M. Caruso, L’ascensore di Cartesio, Mazara del Vallo,1996, pagg. 78.

Questo secondo romanzo, L’ascensore di Cartesio, rivela la tendenza dell’Autore ad approfondire l’indagine filosofica volta anche qui alla ricerca affannosa della verità. 

In questa ricerca il lettore talvolta è disorientato e non riesce a distinguere la realtà vera da quella virtuale.È, per fortuna, uno sbandamento momentaneo e serve, anzi, da stimolo alla verità; è uno sbandamento che rivela l’ansia eterna dell’uomo verso quella verità che è solo capace di fugare ogni dubbio e ogni incertezza. 

Ma la via che conduce ad essa è difficile: «Avevo avuto la presunzione di uscire dal dubbio e conquistare la verità con le mie sole forze. Ero sprofondato nell’inganno». Cosi fa dire l’Autore al protagonista, dimostrando ancora una volta che, nonostante il progresso della scienza, i dubbi permangono e l’uomo può solamente tentare di pervenire alla conquista della verità. 

Spesso, però, in questa ricerca rimane deluso ed insieme illuso: «Ricordo il tepore di un letto, l’odore delle piume del mio cuscino e… un profumo di maiale arrosto. Chissà chi lo stesse cucinando!» 

Ricompare il dubbio, ma è proprio questo dubbio che mette in moto quel meccanismo che ci induce a far di tutto per risolverlo. 

Antonella Scardino

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pagg. 41-43.




M. Caruso, Il balcone del professor Agostino Vicoplato, Mazara del Vallo, 1995, pagg. 111.

Il balcone del professor Agostino Vicoplato colpisce il lettore soprattutto per l’attualità della tematica affrontata, in quanto tutti, come Agostino Vicoplato, potremmo essere « vittime delle circostanze ». 

Molto valido il messaggio. Il libro vuole indurre a non lasciarci influenzare dai pregiudizi, a non giudicare il prossimo dai “si dice”, ma andare al di là delle apparenze per tentare di conoscere la verità. E anche se essa è triste ed amara, non è compito nostro giudicare o emarginare con un « non è dei nostri», come avviene a scapito del protagonista di questo romanzo. Nostro dovere è approfondire, scavare nell’animo per tentare di capire le motivazioni dell’agire. 

Un messaggio, a nostro parere, carico di ottimismo, perché, nonostante tutto, nonostante le disavventure, di cui si può essere vittime, affiora sempre la speranza che prima o poi spunterà il sole, riempirà tutto il balcone e Agostino potrà finalmente essere riconosciuto per quello che è e come noi vogliamo sia l’uomo. 

Antonella Scardino

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pag. 41.




 Quando l’ironia è la dimensione dell’anima 

Giorgia Stecher, Quale Nobel Bettina (Premessa di D. Bellezza), Il Vertice libri 

editrice, Palermo, 1986, pagg. 79. 

La colloquialità volutamente disadorna di Giorgia Stecher sembra nascere da impressioni casuali, il tono quasi di canzonatura nella scioltezza rapida del ritmo poetico, ma bastano pochi versi a darci il senso di un rigore mentale che ha le sue radici in una forma mentis delle più severe. 

Nulla di epidermico dunque in questo diario intimo che, forse proprio a causa della sua impietosa asciuttezza, scava fino alle radici dell’essere, sommuove emozioni memorie sentimentali che il piglio dissacrante non rende meno vivi e autentici. 

Il monologo della Stecher si dipana con una limpidezza e un nitore d’immagini quasi provocatori (una sorta d’intrepida sfida) che, a dispetto di chi non saprebbe mai approdarvi senza scadere nella più deprimente banalità, ci restituisce all’essenzialità crudele del vivere un giorno via l’altro, a una realtà spoglia di qualsiasi infingimento, dolente delle sue piaghe, specchio fedele della nostra esistenzialità difficile e amara a cui la Stecher presta sembianze ora desolate ora suadenti, nella suggestione di una narrazione fluida e serrata. Ma può accadere che la scorrevolezza del discorso si frantumi inaspettatamente con un secco e folgorante paradigma di parole, le più semplici all’apparenza, ed eccoci alla resa dei conti, squallide marionette che nessun filo regge e a cui nessuno suggerirà le battute. 

