire a un governo unico del mondo e del genere umano considerato (concetto ultimamente ripreso da Papa Giovanni Paolo II) un’unica famiglia mondiale, anche se distinta nei vari popoli per diversità di storia e di tradizioni. Inoltre egli pone come necessità inderogabile per l’evoluzione progressiva del suo paese l’introduzione dell’economia di mercato e l’affermazione del pluralismo, il superamento del burocratismo ossificato e in ciò egli coincide, per tanta parte, con il programma di svolta e di trasparenza inaugurato da Gorbaciov dopo le intese di pace con Reagan. Quanto alla libertà intellettuale, intesa come libertà coraggiosa di discussione, libertà dall’imposizione delle tesi ufficiali e dei pregiudizi, libertà di ricevere e divulgare informazioni, egli sostiene che essa è necessaria non solo all’U.R.S.S., ma a tutta la società umana e va difesa, onde prevenire le conseguenze estreme sperimentate con le dittature, dalle insidie della cultura standardizzata di massa, dalla viltà, dall’egoismo, dalla ristrettezza mentale e dalla censura. 

Qui, appunto, il discorso di Zacharov vale anche per noi occidentali nei cui sistemi di capitalismo avanzato la democrazia è sempre in uno stato di equilibrio instabile, la libertà d’informazione minacciata dalla tendenza alla standardizzazione e alla pubblicitaristica concentrazione delle testate giornalistiche, editoriali e televisive nelle mani di pochi. Va anche aggiunto che nella nostra democrazia capitalistica non so quanti dei grandi intellettuali dell’informazione sarebbero disposti a rinunziare ai privilegi finanziari e «di potere» per proclamare apertis verbis tutte le verità di cui sono a conoscenza, come ha saputo fare Zacharov, se è vero che spesso nelle varie città e regioni gran parte di giornalisti ed emittenti locali dicono solo le cose che possono essere dette e se è vero che qualcuno che ha superato una certa barriera è morto ammazzato. 

È inoltre sorprendente la chiarezza con cui lo scienziato Zacharov previde nel 1968 i danni all’ecosistema del pianeta provocati dall’inquinamento delle acque e dell’aria, dalla distruzione del patrimonio forestale, dall’uso dei composti chimici velenosi, dagli scarichi delle industrie e dei mezzi di trasporto, dall’anidride carbonica proveniente dalla combustione e provocante l’effetto serra, dalle sostanze chimiche velenose usate in agricoltura le quali «assorbite dal corpo umano e dagli animali sono causa di gravi danni al cervello, al sistema nervoso, agli organi del sangue, al fegato», dall’uso degli antibiotici nell’allevamento del pollame «che ha portato allo sviluppo di nuovi microbi portatori di malattie antibiotico-resistenti», dallo scarico dei detersivi, dall’erosione e salinizzazione dei terreni, dalla distruzione degli uccelli e degli animali non domestici e utili all’equilibrto biologico. Anche per la soluzione di questi problemi di dimensione planetaria nell’opuscolo si insiste sul concetto del superamento della divisione del mondo e sull’inadeguatezza dei provvedimenti di carattere locale o nazionale. 

Ma la grandezza di Zacharov consiste non soltanto nell’aver previsto con ammirevole lucidità le riforme oggi in via di rapida attuazione nell’Est europeo e in U.R.S.S. con la fine delle monocrazie stalinistiche, con la fine del concetto del partito guida che era stato sancito come una specie di eterna immobilità nelle costituzioni dell’area del casiddetto «socialismo reale», con il trionfo del pluralismo, o nell’avere preconizzato l’avvio al disarmo e l’avvicinamento fra i due sistemi (statunitense e sovietico) fino alla loro fusione, avente come sede – carne hanno affermato Gorbaciov e Giovanni Paolo II – la «casa comune europea» e derivante, più che da accordi di vertice, da una mobilitazione democratica dei popoli attraverso un trasparente dibattito e consultaziani elettorali veramente libere. 

