Insieme nella pittura La lettura di un quadro 

Il quadro è come un libro da leggere, a qualsiasi epoca o tendenza o movimento artistico appartenga. Occorre anzitutto conoscere bene l’autore pronunciando correttamente il nome, specialmente se straniero – ed il titolo. 

Come ogni libro, il quadro ha una prefazione su cui bisogna indugiare a lungo, soppesandone contenuto e valore di chi l’ha scritta, prima di iniziare a «sfogliarlo». Nella prefazione è indicata la storia dell’autore, quella umana con le vicende della sua vita e quella «critica» con la collocazione nel periodo e nella corrente che gli competono. È inutile visitare una mostra senza essere a conoscenza dei dati essenziali che riguardano gli artisti che espongono le opere. È come voler leggere un libro senza sapere grammatica e sintassi della lingua in cui è scritto. 

Visitare una Pinacoteca o un Museo o una Galleria d’arte, è un fatto impegnativo e drammatico, un episodio importante in cui si misura la propria intelligenza ed il grado d’ansia di conoscenza che ognuno ha dentro di sé. Già «il desiderio» di guardare e capire l’opera d’arte, ci distingue dalla massa, la cui immaturità ed indifferenza – nel campo dell’arte – «è uno dei dati costanti ripetitivi ed ingannevoli dell’umanità». 

Davanti ad un quadro importante che non comprendiamo, occorre dirigere le qualità della mente e dell’animo verso il porto sicuro della consapevolezza obiettiva, incanalandone l’acqua sorgiva dell’intuito e dell’istinto. Guardare in silenzio, evitando la banalità di un «mi piace» o «non mi piace»; riunire gli elementi acquisiti nell’indagine prima espletata, collocando l’opera nel giusto spazio storico e critico appreso in precedenza. Ed infine, cercare di capirne il senso e la validità. 

Vediamo in che modo ci si può arrivare. Da soli, è praticamente impossibile. Purtroppo, le fonti di apprendimento per aiutarci a capire, si sono andate via via deteriorando a causa del tumultoso divenire delle nuove esperienze e correnti espressive, in particolare nella pittura. Alla lunga e meravigliosa «stagione» della prima metà del ‘900, così ricca di felicità inventiva e magistero nei grandi talenti che la espressero, ha fatto seguito una serie di proposte spinte da un mercato interessato ed avventuroso, e però condizionante – le quali hanno prevaricato confondendo nomi ed idee, e producendo guasti notevoli nel processo di avvicinamento della gente comune alla comprensione e fruizione dell’arte moderna. Esamineremo poi le varie correnti che si sono succedute dal Sessanta in poi e che costituirono «la rottura» con il «grande magistero» del primo Novecento, dall’arte gestuale all’arte povera, alla Bodyart fino ai «comportamenti» e all’arte di équipe delle nuove cosiddette avanguardie (condotte e spiegate – tra l’altro – con un nomadismo linguistico intercambiabile di assai dubbia chiarezza). 

L’incontro con un vero pittore 

Mi preme ritornare al concetto dell’apprendimento, in pittura, di un mezzo semplice e chiaro – comunque possibile – per arrivare al senso e alla validità del contenuto di un quadro, come già accennato. È necessario che, prima o poi, una persona di buona sensibilità – anche se di media cultura, a cui queste note sono rivolte – incontri un «vero» pittore e ne conquisti l’amicizia. Per «vero» pittore, si intende un professionista oltre che del pennello, anche della conoscenza della pittura alla quale abbia dedicato tutta la propria attività mentale ed esecutiva. 

Di pittori, in Italia, ce ne sono quanti, ahimè, ne enumerano ed illustrano le varie ed incolte enciclopedie fiorite negli ultimi anni, le quali altro scopo non hanno se non quello di soddisfare la vanità della gente che dipinge, spillando e facendo di tutta l’erba un fascio. In realtà, i nomi dei pittori che contano, quelli «veri», sono, nel nostro Paese, un centinaio, un esiguo gruppo, dunque, per ogni regione (a fronte dei trentamila e più, propinatici dai tanti ingombranti dizionari in giro). 

Ogni artista «che conta» ha il proprio bagaglio di riferimenti storici e critici ed una carriera di attiva militanza e riconoscimenti da parte degli studiosi e critici d’arte più validi e noti (autori cioè di importanti volumi sulla pittura e redattori culturali di famosi giornali e periodici di alta tiratura). 

Incontrare un pittore autentico e diventarne amico, non è facile. Spesso l’artista lascia la grande città e si rifugia lontano dal rumore e dallo smog. Per avvicinarlo, occorre sensibilità e buona cultura, ed anche simpatia, per infrangere la riservatezza e, a volte. il bisogno di solitudine del pittore, sempre alle prese con i propri fantasmi e alla ricerca delle infinite possibilità tecniche per realizzare l’opera. Una volta conquistatane la fiducia e l’amicizia. è bene coltivarle con discrezione e buon senso. 

Così l’artista diventa una fonte inesauribile di apprendimento e discernimento per chi cerca la verità in arte. Ci si rende conto, via via, di cosa sia la positività o la mediocrità o la nullità di un dipinto. come si imposta un quadro, dai primi gesti sulla tela sino alla firma. 

Spesso il pittore è estroverso e generoso e concede perfino la visione della propria alchimia e della propria tecnica a chi lo cerca e frequenta. Il mondo misterioso ed affascinante delle forme e dei colori. che attrae perfino i bambini, si rivela ed abbaglia. 

