Mario Pomilio narratore *  «Il Quinto Evangelio»

È difficile riassumere, in poche parole, la trama semplice, eppure straor-dinariamente complessa di questo romanzo. 

Un ufficiale americano, di stanza a Colonia, durante la seconda guerra mondiale, è ospite, per caso, in una vecchia canonica, dove si imbatte con i resti di una biblioteca e, quel che più conta, con un manoscritto, dalle cui annotazioni a margine si intravede l’esistenza di un altro Vangelo, il quinto, dopo i quattro canonici. 

Il protagonista, Peter Bergin, inizialmente scettico, si appassiona a mano a mano all’idea: rovista da capo a fondo tutto il materiale esistente nella canonica; segue tutte le piste e le tracce emerse, alla ricerca del quinto Evangelio sconosciuto. Esplora mezza Europa, scrive a tutte le biblioteche coinvolte in qualche modo nella vicenda e alle persone che si presume possano fornire qualche indicazione, anche minima. Nonostante il materiale raccolto sia moltissimo, il protagonista, non sicuro che il quinto Evangelio esista ancora, scrive prima di morire al Segretario della Pontificia Commissione Biblica di Roma, per sottoporre al suo esame tutto il materiale raccolto e per chiedere se esistano a Roma altri eventuali documenti che provino l’esistenza del prezioso Evangelio perduto, che conterrebbe tantissime novità, rispetto ai quattro Vangeli, ritenuti finora i soli degni di fede. 

La Commissione Biblica risponde quando il signor Bergin è già morto. La sua segretaria, Anne Lee, ringrazia la Commissione della sollecitudine dimostrata e coglie l’occasione per inviare altri documenti, tra cui, importantissimo, il dramma «quinto evangelista», rifacimento e ampliamento di una bozza di dramma, trovato da Bergin nella canonica di Colonia e, tra le pagine del dramma, una novelletta scoperta dallo stesso Bergin all’inizio della sua attività di ricerca:«Un uomo andava pellegrino cercando il quinto Evangelio. Lo venne a sapere un santo vescovo e, per l’affetto d’averlo veduto vecchio e stanco, gli mandò a dire queste parole: “Procura di incontrare il Cristo e avrai trovato il quinto Evangelio”». 

Così l’autore, in sordina, quasi senza dar peso alle ultime battute del romanzo, condensa in una novelletta (buttata lì come a far credere che si tratti di un semplice scrupolo di documentazione) il messaggio, sempre attuale, nuovo ed eccezionale, che, al di là della lettera, è contenuto nello spirito del Vangelo, al di sopra delle eventuali incompletezze, contraddizioni, lacune, che pure emergono dall’esame dei testi. Stilisticamente composito, classico e spigliato o, se si preferisce, moderno nello stesso tempo, agevole anche nella trama (che sarebbe potuta risultare pesante, data la materia trattata), dai risvolti divaste proporzioni. Sono messi in evidenza tutti i problemi che i Vangeli e la figura di Cristo hanno suscitato nei duemila anni della storia cristiana: l’iniziale incertezza sul significato da dare, in senso più o meno ecumenico, alla missione di Gesù: le varie interpretazioni date all’insegnamento di Gesù stesso, che gli uomini sono stati capaci di identificare con i modelli più contraddittori e strani della moralità singola e collettiva, del costume, spesso anche immorale delle diverse epoche. Cristo è stato coinvolto, nel corso della storia, con grande disinvoltura, con l’inquisizione, il dissenso, la rivoluzione, la repressione, la violenza, l’oppressione, l’ingiustizia. Le istituzioni politiche buone e cattive, la Chiesa, anche nei periodi più oscuri della sua storia, si sono servite di lui come puntello e sostegno del potere. Anche il problema della divinità o dell’umanità di Cristo, della sua storicità, è sottolineato con forza. 

È autentico il contenuto dei quattro Vangeli? È completamente da condannare quello dei Vangeli apografi? Che senso hanno le lacune, le inesattezze, i disaccordi che emergono dalla lettura dei testi sacri? Tutti interrogativi che il narratore pone alla considerazione di chi legge, ma senza mai comparire, senza mai prendere posizione, in prima persona, fra una tesi e l’altra. Egli fa parlare i personaggi: i testimoni della vicenda umana, dalla nascita alla morte, di Cristo, Cristo stesso, il ricercatore, i suoi collaboratori, i manoscritti, le leggende, i documenti storici o inventati, gli attori del dramma conclusivo. Tutti esprimono opinioni, fanno valutazioni, apprezzamenti, interrogano, chiedono, assolvono o condannano. L’autore rimane sempre dietro le quinte. Fa parlare gli altri. Obbliga, così, il lettore a seguire più attentamente i documenti, i personaggi e le loro tesi e a trarre da solo le conclusioni. Contatto, intelligenza e bravura romanzesca (anche se la materia sembrerebbe prestarsi poco ad una storia romanzata), Pomilio parla continuamente al lettore, ma per mezzo di intermediari, che egli trasforma in protagonisti di eccezione. Anche il più modesto manoscritto medioevale acquista l’autorità di una testimonianza, che impegna molto chi legge. 

Il Quinto Evangelio, sotto forma scenica soltanto alla fine, a noi è parso un vasto dramma, dall’inizio alla fine, dove diventano personaggi tutti: uomini, documenti storici o inventati e cose. Non c’è brano che non parli al lettore con l’immediatezza e la forza di un interlocutore vivo, con una voce precisa ed eloquente. Anche quando cala il buio sulla scena finale, lo spettatore attende un atto ancora, che continui ad approfondire l’appassionante tema, il quale, nonostante sia stato sviscerato fin nei ripostigli più segreti, non risulta esaurito. Del resto è la tesi fondamentale del romanzo: la tesi, appunto, che il Vangelo non si esaurisce mai. Ad ogni epoca ha da dire qualcosa. Chiunque può sempre attingervi, senza limiti di spazio e di tempo, nel confronto con la propria coscienza, con i propri dubbi e le proprie certezze. 

«Ho detto piuttosto (è la professione di fede di Pietro d’Artois) che quanto ai segni resta quello, ma in perpetuo si rinnova quanto ai sensi più profondi: al modo stesso che una sorgente rimane sempre la medesima, ma quella che ne sgorga è acqua sempre nuova; e al modo stesso, se posso servirmi di un’altra comparazione, che coloro che vanno a bervi son mossi sempre da nuova sete… Che io dunque sostenga che, siccome gli Evangeli non furono bastanti a redimere e cambiare il mondo, il Cristo ce ne ha dato di scrivere un quinto, non significa affatto, come m’è stato rimproverato, che io abbia inteso designare materialmente un altro libro, ma solo che penetrando sempre più negli Evangeli, “cercandovi la carità”, come domanda S. Paolo, l’intelligenza che ne avremo sarà più perfetta, che veramente sarà come se ne avessimo composto un quinto. E alcunché di simile ho voluto dire nel luogo dove ho scritto che a ogni nuovo santo che nasce è un nuovo evangelio che si scrive. Il che tuttavia può anche essere inteso altrimenti: che le opere buone che compiamo sono il nuovo evangelo che si scrive; o propriamente che il Vangelo muore e nasce tante volte quante la carità declina o rifiorisce… ciascuna generazione d’uomini riscrive il suo Vangelo». 

Il quinto Evangelio, che Bergin insegue, è quello di Pomilio. Non sembri un’affermazione puerile. Pomilio, in realtà, dopo aver sottoposto in primo luogo i quattro Vangeli, in secondo gli altri testi del Nuovo Testamento ad una critica serrata, dai più diversi angoli visuali (del credente, del non credente, dell’uomo comune, del depositario del potere, dell’eretico, ecc.) conduce, quasi per mano, il lettore alla scoperta di quel quinto Vangelo: carità, giustizia e amore nella sostanza profonda, che dovrebbe mettere a tacere, per chi vuole veramente trovare Cristo, ogni dubbio e ogni incertezza di qualsiasi natura. 

In fondo è lo stesso Pomilio di sempre, che in maniera diretta o per contrasto ci invita a meditare, con la sua produzione di narratore, su certi traguardi o valori fondamentali della vita dell’uomo, come l’importanza della coscienza nelle scelte, l’aspirazione ad una superiore giustizia, la vittoria sulla morte attraverso l’amore, che rimane l’esigenza ultima per ogni autentica moralità individuale e sociale, prima fra tutte quella cristiana. 

Non riteniamo di poter chiudere il profilo su Pomilio, senza soffermarci, seppure rapidamente, sulla sua collocazione nella letteratura contemporanea. Non sarebbe difficile, data la statura del narratore, trovare precursori e seguaci della sua opera, tra gli scrittori italiani e stranieri, viventi e nonviventi. 

A noi preme mettere in risalto il rapporto (che dovrebbe essere approfondito di più dalla critica) con due grandi della nostra letteratura: Pirandello e Manzoni. 

È fuori di dubbio la straordinaria forza drammatica delle opere di Pomilio, di alcune in particolare. Per convincercene senza fatica, basta scorrere le conclusioni de «Il testimone», de «Il nuovo Corso» e le pagine de «Il Quinto Evangelio» relative ai tremendi interrogativi posti da Giuda sulle presunte responsabilità di Dio di fronte al suo tradimento. Tutto il romanzo, per essere più precisi, ci è apparso – come abbiamo detto – un vasto ed autentico dramma, dall’inizio alla fine, e non soltanto nelle ultime pagine, che sono sotto forma esplicita del dramma. 

Tutto acquista, ne «Il quinto Evangelio», la consistenza, lo spessore, le caratteristiche peculiari del personaggio: non soltanto gli uomini, ma anche gli stessi documenti storici o inventati e le altre cose, pure le più insignificanti, che parlano al lettore con l’immediatezza e la forza di un interlocutore reale, dotato di una sua voce precisa ed eloquente. 

Anche quando cala il sipario sull’atto finale, il lettore-spettatore resta al suo posto, con la netta sensazione che qualcuno stia per comparire ancora, per proseguire gli interrogativi sull’affascinante tema, che sembra non esaurirsi mai: accettando, con ciò, lo stesso dramma dell’uomo di fronte al suo destino. 

La differenza tra la sostanza e il contenuto del dramma dei due scrittori sta nel fatto che, in Pirandello, la verità e la menzogna non hanno alternanze, al di fuori di un’eterna e insuperata lotta di coscienza; in Pomilio, la stessa lotta trova lo sbocco in una superiore esigenza di moralità, di giustizia, di Dio. 

