Salvatore Maiorana e il suo ultimo romanzo, Anima (2020) di Vittorio Riera

      Dopo L’Archetipo (2018), Salvatore Maiorana si ripresenta ai suoi lettori con un altro titolo –Anima – tratto di peso dalla psicologia del profondo di cui è antesignano lo psicanalista James Hillman. Protagonista del romanzo non è uno scienziato, come nel caso di Daniel de L’Archetipo, ma uno psicoterapeuta, Julian. Julian, non a caso, è anche il nome del padre di Hillman, e sarà dunque un omaggio al pensatore americano cui si deve il rinnovamento della psicologia tradizionale, la guida, il sentiero lungo il quale si svilupperà e diramerà anche il romanzo.

      Ciò che accomuna i protagonisti dei due romanzi è che entrambi cercano di gettare luce l’uno, Daniel, nel mistero della vita, l’altro, Julian, di mettere a nudo le radici dell’anima, quelle radici che ci consentono di vedere noi stessi in relazione alla realtà che ci sta attorno. E vale pena osservare subito, a riguardo, che in Maiorana emergono diverse personalità artistiche che si manifestano e si intersecano lungo lo sviluppo del romanzo, un romanzo globale, circolare, che può essere letto da mille punti diversi e che noi si tenterà di leggere dal punto di vista del poeta, dell’innovatore della prosa d’arte, una prosa, una scrittura funzionali ai vari drammi rappresentati nel romanzo cui assistiamo, del pittore e quindi del romanziere, e poi ancora del linguista e infine, ma non ultimo, dell’esperto di neuroscienze, competenze, queste ultime, che gli hanno consentito di offrirci un giallo di nuovo conio.

La vicenda: una storia che cura

       La vicenda raccontata da Maiorana si inserisce, peraltro e forse polemicamente, in quel filone di romanzi gialli tanto di moda oggi, l’uccisione di una pianista e insegnante di pianoforte, Alison, sentimentalmente e teneramente legata al neuropsichiatra Julian, che dunque ne rimane sconvolto. Ma è un giallo del tutto particolare poiché il linguaggio non è quello, becero e sguaiato, cui certa letteratura ci ha abituati, inoltre il romanzo si svolge e si sviluppa su piani spaziali e temporali diversi e infine perché non vi sono stucchevoli e prevedibili commissari che indagano. Sì, la polizia scientifica interviene immediatamente in cerca di indizi o impronte più o meno digitali, il giudice delle indagini preliminari fa in maniera asciutta – neutra, annota lo scrittore –le domande di rito (come ha trovato il corpo della donna, se erano sposati, la professione, dov’era la notte in cui ha trovato il cadavere, l’alibi di cui disponeva, gli amici di cui si circondavano lui e la moglie Alison e così via). Poi delle indagini non si quasi più nulla se non verso la fine del romanzo in cui viene svelato il nome dell’assassino anzi dell’assassina e il movente del delitto, la gelosia, una gelosia cieca che può fare commettere i più atroci delitti come ci mostra quotidianamente la realtà in cui siamo immersi. Ciò non significa che le indagini siano del tutto assenti. Esse si svolgono su un piano terapeutico al centro del quale altra protagonista è Alison presente nel romanzo si può dire dal principio alla fine direttamente citata con il suo nome o indirettamente come un’ombra che incombe nello sviluppo del racconto. Soltanto verso la fine, che coincide con la ritrovata pace di Julian, i contorni di questa presenza si fanno sempre più sfocati fin quasi a scomparire anche se il nome di Alison viene citato ancora nelle ultime pagine e risuona come una eco prolungata. Al di là di ogni altra considerazione su come sia stato risolto il giallo, si ha la sensazione che il delitto, e per esso, appunto, il ‘giallo’, sia stato il pretesto per Maiorana per rappresentarci una quelle storie che come per magia hanno il potere di rinnovare e anzi di ricreare – il termine è di Maiorana – la psiche e che pertanto è da annoverare fra quelle che curano narrate da James Hillman cui si deve un’opera dal titolo omonimo, Anima. Non è la nostra una supposizione. Lo stesso Julian, dietro cui Maiorana si cela, confessa di essere rimasto come folgorato dalla lettura di un altro testo di Hillman che ha per titolo Le storie che curano.