Entrare nello studio di un vero pittore è come entrare nella stanza della luce dal buio delle cose comuni del mondo. Non tanto perciò che di fisicamente è accertabile (il cavalletto, i barattoli, i pennelli, i colori, le tele, gli stracci), quanto, e soprattutto, per l’atmosfera di creatività e di cultura che vi aleggia. È un’esperienza semplice ed esaltante insieme, che tutti dovrebbero provare. L’artista, già nel descrivere le proprie opere – con la velata insoddisfazione, propria dell’autentica professionalità – nell’ambiente odoroso di vernice ed acqua ragia di misteriosa attrazione, usa parole ed atteggiamenti che convincono molto di più di una prosa accademica di libri o giornali o della stessa televisione. 

Si delinea e si concretizza. nella mente del visitatore, quel «linguaggio» fatto di piccole nozioni grammaticali e sintattiche, che gli consentirà quella «lettura» come di un libro, del quadro prima incomprensibile. È il primo approccio per saper distinguere il bello dal brutto. la pittura autentica da quella del dilettante, per raggiungere, a seconda del grado di intelligenza e duttilità del pensiero, quel momento che definirei «sublime» in cui si intravede il concetto della «qualità» in pittura e nell’arte tutta. Di questa magica ed inquietante parola: «la qualità», nell’arte (e nella vita), nel cui significato sta forse una delle ragioni più alte della nostra coscienza, scriverò nel prossimo articolo. 

Noi ci tramutiamo ed invecchiamo. Capire in tempo il significato e la qualità di un’opera d’arte, e goderne, è forse la nostra possibile terapia per sfuggire alla malattia dell’indifferenza e della tristezza dei nostri giorni. 

Proviamoci insieme.

Carlo Montarsolo 




 Lettera da Motya 

 

Caro direttore, 

ho ricevuto il numero 2 di Spiragli. Ti ringrazio per lo spazio riservatomi alla rubrica «Arte» e per le opere riprodotte le quali, anche se in bianco e nero, conservano misteriosamente la loro forza espressiva. 

La rivista appare chiara, schietta, utile. Ed ha una sua «linea» nei titoli e nei caratteri ed in ciò che tratta. Si vede che nasce con intenti di sana inconsueta forma intellettuale, volta non a interessi di parte ma alla divulgazione della cultura come cibo indispensabile per vivere meglio. Rivista «di servizio» quindi, nella più generosa accezione. 

Il titolo Insieme nella pittura è quanto mai felice. «Insieme» indica unione, compagnia, colloquio, armonia, conoscenza. Ed è ciò che io mi propongo di fare nel mio campo, quello della «pittura» il cui fascino e mistero, da che esiste l’uomo, hanno prevaricato su qualsiasi altra emanazione dell’intelletto. 

Prima di intraprendere – cordialmente insieme – il discorso che tenda a far capire, una buona volta. che cosa è «la qualità» nell’arte (e nella pittura in particolare), consentimi di raccontare a te e ai lettori di Spiragli, l’avventura occorsami in una rapida improvvisa escursione a Motya, l’isola che si intravede appena, in faccia a Marsala. Con questa breve storia, vissuta personalmente, oltre che interessare il lettore per la sua singolarità, spero di dare un modesto ma convincente saggio di cosa io intendo per «chiarezza espressiva», il modo cioè di «raccontare» di se stessi e della pittura in maniera facile e scorrevole, alla portata di tutti. Favole. 

Di Motya (si pronuncia Mozzia, con due belle zeta siciliane?) hanno raccontato e scritto chissà quanti scrittori e viaggiatori venuti da tutte le parti. E quindi, nello scriverne, io non farei alcunché di nuovo, e ti deluderei. Ma è che ho trovato, avvicinandomi all’isola, un elemento così imprevisto ed operante, di così assidua e cocciuta presenza, da mozzarmi il fiato. Sono convinto che la storia di Motya è sì fatta di antichissime felicità o infelicità terrene – che puoi immaginare percorrendo il margine estremo fra la tremula striscia di schiuma salina e gli attoniti gruppi di fichi d’India, fra le pietre bionde e le macchie di estenuato verde cimarolo -, è sì, anche, una storia di morte di bimbi e di uccelli, di agguati e convegni, di sole e di rose tea, ma è soprattutto un’allucinante perpetua storia di vento. Non che ci sia sempre vento; ma qui, ed è questa la singolarità, c’è vento anche quando manca del tutto. 

Mi spiego. Prendo la barca per andare all’isola (il mare rumoreggia lontano, attraverso un tratto d’acqua appena increspata, come fosse un lago). Penso al vento che soffiava durante il tragitto del lungo molo che porta alla barca. Ora è cessato: non lo avverto più nel frenetico sbattere dell’impermeabile sulla gamba. Eppure, mentre la barca scivola verso l’isola, sento qualcosa nell’aria profumata di fresche alghe, e mi guardo attorno. Lui, il vento, sta in giro. C’è, su quel placido corridoio d’acque che unisce Lilybaeum e Motya, uno strano suono: una sorta di nenia che non è né musica, né rumore, né fischio. Forse un ronzio, un roco sibilare, un fruscìo. È il vento che ruota, caprioleggia, punta, guasta. E all’improvviso me lo sento addosso, in faccia, sulla nuca, sulle gambe, mi avvolge, mi spinge, mi fa barcollare. Ed anziché difendermi, trovare qualche riparo nella barca, apro la bocca e lo respiro quel vento, respiro, respiro e me ne inebrio come fosse un miracoloso farmaco. Il cappello è volato via, la barca si inclina, ed io sono lì, incosciente, i capelli bianchi sugli occhi, pervaso da una felicità sconosciuta (per chissà quale sortilegio fenicio… ). Poi il vento riparte, poco prima dell’approdo, e va ad aspettarmi sull’isola. 