Il rapporto con il Manzoni sorge spontaneo, se si pensa alla visione fortemente etica e religiosa di ambedue gli scrittori, anche se con qualche diversità di approccio agli stessi temi. 

Al Manzoni il piano provvidenziale di Dio si presenta alla maniera tradizionale, in linea con l’interpretazione teologica cattolica e in termini di educazione e di ammaestramento. La storia dovrebbe servire, cioè, a convincere gli uomini che esiste un disegno di Dio, di cui essi rappresenterebbero le pedine, non sempre coscienti, libere e responsabili. Una «Città di Dio», anche se in chiave non propriamente agostiniana, ma pur sempre espressione di una Provvidenza che non lascia, molto spesso, il dovuto spazio alle scelte spontanee dell’uomo. 

In Pomilio, invece, il discorso si fa meno teologico e più morale. Il piano provvidenziale di Dio o la «grazia» (come lo scrittore preferisce) ha bisogno, per manifestarsi, della collaborazione delle coscienze individuali, le quali rappre-sentano il presupposto indispensabile dell’opera di Dio, che è prima nelle coscienze, poi fuori di esse (come amava esprimersi anche Silone, suo grande conterraneo). La coscienza in Pomilio diventa, insomma, protagonista della storia, più di quanto non sia nell’autore dei Promessi sposi. 

Manzoni, inoltre, mostra di avere quasi timore, per scrupolo di magistero, di scavare nelle coscienze oltre certi limiti. Pomilio, invece, scava maggiormente proprio negli angoli più tenebrosi e proibiti e nei momenti più disperati di esse, con il risultato che alcune sue figure risultano più vive e drammatiche di quelle del Manzoni. 

Giovanni Salucci 

* La prima parte del saggio Mario Pomilio narratore di Giovanni Salucci è stata pubblicata in «Spiragli», anno 1, n.1, gennaio-marzo1989. 

1 Ed. Rusconi – Milano 1975 (Premio Napoli – Premio per il miglior libro straniero in Francia – Premio Pax in Polonia). 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 17-21.




MARIO POMILIO  NARRATORE

Nel 1960, Pomilio così scriveva di se stesso: «Il 1953 fu per me l’anno cruciale. Ebbi preoccupazioni familiari, che mi temprarono, ma anche la fortuna di diventare intimo di Michele Prisco. Con lui, per interminabili serate, discutevo di questioni estetiche e di narrativa. E l’idea di poter contare su un vero lettore mi spinse di nuovo a tentare: la lirica dapprima (segno che ero ancora pieno di incertezze), e naturalmente a tempo perso. 

Composi una raccolta, tuttora inedita. Una sera mi balenò uno spunto: l’immagine di un uccello rimasto chiuso in una cupola. In un primo momento non voleva essere più di una comparazione, l’inizio di una lirica; in un’ora di tensione febbrile mi s’arricchì di mille implicazioni e fu il punto di partenza di una trama. Scrissi il primo romanzo «L’uccello nella cupola», tra il 1° maggio e il 20 giugno 1953. L’anno dopo il libro ottenne uno dei premi Marzotto e raccolse molti elogi. Ma, tranne due o tre casi, fu guardato dall’esterno. Se ne riconoscevano i motivi poetici, ma di rado s’entrava in merito alla tematica. Il mio tentativo di fare del romanzo essenzialmente uno strumento di meditazione sull’uomo, la mia polemica implicita contro un tipo di narrativa moralmente agnostica e povera di interessi speculativi, urtava contro i clichès, nei quali in Italia sembravano essersi adagiati i gusti correnti. Tuttavia il libro finì per essere meditato e di ciò raccolsi i frutti al momento del secondo romanzo «Il testimone», scritto tra il 1954 e il 1955 e pubblicato nel 1956. 

Il testimone mi nacque dalla suggestione d’un fatto di cronaca, dieci righe o poco più di una corrispondenza da Parigi e per un po’ fui incerto se documentarmi meglio o lasciar lavorare la fantasia. Prevalse quest’ultima soluzione, come prevalse il desiderio di dare più sul romanzesco, di scrivere cioè duecento pagine che si leggessero d’un fiato, senza però comportare rinunzie di fronte alle grandi domande che il tema poneva. S’è parlato, a proposito di questo libro, di varie fonti straniere. Se però si fosse tenuto conto della «Storia della Colonna infame» o meglio di quelle tre mirabili pagine introduttive dove il Manzoni parla delle passioni pervertitrici della volontà, come uniche responsabili dei «fatti atroci dell’uomo contro l’uomo», si sarebbero riconosciute le radici tipicamente italiane della mia storia parigina. Tuttavia l’opera fu apprezzata, il primo romanzo servì ad illuminare il secondo e viceversa, e si cominciò a parlare del mio come del mondo delle responsabilità. E non dico che la formula non sia giusta, purché si consideri che il tema che più mi tiene e che sta a fondamento del mio cristianesimo è quello della morte. È stato esso a dettarmi, non ne ho alcun dubbio, le più belle pagine, le prime settanta, per esempio, de «L’uccello nella cupola», le ultime settanta de «Il testimone», l’intero «Cimitero cinese», un racconto del 

1957 e certi capitoli del mio ultimo lavoro «Il nuovo corso», un romanzo tra simbolo e realtà, un discorso portato sul tema della libertà, al quale è stato assegnato il premio Napoli 1959 e di cui sono in corso alcune traduzioni. 

La mia poetica? È presto detto: credo nei personaggi, credo nei valori, credo al romanzo come ad uno scandaglio dell’uomo, credo che il narratore dia la misura di sé solo collocandosi al centro dell’animo dell’uomo. Le altre cose: stile compreso, sono strumenti, non fini.1 

Fin qui Pomilio. Da tale presentazione di se stesso noi prendiamo le mosse, per andare oltre: per verificare fino a qual punto quelle indicazioni siano valide dopo ventidue anni; per soffermarci di più sui lavori, di cui parla brevemente l’autore; per analizzare la produzione successiva e tentare, infine, di tracciare un consuntivo dell’intera opera del narratore e della sua incidenza sulla letteratura contemporanea. 

Il metodo da noi scelto, per l’indagine, è molto semplice: analisi di ogni opera (trama, forma, contenuti), per poi giungere ad un giudizio globale sulla validità, efficacia ed attualità del messaggio che il narratore intende sottolineare. 

L’UCCELLO NELLA CUPOLA2 

Un uomo sta morendo. Marta, la sua compagna, forse alla ricerca di eventuali giustificazioni per la propria coscienza, forse per un improvviso e inconscio bisogno di Dio, si reca in Chiesa per confessarsi. Non appare però convinta di essere in colpa. Anziché mostrare sincero pentimento, sembra cerchi conforto come vittima. Ha paura, addirittura, che il moribondo sopravviva. Non ha fatto nulla per tentare di salvarlo, ha evitato di prestare qualsiasi aiuto, perché, in fondo, desidera che egli muoia, perché non lo ama più, perché non l’ha mai amato, perché è un disgraziato, perché l’ha costretta ad uccidere il figlio che stava per nascere. 

Don Giacomo, il confessore, incatenato ad una visione troppo rigida del dovere e ancora poco esperto dei profondi travagli delle anime, non riesce a comprendere la disperazione di Marta: si rifiuta di capirne le ragioni: sente soltanto che le sue colpe sono imperdonabili e la respinge, anziché aiutarla a superare le enormi difficoltà in cui si dibatte. «Voi avete fatto questo? E perché siete qui?» Marta cercava vagamente la redenzione: don Giacomo, non ritenedola capace, l’ha praticamente abbandonata al suo destino, tradendo la sua missione sacerdotale. 

Di qui due esistenze tormentate. Marta, convinta ormai che si pretenda troppo da lei, che sia inutile ogni sforzo, si affida al suo istinto e alla sua fragilità, nella ricerca di qualcosa che dia un senso alla sua vita e la riscatti da umiliazioni e sconfitte subite. Crede di trovare la salvezza nell’amore di un uomo, al quale dedica tutte le energie, i sogni e in cui ripone tutte le speranze di creatura delusa. Anche questo amore si risolve ben presto in fallimento ed è la fine. 

Don Giacomo, che fin dall’inizio della vicenda aveva avvertito il peso di una enorme responsabilità, è perseguitato dal rimorso di essere stato la causa della perdizione di Marta. Aveva tentato più volte di riparare in seguito, ma con l’identico risultato. La sua intransigenza aveva finito per allontanare sempre più Marta da ogni possibilità di redenzione: come l’uccello, che tenta invano di lanciarsi verso la luce e verso il sole, irrangiungibili al di là della cupola. 

La trama, come si vede, è semplice, come in tutti i romanzi di Pomilio. Ciò che conta in lui è una grande capacità di indagine di stati d’animo complessi e difficili. Come conta la limpidezza dello stile, la proprietà di linguaggio, la ricchezza del vocabolario, la organicità del periodare, che indubbiamente pongono Pomilio tra i classici della letteratura. 

A titolo di verifica di ciò che Pomilio diceva ventidue anni or sono di se stesso, dobbiamo dire che risulta rispettato l’assunto del romanzo come strumento di meditazione sull’uomo. 

E i valori? Anch’essi sono fortemente presenti nella sua opera: l’importanza della coscienza nell’agire umano: l’amore, la comprensione e la tolleranza per le miserie dei nostri simili; l’esigenza della grazia come contrappeso alle debolezze e ai difetti degli uomini. Coscienza, amore, grazia: i tre poli, intorno a cui dovrebbe ruotare il destino di ciascuno, spesso segnato, però, dal peso di qualche realtà misteriosa e dolorosa, che solo la fede può dare la forza di accettare senza ribellione. Questa realtà, umana e religiosa insieme, Pomilio sottopone alla nostra riflessione per il tramite di un fanciullo paralitico, al quale Don Giacomo, un giorno, raccontando l’episodio biblico di Abramo, a cui sarebbe stato chiesto da Dio il sacrificio del figlio Isacco, giustificò la presunta crudeltà di Dio con l’esistenza di una prova di ubbidienza. «Solo per questo? – reagisce il bambino. Solo per questo ha voluto che Abramo soffrisse tanto? E può Dio chiederci tanto per prova? … Oh! non mi piace la vostra storia, non mi piace». 