La grandezza di Zacharov consiste nel fatto che i suoi insegnamenti valgono anche per i Paesi occidentali i quali, alla lunga, non potranno rimanere fermi nell’immobilismo di un tipo di democrazia anchilosata e viziata da tante corruzioni e criminalità maflose ed economico-politiche, chiusa all’alternativa perché dominata dall’alibi del pericolo proveniente dalla minaccia armata e dittatoriale dell’Oriente. 

Gli insegnamenti zacharoviani sono preziosi anche per noi: quando egli denunzia il malcostume sovietica della designazione dei presidenti delle fattorie collettive in base a qualità come la furberia e il servilismo o quando condanna la compera di fedeli servitori del sistema esistente e propone un controllo pubblica più efficace sui manager, induce anche noi a fare un severo esame di coscienza e a renderci canto della necessità urgente di imboccare una via che restauri la genuinità delle scelte elettorali affinché esse non siano più condizionate dalle tangenti o dall’assegnazione di posti di una certa delicatezza e responsabilità ad incompetenti o a corrotti mediante concorsi più o meno truccati o mediante l’insulso metodo della lottizzazione e della corruzione. E che dire dei fatali e disastrosi errori derivanti – dice Zacharov – «dalle decisioni prese nel chiuso dei consigli segreti»? In questo campo i Paesi occidentali sono immuni o, per altro verso e per motivi diversi, anche da noi il potere economico e politico non rifugge dall’obbedire a decisioni occulte piuttosto che alle esigenze democratiche del bene comune? Se è così, i mutamenti dell’Est non potranno non provocare anche all’Ovest mutamenti ispirati alla genuina trasparenza democratica. 

Un discorso e una rilevanza particolare meritano poi (e per noi occidentali degne di attenta e profonda riflessione) le sue considerazioni sulla manipolazione dell’informazione in quanto dominata da prevalenti interessi pubblicitari e commerciali, sull’uso della psicologia di massa che tende a «suggerire sempre nuove possibilità di controllo delle nom1e di comportamento e delle convinzioni delle masse, sui nuovi mezzi di controllo biochimico ed elettronico dei processi psichici», per cui i valori umani e lo stesso significato della vita rischiano di essere sconvolti e l’uomo può essere «ridotto al rango del pollo o del topo del famoso esperimento in cui esso viene ubriacato elettricamente con una coppia di elettrodi applicatigli alla massa cerebrale». 

A proposito della cibernetica. egli dice testualmente: «Non si può ignorare il pericolo segnalato da Norbert Wiener nel suo libro Cibernetica: nelle macchine cibernetiche manca del tutto quel complesso di stabili norme di comportamento che sono invece presenti negli uomini. La tentazione di un potere senza precedenti affidato a un gruppo particolare in seno all’umanità dai sapienti consigli dei suoi futuri aiutanti intellettuali, gli automi capaci di pensieri artificiali, potrebbe diventare una trappola fatale». E così prosegue: «Se la libertà di pensiero non verrà difesa e se l’alienazione non sarà eliminata, questo genere di pericoli diventerà realmente attuale nel giro di pochi decenni». 

Interessante è, inoltre, in Zacharov il frequente accenno alle forze comuniste dell’Occidente i cui programmi giudica di fatto essere più socialdemocratici che filostalinisti e alla funzione riformatrice e di freno degli eventuali eccessi propri del culto capitalistico dell’individualismo egoistico e sfrenato che esse sono chiamate a svolgere assieme alla borghesia illuminata e progressiva. Questa sua opinione sul futuro delle forze politiche di sinistra nel mondo occidentale poggia sul presupposto, che ha ampiamente dimostrato, dell’assoluta impossibilità di una rivoluzione nei paesi a capitalismo avanzato. La tesi di Zacharov non è di poco conto e certamente può essere utile a noi italiani nel momento in cui, dopo i grandi e rapidi eventi dell’Est e il crollo del più gigantesco tentativo di fondazione 

di un sistema sociale basato sulla statalizzazione e burocratizzazione dei mezzi di produzione, i residui di una ideologia smentita dalla storia si attardano a fare fideistica professione di attaccamento a principi e a sentimenti che hanno soltanto apparenza di fuochi fatui. 

