Mazzolari e Teilhard de Chardin 

 S. Ravera*, Profeti a confronto. Don Primo Mazzolari e Padre Pierre Teilhard de Chardin, Genova, Marietti, 1991. 

Quando il 5 aprile 1959, don Primo Mazzolari cadde colpito dal malore che da lì a una settimana doveva stroncarlo, sul suo scrittoio ingombro di carte fu trovato aperto e glossato Le phérwmène humain, il testo postumo di Teilhard de Chardin, appena uscito nell’edizione francese.1 

Nel 1971, per i tipi della Locusta, don Silvio Ravera pubblicava Due profili. In quest’opera il combattivo sacerdote ligure accomunava, in un’ardita biografia parallela, il parroco di Bozzolo e il gesuita francese. A distanza di vent’anni, questo lavoro appassionato e appassionante è tornato in libreria per le edizioni Marietti con il titolo Profeti a confronto. E certamente gli estimatori dei due grandi campioni dell’ubbidienza cristiana avranno di che rallegrarsi: don Ravera, con uno stile piano e comprensibile anche ai “non addetti ai lavori”, non dà nulla per scontato e non scade mai nel banalmente agiografico. 

La parte riservata a Teilhard de Chardin pare un’agile introduzione al suo complesso pensiero scientifico. Scorrere queste pagine non prive di interessanti annotazioni biografiche è certamente utile per chi volesse cimentarsi con Le milieu divin, il già citato Phénomène humain e Le groupe zoologique humain. 

Non tutti saranno d’accordo con don Ravera quando vedranno S. Paolo nelle vesti di precursore intuitivo delle scoperte evoluzionistiche di Teilhard2. Pure, è proprio la parte che va da pagina 64 a pagina 70 che pare la più interessante. Qui don Ravera espone con disarmante sincerità e straordinario acume il proprio pensiero. Pensiero, da cui – come si è detto – si può dissentire, che segna però profondamente il lettore. 

Proprio parlando di Teilhard, don Ravera ha detto: .Prima di giudicare un individuo che parte da solide basi scientifiche, bisognerebbe avere almeno la sua preparazione-. Consapevoli di non avere la preparazione di don Ravera, ci asteniamo dall’analizzare oltre questa parte per passare al “pianeta Mazzolari”. 

Ravera, che da giovane sacerdote aveva conosciuto di persona don Mazzolari, tratteggia con mano esperta e delicata la vita inquieta e rigorosa del parroco di Bozzolo. Forse è proprio la tensione, il desiderio di esternare la forte personalità dell’amico che fa cadere don Ravera in alcuni errori di prospettiva. Addirittura in banali sviste; come quando attribuisce a Pio IX la frase riguardo all’ “uomo della provvidenza”. Per il papa che è morto cinque anni prima della nascita di Mussolini, sarebbe stato un bel caso di preveggenza. Tra l’altro, Pio XI – l’autore della frase incriminata – si è solo riferito a “un uomo che la provvidenza ci ha fatto incontrare”. Non è necessario essere molto addentro alle sottigliezze curiali per comprendere che tra le due espressioni c’è una profonda differenza. 

Ma, a parte sviste – attribuibili forse al solito printer’s devil -, anche il cenno alla perpetua ventiseienne che curava il nunzio Pacelli (futuro Pio XII) ci pare sfiorare l’allusione di dubbio gusto, certamente indegna di don Mazzolari e don Ravera. Forse, in occasione della nuova edizione, questo era un brano da cassare inesorabilmente. 

Anche riguardo ai dissapori con il cardinale Montin!, che tanto angustiarono don Mazzolari, don Ravera pare – contrariamente al suo carattere singolarmente reticente e allusivo. Dopo la prima pubblicazione di Due profili, molte penne si sono cimentate attorno a questo argomento, che, a distanza di anni, non pare ormai punto scabroso3. 

Monsignor Montini si sottoponeva al dovere di correggere coloro che erano affidati alle sue cure con una timida sincerità che poteva ben essere scambiata da un animo sensibile come quello di don Mazzolari per una “coriacea” freddezza4. 

Di don Milani si può pensare tutto e il contrario di tutto, ma non lo si può certo liquidare con la frase «…non sempre si mostrò equilibrato nella profetica denuncia dei mali della chiesa… Lo stesso Mazzolari… accenna (in una lettera inviatami nel febbraio del 1959 [a don Ravera, è ovvio]) ai limiti di questo sacerdote, per quanto riguarda appunto l’equilibrata valutazione delle situazioni.5 

Ma, tralasciando queste forzature umorali, quello che meno convince della fatica di don Ravera è l’ostinazione che vuole attribuire assoluto valore documentale a due romanzi di don Mazzolari: La pieve sull’argine e L’uomo di nessuno6. Tra le libertà ascrivibili a un autore c’è anche quella di inventare, in un contesto prettamente autobiografico, quello che ritiene più consono alla riuscita della sua opera. Se così non fosse si dovrebbe considerare don Mazzolari così immodesto da identificarsi totalmente in don Stefano Bolli (il sofferente protagonista dei due romanzi) che lui dipinge così “bello di fama e di sventura”7. 