Il mistero del dolore, difficile interrogativo del mondo cristiano, viene affrontato, così, da Pomilio, in un episodio apparentemente insignificante, conpo che magistrali pennellate: un fanciullo che paga di persona non si sa perché: un’indiretta implorazione, un po’ amara, quasi ironica di giustizia: una rassegnazione sofferta a certi inspiegabili voleri della Provvidenza, che, comunque, il fanciullo non osa condannare. «E il pianto, finora trattenuto, traboccò ormai liberamente». 

Quest’ultimo episodio ci offre l’occasione per mettere in risalto, pur se breve- mente, la poesia che circola in tante pagine de «L’uccello nella cupola». Le frequenti e belle similitudini, che spezzano il ragionare serrato i continui ripiegamenti delle anime sulle proprie gelose intimità: il pathos, la sofferenza, l’anelito verso il bene che, comunque, accompagna l’intera esistenza dei prota- gonisti, sono altrettante espressioni poetiche, che dimostrano l’intensa parteci- 

dell’autore alle ansie delle creature della sua fantasia. 

IL TESTIMONE3 

Romanzo altamente drammatico. Una madre, Jeanne, incarcerata perché involontariamente coinvolta in un fatto criminoso, resta forzatamente lontana, per qualche giorno, dal suo piccolo, che rimane, perciò, abbandonato a se stesso. Il padre del piccolo, amante della donna, responsabile del fatto criminoso accennato, s’era potuto prender cura di lui soltanto per poche ore, perché ucciso, poco dopo, da un’auto, mentre tentava di sfuggire alla polizia. Soltanto a seguito della confessione di Jeanne sulle responsabilità del suo amante, il commissario Duclair acconsente che il piccolo venga condotto alla madre. Il bambino, allo stremo delle forze, non è più capace di succhiare il latte. La madre, non riuscendo, nonostante ogni tentativo, a costringere il figlio a succhiare, in un eccesso di delirio e di follia, lo strangola. 

Anche in questo romanzo domina il problema del male, del peccato e della morte. A differenza, però, de «L’uccello nella cupola», dove si avverte anche la potente presenza del desiderio di riscatto, di redenzione, di fede profonda in certi valori, ne «Il testimone» non c’è posto per una quasi fatale, ostinata disperazione. Mentre, tuttavia, la donna è riscattata, in qualche misura, dal suo amore per Charles e, nonostante tutto, per il bambino e dalla stessa sua improvvisa follia, per il commissario Duclair non c’è scampo: «Annaspò follemente, con nell’animo un bisogno divorante di pietà e il senso di una miseria, che non era più solo della donna o di lui, o di essi due soltanto, ma di quanto, vivo o morto, lo circondava. Come sempre succede quando la cupa irrazionalità della vita ci si scopre nella sua interezza e nulla ci aiuta a sperare nell’esistenza d’una realtà meno assurda o quanto meno nell’opera di un volere meno cieco. Cercò di raffigurarsi una dimensione diversa, nella quale tutto quello che era accaduto potesse annullarsi e quel che la donna stava soffrendo venir consolato e quel che lui aveva fatto perdonato. Ma non ne fu capace…». 

E i valori, in cui l’autore crede, dove sono andati a finire? Per contrasto essi emergono con più forza, appunto perché sottintesi, dal nudo dramma dei protagonisti: il bisogno continuo, nonostante tutto, di scavare nelle proprie responsabilità, il richiamo ad una superiore giustizia. 

IL NUOVO CORSO4 

«La Voce della verità», l’unico giornale autorizzato dall’unico partito al potere, un bel giorno proclama l’inizio d’un nuovo corso: l’inizio, cioè, della libertà. L’annuncio provoca le reazioni più complesse e varie: dal dubbio alla fede, dalla diffidenza all’ottimismo, dalla gioia alla delusione, all’attesa, rappresentate dall’autore con grande perizia e, cosa nuova in Pomilio, possiamo dire, con benevola ironia, che ci ricorda il Manzoni. A mano a mano, però, che la vicenda avanza, il sorriso sparisce e ricompare il dramma, forse più amaro che nelle altre opere. Il direttore del carcere che, all’annuncio del nuovo corso, aveva deciso spontaneamente di non dare esecuzione alla 

condanna a morte di un recluso per ragioni politiche e che aveva profondamente gioito per aver dimostrato, così, a se stesso di sapere agire secondo coscienza, all’arrivo di un telegramma delle autorità, con il quale si chiedono assicurazioni sull’avvenuta esecuzione del condannato, trova quasi naturale, senza alcuna lotta interiore, il ritorno al rispetto della legge e si precipita a dare esecuzione alla sentenza, per timore di essere accusato di scarso senso di responsabilità. 

IL CIMITERO CINESE5 

Un italiano incontra una ragazza tedesca in Belgio. Fanno insieme una gita di fine settimana in Francia. Nasce una profonda simpatia, reciproca, forse l’amore. Le circostanze, però, non consentono che esso venga confidato serenamente e liberamente. La ragazza è tormentata dal ricordo dei tanti morti causati dalla guerra, per colpa dei suoi compatrioti. In quella zona di Francia c’erano, infatti, i resti di molti bunker, un cimitero di guerra francese, uno cinese. L’italiano, che avverte l’amarezza della ragazza, preferisce rispettare i suoi stati d’animo e non forzare la mano. Un bacio solo, alla fine, suggella una corrispondenza desiderata e sofferta. 

Un quadro, una pennellata di sentimenti delicati e dolcissimi che, nel ricordo e nella cornice di tanti disastri, ci obbligano a riflettere come soltanto l’amore riesca a vincere la morte. Essa, presente in maniera drammatica ne «L’uccello nella cupola» e tragica ne «Il testimone» cede il posto ad uno stato d’animo di mestizia, di rassegnazione e, più che altro, al desiderio di vincere la morte stessa, con la vita e con l’amore. «E così compatto era il silenzio e così arioso e sereno nella sua purezza domenicale, da rendermi ad un tratto inverosimile il pensiero della morte o qualsiasi altro sentimento connesso a quest’idea. E tale stato d’animo mi si accentuò quando fummo alle spalle del tabernacolo, sul crinale dell’altura: di li si scorgeva il mare, o meglio, il confine tra cielo e mare assomigliante a una linea tra luce e luce: verso sud la natura digradava sfumando entro un velo lustro di caligine: sicché lassù, tra il biancore dei tulipani, si aveva come l’impressione d’essere sospesi tra due cieli: e che compassione o tristezza o smarrimento dovessero per forza lasciare il posto a una sorta di consolata e alleviata mestizia». 

LA COMPROMISSIONE6 

Il protagonista, Marco, professore di lettere in un liceo di provincia, alla fine della vicenda si scopre «incapace sia di rifiuti che di certezze». È il succo morale del romanzo… Un uomo si illude di credere in qualche cosa, ma sostanzialmente non crede in niente, come a mano a mano evidenzia egli stesso, raccontando, in prima persona, una parte della sua vita. Si illude di credere, perché con facilità passa da una posizione ideale ad un’altra, senza convinzione, né per la verità che lascia, né per quella che insegue e che gli sfugge sempre. Una serie indefinita di compromessi da parte di una coscienza fiacca, incapace di scelte valide e durature, disfatta e delusa, chiusa nel proprio egoismo e nella propria aridità: così di fronte ai problemi politici, come a quelli sentimentali, religiosi, esistenziali. Non esistono ideali, valori; non esiste l’amore, Dio , il lavoro, l’umanità, la stessa soddisfazione delle esigenze naturali e vitali. Tutto è frammentario, provvisorio, occasionale; tutto passa senza lasciare un segno, una traccia, se non la consapevolezza di una universale inutilità. Non un rimpianto sincero, non un rimorso, non una aspirazione, non un atto d’amore e di abnegazione, spontaneo e senza riserve. Tutto all’insegna di un’accettazione rassegnata, anzi passiva, del destino che preme, d’una insoddisfazione sempre presente, d’una povertà di sentimenti, dello spirito di contraddizione, che impediscono al protagonista di pervenire con gioia ad una qualsiasi conquista. 

IL CANE SULL’ETNA7 

Raccolta di cinque racconti: Il cane sull’Etna Il vicino Il Nemico – Il commissario La sentinella. Il contenuto, in generale, è sintetizzato nel sottotitolo «Frammenti di una enciclopedia del dissesto». Trattasi, infatti, di testi incentrati sulla solitudine, sulla paura, sullo smarrimento, sulla nevrosi, sulle frustrazioni dell’uomo, «avventizio dell’esistenza», «soggetto, per una specie di ironia, alle aporie del destino Carlo Bo sul «Corriere della Sera» scrisse: «Alcune delle pagine più ferme che siano state scritte negli ultimi quindici anni, ci rendono il Pomilio più autentico, quello che sa saldare la voce inquieta del nostro tempo a un racconto che ha la certezza dell’ordine classico». 

Il narratore, nell’introduzione del libro, non esclude che la singolarità dei personaggi possa essere attribuita, dagli altri naturalmente, a delle esigenze sperimentali. In tale cornice i racconti si presentano come pezzi di un virtuosismo linguistico e descrittivo e come sottile scavo psicologico. 

Giovanni Salucci 

(*) Il saggio Mario Pomilio narratore di Giovanni Salucci, per ragioni tecniche, è stato diviso in due. La seconda parte verrà pubblicata nel prossimo numero. Lo studio, nel suo insieme, è di estremo interesse, perché scritto quando ancora non era stata pubblicata l’ultima opera di Pomilio, che ha per oggetto alcuni momenti della vita del Manzoni (a cui tra l’altro è stato assegnato il premio Strega), fa un raffronto tra Pomilio e Manzoni. E il rapporto acquista maggior valore, perché alla critica allora la cosa era quasi del tutto sfuggita. 