L’opuscolo di Zacharov si conclude con una visione utopistico-fantascientifica del genere umano in conseguenza del superamento delle sue divisioni in blocchi contrapposti. All’orizzonte del prossimo futuro egli intravede, infatti, una vita completamente nuova in cui «migliaia di persone lavoreranno e abiteranno in altri pianeti, su satelliti artificiali e su asteroidi» e in cui si realizzerà «un effettivo controllo e una reale direzione di tutti i processi vitali … fino ad agire sui processi psichici e sul meccanismo della ereditarietà». Il tutto dovrebbe essere il frutto di una grande rivoluzione scientifica e tecnologica sotto una guida mondiale di altissimo livello intellettuale. 

Il miraggio lumeggiato da Zacharov è per un verso affascinante per la stupenda dose di fantasia che contiene, ma per un altro verso lascia l’amaro della preoccupazione derivante dal dubbio che un manipolo di intellettuali, sia pure di altissimo livello, possa guidare il resto dell’umanità al perfezionamento democratico e libero del suo vivere o non piuttosto, sia pure attraverso la strada lunga della democrazia, a una specie di servaggio universale e al soffocamento di ogni soffio di umanità e, quindi, alla fine di ogni valore morale e spirituale. 

Gaspare Li Causi 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 59-62




 Editoriale 

Siamo pienamente convinti che alla base di ogni assunto giornalistico debba esserci l’esigenza di un’informazione sana e coscienziosa che rispetti la dignità professionale e il lettore. Anche perché ogni devianza è una forma di sottile violenza che si riflette non solo sul diretto fruitore, ma sull’intera collettività. 

«Carte false. Fare carte false. Spacciare carte false. Sempre di più, il giornalismo italiano appare così: un mestiere che maneggia troppe carte truccate, un mestiere che tradisce se stesso». Giampaolo Pansa sembra un po’ esagerato, eppure dice la verità. 

Sfogliando i giornali, si costata con amarezza che spesso, più che informare, confondono, e quello che un giornalista ha detto il giorno prima, da lui stesso viene sconfessato il giorno dopo. È vero che c’è libertà di stampa e di opinione, ma questa libertà non va confusa con la faciloneria e la superficialità, e la notizia non deve essere mai frutto di fantasia. 

Tanto per dirne una, all’amico e scrittore Rosario La Duca vengono attribuiti, in un noto giornale regionale, presenza e intervento ad un seminario a cui non ha mai partecipato, perché ricoverato in un ospedale palermitano. 

La notizia ha suscitato scalpore e una protesta con lettera al Direttore sottoscritta da amici e frequentatori dello scrittore. 

Non sappiamo che esito abbia avuto l’iniziativa, ma – comunque sia – l’accaduto è indice di malessere e di crisi; e questo è grave, perché un giornalismo del genere è nocivo e sarebbe meglio se non esistesse. 

Gaspare Li Causi 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pag. 3.




 Dossier Inquisizione in Sicilia 

Francesco Giunta, nel luglio del 1991, ha dato alle stampe il frutto di una ricerca (Dossier Inquisizione in Sicilia) condotta nell’Archivio Ducale Medinaceli di Siviglia assieme ad una missione politico-scientifica organizzata dai Ministeri degli Esteri e dei Beni Culturali d’Italia e di Spagna. 

Si tratta di un volumetto di entità poco significativa quanto al numero di pagine, ma prezioso per i segreti che ci svela dopo secoli di forzato oblio; segreti che avrebbero fatto tremare gran parte della classe dirigente siciliana, se fossero stati resi pubblici nell’epoca in cui l’Inquisizione di Spagna in Sicilia fu abolita con D.R.del 17/3/1782. 