Motya mi appare come quei giardini nascosti in cui non sai se c’è più verde o più fiori. L’amenità del luogo mi distrae dal pensiero che sono sbarcato sull’isola che contiene la più straordinaria miniera di resti di antiche civiltà – se appena scavi, trovi – che si possa immaginare. Alberi contorti – che sembrano atleti in lotta, per i rami che si divincolano e strisciano quasi sull’erba – nascondono il padiglione del piccolo museo; mi avvio. Motya è fatta di vigneti (certe viti nane che dicono siano le migliori del mondo), di ameni boschetti, di tenerissime insenature dove mi piace pensare che approdino minuscole galere variopinte, insieme a imbarcazioni moderne dai sottili alberi per tele bianche e arancione. 

Pochi ruderi intorno. Percorro il sentiero che fa il giro dell’isola sull’orlo vicino al mare (trema la frangia bianca che adorna tutta la riva). Ora il vento ritorna, prima furioso, poi cordiale, suadente, ti prende per mano e non ti lascia fino alla partenza. Nei furtivi atrii dei giardini, scopro mosaici quasi intatti eseguiti da artisti che Cartagine inviava a Motya. Alcuni, raffiguranti lotte di fiere, hanno uno straordinario senso dinamico quasi che gli animali fossero anch’essi mossi dal vento. Sono tentato di scavare col dito una stupenda anfora che affiora. O di toccare la finissima polvere delle mura funerarie: è ancora quella dei fanciulli sacrificati nell’orrendo rito pagano. Mi fermo all’ingresso di un piccolo porto, grazioso al pari di un laghetto dell’Olimpo, con pietre pulite e verdi prati che lo circondano, senza tempio. Qui dovettero sbarcare ninfe o regine, o dee, ad attendere un uomo; perché il luogo è il più vasto e soffice talamo che si sia mai visto, e l’aria è purissima. Il vento mi sussurra incredibili storie d’amore. Maschere di satiri e fauni ridono, negli anfratti. 

Ritornare alla barca è come uscire da un incantesimo. Motya si allontana, nella trasparenza che le concede il vento. Prima di lasciare l’isola (dove, si dice, nelle notti senza luna, nel buio fosforescente, si odono fitte variegate musiche di ignoti strumenti), ho guardato oltre una siepe: al centro di un rovo squassato dal vento, lo stelo alto e spinoso di una stupenda rosa tea, era immobile nel sole. 

Carlo Montarsolo 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 5-7.




Insieme nella pittura, la qualità nell’arte 

Vogliamo dunque, cortese amico che leggi «Spiragli» e queste note del pittore, tentare «insieme» di capire – una buona volta – il significato della parola «qualità» nell’arte (dal quale può scaturire quello della «qualità» nella vita, di così arduo impervio discernimento) in maniera che davanti a un dipinto o scultura o monumento o architettura – a qualunque epoca o livello appartenga – ci si possa fare un’idea, anche approssimativa, della sua «entità» positiva o negativa? Evitando almeno in parte quel deprimente dubbio che ci passa per la testa: «È bello, non è bello» e quel meschino azzardato «mi piace, non mi piace»? I miei più fedeli amici, lo sanno ormai da tempo, e si astengono dal pronunciarsi così. Ho dimostrato loro più volte che essi dicevano «mi piace» davanti a una crosta, e «non mi piace» davanti a un capolavoro. 

Di fronte a un disastro morale del genere, c’è da compiere un «karakiri». Ed allora, quale è il consiglio? Vogliamo trovare – insieme – la strada giusta per non sbagliare così miseramente, con riflessi inquietanti sulla nostra psiche e sul nostro orgoglio? È chiaro che nel cercare di spiegare la «qualità» il pittore non può e non deve atteggiarsi a letterato o sociologo o filosofo (professionisti a cui spetta il compito di trovare le parole ed i concetti giusti, anche se spesso tortuosi ed incomprensibili), Cercherò, dunque, da semplice pittore, di darti una mano, con le frasi che mi vengono in mente, alla buona, e chissà che, una volta chiarita la «qualità» in arte, non si possa estendere, come già accennavo, il ragionamento ad altre qualità, di cui si sente parlare, Quella della vita, ad esempio. Oppure cosa significhi essere un uomo o una donna «di qualità», e così via. 

Riprendendo il nostro tema che riguarda l’opera d’arte in particolare, immaginiamo che tu sia né cieco, né sordo. né insensibile, né muto e stai passando spensìerato e di buon umore (per avvicinarsi all’arte la nostra predisposizione dell’animo è importante) davanti a una galleria d’arte dove sono esposti i quadri e le sculture di un artista. Ti colpiscono i colori e le forme ed entri per vedere meglio. Attenzione. Da quel momento il tuo nemico – non ci crederai – è quella parte, pur così importante, della creatura umana che chiamiamo istinto. 