1 Da «Ritratti su misura» a cura di Elio Filippo Accrocca – Sodalizio del Libro, Venezia 1960. 

2 Ed. Bompiani – Milano 1954 (Premio Marzotto). 

3 Ed. Massimo – Milano 1956 (Premio Napoli). 

4 Ed. Bompiani – Milano 1959 (Premio Napoli). 

5 Ed. Rizzoli – Milano 1969 (già Ed. Guanda – Parma 1958). 

6 Ed. Vallecchi – Firenze 1965 (Premio Campiello).

7 Ed. Rusconi – Milano 1977 (scritto tra il 1967-68. Premio Roma Città Eterna).

Da “Spiragli”, Anno I, N. 1, 1989, pagg. 29-36




 La mia vita col Re Farouk 

Lunedì 15 gennaio 1990 è stata ospite della trasmissione televisiva di Canale 5 «Maurizio Costanzo Show» la Principessa Irma Capece Minutolo, famosa nella sua qualità di cantante lirica e per la sua relazione con il Re Farouk d’Egitto, che riempì, a suo tempo, le cronache di tutto il mondo. 

Nella trasmissione la Minutolo, oltre a parlare di una sua prossima tournèe di concerti in tutta Italia, si è soffermata sulla sua autobiografia dal titolo: La mia vita col Re Farouk, recentemente scritta con la collaborazione del poeta e scrittore Giovanni Salucci, per la cui opera la stessa ha avuto parole di grande stima e ammirazione. Ha ricordato di aver molto apprezzato la prima volta Salucci, per aver letto un suo bel romanzo di amore, La lampada rossa, edito dalla E.I.L.E.S. (Edizioni Italiane di Letteratura e Scienze) di Roma. Dopo la lettura del romanzo, la Minutolo ha voluto conoscere l’autore e l’ha pregato di aiutarla a scrivere la sua autobiografia. 

Incuriositi, siamo riusciti a procurarci in anteprima il testo di questa autobiografia, non ancora edita e per la quale sarebbero in corso contatti con un editore arabo, proprietario anche di una vasta rete di periodici e con un editore francese. Abbiamo letto il dattiloscritto nel timore, a dir la verità, di trovarci di fronte ad una storia piccante o addirittura scandalosa, come la vicenda in passato fu presentata dai mezzi di comunicazione di massa. Con enorme sorpresa, invece, ci siamo trovati di fronte ad una bellissima ed esemplare storia d’amore: quella di una ragazza sedicenne, che si innamora di un Re in esilio, di venti anni più grande di lei, e che lo segue per nove anni (fino alla morte di lui) con estrema dedizione e fedeltà, senza interessi di alcun genere, se non quello dell’amore e dell’abnegazione. 

Una ragazza che, dopo la prematura scomparsa del protagonista, si ritrova, per una serie di complesse vicende, sola, senza sostegno, alle prese con una dura lotta per l’esistenza, con un fardello pesante che, a quell’epoca, suonò soltanto disapprovazione e condanna. 

Senza risentimenti e senza rancore, ma con un ricordo denso di contenuti fortemente ideali, la Irma Capece Minutolo ha saputo trovare, nella musica e nel canto, una nobile ragione di vita. Al di là, però, della bella storia d’amore e dei tanti episodi curiosi e interessanti, abbiamo scoperto, nel libro, anche motivi di notevolissimo valore storico, come nell’incontro con Papa Giovanni XXIII (nel quale emerge la rivoluzionaria visione di questo grande Papa su alcuni contenuti dci suo pontificato e del ruolo della Chiesa tra gli uomini) e come nelle considerazioni sulla morte di Farouk, le quali non escludono l’ipotesi di un assassinio politico, In difformità alla versione ufficiale, che parlava di morte naturale per emorragia cerebrale. A questo riguardo è doveroso precisare che la Irma Capece Minutolo intende dissociarsi (lo dice chiaramente nel libro) dagli interrogativi e dai sospetti che Giovanni Salucci fa sorgere con la sua attenta ricerca e di cui lo stesso si assume la personale ed esclusiva responsabilità. Ancora una volta la Minutolo, con tale comportamento, dimostra di avere vissuto la sua particolare storia con serietà estrema, rifuggendo sempre dalla tentazione di dare ogni occasione agli altri, di chiasso, di scandalo e di strumentalizzazione della propria vita privata. 

Con la pubblicazione di alcuni brani, dietro l’autorizzazione degli autori Irma Capece Minutolo e Giovanni Salucci. intendiamo offrire ai nostri lettori, In anteprima, un documento di grande valore umano e storico degno di essere additato all’attenzione generale. 

LA FUGA DA NAPOLI 

La macchina che si allontanava da Napoli segnava il termine di un’altra fase della mia vita. La fanciullezza era veramente finita. Nelle due ore di macchina, da Napoli a Roma, gli occhi dell’anima rividero, come in una pellicola, il periodo passato fino allora e intravedevo quello avvenire. 

Ero felice di andare incontro al mio destino, ma il distacco reale da tutto il mio mondo abituale non fu indolore. Nell’istante preciso in cui presumevo che avrei soltanto sorriso, mi assalì una grande malinconia, mi calai nell’anima di papà. di mamma, dei miei familiari e vi vidi sconforto, tanta rassegnazione. Mamma sapeva, papà intuiva, gli altri osservavano lo svolgersi degli eventi. 

Nessuno di loro, comunque, mi aveva lasciato con la gioia della certezza, per me, di una vita migliore, lo stessa, pur nella consapevolezza del coronamento del mio amore, cominciai a chiedermi se ero stata giusta, generosa: se avevo compiuto tutto il mio dovere di figlia e di sorella o se non, piuttosto, avessi seguito semplicemente l’impulso del mio egoismo e della mia spregiudicatezza. 

Avevo abbandonato tutto per inseguire un mio sogno sincero e mi ritrovavo sola, abbandonata, a mia volta, nel momento più delicato del mio cammino, in cui avrei avuto tanto bisogno della solidarietà e del calore affettuoso dei miei cari. 

Il conforto di una macchina di lusso acuì, anziché attutire. la mia sensazione di abbandono. 

Non era colpa di nessuno. Avevo fatto le mie scelte. semmai, contro il volere e il parere di tutti. 

Era solo mia la colpa, se c’era una colpa nelle scelte, di cui in quelle ore avvertii la pesante responsabilità. A mano a mano che mi allontanavano da Napoli, si ingigantiva in me l’amarezza della privazione di innumerevoli ricordi, di cui, mentre sparivo, assaporavo. come forse non avevo mai fatto prima. la dolcezza. 

Ricordi che, forse, non si sarebbero ripetuti e di cui non avevo apprezzato, al momento giusto, il grande valore. Non avevo avuto il tempo di gustare la felicità che viene spesso dalle piccole cose e già ne era vivo il rimpianto. 

Le circostanze degli ultimi mesi erano state così insolite per me, tanto da cancellare, con violenza, la fanciullezza, già prima che fosse matura. 

Una conquista, una sconfitta, una condanna? Non lo sapevo ancora. 

Io andavo incontro al mio destino con malinconia, ma anche con tanta fede. Chiedevo perdono, nell’intimo, a coloro ai quali avevo fatto involontariamente del male e pregavo il cielo che non sfogasse il suo eventuale rancore su una creatura che, tutto sommato, aveva il solo torto di amare. 

Purtroppo, quando gli amori da rispettare sono tanti, è difficile indovinare a quale di essi spetti la precedenza. 

Io l’avevo data, per inclinazione spontanea, senza calcoli, a quello più gravido di incognite e di pericoli. […] 

Alla fine di gennaio del 1958 tornammo a Grottaferrata dal lungo giro in Europa. 

Mancavano pochi mesi al compimento del mio diciottesimo anno di età. Aspettavo quella data con una certa ansia. ma non sapevo neppure io perché. Percepivo che doveva succedere qualcosa, ma che cosa con precisione mi sfuggiva. Avevo sentito dire che avrei raggiunto la maggiore età. Forse per la legge egiziana era così. Non lo so. Ma in Italia, allora, la maggiore età si raggiungeva al 21° anno. Eppure spesso quella data veniva indicata come una tappa importante della mia vita. Si insisteva tanto su quel particolare. che finii anch’io per convincermi, più per far piacere agli altri che a me stessa, che doveva essere per forza così. Prima di quella data, comunque, accadde un fatto che ha lasciato un segno nella mia vita. 

Ero seduta in un angolo appartato del giardino della villa, sotto l’ombra di una magnolia. Avevo voglia di stare sola. Ero presa da un momento di mestizia, di cui non sapevo rendermi conto. Spesso ero assalita, il più delle volte all’improvviso, da momenti di malinconia. Forse per un bisogno di fare. di tanto in tanto, nelle pause di una vita molto movimentata, il bilancio della mia esistenza. Avvertivo in essa, pur nella spensieratezza dell’età, dei vuoti, che mi spingevano a meditare, a riflettere sul mio passato, sul mio presente e sul mio futuro. 

Spesso non ero soddisfatta di me stessa. Vedevo nella mia vita ampie zone d’ombra, che nulla riusciva a dissipare, cercavo di allontanarle, tuffandomi maggiormente nelle distrazioni che il ménage con Farouk mi offriva. Ma, anziché allontanarle, la ricerca affannosa di diversivi, le ingigantiva, facendomi piombare in stati di scoraggiamento, di prostrazione, quasi di disperazione, dai quali mi riavevo con fatica. 

Quel giorno, sotto l’ombra di quella magnolia, stavo vivendo uno di quei momenti sconsolati, quando fui riportata ad una realtà completamente diversa da un’apparizione, che mi sembrò miracolosa, tanto la vissi intensamente e con uno slancio improvviso dell’anima, che mi fece ritrovare quasi le ragioni valide di una esistenza, che troppo spesso ormai avvertivo, dentro di me, come inutile, nonostante i bagliori e i colori di avvenimenti apparentemente ricchi di colpi di scena e di emozioni. 

Un bambino bellissimo, che poteva avere cinque o sei anni, spuntato come per incanto da dietro una siepe, stava correndo verso di me, mentre gridava «mamma, mamma, mamma». 

Non ebbi neppure il tempo di domandarmi cosa stesse succedendo, che già il bambino mi era saltato al collo, continuava a chiamarmi «mamma», mi baciava e mi carezzava con violenza. Sembrava che avesse ritrovato un tesoro perduto e che fosse convinto di non trovare più. 

Dopo avere sfogato la sua violenza con le carezze e con i baci, rimase aggrappato a me, deciso a non lasciarmi più. 

– «Mamma mia, mamma bella, perché sei stata lontana tanto tempo? Io ti aspettavo e tu non venivi mai, perché? Adesso non devi lasciarmi più. Me lo prometti?» 
– «Sì. te lo prometto, non ti lascerò più, bello mio. Ti voglio tanto bene. sai?» 
– «Vieni a giocare con me a nascondino?» 
– «Sì. mi piace tanto. Chiudi gli occhi contro quell’albero e conta fino a 10. Io mi nascondo e tu vieni a cercarmi». 
– «Non te ne andare però. No, no – ci ripensò -. Non voglio giocare a nascondino. Tienimi per mano. Passeggiamo insieme». 