Senza parere dunque il poeta smantella le ragioni spesso risibili e meschine che si celano dietro ogni atto, ogni scelta, ogni umana piccola scelleratezza e lo fa con la forza irresistibile di un’ironia scintillante e nervosa, a cui il verso asciutto e scarno dà una quasi insostenibile evidenza. Sempre più di rado capita, in questa società fracassona e carnevalesca e con l’occhio sempre attento al botteghino, di trovarsi di fronte a una scrittura totalmente e sdegnosamente priva di allettamenti lessicali e di falsi scintillii, spietata nella sua disarmante nudità e perciò stesso carica di molteplici sensi, simile quindi a un gioiello raro che spicchi in una vetrina vuota. Una poesia insolita dunque che nel ritmo veloce e incalzante dà la misura di un itinerario mentale in cui i pensieri convergono nella loro schietta complessità dettando cifre, segni, suoni. C’è in questo straordinario tessuto narrativo (qui si raccontano i volti, i gesti, le voci, le strade, i muri, i corpi) un uso sapientissimo del verbo, mentre ben di rado la Stecher indulge all’aggettivo, quasi rifiutandovisi, con un effetto d’incredibile purezza linguistica al cui interno nulla vi è di superfluo, di lustro, di ozioso, neppure un sospetto di barocchismo poetico, neppure l’ombra di una coloritura romantica, nessuna concessione alla «bella immagine». Una poesia quindi che pur non ricorrendo ad alcun trucco intellettualistico e anzi proprio a causa della sua linearità lascia intravedere un complesso mondo di struggenti emozioni, di pensieri, di idee, di dolore. E lungo i percorsi di questa affascinante trama il poeta altro non è che un giocoliere elegante e raffinato che i fili del discorso recupera da remote distanze snodandoli e riannodandoli secondo geometrie sottili e ariose. La sua passionalità risentita, già trattenuta nella misura del verso: «Posso arrivare ad odiarti / se all’improvviso irrompi / nella mia solitudine… », si stempera nell’ironia (che, lo si è già detto, è il connotato di maggiore spicco della Stecher), in un’ironia di una qualità non sempre facile a definirsi, più vicina, spesso, a un’irrisione scanzonata o a una disperazione allegra (o allegria disperata?) piuttosto che a distaccata malinconia. 

C’è una sorta d’impetuosità nella cadenza spesso precipitosa del racconto poetico che procede – appunto – a perdifiato, adagiandosi a tratti in una musicalità dolcissima e commossa. Si legga, ad esempio, la splendida poesia dedicata alla madre, dal finale insospettatamente drammatico: «C’erano i maribù / nei miei giorni d’infanzia / voli bassi d’aigrette / e uccelli del paradiso favolosi», in cui sembrano aleggiare in una trasparenza d’acquario figure d’incantevole levità. Ma moltissime altre ve ne sarebbero da citare, nelle quali certe lampeggianti immagini ti colgono di sorpresa lasciandoti in uno stupore che è quasi stordimento: «mentre seduto in poltrona / guardi i cari parenti / cogli occhi tondi di chi / la mente tiene a parcheggio / in altri spiazzi». Qui la scelta tutt’altro che casuale di termini di uso spicciolo squarcia i veli dell’innocuità, mettendo a nudo scenari sotterranei, situazioni esistenziali note a chiunque, ma valle a dire in poesia anziché in un discorsetto volgare tra amici, senza trovarti intrappolato in forme e modi sciatti, insulsi e implausibili, specie se – appunto – non si ricorre ai rimedi ingegnosi del manipolatore di parole che crede di sistemare tutto con qualche bell’aggettivo ridondante messo al punto giusto. 

Ebbene la Stecher, con la sua «semplicità» svagata tanto da apparire casuale, illumina di bagliori incandescenti certi dettagli minimi. isolandoli in un cerchio di fiamma, con effetti a dir poco sorprendenti. Quanti altri poeti contemporanei, più o meno noti per le loro fumose acrobazie mentali, riuscirebbero a dare. magari in una sola immagine, in uno scorcio rapido, il senso dell’incombente crudeltà sottesa ad ogni evento o fatto insignificante, ad ogni più informe apparenza? 

Le poesie della Stecher, spoglie e deserte come un’alba fredda, riaccendono memorie, ridestano rimpianti e nostalgie e – strano, no? – c’inchiodano a un presente tanto più minaccioso quanto meno ne scorgiamo le insidie nel suo grigiore compatto e rassicurante. La crudeltà dunque, ci suggerisce il poeta, è nelle cose che ci guardano ferme mentre dentro di noi tutto crolla in schianti silenziosi. ma la vita continua, si capisce. anche se può accaderci di perdere qualche appuntamento: «Cosicché guardo gli altri / procedere spediti / e che bella mostra fanno / che grato tintinnio / tra il metallo cromato / nell’allegra foschia / del polverone!» 

Totale quindi è il suo disinganno di fronte al dissolversi di tutte le speranze, ma c’è come un sorriso di amaro divertimento sospeso tra rigo e rigo, quasi nulla avesse veramente importanza tranne il semplice fatto di vivere (o sopravvivere) tra mestizie e furori, disfatte e rivalse. 

Si vorrebbe aggiungere. a conclusione di queste note, che la singolarità e l’originalità di questa scrittura si trova persino nella scelta del titolo. Quale Nobel Bettina, che sottintende un lungo discorso e che si attanaglia mirabilmente, col suo sarcasmo gentile e desolato, allo stile di tutta la raccolta. 

Isabella Scalfaro 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 52-54.