Penso che l’istinto si debba usare a tempo e a luogo; e che spesso, se non è controllato dalla ragione e dalla consapevolezza, può dar luogo a micidiali errori di valutazione, specialmente nel campo artistico. Per esempio. Tu (mi consenti la familiarità?) sei entrato a visitare una mostra e sei attratto da un quadro che ha i colori che prediligi e rappresenta un paesaggio o una marina o una natura morta. Ti viene voglia di acquistarlo, chiedi il prezzo, ti sembra accessibile per le tue tasche (diffida sempre, comunque, di un oggetto d’arte che costi poco), lo compri e lo porti a casa (o te lo fai mandare, le gallerie fasulle e i mercanti d’accatto che pullulano anche in TV sono molto solerti in questo). Metti il dipinto al posto d’onore (accanto alla tua scrivania di avvocato o medico o ingegnere) affinché lo possano vedere tutti. Poi mi inviti a farti visita, siamo amici da tempo. Ci tieni che io lo veda prima degli altri. Conosci la mia carriera di pittore nazionale, la mia competenza, la professionalità. Una volta davanti al quadro che hai acquistato, io non ho incertezze (e come potrei, dopo una vita di esperienza in pittura?) e ti dico subito chiaro e tondo che si tratta di una vera e propria «crosta», una pessima esercitazione di chissà quale mediocre artista (non si legge bene la firma che già delinea quella di un dilettante) capitato nella Galleria dove sei entrato per caso. Deploro che tu non mi abbia chiesto un consiglio prima di buttare via il denaro per acquistare quella brutta tela. A questo punto, che fai? Ti tiene la «crosta»? o la fai sparire in cantina o addirittura la distruggi (successe con un caro amico di Prato, durante una festa bruciammo in giardino, con un bel falò, una trentina di «croste» orrende…)! È questo il caso in cui l’istinto ti ha giocato un brutto tiro. D’ora in poi starai più attento e ti atterrai alle indicazioni e ai consigli del tuo amico pittore che ti vuol bene ed ammira la tua intelligenza professionale, la tua obbiettiva maniera di pensare e di comportarti. 

Ed allora? Quali sono gli elementi che compongono «la qualità» di un oggetto d’arte e, una volta individuati, consentono di non sbagliare nella valutazione? Esaminiamoli uno per uno, almeno i principali. Vedrai che taluni (quelli che si riferiscono al fenomeno artistico) sono gli stessi che occorre approfondire per comprendere – come già detto – «la qualità» a tutti i livelli dell’uomo e del lavoro dell’uomo. Per facilitare il discorso, te li indico perché tutti sono ugualmente importanti: «la singolarità dell’immagine» (mai vista prima); «la tecnica particolare» (e la sua inimitabilità): la «reiterazione del gesto del dipingere o dello scolpire» (che sia un modo tutto proprio, al limite della mania); «lo stile» (che diviene immutabile nel tempo); «la chiarezza dell’intenzione»; «l’eleganza della forma e la vocazione del colore»; «la sicurezza dell’ispirazione»: «la poesia del concetto». 

Di ognuno di questi elementi che compongono .la qualità» occorrerebbe parlare a lungo. Mi propongo di farlo, a voce, in tutte le occasioni di incontro che – con un gruppo già costituito di amici – abbiamo in mente di effettuare o nel mio studio vesuviano o in quello di Roma. La parola, .la voce-, spesso producono effetti applicativi inimmaginabili! Tutti quelli che vogliono intervenire, se di passaggio, sono ben accetti. Intanto, spero di aver aperto ‘spiragli- per avvicinarci sempre più all’oggetto d’arte e coglierne con amore l’alta e nobile qualità o con severo disprezzo l’approssimazione e la mediocrità. 

Dalla prossima nota potrai leggere, caro amico lettore, come le componenti essenziali della qualità risplendano chiare e inequivocabili, nei grandi artisti del nostro tempo. Intendo farteli conoscere a fondo, scegliendo fra i più geniali e complessi. Te li presenterò, come fossero vecchi amici indispensabili. E incomincerò dal mago delle bottiglie, Giorgio Morandi, il più grande pittore nostro del secolo. L’ho invitato. Verrà, stanne certo. 

Carlo Montarsolo

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 36-38.




 Insieme nella pittura  L’importanza d’un quadro 

Caro direttore, 

dopo la parentesi «lirica» della Lettera da Motya (potevo non inviartela? Quella piccola isola contiene tali misteri umani e disumani, tali effluvi primaverili in ogni stagione…!), vorrei e dovrei – secondo quanto indicai nel precedente articolo – riprendere il discorso sul significato della «qualità» nella pittura e nell’arte. Sono più che mai sicuro che «afferrare» questo concetto, significa procurarsi quella magica chiave per aprire la «stanza della luce» dove avviene l’«iridescenza dell’intelletto», quella indicata da Apollinaire, appunto. E però, se me lo consenti, vorrei prima «preparare» il lettore al discorso sulla «qualità», soffermandomi più a lungo sull’«oggetto d’arte », in definitiva sul «quadro». 

Che cos’è un quadro? A quale età ed in quale momento della nostra vita ci accorgiamo per la prima volta della presenza davanti a noi di un oggetto, piccolo o grande, con una superficie contornata da quella che chiamiamo «cornice»? Forse, già nell’adolescenza, quando ci dissero di «non toccare» il dipinto (si chiama anche così?) sul muro dietro la scrivania di papà, o quell’altro sistemato bene in alto sul comò. O forse, all’Istituto tecnico, quando sbirciavamo – dal corridoio – la grande tela che sovrastava la temuta scrivania del preside: o in quel primo appuntamento in una galleria d’arte; o più in là (già maturi e professionisti e pur distratti dal contatto consapevole con un quadro), quando il caso ci portò nello studio di un pittore o a visitare la casa di un personaggio famoso. Certo è che l’incontro con il quadro, prima o poi, avviene. E ci dà una vaga e subito sopita emozione, una sorta di curiosità breve ma intensa: esso sprigiona una forza magnetica che induce quasi a volerlo toccare e a trovar l’angolo di visuale migliore per osservarlo. 