Ero enormemente commossa. Le effusioni così forti e sincere di Fuad (si chiamava così il figlio più piccolo di Farouk, avuto dalla seconda moglie Narriman Sadek) mi avevano colpito profondamente. 

Pur nella rapidità delle sequenze dell’incontro inaspettato. in un attimo mi immedesimai tanto nel ruolo della vera madre, che riuscii a vivere le emozioni con la stessa intensità e la stessa purezza. 

Mi sentii sua madre e lo sentii mio figlio. Volli, senza mentire e senza dire la verità, vivere quei momenti, nell’illusione di una verità che non esisteva. Mi augurai, per un momento, che quella illusione diventasse realtà. Desiderai ardentemente di essere, per miracolo, sua madre e che Fuad fosse mio figlio. […] 

La fine di Farouk: morte naturale o assassinio politico? 

Per quanto mi riguarda, non ho alcunché da aggiungere alle dichiarazioni da me rilasciate al giornalista Alberto Libonati e pubblicate su «Gente» del 21 luglio 1975 e di cui ho già parlato nel capitolo Ciò che è stato scritto e detto sulla morte di Farouk. 

Consento, però, che Giovanni Salucci si soffermi su alcuni interrogativi e alcuni eventuali moventi, di cui si assume la totale ed esclusiva responsabilità, alla quale io sono completamente estranea. 

«Non intendo con queste mie parole accusare qualcuno. Pongo solo quesiti che, a suo tempo, né la Irma Capece Minutolo, né altri furono capaci o vollero porsi e che, invece, avrebbero dovuto, ognuno in relazione al ruolo svolto e alle rispettive competenze, sia in Egitto che fuori dell’Egitto». 

Tutto, solo per il rispetto che ognuno avrebbe dovuto avere per la verità e per la giustizia. 

Chi può, avrebbe il dovere, oggi, anche se a distanza di anni, di rispondere a questi quesiti. 

Egualmente, chi ne disponesse, avrebbe il dovere di fornire ogni elemento utile a chiarire i dubbi che da più parti sono stati avanzati sulla morte di Farouk e sui quali anche la Irma Capece Minutolo, ha, volontariamente o involontariamente, contribuito a far cadere il silenzio. 

A lei per prima faccio notare che con troppa sicurezza fece, a suo tempo, certe affermazioni, senza avere elementi inconfutabili dalla sua parte, se non il desiderio di evitare che si speculasse sulla morte di Farouk, come s’era speculato spesso sulla sua vita; di evitare che di nuovo Farouk diventasse motivo di chiasso e non di ricerca seria della verità; di evitare, ancora, che si offendesse il suo ricordo con la soddisfazione di curiosità morbose e con il piacere di sollevare problemi scandalistici, utili soltanto agli speculatori. 

In quel momento – posso capire – il suo stato d’animo le suggerì di buttare acqua sul fuoco, per non assistere al risveglio del veleno della maldicenza, della ingenerosità e della cattiveria. 

Ma, in seguito, passato quello stato d’animo dettato dall’amore, non era più logico che le capitasse di rivolgere a sé stessa qualche domanda, che allora, non era stata capace di rivolgersi? Non avendo dalla sua parte elementi inconfutabili di prova, per scartare con assoluta certezza l’ipotesi di un delitto, non le è mai sembrato di avere commesso dei torti verso Farouk per avere omesso di considerare, anche soltanto a titolo di ipotesi, la eventualità di un delitto? Non ha mai pensato che, Farouk per primo, avrebbe potuto disapprovare il suo comportamento, anche se in buona fede, per desiderare che si facesse piena luce su tutto, anche su semplici ipotesi? Si è mai chiesto di aver fatto o meno tutto il proprio dovere, cercando di soffocare sul nascere tanto categoricamente qualsiasi dubbio? 

Anche se tutto le lasciava supporre che non vi fossero motivi per pensare ad ambienti interessati a sopprimere l’ex Re, non avrebbe, almeno, potuto supporre che certe macchinazioni possono anche essere provocate (come spesso è accaduto per personalità molto in vista) da fanatismo, irrazionalità, gesto, cioè, inconsulto? 

Ammesso che motivazioni serie per l’assassinio di Farouk non esistessero, perché escludere che potessero esservene di riflesso: come strumentalizzazione, tanto per dirne una, di quell’assassinio proprio contro persone e ambienti che non avevano alcuna motivazione per perpetrarlo? 

Certi delitti, si sa, restano impuniti soltanto perché l’apparente assenza di moventi impedisce di percorrere il cammino giusto per arrivare ai colpevoli. Sarebbe doveroso, pertanto, che, in ogni caso, specie per le persone in vista, nulla venisse tralasciato per la individuazione di eventuali moventi delittuosi. 

Perché non considerare, ad esempio, il timore, da parte dei governanti egiziani dell’epoca, che la spartizione e la distribuzione, al popolo, delle proprietà e delle ricchezze della Corona, potesse suscitare la reazione e la ribellione dell’ex Re, che, attraverso suoi emissari segreti, avrebbe potuto rappresentare un ostacolo alle riforme? 

Tale ostacolo non sarebbe potuto diventare elemento sufficiente a giustificare una sua eliminazione? 

Ammesso pure che non si fosse trattato di ostacolo vero e proprio, non avrebbe potuto dar fastidio, ai governanti egiziani, la sola eventuale critica severa e condanna dell’operato, a cose fatte, delle autorità egiziane, da parte di Farouk? 

È proprio da escludere che potesse esistere gente interessata a venire in possesso di eventuali ricchezze di Farouk, per caso sfuggite alla requisizione delle autorità, dopo la sua destituzione e la sua condanna all’esilio? 

Le disavventure della guerra con Israele non avrebbero potuto risvegliare, nel popolo e in una parte dei governanti, nostalgie monarchiche pericolose per i fautori della rivoluzione? 

Non potevano esserci potenze straniere desiderose di ristabilire il precedente «status quo», anche per la salvaguardia di grandissimi interessi che la rivoluzione aveva messo in pericolo? Dinanzi a questo timore, non potevano i governanti ritenere più oppotuno sbarazzarsene, per evitare qualsiasi tentazione nostalgica? 

La stessa lotta, senza esclusione di colpi, tra mondo arabo e mondo ebraico, non sarebbe bastata a creare un terreno favorevole a tutte le insidie, a tutte le ipotesi e a tutti gli intrighi? 

La soppressione di Farouk non sarebbe potuta scaturire anche da un semplice calcolo sbagliato? 

Né era – mi pare – da scartare totalmente l’idea che, in una vita sentimentale movimentata, come quella di Farouk, potessero sorgere ragioni di risentimento, di rancore e di vendetta sia in campo maschile che femminile. 

E il suo mondo degli affari, non avrebbe potuto offrire l’occasione di incomprensioni, di delusioni, di prospettive non gradite, tali da spingere a soluzioni radicali e definitive? 

I moventi, dunque, potevano essere tanti, da non far escludere a priori, come capitò ad Irma Capece Minuttolo, le ipotesi di un assassinio politico. Senza lasciarsi prendere la mano dai sentimenti, la stessa avrebbe dovuto far funzionare di più il freddo e realistico raziocinio e non influenzare alcuno con le sue convinzioni, indubbiamente molto attendibili e autorevoli per l’esterno, dal momento che conosceva intimamente la vita, le confidenze di Farouk. Avrebbe potuto offrire, mentre non offrì, qualche spunto perché si esperissero approfondite indagini. Lei per prima scagionò tutti e insistette perché non si facesse nulla. Proprio lei che doveva essere una delle maggiori interessate acché non si escludesse alcuna ipotesi e non si lasciasse alcunché di intentato per fare piena luce sull’intera vicenda. […] 

– «Non voglio neppure sentirlo. Non farti prendere dalle fantasie anche tu. È morto di emorragia cerebrale e basta. Argomento chiuso. Se i familiari sono convinti di questo, perché non dovrei esserlo io? No. Non voglio neppure sentirlo. A suo tempo i Governi italiano e egiziano hanno fatto certamente il loro dovere». 
– «Non accuseremo nessuno. Porremo soltanto degli interrogativi». 
– «No. Non voglio». 

Si era quasi seccata che io avessi osato tanto. Non ho mai capito quella presa di posizione così dura. Forse ha avuto paura di poter andare incontro a dei guai. avventurandosi in un ginepraio pericoloso. Forse si ribellava al solo pensiero che Farouk fosse stato assassinato. perché la sentiva come una realtà enormemente ingiusta. 

Non è escluso, però, che abbia influito anche un altro fatto: più di una persona pare che, in quell’epoca, l’abbia dissuasa a parlarne, dicendole che si sarebbe potuta cacciare nei pasticci: che i governi italiano ed egiziano avevano fatto tutto ciò che c’era da fare: che era tempo perso recriminare sull’accaduto, che niente e nessuno avrebbe ormai potuto modificare. 

È stato proprio questo particolare che mi ha indotto ad insistere perché consentisse che certi interrogativi venissero posti. Tanto io li avrei posti egualmente, magari al di fuori del libro, giudicando ancora più severamente i suoi scrupoli e le sue paure. Così ha accettato, che io ne parlassi, assumendomene tutta la responsabilità. 

Dopo che Irma Capece Minutolo ha letto queste mie considerazioni, ha esclamato: 

«Io confermo che Farouk è morto di morte naturale. Comunque, ammesso che potessero essere formulati interrogativi, perché dovevo essere io a porli? Perché non lo hanno fatto coloro che erano tenuti più di me? Cioè le sorelle, la madre, le ex mogli, i parenti?». 
«Io – ho aggiunto e concluso – ti inviterei a riflettere. So che hai letto il servizio della giornalista Carla Pilolli, pubblicato su «Il Messaggero» del 24-12-1989, a proposito di un incontro avuto a Parigi con Fuad, figlio del re Farouk. Hai notato che lo stesso figlio ha affermato che il padre «è morto in una trattoria romana, in una maniera niente affatto chiara». Se anche il figlio ha dei dubbi, perché non dovrebbero averne gli altri»? 