Prendendo per vero tutto quanto è scritto nella Pieve sull’argine, si dovrebbe pensare che i genitori di don Mazzolari siano morti quando il sacerdote era in giovane età. Tra l’altro, nel romanzo non compare la madre premorta all’iniziarsi della vicenda. Nella verità storica la madre tanto amata di don Mazzolari sopravviverà al marito di alcuni anni, e spirerà nel 1948, poco prima che il Parroco di Bozzolo, ormai quasi sessantenne, iniziasse l’avventura di “Adesso”8. 

Addirittura, volendo seguire l’intenzione di attribuire estremo realismo alla Pieve sull’argine, si potrebbe pensare che un personaggio possa chiamarsi Berto a pago 135 e Cesco a pago 14()l91. Quindi, se l’elenco qui fatto è da attribuirsi all’assoluta libertà dell’autore, all’identica Ubertà creativa va ascritto l’intermezzo sentimentale tra don Stefano e Bellina. Almeno finché non si portano inconfondibili prove documentaU, cosa che don Ravera non fa. 

Vorremmo aggiungere a queste obiezioni anche un peccato di omissione. Don Ravera non accenna neppure all’intensa attività che don Mazzolari compì con coraggio e fermezza per la pacificazione degli animi, nell’immediato secondo dopoguerra. Anche le pagine di “Adesso”, “pupilla destra del suo occhio destro”, tanto per usare un’espressione di don Milani, furono impegnate per questo scopo10. E per questa meritevole opera non esitò ad avvalersi della penna appassionata dell’allora molto criticato Carlo Silvestri11. 

In fondo, questo è il don Mazzolari che preferiamo, l’uomo che aveva sofferto e che sapeva quello che gli storici caudatari dei vincitori amano ignorare, e cioè che “si è sporcato il fascismo e si è sporcata la resistenza: si sono sporcati i Tedeschi e si sono sporcati gli Americani, gli Inglesi. i Russi, i Francesi. Gli ‘immolati’ invece vestono di bianco, anche se la loro causa non è senza macchie”12. 