Cosa pensiamo di vedere o di intravedere su quella superficie incorniciata, che possa interessarci e piacerci: una figura, un paesaggio? Oppure soltanto una forma, un ritmo, un colore? Può darsi che proprio in codesta istintiva «ricerca» di un quid che ci appaghi guardando un quadro, noi misuriamo inconsapevolmente la nostra «sensibilità artistica», vale a dire la capacità innata di saper «fruire» della luce, piccola o grande che sia, di bellezza e di intelligenza, accesa sulla superficie di una tela o di una tavola o di un semplice cartone. 

Ma quando e perché il quadro, questa «cosa» immobile ed inanimata, diventa importante, acquista valore; e, se collocato nella nostra casa, si eleva a muto e inflessibile indice della nostra sensibilità, del nostro spirito e perfino del nostro carattere? Quando e perché una superficie colorata, rinchiusa in una cornice, cessa di essere tale e diventa «opera»? È il difficile ed affascinante momento in cui la materia inerte del colore, mediante il pennello o la spatola o altro mezzo di applicazione, incomincia a vivere, a palpitare, a cantare, a urlare, a risplendere. Capire l’attimo magico di questa straordinaria metamorfosi, significa capire molto di più della nostra 

stessa vita quotidiana: tutti i rapporti in cui le cose del mondo – i gesti, le parole, i fatti – si trasformano da futili in utili (a sé stessi e agli altri), da effimeri in convincenti e confortevoli, da banali in valori morali e materiali, ci appariranno, quei rapporti, più chiari e benefici. Potremmo trovare, con l’aiuto del piccolo o immenso canto che proviene da un bel quadro, una misura nuova e più giusta della nostra stessa coscienza. 

Mi domando spesso come sia possibile che professionisti emeriti nei vari campi del sapere, dalla medicina al diritto, dall’insegnamento nelle scuole e nelle università all’imprenditoria e all’industria, uomini di dottrina e di scienza, e perfino funzionari pubblici e politici, nella stragrande maggioranza non posseggano nelle loro case e nei loro studi, una piccola raccolta di quadri di pittori moderni! 

Ho spiegato, in un precedente articolo, come fare a distinguere un bravo pittore, oggi, dal mediocre o dal dilettante. Purtroppo, durante la mia lunga carriera dedicata alla pittura, più volte mi è capitato di trovare in case ed ambienti professionali di prestigio, appesi maldestramente ai muri, pessimi esemplari di quadri senza alcun valore, le cosiddette «croste». Certo, non tutti sono in grado, anche tra i professionisti, di acquisire un quadro di «qualità». E però, come vedremo quando affronteremo insieme questo specifico argomento, c’è una gamma molto vasta di «qualità» nell’arte in genere e nella pittura. Non potendo attingere all’alta qualità per il «prezzo» si può scegliere nella buona «qualità» di pittori già maturi o che ancor giovani abbiano dato prova di serietà ed impegno. In questa fascia i quadri sono piuttosto accessibili: basta entrare nell’ordine delle idee sopra esposte. E cioè che una casa o uno studio senza un buon quadro di medio o di alto valore che sia, è freddo e vuoto della nozione, culturale, e di buon gusto, più sicura ed evidente. 

C’è poi da dire che i quadri si tramandano ai figli se di qualità e di valore, rappresentano il retaggio più duraturo e poetico, spesso una vera e propria eredità sostanziale e insieme qualificante. I figli, se ben nati e riusciti, ricordano i genitori non certo per i terreni o gli appartamenti o i gioielli che lasciano, bensì per la cultura e la bellezza che emana un bel quadro peraltro inalienabile e non deteriorabile nel tempo. 

E così, caro direttore, posso concludere queste note sull’importanza del quadro. Esse si aggiungono a quelle sulla «lettura» con le quali iniziai «Insieme nella pittura». 

Vorrei ritornare all’importanza che può avere l’incontro con un vero pittore. Giuseppe Marotta, l’autore dell’Oro di Napoli, dopo una visita di tanti anni fa, nel mio studio vesuviano, scrisse in un suo libro dal titolo Visti e perduti: «…E se volete non andare al cinema dove i personaggi svaniscono come fantasmi…. se volete attaccarvi a qualcosa di utile e duraturo, con una luce costante di buon gusto e cultura, fatevela con i bravi pittori…». Sembra un’esortazione esagerata o di parte, eppure forse è l’unico modo per capire cosa è il quadro, come e perché nasce, come e perché è importante. E come imparare a leggerlo, appunto; ne abbiamo già parlato. 

Ma, a parte queste considerazioni di ordine sociale e morale, gli amici che mi seguono sanno quanto mi stia a cuore la comunicazione e la spiegazione «tecnica» di come viene eseguito un quadro o come valutare la sua «qualità». 

Nel prossimo articolo riprenderò senza più indugi questo discorso. E poi ci inoltreremo nel magico mondo delle «correnti» della grande pittura moderna, partendo dagli «Impressionisti» e da Paul Cézanne fino a Braque e Picasso. Insieme, naturalmente, alla ricerca di quella «dignità conoscitiva dell’arte» come tensione a percepire il mistero della vita. 