Anima, ovvero un manuale, anche, di psicoterapia

      Anima si può considerare anche un manuale di psicoterapia. Non dimentichiamo infatti che Julian è uno psicoterapeuta e come tale non può non rappresentare col distacco dovuto il modo in cui avvengono gli incontri con i suoi pazienti. Solo che Julian è uno psicoterapeuta speciale, per così, perché il dramma vissuto, la morte di Alison, lo ha sconvolto e soltanto con l’aiuto della sua amica Sarah, Sarah Crawler, anch’essa  psicoterapeuta, può uscirne fuori. Sicché si ha un Julian nel duplice ruolo, da un lato un Julian malato, un paziente che si sottopone alle sedute con Sarah, dall’altro lato, un Julian apparentemente guarito che torna a esercitare la sua professione per guarire chi è affetto da turbe più o meno psichiche. Da qui, dei veri e propri incontri realisticamente descritti dove domande del terapeuta apparentemente innocue finiscono con l’avere risvolti profondi nell’animo e nell’anima di chi si sottopone a una terapia del genere. Ricostruiamo uno di questi incontri avvenuti, precisa Maiorana, al settantaduesimo piano di un grattacielo al centro di Manhattan di New York. Il cielo non poteva che essere grigio quando Julian comincia la terapia, come grigio, incolore il suo stato d’animo, il suo umore: “Nella sua mente si affollavano dei tristi pensieri” (p. 30) e tutti convergevano, come in un gorgo, alla morte inspiegabile di Alison. Le domande che Sarah rivolge a Julian sdraiato su un lettino sono empatiche, di immedesimazione nello stato d’animo del paziente, hanno proprio lo scopo di interrompere il flusso di pensieri che angosciano Julian. Dopo alcune considerazioni su taluni aspetti della psicoterapia, come ad es., sul transfert o sul potere che ha di rimuovere immagini conturbanti, Sarah manifesta, senza esitazioni, lo scopo di queste sedute: “Voglio, dice perentoriamente, che tu guarisca raccontando la tua storia” (p. 32) e aggiunge: “Le storie raccontate dai pazienti hanno un effetto terapeutico, guariscono” (Ivi). Da qui, in uno col mutare del panorama che comincia a farsi meno grigio e gravido di colori meno opprimenti, le domande che Sarah rivolge a Julian su un’immagine, su un colore, su qualcosa che lo ha impressionato o emozionato quando era bambino. Alle risposte di Julian, le domande di Sarah si fanno più impegnative, più incalzanti. Da qui, richieste di chiarimenti sulla musica, giusto perché Alison era una pianista, sul tempo che scorre, su Alison, sui genitori. Julian nel rispondere a Sarah sembra uscirne rinfrancato, guarito e ancora più convinto della indispensabilità dell’aiuto che uno psicoterapeuta può dare a una umanità malata, ferita da mille angosce tutte diverse e diverse per intensità. Ciò si può constatare quando Julian ritorna nell’isola non più come paziente, ma come medico, medico dell’anima. Vedremo nel prosieguo dell’analisi come in altri tratti il romanzo si fa saggio. Per il momento, è opportuno dare qualche ragguaglio sui personaggi che intervengono nel romanzo.