Irma Capece Minutolo ha annuito, senza rispondere, ma è rimasta molto pensierosa. 

I. Capece Minutolo G. Salucci 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 47-54.




 Lettera aperta al Ministro della Funzione Pubblica  Giustizia amministrativa e burocrazia statale 

Signor Ministro, mi rivolgo a Lei, con la certezza che vorrà dedicare appena qualche minuto a poche mie considerazioni sulla DECISIONE del CONSIGLIO DI STATO n. 659 del 26-6-1990. 

Nella stessa legge, tra l’altro: “A norma… della Legge 29-2-1980 n. 33, al Personale degli Enti .disciolti… assegnati ai Ruoli Speciali… presso ciascun Ministero… era garantita, prima del definitivo inquadramento nei Ruoli Speciali suddetti, una salvaguardia transitoria delle posizioni acquisite presso l’Ente di appartenenza… L’Art. 5 della Legge 10 luglio 1984 n. 301… deve essere interpretato nel senso di applicabilità retroattiva alla data di inquadramento nei Ruoli Speciali (Promozione alla qualifica di Dirigente Superiore), anche in assenza del relativo posto di ruolo nella tabella organica, mediante la istituzione di un posto in soprannumero (nel Ruolo Speciale), cui corrisponde la soppressione del posto nella qualifica di provenienza (Primo Dirigente) … “. 

Molti Ministeri (ad esempio: quello del Tesoro – Ragioneria Generale dello Stato – quello delle Finanze – quello del Commercio con l’estero) hanno già dato esecuzione a tale Decisione del Consiglio di Stato (altri sono in procinto di farlo), per tutti i dipendenti in possesso dei requisiti richiesti. 

Alcuni Ministeri (Sanità – Beni Culturali), per mancanza di serenità e di coraggio nell’assunzione delle proprie responsabilità, non sono stati capaci di prendere analoga, autonoma iniziativa, e hanno sottoposto il quesito al conforto di codesto Dipartimento, che, nella persona del Dirigente Generale, Direttore del Servizio V. Dr. Longhi in risposta ai quesiti stessi, sostiene con forza la infondatezza giuridica della Decisione del Consiglio di Stato, per concludere: “Si è quindi dell’avviso che alle richieste dei Dirigenti … debba essere opposto un assoluto diniego, anche a rischio di provocare un altro contenzioso…”. Come per dire: “Il Consiglio di Stato non è legittimato ad occuparsi di Giustizia Amministrativa e a prendere, di conseguenza, certe decisioni o, per lo meno, poiché ha sbagliato nel prenderle, io non ne tengo conto, a costo di obbligare i dipendenti a ricorrere all’infinito, dal momento che non terrei, naturalmente, conto neanche di una eventuale, ulteriore decisione favorevole. Potrei tenerne conto soltanto quando il Consiglio di Stato si decidesse a tradurre,nel suo provvedimento, il mio punto di vista. In altri termini: o il Consiglio di Stato fa come dico io o ritengo solo me, e non altri, il depositario del Consigliodi Stato”. 

Anche se paradossalmente, sembra che il Direttore del Servizio V abbia ra-gionato e ragioni così. 

Signor Ministro, mi rivolgo a Lei con fiducia, incoraggiato dalle tante iniziative da Lei intraprese per l’ammodernamento dell’apparato statale. Lei insiste molto sul rispetto dovuto al cittadino e sul concetto che l’Amministrazione Pubblica ha come suo primo dovere quello di servire il cittadino. 

Il Direttore del Servizio V dimostra, invece, sul suo ruolo di servitore dello Stato, una concezione molto diversa, se non ritiene di fare il bene del cittadino(nel caso in specifico: del dipendente della Pubblica Amministrazione) neppure quando il supremo Organo della Giustizia Amministrativa sentenzia a suo favore. Evidentemente giudica il suo ufficio non uno strumento di servizio (nonostante il nome lo farebbe supporre – Servizio V), ma un feudo personale, un potere da gestire, più o meno capricciosamente, in nome del cosiddetto “interesse pubblico”, anche se perseguito facendo il danno e l’ingiustizia del cittadino, contravvenendo ad un diritto a lui riconosciuto, anche formalmente, da un Organo a ciò preposto dalle leggi dello Stato. 

Che direbbe questo zelante Capo Servizio se, la mattina, recandosi in Uffi-cio, trovasse i suoi dipendenti decisi a non rispettare le norme, neppure quelle dettate da lui, ovviamente discutibili come tutte le cose umane? Egli si è comportato allo stesso modo. Penserebbe mai di conferire un encomio solenne ai suoi dipendenti, come certamente ritiene di meritare per sé, per il suo lodevole servizio reso allo Stato? O non penserebbe, piuttosto, che l’uno comportamento (quello dei dipendenti indisciplinati) e l’altro (quello suo, di Capo Servizio)sanno di anarchia? Evidentemente egli è convinto, se la logica vale sempre, di fare l’interesse pubblico con l’anarchia. Non si potrebbe mettere in discussione,con questa logica, anche il suo stipendio, che qualcuno potrebbe ritenere, in qualche misura, usurpato, se pensa di impiegare utilmente il suo tempo nel trasgredire, in senso lato, le leggi? 

Il Direttore del Servizio V, tra l’altro, non solo ritiene che possa coincidere l’interesse pubblico con il danno del cittadino, ma, incurante anche del danno che un contenzioso sistematico può arrecare alla Pubblica Amministrazione, la incoraggia a resistere ad oltranza alle “pretese” del proprio dipendente, anche se il Consiglio di Stato ha riconosciuto che quelle “pretese” sono un suo diritto. 

Se neppure la Decisione di un Organo Giurisdizionale ha valore, scompare,per il cittadino, la certezza del diritto, in nome dell’arbitrio di un Capo Servizio,che ritiene diritto solo il suo convincimento e che, sconvolgendo l’ordine giurisdizionale esistente, presume di assommare nella propria persona tutti i poteri,con buona pace di Montesquieu, i cui criteri sembravano ancora validi. 

Non è dissimile, lo stato d’animo che porta a questa conclusione, da quello dei componenti dell’armata, cosiddetta, di Brancaleone. Ogni Dirigente statale,nel caso nostro al di fuori di ogni regola e di ogni norma, può tranquillamente,come i componenti di quell’armata, decidere come più gli aggrada, quando si sveglia la mattina, in base ai suoi discutibili umori di giornata. 

Ciò, purtroppo, avviene non soltanto dinanzi ad una Decisione del Consiglio di Stato, ma, più spesso dinanzi a tutte quelle provvidenze che vari Ministeri (non tutti per fortuna), gestiscono, non animati da spirito di giustizia, ma di parte, per cui alcuni cittadini o persone giuridiche risultano lautamente favoriti, altri sistematicamente esclusi da certe provvidenze, che potrebbero, meglio,essere destinate a rotazione, quando i mezzi non consentono di raggiungere tutti contemporaneamente. 

Mi scusi, Signor Ministro, questo sfogo, ma la Società (sia essa fatta da cittadini, da dipendenti statali o da altre categorie), per andare avanti bene, ha bi-sogno, credo, di persone responsabili, non dominate da passioni ingenerose, di cui ci si possa fidare di più. 

Fino a qualche tempo fa, almeno, il Dipartimento per la Funzione Pubblica, nella sua azione di consulenza legale, si è sempre schierato dalla parte del cittadino, quando non era di danno alla collettività. Diventa assurda e ingiusta, quando, come nel caso specifico, presume di fornire indirizzi giusti, in contrasto con le decisioni dei Competenti Organi di uno Stato di Diritto come il nostro. 

Tale azione non può non essere avvertita come frutto di arroganza e di disprezzo della giustizia. Si possono anche discutere le decisioni degli Organi 

Giurisdizionali, ma non essere disattese. Sarebbe come se la Corte Costituzionale dichiarasse incostituzionale una norma o altri Organi dello stato, non condividendo, si sentissero autorizzati a non tenerne conto. Sarebbe lecito e giusto? Agli Organi dello Stato ciò non è consentito. Perché è consentito ad un Capo Servizio? 

Non sarebbe stato più opportuno che, almeno, il parere su una Decisione del Consiglio di Stato fosse scaturito da un esame collegiale, date le sue implicanze? Come la mette, poi, questo Capo Servizio con quei Ministeri che hanno già applicato la Decisione del Consiglio di Stato? Non avrebbe dovuto tener conto anche di questo un funzionario attento e scrupoloso? 

Affinché chiunque legga questa lettera (al di fuori di Lei, Signor Ministro, che non ha bisogno del chiarimento) comprenda che la citata Decisione del Consiglio di Stato non voleva creare dei privilegi (come sostiene il Capo Servizio) per gli appartenenti al ruolo Speciale rispetto a quelli del Ruolo Ordinario, ma ristabilire, per essi, la giustizia, faccio notare che la confluenza (del Personale di tanti Enti disciolti contemporaneamente) in un unico Ruolo Speciale, presso i singoli Ministeri, ha comportato grandi disparità di trattamento, nel senso che alcuni, figuranti al primo posto nella posizione giuridica dell’Ente di provenienza, si sono ritrovati all’ultimo posto nel ruolo Speciale e viceversa, anche quelli che avevano maturato il diritto alla promozione e potevano ricoprire posti già disponibili nell’Organico dell’Ente di provenienza e non assegnati per la soppressione dell’Ente stesso? 

Il “nostro” Capo Servizio non ha saputo o voluto comprendere queste cose, all’origine della Decisione del Consiglio di Stato, come non ha saputo o voluto comprendere che l’unica via per ristabilire la giustizia non poteva essere che quella del soprannumero, visto che il Ruolo Speciale era viziato, come si è visto, in partenza. 

Se come prevedeva la legge, il Ruolo Speciale fosse confluito subito nel ruolo Ordinario, si sarebbe fatto un torto a quelli del Ruolo Ordinario, per lo stesso motivo valido per i provenienti da Enti soppressi. Ecco perché la confluenza nel Ruolo Ordinario ha incontrato molte resistenze ed è avvenuto dopo otto anni e non in termini di parità. 

Potremmo discutere a lungo, con punti di vista diversi, sul contenuto, le motivazioni pro e contro. le difficoltà di un provvedimento, ma solo a titolo accademico, perché nessuno, neppure il Capo del Servizio V del dipartimento della Funzione Pubblica ha il diritto di opporsi alla applicazione di una Sentenza di un Organo giurisdizionale al suo ultimo livello. 