Gaetano Radice 

* Silvio Ravera (nato nel 1923 a Celle Ligure -SV-) expartigiano e sacerdote, è autore di diversi lavori letterari e scientifici, tra cui: Di là dal fiume, Mattutino, I due di Emmaus, Ruggine sulla vanga, Maria di Nazareth, ‘Che hobby, ragazzi”, Nelle tue mani, Dal fenomeno umano al fenomeno religioso, Dio si muove, Quale religione per il terzo millennio. Il suo primo libro, Di là dal fiume, che risale al 1956 e che narra la sua esperienza pastorale nella periferia industriale di Savona, “dove la molta miseria e le suggestioni politico-sociali (antireligiose) avevano larga presa”, è stato tradotto in francese e spagnolo. L’intensa attività pubblicistica non ha impedito a don Ravera di essere un apprezzato docente presso un prestigioso liceo savonese e in una scuola di ostetricia (dove insegnava oltre a Etica professionale anche Sociologia e Antropologia), uno sportivo praticante e un attivissimo donatore di sangue. Attualmente è parroco in un paese dell’entroterra ligure. 
l. Cfr. M. Maraviglia, Chiesa e storia in “Adesso”, Bologna, EDB, 1991, nota di pag. 39. Stranamente la studiosa fiorentina usa citare il libro di Tetlhard come Le fenomene humaine (sic). Da notare come l’episodio non fosse noto a don Ravera che, infatti, scrive: “Può sembrare strano che due uomini di tale statura […) non si siano conosciuti, almeno attraverso gli scritti”, Profeti a confronto, cit., pag. 12. 
2. In altre occasioni Ravera ha visto persino Cristo come anticipatore di Marx e Freud. Cfr. Dio si muove, Torino, Gribaudi ed., 1983, Pagg. 51-52. 
3. Cfr. L. Bedeschi, Obbedientissimo in Cristo… Lettere di don Primo Mazzolari al suo vescovo (1917-1959), Milano, Mondadori, 1974, pag. 252; A Bergamaschi, Presenza di Mazzolari, Bologna, EDB, 1986 (1969), n.155, pago 143; M. Maraviglia, op. cit., pag. 103. Sulle attestazioni di amicizia e stima di G. B. Montini nei confronti di don Mazzolati cfr. anche G. Colombo, Ricordando G. B. Montini arcivescovo e papa, Brescia. Istituto Paolo VI. Quaderno 8 (1989) e F. Molinati. La più bella avventura, Mezzo secolo di profezia, in “Jesus”, 6 (1984). 
4. Cfr. L. Bedeschi. op. cit., pag. 252 e A. Bergamaschi, op. cit., pag. 143. 
5. Certe perplessità sull’operato di don Milani don Mazzolari aveva avuto modo di esternarle già in un commento dal titolo “Una risposta che non persuade”. che accompagnava su “Adesso” uno scritto di un alunno di don Milani. Le iniziali C. M. nascondono con ogni verosimiglianza la paternità di don Mazzolari. Cfr. M. Maraviglia. op. cit. I dubbi riguardo all’istruzione come valore e mezzo di emancipazione morale sono forse dettati a don Mazzolari da tristi esperienze (cfr. P. Mazzolari. Quasi una vita. Lettere a Guido Astori, 1908-1958. Bologna, EDB. 1979, pago 79). L’episodio viene riportato quasi integralmente nel romanzo di don Mazzolari, La pieve sull’argine, Milano, I. P. L., 1952. 6. Ora, La pieve sull’argine e L’uomo di nessuno. Brescia, V. Gatti ed., 1966. Come si vede il primo romanzo fu scritto e pubblicato in un momento difficile per don Mazzolati, quando “Adesso” aveva subito una momentanea sospensione. L’uomo di nessuno fu pubblicato solo postumo. Evidentemente qualcosa non convinceva l’autore.
7. Indubbiamente non si può negare che Stefano Bolli sia una trasfigurazione di don Mazzolari. Tra l’altro con questo pseudonimo erano stati firmati diversi articoli su “Adesso”, e Bolli è il cognome da nubile della madre di don Mazzolari. Molto criticabile pare invece il voler imporre un’identificazione assoluta. 
8. Cfr. L. Bedeschi, L’ultima battaglia di don Mazzolari. “Adesso” 1949-1959, Brescia, Morcelliana, 1990, pag. 95. In una lettera datata Bozzolo, 20 dicembre 1948, don Mazzolari ringrazia don Bedeschi per un corsivo di condoglianze comparso sull'”Avvenire d’Italia”. Significative per l’affetto rispettoso paiono le parole: “Mamma Grazia era un dono troppo grande, un privilegio… Sit nomen Domini benedictum”. La signora Grazia Bolli, vedova Mazzolari, era spirata il 13 dicembre. “Adesso iniziò le pubblicazioni il 15 gennaio 1949. 
9. P. Mazzolari, La pieve sull’argine, op. cit. Si tratta di una svista, è ovvio. Una svista che è sopravvissuta ad almeno quattro edizioni e una ristampa. 
10. Cfr. Quando capiremo i morti finirà l’odio, in “Adesso”, I; ora anche in A. Bergamaschi, Presenza di Mazzolari, op. cit. 
11. È lecito pensare che l’articolo “Appuntamento agl’Italiani’, comparso sul primo numero di “Adesso” a firma di C. Silvestri fosse stato scritto, invece, da don Mazzolari. Cfr. Bedeschi, L’ultima battaglia di don Mazzolari, cit., pagg. 98 e 105. C. Silvestri (1882-1955), giornalista socialista, durante il ventennio fu antifascista indomito. Si riconciliò con Mussolini, ormai vinto, durante la Repubblica di Salò, per scopi puramente umanitari (alla sua attività si possono ascrivere numerosi salvataggi in extremis di noti antifascisti. L’ostracismo cadde però su di lui soprattutto a causa della sua appassionata e personale visione del delitto Matteotti. È interessante osservare come la critica storica più attenta si sia progressivamente accostata alle sue tesi. Cfr. le interviste contenute in “Storia Illustrata”, 336, novembre 1985. Inoltre, C. Silvestri, Matteotti, Mussolini e il dramma italiano, Milano, Cavallotti, 1981; M. Matteotti, Quei vent’anni. Da1 fascismo all’Italia che cambia, Milano, Rusconi, 1985; F. Scalzo, Matteotti. L’altra verità, Roma, Savelli, 1985. 
12. Quando capiremo i morti finirà l’odio, in “Adesso”, cit.

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 61-65.




F. A. Giunta, Il posto delle pietre, Pescara, 1996.

Francesco Alberto Giunta ci avvince con un recentissimo romanzo, Il posto delle pietre, edizioni Tracce. Pescara, agosto 1996. Emblematica nella sua corposa nudità la copertina. olio su tela di umberto Verdirosi: nudità della pietra e dell’uomo sullo sfondo di un universo infinito. 