Fino al 1991 si sapeva quasi tutto del S. Officio di Sicilia (l’ordinamento, i modi di condurre i processi e la casistica delle sentenze, i rapporti “ufficiali” con gli altri fori giudiziari, con le autorità civili, amministrative e militari, la giurisdizione e le competenze, le direttive ricevute dall’Inquisitore Generale di Spagna, gli Autos da Fè celebrati); s’è trovato finanche un conto spese (con elenco di vivande consumate) riguardanti un ricco banchetto riservato a tutte le alte autorità della Città, consumato presso l’Arcivescovato di Palermo dopo un auto da l’è con rogo svoltosi in una delle piazze del capoluogo siciliano. In tema di contabilità, a quanto sembra, dominava lo scrupolo. Ma dei cognomi e nomi degli Officiali e dei Familiari (cioè gli affiliati al S. Officio) nulla era rimasto dopo che il 27/3/1782, con una cerimonia solenne presieduta dal Vicerè Caracciolo, furono date alle fiamme nel palazzo dell’abolita Inquisizione tutte le carte più o meno compromettenti. Vero è, altresì, che il Vicerè M. A. Colonna, avversario dell’Inquisitore Bezzerra e coraggioso difensore della legalità, sosteneva in una lettera inviata al Re di Spagna che fra gli affiliati e caporioni della struttura inquisitoriale vi erano “todos los ricos, nobles, y los delinquentes” , e il Di Castro, con più precisione , scriveva: “Ce ne sono cavalieri, conti, baroni, ed artigiani, villani et ogni specie”. Ma nulla di più era emerso fino al 1991. 

Il Giunta ha il grande merito di avere rintracciate e rese pubbliche le matricole contenenti i cognomi e i nomi degli officiales e dei familiari operanti in quasi tutte le città e paesi di Sicilia secondo l’organigramma redatto nel 1561 dal magister notarius secreti Juan Perez de Aguillar. Tale organigramma, comunque, conferma quanto riporta il Vicerè M. A. Colonna, cioè il carattere capillare della struttura occulta dell’Inquisizione di Sicilia e tale da controllare tutta la società dell’Isola. Ben a ragione il Giunta alla fine del “Dossier” chiosa: «Come tutti i poteri occulti o paralleli a quelli ufficiali dello Stato il S. Uffizio si configura come taluni del nostro tempo e della nostra società. Mi risulta evidente la strettissima analogia, come organizzazione e come mentalità, soprattutto con il potere mafioso. Problemi di quel tempo e, purtroppo, ancora del nostro». É molto probabile – ma occorrerebbero indagini oculate e accurate per dimostrarlo con certezza – che il substrato socio-storico sul quale, prima e con più virulenza che in altre regioni d’Italia, si è innestata in Sicilia l’organizzazione mafiosa dei nostri tempi sia stato abbondantemente concimato con le scorie più infami e illegalistiche di quasi tre secoli di dominio in Sicilia della obliqua e iniqua struttura inquisitoriale a servizio della più grande superpotenza del mondo che fu la Spagna col suo intercontinentale impero. 

Il risultato più negativo di tale dominio fu l’aver abituato la gente di Sicilia, volente o nolente, al soffocamento del senso civico, alla sfiducia nei confronti dei poteri costituiti alla paura delle novità e della circolazione delle idee e del pensiero, alla diffidenza verso il proprio vicino e verso i membri della propria famiglia, al mutismo prezioso più del pane ai fini della sopravvivenza fisica, ad una mentalità insomma passiva e subalterna, allo spegnimento dello spirito critico. Tale mentalità fu, in verità, combattuta da una minoranza di intellettuali (talvolta membri della stessa Inquisizione caduti in disgrazia per aver dissentito da forme estreme di disumanità e crudeltà, come Argisto Giuffredi che fu contrario alla pena di morte e alla tortura), da eretici luteraneggianti o presunti tali, da teologi “troppo intelligenti” o anche da pubblici alti funzionari di Stato: ma essa non poteva elle soccombere dinanzi al vicolo cieco di un dominio spagnolo che sotto il volto legalistico nascondeva quello invisibile del potere inquisitoriale, il quale proteggeva pervicacemente qualunque criminale di alto o basso livello si fosse posto al suo servizio e sotto le sue ali. Sicché a uomini come il poeta (probabilmente il Baronio) dell’ottava seguente, decifrata e conservataci dal Pitrè, altro non rimaneva che affidare la difesa della sua dignità umana alla forza interiore e allo sfogo poetico sul bianco intonaco di una cella del carcere del S. Officio: 

Et haju sensu assai e ancora sentu! 
Nun sugnu foddi a la dogghia eccessiva! 
Et a li guai chi patu ogni mumentu 
la mia dogghia murtali ancora è viva! 
…chi furtuna ferma a lu miu stentu 
pirchì la dogghia sia cchiù sinsitiva: 
e benchè sia eternu lu turmentu 
nè di sensu nè di anima mi priva. 