Mi auguro, Signor Ministro. che Lei (impegnato ad eliminare dai comportamenti della Pubblica Amministrazione tante storture) trovi il modo di rendere responsabile, a tutti i fini, il Funzionario che emana i provvedimenti, anche per l’eventuale risarcimento dei danni. 

Troppo comodo contrapporsi ad una decisione definitiva di un Organo giurisdizionale quando al Funzionario-trasgressore non costa nulla, mentre costa molto alle altre parti in causa, compreso lo Stato. Un contenzioso ingiustificato e diffuso costa di più allo Stato, della promozione, sì o no, di quindici, venti Funzionari. Neppure questo valeva considerare per il premuroso Capo Servizio? 

Le sembra, Signor Ministro, che sia il più adatto a ricoprire un incarico così elevato, chi è più abile ad alimentare i conflitti che ad appianarli, non certo per migliorare il clima della Pubblica Amministrazione, nell’interesse di tutti? 

Signor Ministro, grato per la pazienza dimostrata. Si abbia la mia stima e il mio rispetto. 

Giovanni Salucci 

P.S. – Forse non è male sottolineare ancora, per il Signor Ministro, la farraginosa e assurda procedura ancora vigente per la tutela dei diritti amministrativi: un dipendente della Pubblica Amministrazione a cui è stata negata l’applicazione di una sentenza del Consiglio di Stato, deve, per chiedere che gli venga applicata, ricorrere al T.A.R e cominciare daccapo, in un circolo vizioso “forse” infinito. 
Come può funzionare bene la macchina statale, se questi sono i suoi ingranaggi? Il Ministro per la Funzione Pubblica non può fare proprio nulla per rimediare a certe storture?

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pagg. 21-25.




F. Monaco, Ma perché scrivono? (La lingua italiana devastata), Roma, E.I.L.E.S., 1987, pagg. 105.

 L’autore F. Monaco, giornalista, titolare anche di un’agenzia di stampa (Italia Notizie), con sede in Roma, è di quegli scrittori che possiamo definire, per molti -scomodo… 

Senza peli sulla lingua, e con coraggio, da 20 anni circa, sottopone al vaglio della sua critica pungente gli argomenti più disparati, tutti, però, riconducibili al filo conduttore di un costume sociale disinvolto e dai valori discutibili. Basta scrivere il solo titolo di alcuni suoi libri per rendercene conto: La buonanima dello Stivale, Il circo degli inconcludenti, Dizionario della mala repubblica, etc. 

Con il nuovo lavoro, Ma perché scrivono, è sotto accusa e sotto tiro la leggerezza con cui viene usata la lingua italiana a tutti i livelli e in tutti i settori, senza rispetto alcuno per la grammatica, la sintassi e il buon senso. Dall’indice si capisce che l’Autore non risparmia nessuno. C’è da dire che nulla è lasciato all’anonimato e che ogni citazione porta il nome e il cognome dei responsabili. 

È motivo, perciò, anche di notevole curiosità, perché compaiono tanti insospettabili che mai, prima d’ora, avevamo immaginato colpevoli di sviste negligenze o ignoranza in tema di lingua italiana. 

Il libro prende le mosse dall’art. 21 della Costituzione che sancisce: -Tutti hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero con le parole, con lo scritto e ogni altro mezzo d’espressione… L’autore non contesta, ma commenta con ironia: -Però fra le tante, madornali amnesie dei Costituenti c’è stata anche quella relativa a un fondamentale dovere di chi scrive: il dovere di rispettare chi legge. E rispettare chi legge significa non propinargli corbellerie in maniera oltre tutto, pedestre… 

Da tali espressioni si può arguire facilmente che il libro, oltre ad essere caratterizzato da un’analisi pungente di certi andazzi, contiene anche elementi che lo rendono oltremodo spassoso e piacevole alla lettura: lo stesso stile brillante e incisivo di tutte le altre opere del nostro Autore. 

G. Salucci

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pag. 60




Congresso Sindacato Nazionale Scrittori

 Il mio intervento sarà di natura eminentemente pratica. 

Il nostro è un Sindacato come si sa “sui generis”, diverso certamente da tutti gli altri. Negli altri sindacati ci sono ruoli ben definiti delle parti in causa, e linearità del contenuto e della materia del contendere: il datore di lavoro, il lavoratore dipendente, l’interesse preciso e generale da difendere, l’arma dello sciopero come strumento di pressione e di persuasione. 

Nel nostro sindacato, invece, i ruoli delle parti in causa sono poco circoscritti, più indeterminati: o per lo meno non così strettamente collegati tra loro e molto più complessi: perché il datore di lavoro quasi non esiste, confuso spesso con la stessa struttura della società. prevalentemente nelle sue parti più carenti; il lavoratore quasi mai è un lavoratore dipendente: la materia del contendere è così multiforme e sfuggente che investe le più clamorose contraddizioni della stessa organizzazione dello Stato e della società: il lavoratore non ha quasi mai la possibilità di usare l’arma dello sciopero come elemento di pressione e di persuasione. Da qui discende l’enorme difficoltà di trovare la via giusta da seguire nelle lotte e nelle rivendicazioni. Bando perciò alle facili critiche ed alle inevitabili insoddisfazioni e invito alla ricerca responsabile e serena dei mezzi adatti e soprattutto ad una maggiore intesa e ad una maggiore solidarietà tra noi, senza di che, io penso, ogni sforzo potrebbe risultare vano. 

Esistono due posizioni sulla fisionomia del Sindacato: 
Avrebbero ragione i primi, se esistessero Organismi diversi dal Sindacato, capaci veramente di difendere gli interessi particolari. Avrebbero ragione i secondi, se tali Organismi non esistessero o dimostrassero di essere incapaci di difendere gli interessi particolari. Siccome non esistono tali Organismi capaci, io sono con quelli della seconda posizione, i quali ritengono che l’azione del Sindacato non dovrebbe escludere nulla che possa giovare agli iscritti. Del resto, ormai, in ogni Sindacato non è più così netta la distinzione tra interessi generali e particolari o individuali. Il suo impegno maggiore dovrebbe senza dubbio essere per le piattaforme rivendicative di carattere generale, ma dovrebbe esistere anche per le istanze di carattere particolare. Tra l’altro, per gli iscritti, spesso alcuni problemi particolari sono più importanti o importanti nella stessa misura di quelli generali. (Un trasferimento: una migliore utilizzazione del lavoratore sul posto di lavoro; una pressione, perché una certa pratica legata al suo rapporto di lavoro venga sollecitata, evasa, ecc. ecc.). 

Non intendo qui riferirmi all’opera svolta dai vari “patronati”, di derivazione sindacale, che si occupano di tutti i problemi degli iscritti in quanto cittadini, anche al di fuori della loro qualità di “lavoratori” (Tale attività può esulare da quella del Sindacato). Ma non può essere esclusa quella, nel nostro caso, che investe i problemi relativi alla persona nella sua qualità di “scrittore” e non di semplice cittadino. 

La riforma, ad esempio, delle nonne del diritto di autore (problema di carattere generale) è importantissima, ma potrebbe avere poco senso per quell’autore, che non avesse risolto prima, a monte, il suo problema legato alla edizione del libro, alla sua distribuzione, alla sua pubblicizzazione, e alla sua vendita. Perciò il Sindacato non può restare estraneo a problemi apparentemente di carattere particolare, ma in realtà di carattere generale, perché investono gli interessi di tutti. 

Cosa può fare il Sindacato per affrontare questi problemi? Poiché il lavoratore-scrittore non ha, e lo abbiamo detto, come i lavoratori dipendenti, l’arma dello sciopero, bisogna trovare altre forme incisive di pressione. E qui scendo nel concreto. 

Il Sindacato deve sviluppare la sua opera di penetrazione in tutte le direzioni. Ed io penso ci sia da fare molto in questo senso. Molti ambienti, statali, parastatali, pubblici, in genere economici e non economici, hanno spazi notevoli di espansione per il Sindacato Scrittori, nell’interesse dei suoi iscritti. Mi spiego con un solo esempio che può valere, però, di indicazione per tantissimi esempi dello stesso genere. Il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali esplica molte attività direttamente connesse alla nostra qualità di scrittori: 

– stampa molte riviste, anche se di contenuto specializzato, con la collaborazione, per gli articoli, di esperti anche esterni; 

– acquista libri, direttamente dagli autori o dagli editori, per la distribuzione gratuita a biblioteche private di ogni genere (di sindacati, di scuole, di parrocchie, di organizzazioni culturali, di istituti di pena, ecc); 

– acquista libri, per la distribuzione gratuita alle biblioteche non statali aperte al pubblico; 

– acquista libri (anche se per il tramite delle stesse biblioteche) per le Biblioteche statali; 

– finanzia le Edizioni Nazionali; 

– eroga premi di cultura agli autori; 

– sottoscrive abbonamenti per riviste da destinare a persone giuridiche, in ambito nazionale ed internazionale; 

– acquista libri da destinare ad Istituti culturali esteri, nell’ambito degli scambi internazionali previsti dai trattati bilaterali di natura culturale; 

– concede premi a riviste di elevato valore culturale; 

– concede contributi per Convegni di natura culturale; 

– concede premi per la esportazione del libro italiano all’estero; 

– concede mutui agevolati all’editoria libraria (praticamente senza interessi); 

– assegna, in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione, diplomi e medaglie al merito culturale. 

Tutte queste attività sono gestite da Commissioni, formate da funzionari interni, da esperti esterni, con la partecipazione dei Sindacati di categoria. A me risulta che. in molte di queste Commissioni, è presente l’Associazione Italiana Editori. Non so se sia egualmente presente il nostro Sindacato Nazionale Scrittori, 

nell’interesse ovviamente della cultura e dei propri iscritti. Se non è presente, e laddove non è presente, è necessario premere, a tutti i livelli, perché faccia parte anch’esso di tali Commissioni. Ciò vale per il Ministero dei Beni Culturali, come per tanti altri Ministeri e Enti Pubblici. Certamente il nostro Sindacato è presente in tanti Organismi, come ad esempio, nella Commissione che assegna i premi di cultura presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Deve cercare di essere presente dappertutto. Tante attività non si conoscono. Sono certo che molti di noi non conoscono quelle attività, o almeno non tutte, che ho nominato per il Ministero per i Beni Culturali, come la maggior parte non conosce attività similari svolte da tanti Organismi Pubblici, a livello nazionale e locale (Presidenza del Consiglio, Ministeri, Enti Pubblici, Istituti Culturali, Enti locali. ecc.). 