Carlo Montarsolo 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 55-57.




 Insieme nella pittura, Giorgio Morandi.  Una sera, nell’aria vesuviana. 

Alla confusione spirituale dei nostri giorni, alle vuote parole dei vari pulpiti e ribalte, alla sfrenata retorica di chi si illude di praticare l’arte ed occuparsene seriamente, Giorgio Morandi continua ad apporre ancor oggi il suo riserbo, il suo silenzio e la straordinaria «qualità» della sua pittura che ormai da molti anni è un mito dell’arte mondiale. 

Cerchiamo di capire «insieme» – come è nell’intendimento di queste note – il perché di questo mito, il perché della consacrazione nel più alto livello espressivo della storia artistica moderna di umili desolate inutili bottiglie dipinte dall’incomparabile pittore che possiamo definire – con Amedeo Modigliani – il più importante dell’arte italiana nel secolo. 

Di Morandi e delle sue opere sono stati scritti saggi e commenti dei più qualificati critici e letterati da riempire intere biblioteche. I grandi musei e le più famose pinacoteche si contendono le sue «nature morte» come pietre preziose di inestimabile valore intrinseco e morale. Eppure, nell’opinione della gente comune, anche se di buon livello culturale e rinomanza professionale, Morandi è conosciuto come «quello delle bottiglie», spesso nel senso dispregiativo. Vuol dire che, anche per lui, le indicazioni ed i riferimenti di innumerevoli scritti in testi e monografie delle firme più illustri della critica italiana e mondiale, non sono riusciti a «persuadere» con sufficiente chiarezza sulla grandezza e sui valori di questo pittore e delle sue famigerate bottiglie. 

Ed allora, più che leggere e guardare le riproduzioni nei libri, o visitare le mostre che si organizzano (peraltro non sempre efficaci in qualità e numero di opere, essendo assai difficile metterle insieme), penso che occorra, per capire i grandi pittori, specialmente quelli moderni, riunirsi e creare un’atmosfera di fiducia amichevole verso chi quel mito e quella bellezza espressiva ha capito ed è in grado di raccontare e spiegare il senso e la luce. 

Così, in una dolce e azzurra mattina di settembre, decidemmo un bel gruppo di amici vesuviani ed io di andare a cercare la verità e la poesia delle bottiglie di Morandi su per le lave brune del Vesuvio. Avevo promesso la rivelazione del mistero di quelle bottiglie e del balsamo che poteva derivarne nel cogliere, appunto, la poesia delle piccole cose. Una difesa, aggiungevo, contro la minaccia del ridondante e del rumoroso, dello spettacolare e del falso grandioso che ogni giorno sempre più ci opprimono. 

Ci fermammo in uno spazio di una tenuta vinicola famosa per il «Lacrima Christi». Poi ci inoltrammo in sentieri di sabbia ricolmi di pigne, fra pinastri e vigne in rigoglio. Nello spazio vuoto di pregiate cornici appoggiate ai fusti, avevo fatto radunare varie forme di bottiglie e recipienti «a perdere », cioè quelli che non servivano più e buttati via per essere poi raccolti nella spazzatura. 

Le bottiglie vuote, di ogni forma e dimensione (di vino, con il tipico collo allungato, ma anche di birra, d’aranciata, d’acqua minerale), apparivano dentro le cornici portate apposta lassù come protagoniste. Ad una prima indifferenza da parte degli amici, per quei gruppi c;li inutili recipienti, subentrarono curiosità ed attenzione. Dalle cornici ricolme di bottiglie, si sprigionava una misteriosa indicazione di forme e colori; ogni cornice aveva una composizione diversa una dall’altra e mai vista prima. I quadri di Morandi, appunto: la serena scarna inedita sequenza di bottiglie sporche di fango, senza etichetta o contrassegno… desolate, inutili, e pure, pittoricamente «belle» come spazi nuovi, inesplorate stelle… 

Entrammo in una vasta cantina odorosa di mosto, dove erano accostate le bottiglie vuote in un angolo. Feci scegliere agli amici le più polverose ed imbrattate: ed insieme incominciammo a sistemarle, di varia misura e forma, sopra un vecchio tavolo appoggiato ad un muro di tufo. Attorno al gruppo di bottiglie misi una splendida cornice «a guantiera» (tipica dell’artigiano napoletano e fiorentino). 

Nella cantina si era fatto buio. L’odore del mosto si alternava al profumo delicato ed arcano delle ginestre tenaci che veniva dalle balze laviche accanto. Accovacciati sulle cassette gialle che avevano contenuto le bottiglie piene di vino. gli amici sono ora silenziosi e seguono attoniti lo strano cerimoniale. Ad un tratto. un proiettore illumina le bottiglie incorniciate. Dal fondo buio della cantina. sale la musica struggente di un tema dei Pink Floyd. Ed allora il sortilegio si compie. puntuale e suadente. Evocato dalla mia voce commossa, il Maestro viene verso di noi, abbagliato lui stesso ed anche un po’ sorpreso dalla «natura morta con bottiglie», che è li davanti reale ed organica. di rara eleganza formale e di colore, proprio come quelle che lui dipingeva. 