Oppure rimaneva il piacere di inveire mordacemente contro le spie dell’Inquisizione (i familiari e affiliati vari), come si rileva dall’ottava attribuita dal Garufì all’inquisito, condannato intorno al 1567, avv. Guglielmo Bonscontro. L’ottava citata, oltre ad essere un palpitante documento dell’amara esperienza e della rabbia del poeta, lascia immaginare che chi diventava strumento dei crimini inquisitoriali subiva lo stesso destino dei perseguitati (cioè la morte violenta) quando non serviva più e poteva, se mai, diventare di impaccio e rivelatore di segreti.Tutto ciò rafforza l’ipotesi del Giunta sulla somiglianza (almeno stando a quanto ci riferiscono i giornali) della mentalità del “mondo” inquisitoriale con quella del “mondo” occulto del nostro tempo, nel quale non sembra infrequente la tendenza a eliminare fisicamente i testimoni più pericolosi di certi efferate vicende o di eccellenti delitti. Basti pensare agli inquietanti casi Giuliano, Pisciotta, Sindona, Calvi, ecc., per non parlare delle faccende sporche di altri stati orientali e occidentali. 

Un altro aspetto che accomuna o fa somigliare l’Inquisizione di Sicilia ai poteri occulti del nostro tempo è rappresentato dal costante esorbitare dai suoi conclamati compiti di sacro tribunale in difesa della fede cattolica nel clandestino e frequente uso della sua organizzazione sul terreno politico e politico-militare. Questa connotazione politica si accentuò durante i regni di Filippo IV e di Carlo II. In questi anni di critiche emergenze assolse a compiti di primissimo piano contro le insidie dei Francesi in Sicilia e contro la rivolta popolare capeggiata da Giuseppe D’Alessi, della cui uccisione si tramò – dice il La Mantia – nel palazzo del S. Officio, ed è certo che il Baronio fu rinchiuso nel carcere dell’Inquisizione quando fu scelto come segretario dal D’Alessi. 

Repressa la rivolta, il S. Officio funzionò come servizio segreto di spionaggio e di informazione sulla condotta dei singoli cittadini, stando a quanto si evince da una lettera di Don Giovanni d’Austria al S. Officio siciliano riportata dal La Mantia. Ma un vero e importante ruolo di supporto politico-militare fu svolto dall’Inquisizione durante la guerra franco-spagnola del 1647. È noto che durante quella guerra la Città di Messina, stanca di vedere la sua industria della seta tartassata da pesanti bulzelli, aprì le porte alla flotta e alle truppe francesi. L’evento suscitò gravissime apprensioni e l’Inquisizione, per scongiurare l’estensione della ribellione a tutta l’Isola, seppe abilmente prendere i provvedimenti adeguati e addirittura si sostituì alle autorità regie, al punto che – ci informa il Pitrè – il boia del S. Officio si sostituì al boia dello Stato nello strozzare nel carcere inquisitoriale, nel 1672, un cappellano della galera siciliana “S. Chiara”, reo di portare addosso alcune lettere del Duca di Bivona provenienti da Messina e alcune monete francesi. 