Tutti questi organismi possono essere anche interessati a non avere troppe voci esterne nel loro seno e spontaneamente potrebbero preferire anche il silenzio sulla possibilità della presenza dei Sindacati delle categorie interessate. Tale atteggiamento è comprensibile, perché la presenza dei Sindacati limita il potere discrezionale, che può diventare arbitrario, della Pubblica Amministrazione. Sono i Sindacati esclusi che devono prendere l’iniziativa, sia per conoscere in maniera capillare le attività culturali svolte a tutti i livelli ed in ogni zona, sia per ottenere la loro partecipazione responsabile alle scelte culturali. 

Io suggerirei che, sia a livello nazionale che locale (regione, provincia, comune) vengano istituite, nell’ambito sindacale, commissioni permanenti (formate da iscritti che rivestano cariche sindacali, come da iscritti esperti o inseriti nei vari ambienti esterni) che studino il problema della partecipazione del Sindacato ai vari Organismi esterni e propongano agli Organi Sindacali responsabili le soluzioni da adottare di volta in volta. 

Tali commissioni permanenti potrebbero occuparsi anche dello studio e delle proposte di soluzione anche di tutti gli altri problemi che interessano gli scrittori (il rapporto con le Case editrici per la pubblicazione dei libri, la distribuzione del libro. la vendita del libro, il rapporto con le librerie, l’opera di pubblicizzazione del libro stesso, ecc.). 

Sono note a tutti le difficoltà che incontra la soluzione di questi problemi. Le case editrici, la distribuzione, la vendita, la pubblicizzazione del libro rappresentano altrettanti ostacoli spesso insormontabili, che vanificano ogni nostro sforzo. Le leggi del mercato e del profitto mortificano spesso le nostre aspettative e ci trasformano in semplici oggetti di sfruttamento. quando va bene. Perché spesso, neppure dopo che siamo stati sfruttati, riusciamo ad avere la gioia di qualche successo, perché gli altri hanno deciso così: gli editori, i distributori, i venditori. Tutti, tranne noi, fanno il bello e il cattivo tempo: stampano i libri che vogliono, distribuiscono i libri che vogliono, vendono i libri che vogliono. in base a criteri discutibili, discriminanti, che di tutto tengono conto, tranne, nella maggioranza dei casi, del contenuto valido del libro. Siamo, nella politica del libro e della cultura, ai primordi dello sviluppo civile e storico, alla fase, direi, ancora di servitù della gleba, di feudalesimo il più retrivo. E non abbiamo la possibilità di reagire come gli altri lavoratori, al nostro, diciamo così, datore di lavoro, in senso ironico quasi e improprio, rappresentato, per noi, dall’editore, dal distIibutore, dal venditore. 

Dobbiamo perciò rassegnarci al ruolo di vittime, senza possibilità di scampo? Io dico di no. 

Ogni situazione, anche la più grave con l’in1pegno e la buona volontà, può trovare una via d’uscita. 

Non potrebbe il Sindacato tentare di fare delle convenzioni, degli accordi, per i propri iscritti, con gli editori, con i distributori, con i venditori? E al limite, se ogni tentativo risultasse vano, non potrebbe il Sindacato affiancandosi a strutture solide già esistenti, ipotizzare la creazione di una propria casa editrice, di una propria rete di distribuzione, di proprie librerie, almeno nelle grandi città, con la partecipazione finanziaria e operativa dei propri iscritti? Indubbiamente sono problemi di enormi proporzioni che vanno esaminati a fondo, senza ingenuità, con senso di equilibrio e di realismo. Ma devono essere affrontati, pena il fallimento di tutta l’opera del Sindacato, che risulterebbe, diversamente, sterile. Senza dubbio, prima di arrivare a proprie strutture industriali, produttive, commerciali, bisogna tentarle tutte: nelle tesi preparatorie del precedente Congresso, si insisteva sulla iniziativa di cooperative di secondo grado. 

Non ricordo bene come fossero strutturate, ma mi pare rientrassero nello spirito di ciò che sto dicendo io. 

Nelle tesi si accennava anche ad un’altra idea interessante sull’intervento della mano pubblica nel settore dell’editoria, fino alla conseguenza più globale: alla istituzione di un Ente pubblico che gestisca in proprio l’attività culturale e, in senso stretto, quella concernente il libro nel suo iter completo: pubblicazione. distIibuzione, vendita, pubblicizzazione e promozione. Un Ente Pubblico, naturalmente, dove sia prevalente la presenza delle categorie interessate, compreso il nostro Sindacato. 

Solo una struttura pubblica di questo genere potrebbe fare da contrappeso all’attuale prepotere del monopolio privato, a favore proprio di quegli autori che l’attuale sistema emargina o distrugge completamente. Si è fatto qualcosa in questa direzione? 

Tutto è molto difficile, ma bisogna tentare tutto. 

Si è fatto qualcosa sul contenuto di altre tesi dello stesso Congresso: Ristrutturazione ed efficienza dell’ENAP – abolizione della legge Bacchelli per interventi più radicali e definitivi – presenza degli autori nello staff dirigenziale delle case editrici – rapporti con gli altri Sindacati – attività vertenziale in difesa del contratto dell’autore in seno all’OLAF-SIAE percentuale del diritto d’autore degli scrittori decedudi da oltre un cinquantennio a favore degli scrittori viventi – penetrazione dell’oggetto libro nei supermercati e nei negozi di altro genere, ecc. 

Un’altra cosa io ritengo molto importante: è una questione un po’ delicata, che va esaminata con attenzione, ma potrebbe anch’essa dare i suoi frutti. Sviluppare una maggiore conoscenza reciproca tra gli iscritti. A questo punto gli scopi di un sindacato si fondono con quelli di una Associazione e si integrano. 

Rispettando la libertà di ciascuno. potrebbero essere messi a disposizione degli iscritti quei dati che i soci ritenessero di far conoscere spontaneamente, sulla posizione, che essi occupano nella società (case Editrici, Ministeri, Organismi pubblici e privati, nazionali e locali), perché tutti possano sapere, possano scambiarsi le esperienze, possano fornire quelle notizie e quelle conoscenze utili agli altri, in un clima di fraterna, serena, mutua solidarietà, senza pretese assurde. 

Sarebbe un male, ad esempio, che tutti conoscessimo l’intera opera dei colleghi scrittori, per dare una mano quando è possibile, per fare, anche se in piccolo, opera di propaganda quando capita l’occasione? Sarebbe un male, se il Sindacato potesse rivolgersi con fiducia a quelli di noi inseriti nelle strutture pubbliche e private e che potrebbero facilitare la partecipazione del Sindacato alle Commissioni di cui parlavo prima? Sarebbe un male, se la conoscenza della nostra posizione sociale potesse rappresentare un punto di riferimento, per il 

Sindacato e per gli iscritti, per la conoscenza di quelle iniziative culturali esistenti ai vari livelli e che spesso ignoriamo, per la utilizzazione, almeno, delle provvidenze esistenti che non conosciamo, per una più facile presa di contatto con tutti quegli Organismi pubblici e privati che interessano la nostra attività di scrittori? 

Io non ritengo che sia un male. Sono anche convinto che ciascuno di noi utilizzerebbe con discrezione e senso della misura ogni possibilità di solidarietà umana. Ma anche se non fosse. chi impedirebbe a ciascuno di noi di dire con sincerità e senza risentimento al collega troppo pressante: “abbi pazienza, stai esagerando”? 

Io sono convinto che gli aspetti positivi di questa iniziativa siano più numerosi di quelli negativi e che ogni azione umana comporti sempre qualche rischio, al quale, se vogliamo agire, non possiamo sottrarci. 

Forse sto abusando della vostra pazienza. Vorrei terminare con due parole soltanto sulla organizzazione del Sindacato. Data la molteplicità e la complessità dei compiti che il Sindacato è chiamato a svolgere, se non vuole fare solo opera di vuota accademia. deve rafforzare, è la mia impressione, le sue strutture a livello centrale e periferico. 

Ritengo che il Sindacato debba disporre di maggiori mezzi finanziari: che le persone investite di certe cariche, richiedenti notevole disponibilità siano adeguatamente retribuite. Non so cosa accada attualmente in proposito: che la rivista Produzione e Cultura venga potenziata per periodicità e contenuti, con la inclusione anche di una rubrica destinata alla divulgazione dell’opera degli scrittori soci; che vengano istituite commissioni permanenti. come detto prima. per l’approfondimento pratico dei problemi e per la indicazione delle soluzioni opportune; che a livello di segreteria nazionale. regionale e provinciale. funzioni un centro di raccolta di dati e notizie che interessano gli scrittori; di dati e notizie che riguardino l’opera degli iscritti; una specie di anagrafe generale di tutto ciò che può interessare; che in ogni struttura pubblica e privata, dove lavora qualche iscritto, venga nominato un rappresentante del Sindacato, che faccia da tratto di unione, da organo di tutela degli interessi degli scrittori soci che lavorino nello stesso ambiente e di tutela di quelli che non lavorino negli stessi ambienti, ma che potrebbero partecipare alle iniziative culturali promosse dalle stesse strutture. 

Se non insistiamo di più sui problemi concreti come questi e su altri ancora che potrebbero venir fuori, rischiamo di fare opera, come detto innanzi, di inutile accademia. 

Giovanni Salucci

*. In vista del Congresso del Sindacato Nazionale Scrittori, si stanno tenendo in tutta Italia riunioni e assemblee. Riteniamo mollo utile. per le sue indicazioni concrete, l’intervento effettuato dal pro] Giovarmi Salucci alla riunione tenuta presso la sezione del Lazio il 15-2-1991.
1) alcuni ritengono che esso debba limitarsi al sindacalismo puro; alla difesa, cioè, degli interessi generali degli iscritti, per demandare ad Organismi diversi dal Sindacato, a specifiche associazioni, il compito di occuparsi di interessi particolari, individuali; 
2) alcuni invece ritengono che il Sindacato debba preoccuparsi sia della difesa degli interessi generali che di quella degli interessi particolari e individuali. 

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 45-51