Il «pittore delle bottiglie» ci racconta incredibili inedite storie di poesia delle «piccole cose» e parla della tecnica difficile e raffinata per dipingerle. Perché, ci spiega, i contenuti, il tema di un’opera d’arte, sono sì importanti, ma determinante è l’atto esecutivo del ricoprire la tela con un metodo proprio ed inimitabile: il gesto della mano, la scelta dei pennelli, la loro pressione nell’applicare il colore. E l’impasto: il combinare le tinte nella dovuta dose e manipolazione. Quale mirabile equilibrio occorre nel ricercare i toni giusti ed armonizzarli! Ce ne parla come fossero note di un pentagramma infinito. Bianco di zinco, nero avorio, le «terre» (di Pozzuoli, di Cassel, di Siena, d’ombra naturale e bruciata) e le «ocre» (chiara, scura, dorata, di Napoli) e i «bleu» (oltremare, di Prussia, indaco, celeste chiaro, cinabro…). Mentre il Maestro parla, noi ci vediamo quei colori, mirabilmente impastati ed applicati nelle forme delle bottiglie che abbiamo davanti, inimitabili ed eleganti, visibili e pur astratte… In esse sembrano raccogliersi i misteri e i sortilegi di tutte le piccole smarrite cose. la squisita finezza di un timbro, la magia del poco nel tutto, il significato stesso della quantità impalpabile che ognuno di noi rappresenta nel divenire della vita… 

L’incantesimo si stempera nell’aria vesuviana della sera, odorosa di mare e di carrube. Ritorniamo. Giorgio Morandi ci accompagna con lo struggente ricordo della sua lezione e delle sue bottiglie ritrovate. Abbiamo «insieme» conosciuto un genio ombroso e isolato, che ci ha insegnato – con semplici bottiglie mirabilmente dipinte – l’elegia del tutto nel niente, ed una verità essenziale che può aiutarci a vivere: la concentrazione sui temi più semplici, la consapevolezza che l’esistenza non ha nulla a che vedere con ciò che è appariscente, ridondante e facilmente spettacoloso. I suoi quadri, anche se soltanto riprodotti, dovrebbero ornare le case, gli uffici, e specialmente le aule delle scuole. 

In realtà molti ancora non lo conoscono, tanto meno i giovani, ahimé! Ma l’insegnamento che emana dalle sue bottiglie ha in sé il prodigio della rivelazione per chi vuole fruirne e goderne. Anche per questo l’arte di Morandi ha un incomparabile «peso» morale e risulta – coi tempi che corrono – il più semplice e maestoso rappel à l’ordre che si possa immaginare. Francesco Arcangeli, studioso e saggista di primo livello, ebbe a scrivere di lui: «Due occhi che garantiscono silenziosamente, per tutti, la perennità di una confidenza col mondo, da non perdere mai; di un equilibrio fra lo spirito e le cose, che sembra rotto alla radice: due occhi che non rifiutano l’infinito respiro del cosmo anche nelle piccole cose. ma lo concentrano, segretamente, entro la misura di un tono e di una luce su una bottiglia». 

Carlo Montarsolo

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 45-48.




 Antonello da Messina.  In un giorno di pioggia, al Prado. 

Quel giorno, a Madrid, c’era lo sciopero dei ristoranti e dei bar. Con il mio vecchio amico De Rosa, famoso storico, varcai per la prima volta la sede angusta del grande Prado. Lui, docente all’università, ed io pittore, avevamo appuntamento fin dai banchi di scuola, da una vita: visitare il Prado, insieme. 

Eravamo inquieti e già un po’ affamati (forse per via dello sciopero…). A mano a mano che ci inoltravamo nelle sale della Pinacoteca più vasta e più completa del mondo, tutto mi appariva come al buio, in un’atmosfera quasi lugubre. Fuori pioveva, l’aria era umida e scura. Ma io mi ero immaginato quel luogo sapientemente illuminato, da poter “leggere” tutti quei capolavori in maniera esauriente, tale da erudire il mio amico sulle particolari qualità di forme e colori dei Rubens, dei Velasquez, del Greco, di Goya. Ed invece, attraversammo in silenzio quelle sale. Non mi veniva di dire niente. Mi sembrava di non aver occhi, di essere proprio al buio. Lo stesso amatissimo Goya mi appariva scuro, fumoso; persino le ombre dei personaggi vedevo come dipinte all’incontrario rispetto alla fonte di luce… un disastro. Che tristezza, e quale delusione! (Alla fine della visita lasciai, nell’apposito registro, una violenta critica alla direzione del Museo, per !’inefficienza delle luci, !’impossibilità di una “lettura” conveniente delle opere, nell’aria tetra ed umida delle sale. Forse la mia protesta ebbe un effetto, se, mi dicono, la situazione è alquanto migliorata). 

Eravamo, dunque, delusi, inappagati; e l’eventualità di non poter fare colazione ci rendeva stizziti e desiderosi di guadagnare l’uscita. Ricordo che per avere un’idea generale della straordinaria raccolta di opere nel Prado, mi misi a scorrere l’elenco degli autori, nel catalogo: decine e decine dei più grandi pittori spagnoli e italiani del Rinascimento e del formidabile Seicento. In questa sfilza di nomi celeberrimi e con le loro opere migliori. il mio indice si posò su un nome che appariva solo, unico. in mezzo a quel ben di Dio: Antonello da Messina. 

Presi il mio amico per un braccio e subito cercammo il quadro. Era in una piccola sala, fra due Botticelli. Da una finestra vicina arrivava, anche se fioca. la luce del giorno. accarezzando il dipinto. Eccolo lì il Cristo muerto sostenido par un àngel di Antonello. In effetti quel Cristo è morto o sta per morire? 