Ma la prova palmare del molo politico-militare assolto segretamente dall’Inquisizione durante l’occupazione francese di Messina è costituita da una lettera inedita contenuta nel Manoscritto Qq.H 62 conservato nella Biblioteca Comunale di Palermo dal titolo: “Quanto ha contribuito alla tranquillità dello Stato il Tribunale del S. Officio”. Si tratta di una lettera riservata inviata dall’Inquisizione di Sicilia a quella Generale di Spagna e al Consiglio Supremo concernente la situazione di Palermo e dell’Isola determinatasi dopo lo sbarco dei francesi a Messina. In essa si fa una dettagliata analisi dei pericoli incombenti e si mettono in guardia le autorità politiche e militari dal prestare troppa fiducia al popolo reclamante la morte dell’Arcivescovo incolpato di non avergli voluto dare l’artiglieria della Maestranza necessaria al rafforzamento dei Bastioni e ardentemente voglioso di armarsi e di saccheggiare le case dei messinesi. Vi è detto che” ningun pueblo puede ser tan generalinente bien timorado que no tenga quien desea novedades y occasion de esercitar la codisia y la mudanza de fortuna” e aggiunge che “el zelo” della plebe “se passa a indiscreto y peligroso”. Non mancano, poi, le osselVazioni di carattere militare e l’informazione sulla organizzazione di un vero e proprio contingente di volontari armati. “Abbiamo formato – prosegue la lettera – una compagnia di familiari che stia pronta nelle occorrenze presenti (…) e consta in gran parte di cavalieri e di gente onorata e valorosa”. 

Ho voluto riportare i passi più importanti della lettera per la curiosa analogia con i fatti tristemente collegati ai vari piani occulti dei nostri tempi e con le accennate ombre di nuovi volontari di un potere parallelo che non si chiamano più “familiari” ma “gladiatori”. Si vede che in Italia, all’alba del Duemila, la storia tende a ripetersi. 

Gaspare Li Causi

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 69-72.

 




 A vent’anni dallo sbarco sulla luna (Noterelle senza pretese) 

Il 20 luglio 1969 due terrestri, gli americani Armstrong e Aldrin, dal modulo dell’astronave Apollo Il, guidato dal pilota Michael Collins, sbarcavano, muniti di scafandro e telecamera, sul suolo lunare. 

Quel giorno veniva violata la verginità della silente peregrina del cielo e l’ariostesca utopia del viaggio d’Astolfo diventava realtà. 

Si ricordi, però, che il bravo Astolfo viene immaginato dall’Ariosto come protagonista di una stupefacente esperienza: la scoperta di tutte le bontà che, fuggite dalla terra, erano approdate fantasticamente sulla luna; il recupero, tra esse, del senno dell’amico Orlando impazzito d’amore per la bella Angelica; la rivelazione che l’unica cosa non rintracciabile sulla luna era la pazzia rimasta fra gli uomini assieme a tutte le altre brutture della vita. 

Si disse vent’anni fa che con la storica impresa lunare, paragonabile a quella degli Argonauti, sarebbe cominciata una nuova era. E poiché, come dimostra Giacomo Leopardi nel Dialogo d’un venditore di almanacchi e di un passeggere, gli uomini suppongono, quando si parla di novità, che queste preparino tempi migliori, si sperò che il nuovo traguardo lunare della scienza umana avrebbe comportato la possibilità di risolvere, se non tutti, molti antichi problemi del genere umano. 

Qualcuno ne dubitò e l’uomo della strada, sia pure con grossolana saggezza, arguì che, non essendosi trovato sulla polvere lunare nulla che servisse alla vita umana (né frutta, né insalata, né le gustose triglie del mare di Sicilia) l’impresa era servita solo a fare spendere dollari e a preparare armi nuove e più micidiali delle antiche. Qualche altro, come Marcello Cini su «L’Unità» del 21-7-1989, ha definito la conquista della luna nient’altro che «il trionfo e il punto d’arrivo di una visione tipicamente ottocentesca della scienza e della tecnica». 

Certo è che nel 1969 l’astrofisica e le collaterali tecnologie dello spazio, comprese quelle concernenti la computeristica e la telematica, hanno fatto balzi in avanti meravigliosi e impressionanti in direzione della facilitazione dell’informazione e dell’abbreviazione delle distanze nonché in direzione dell’esplorazione degli abissi dell’infinito universo fino a lambire e svelare i misteri dei remoti satelliti di pianeti prima sconosciuti. 