Già conoscevamo Giunta per i suoi precedenti romanzi: Viaggiando sulla strada (1985); Notizie da via Daniele (1988); A Lipari un giorno. Avvenne (1994) e per il volume di racconti Il respiro dell’uomo (1992). Colti e raffinati i suoi versi raccolti in Le parole sono cose (1984); Verso i Tatra (1985); Ballate e canzoni no (1988). 

-Se vuoi. lettore. leggere cose coerenti. .. connesse logicamente, che abbiano un principio, un mezzo, una fine … cercale dove vuoi, ma non qui, ammonisce l’Autore con le parole di Miguel Unamuno. 

E chi si accinge alla lettura de Il posto delle pietre deve accogliere in sé lo spirito del mistero, dell’avventura, la disponibilità dell’uomo al fremito degli eventi. l’accettazione della vita col suo volto mutevole fatto di luci e di ombre, di multiformi implicazioni psicologiche in una ricerca senza fine. Perché le strade del mondo sono infinite, e noi qui assistiamo a un intrigo multietnico. corale, costituito da un grumo di lingue, tradizioni, culture e soprattutto sentimenti feriti. 

Un soffuso dolore sembra essere il comune denominatore di creature destinate a vivere e a lottare per vivere; dolore ora esplicitamente confessato, a volte adombrato, persino taciuto. Un dolore che solo l’amore. o meglio la ricerca più o meno illusoria dell’amore può mitigare, rendere accettabile a livello della stirpe dell’uomo. 

Casimiro, Ornar. Hans-Felipe, Evaristo, Karin, sono sfaccettature di una umanità tormentata, nel cui baricentro palpita Chiara, la moglie, con la sua ansiosa attesa, i suoi dubbi, cedimenti e remore borghesi. 

Un filo invisibile lega l’onnipresente Chiara allo spettro di Karin, che alla fine prenderà voce nel romanzo solo per dire: io sono Karin, e attestante in tal modo la sua reale presenza. 

Il sottile giuoco dei sensi rende complici i quattro uomini tanto diversi fra loro, eppure tutti impegnati nel giuoco più alto della vita. E se HansFelipe infine scomparirà, determinando forse con la sua scomparsa la rottura dell’equilibrio fra Karin e Casimiro, non per questo resterà vivo nella mente proprio per quel suo incessante e doloroso pellegrinaggio alla ricerca della moglie perduta, viaggio parallelo a quello della dolce Chiara. 

Non s’intende svelare maggiormente la trama che si srotola fra colpi di scena e che deve essere colta con sospesa pazienza fra le pagine e i risvolti di un libro, che del mistero fa il suo punto di forza. Mistero che da una semplice avventura di viaggio si amplia al mistero della coppia, ai suggestivi richiami di un sesso per l’altro sesso, orfismo della passione amorosa, ai sotterranei segreti di popoli e civiltà, di religioni e folklore. 

E i paesaggi si diversificano come gli uomini, la vegetazioni, i suoni. Alla grigia atmosfera della città di Milano segue il paesaggio desertico e sconfinato dell’Africa, un’Africa così diversa da chi l’ha conosciuta anche per breve tempo: un nugolo di stelle nella voragine del cielo notturno. Ma certo l’Africa narrata ne Il posto delle pietre è più rispondente alla psicologia di Chiara, d’improvviso sradicata dalla famiglia, dalla coppia, dal proprio habitat, da ogni ancoraggio. 

Indubbiamente il paesaggio che con maggior vigore ti conquista per il fascino dell’antico che si rinnova è lo scenario di Taormina con l’ampio respiro su un mare fra i più splendidi per colore, brezza di vento, profumo, in cui il salmastro si annulla nei profondi anfratti della terra e nell’orgia floreale. A confronto di questo paesaggio che ha del miracoloso persino l’esotico lontano Giappone sembra attenuare il suo fascino di indubbia bellezza. 

È la linfa mediterranea che, come nei precedenti romanzi (in particolare in A Lipari un giorno avvenne), torna a scorrere limpida, con amore immutato, perché si può guardare con trasporto e sete di conoscenza ai paesi del mondo, ma il cuore e il corpo restano legati alla propria terra, alle radici più profonde che sono essenza di ragione e sentimento. 

E Giunta, pur nella sua totale apertura verso l’Europa e il mondo, è l’Ulisse delle Colonne d’Ercole, il figlio di un’isola che non si chiama Itaca ma Sicilia. 

Maria Racioppi

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg.41-42.