Credo che la magica fantasia del pittore di Messina lo abbia immaginato che “esala l’ultimo respiro” e non sulla croce – come nella consuetudine – in un qualsiasi giardino, tra vecchie mura, fuori città. L’uomo si accascia, colpito a morte. Dalla ferita sul costato, sgorga sangue. e così dalla mano sinistra (un sangue vero, agghiacciante). Con l’altro braccio, quello destro, il condannato non fa a tempo a sostenersi; e la mano, anziché poggiare con il palmo sul piano della pietra su cui è adagiato, appare rivolta all’indietro, in una immaturale e penosissima torsione del polso. che rende più straziante la fine repentina. 

La luce diafana che arriva sul dipinto, esalta e rivela il color verde-rosato del corpo ed i lineamenti del volto di un uomo qualsiasi, come Antonello amava ritrarre i suoi Cristi: forse il suo autoritratto, oppure la faccia di un contadino, di un notaro, di un uomo onesto o di un gaglioffo, o di un pittore, un sicario, un poeta? 

Un piccolo angelo con ali di madreperla viene in soccorso di quell’uomo morente. Gli abbranca il braccio destro per tirarlo su e fare in modo che la mano destra poggi in posizione normale. Non ci riesce. Già la rigidità della morte è scesa nelle membra del Cristo. Ed allora l’angelo incomincia a piangere, con quel 

pianto sommesso dei bin1bi ai quali si sottrae un giocattolo: due lacrimucce sgorgano dagli occhi senza pupille, di infinita espressiva dolcezza. 

Antonello da Messina è tutto qui, in questa mirabile inarrivabile tela, unica nel Prado. Nei testi e nei saggi – innumerevoli – sull’artista di Sicilia, si trova menzione di altri quadri, pur famosi e avvincenti. Ma il Cristo del Prado ha in sé la suggestione e l’emozione del miracolo artistico in terra. Basta, per capire e ammirare l’arte di questo maestro “pictor egregius et unicus” che Leonardo Sciascia, nella stupenda presentazione di una monografia. così descrive: «… un uomo irreversibilmente siciliano, come personaggio e come artista. Nella sua pittura. il rapporto tra figure sacre e quelle umane è uno dei più perfetti che siano mai stati perseguiti in arte. L’esecuzione tecnica una delle più magistrali e inimitabili mai concepite. Nel suo testamento si legge come un siciliano intenda “oggettivamente” la vita e la morte, e sappia descrivere – nel più alto grado espressivo – con la magia della pittura, “la cosa oggettiva quanto più oggettiva possibile” e cioè l’anima». E conclude: «…Un uomo straordinariamente oggettivo, che si trova a vivere e ad esprimere compiutamente, in maniera impareggiabile, dipingendo, il momento più oggettivo che la storia della pittura abbia mai toccato…». 

Usciamo dal Prado commossi. Antonello ci ha estasiati. Madrid, anche se piove ancora, appare meno grigia e più accogliente. La traduzione nella realtà naturale in termini di poesia, in quel Cristo, ci ha avvinto. Alieno da ogni astrazione, indifferente ad ogni indugio formale, iridescente di pura invenzione, quel quadro non si dimentica più. É qui – mi viene da sussurrare all’amico – è qui la misura più vera di Antonello e dell’unica sua opera del Prado: le figure, il Cristo, l’angelo che tenta di sostenerlo e piange, assurgono a simboli universali, ripalpitano di umana quotidiana poesia. 

La mano distorta è l’incredibile invenzione di un intelletto ai margini di una divina follia. Non c’è , in tutto il Rinascimento, un segnale di pari espressiva fantasia. Il grande siculo tutti gli altri sovrasta e confonde. 

Ci si domanda come poté assurgere a tale grandezza. Viaggiatore accanito, studiò i fiamminghi e i veneziani, con il risultato, ritornato a Messina, di aver immesso nella propria sorgiva vocazione, ingredienti di grammatica fiamminga nella sintassi italiana, tutto risolvendo nell’umanità della sua terra, della sua isola, in una espressione finale assoluta ed eterna che attinge la sfera dell’universale. Forse Antonello è “nato estraneo” al Rinascimento, ma del Rinascimento si fa forza viva, portante, inarrestabile, legandone i fasti all’umana temperie dei nostri giorni. 

Siamo sull’aereo che ci riporta in Italia. Riattraversando il Mediterraneo, scambiamo, l’amico “storico” ed io “pittore”, pensieri e riflessioni – che ci competono per il nostro lavoro – su Antonello che ci ha toccato il cuore. Egli esprime il genio della razza, dice Gabriele De Rosa, ed abbraccia in un amplesso storicamente accertabile, tutte le civiltà isolane, inondate dai Greci dagli Arabi dai Normanni, con l’esito di bellezze secolari, sotto il sole di Sicilia. Sì, aggiungo, l’impasto che fa dei colori, rendendoli subito luce, è misterioso, indecifrabile. 

Lo sfumato delle fanne si risolve in un polverio atmosferico che anticipa di quattrocento anni i più grandi impressionisti; e la prospettiva aerea che aiuta quella lineare? Ma come diavolo fa a dipingere così? 

Antonello è una di quelle genuine miracolose apparizioni, sulla scena del mondo, di esseri privilegiati sulla cui fronte balena la carezza di Dio. 

Carlo Montarsolo

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 65-67.