Ma la vivibilità sulla nostra terra è migliorata? È stata cacciata o sconfitta la pazzia che già nel 1500 fu al centro delle tematiche dell’Orlando Furioso? È diventata meno infelice l’umanità che ora ha – come aveva auspicato il Leopardi nel Canto Notturno d’un pastore errante dell’Asia – le ali per «volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una»? 

Ed è finalmente riuscita a scoprire ove tende il vagar suo breve e lo stesso corso della luna e degli astri? 

Il benessere materiale e consumistico (non può negarsi) è cresciuto a dismisura nelle aree ad elevata industrializzazione. Ma chiunque abbia un minimo d’intelletto si accorge che in questi ultimi vent’anni, benché non si sia precipitati nella voragine di una terza con11agrazione mondiale, l’imbarbarimento dell’uomo e la sua atavica pazzia sono cresciuti sensibilmente; la violenza e la crudeltà sui più deboli, sui bambini e sugli anziani assieme alla violazione massiccia dei diritti della libertà personale e domiciliare avanzano in modo capillare e devastante; la droga (nuova arma di sterminio e di schiavistica disumanizzazione nelle mani di potentati criminali non facilmente scindibili dall’alta finanza tout court) e la conseguente spudorata criminalità dilagante stanno disgregando ogni tipo di organizzazione sociale e civiltà che hanno impiegato millenni per formarsi, e stanno riducendo i popoli ad ammassi di «animali parlanti» ispirati soltanto dal più gretto ed egoistico individualismo competitivo, a «vulgo disperso che nome non ha» di manzoniana memoria. 

È in pericolo lo stesso concetto di civiltà perché, se è ancora valida la concezione vichiana e foscoliana di civiltà intesa come intreccio solidaristico («esser pietosi di se stessi e d’altrui») scaturito dall’affermarsi di «nozze, tribunali ed are», allora possiamo affermare che i popoli che non hanno più fede in niente, che sono amitti dal vizio della disgregazione familiare e che sono torturati dall’inefficienza della magistratura, non sono più popoli civili, anche se le loro autostrade (anche qui però quante migliaia di morti all’anno) sono percorse da milioni di automobili, e le loro abitazioni sono fornite di tutte le comodità tecniche. Allora aveva forse ragione Gyorgy Lukacs quando, 20 anni fa, dopo avere affennato che nell’epoca odierna lo sviluppo eccessivamente rapido della scienza e della tecnica è collegato ampiamente con l’alienazione dell’uomo e che questo dell’alienazione è il problema centrale del nostro tempo, così concludeva: «Io non vedo che su questa linea, la vera questione dell’umanità – cioè il divenire uomo dell’uomo e il superamento dell’alienazione – possa ottenere alcun risultato sostanziale anche attraverso i più grandi risultati scientifici conseguiti nell’astronomia e nella tecnica del volo». 

Penso quindi che non è cosa saggia ridurre tutto (lo stesso mondo, il cielo, la terra e il mare) in termini di macchinismo e di congegni smontabili o separabili. Troppo grande appare ormai il rischio della inevitabile scomposizione e dello squilibrio prodotti dagli effetti di tecniche spericolate. Basti pensare un po’ ai buchi della fascia dell’ozono e alla irrespirabilità delle città. 

Non si può impunemente continuare in uno sviluppo illimitato e perseguito caparbiamente a gloria del denaro che lo sostiene. Occorre ridurre alle giuste dimensioni il culto di Plutone e ridare validità e prestigio alle altre divinità dimenticate o oltraggiate. Bisogna insomma che il cosidetto progresso scientifico sia condizionato dall’egemonia degli antichi valori umani. 

Non si tratta di impiantare il paradiso sulla terra, ma cominciare qui da vivi, come ci suggeriva Paolo VI nell’enciclica Populorum Progressio, a costruire Il Regno di Dio, rinnovandoci in meglio nel solco dell’insegnamento che ci proviene dalle antiche civiltà. Del resto mai nella storia alcun movimento di rinascita e di liberazione ha potuto svilupparsi disancorandosi dai valori trasmessi dagli antenati. 

Gaspare Li Causi 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 47-49.