  I personaggi. I personaggi ‘comparse’

        Il racconto ci presenta due gruppi di personaggi antitetici fra loro, gli amici di Alison e Julian e i pazienti con turbe psicologiche, antitetici poiché nulla sappiamo sul piano psicologico del primo gruppo. Conosciamo soltanto i loro nomi, le loro tendenze artistiche o le loro professioni, anche se è proprio fra questi che si cela l’autore e meglio, come si è detto, l’autrice del crimine. Si tratta di vere e proprie ‘comparse’ che nulla aggiungono e nulla tolgono allo sviluppo del racconto. Marco Velani è un anestesista, e la sua compagna, Anne, una esperta d’arte e insegnante di pittura presso un’accademia. Si tratta di persone dalla vita apparentemente tranquilla, divisa tra lavoro e affetti. E così si può affermare di Claire e di Christian, che gravitano nel mondo fiabesco del balletto. Anche di Jane, Jane Melandri, e di Thomas Viviani sappiamo soltanto che come Julian sono affermati neuropsichiatri e così ancora di amici di cui Maiorana cita il nome e la professione. L’unico di questa cerchia di amici che possa far pensare all’autore del delitto è Thomas Dawson, allievo prediletto di Alison. La sua “possente struttura fisica, si legge nel romanzo, gli avrebbe permesso di sollevare Alison come un manichino” (pp. 37-38) e appenderlo afflosciato, inerte, disarticolato, al ripiano più alto della libreria così come venne trovato il cadavere. Lo lascerebbe pensare anche una telefonata dell’amica Jane che  informa Alison del prosieguo delle indagini secondo cui alcune impronte trovate appartengono a un uomo. L’uso dell’indicativo presente sembra avvalorare questa ipotesi. Pure, come ormai, sappiamo non è così.

I personaggi con turbe psicologiche: Soleil, Shana, Lara, Robert

        Agli amici di cui si traccia nel romanzo esclusivamente il profilo professionale e la cui vita sembra scorrere senza traumi sul piano psicologico, si contrappone un gruppo di personaggi con gravi turbe psicologiche. Julian dopo le sedute con Sarah crede di sentirsi meglio, di aver superato il trauma della uccisione di Alison e decide di tornare nell’isola in cui è nato e di riprendere il suo lavoro di neuropsichiatra.

      La primavera con l’esplosione dei peschi in fiore e le flagranze delle zagare sembrano preludere a una nuova vita per Julian, una ri-nascita, un ritrovare se stesso, la sua capacità di tornare a rendersi utile per la società e di tornare ad amare. Lara, Shana, Soleil, queste le sue prime pazienti, cui si aggiungerà in un secondo momento Robert.

       Col ritorno nell’isola, in uno dei tanti flashback, Julian rivive spezzoni della propria vita: Ariel, il suo primo amore, suicidatasi inspiegabilmente, gettandosi da una rupe, Chiara, altro suo amoruzzo con cui trascorreva ore e ore seduto sulla sabbia “a guardare il mare e a sognare il mondo” (p. 85), la casa dov’è nato e dove il tempo si è come fermato e tutto è rimasto come lo aveva lasciato. Ritorno dunque all’isola, a un’isola di cui Maiorana non cita mai il nome ma che da molti indizi sembra trattarsi della Sicilia. L’isola, confessa a Jane, “è un balsamo che lenisce ferite. Guardo il mare, l’alba, i tramonti e penso che l’isola sia il mondo” (p. 104), il mondo, cioè tutto anche perché vi è nato.

 

Robert, ovvero di un caso di psicosi 

       In Robert, Maiorana ci rappresenta un classico caso di psicosi, in cui la persona che ne è affetta perde il controllo delle proprie azioni ed elaborazioni mentali. Le cause, nel caso di Robert, sono da ricercare nel fatto che la madre , peraltro una tedesca e quindi lontana dalla nostra cultura, lo ha abbandonato proprio in un’età in cui maggiormente necessaria è la sua presenza. Da qui, la sua sofferenza e insofferenza maturatesi in anni e anni di macerazione interiore, di ricerca di qualcosa che non è riuscito a trovare. A ciò si aggiunga un insuccesso scolastico che lo ha portato a una sorta di ribellione e di rivalsa, di vedere nella scuola un nemico, un nemico da odiare e punire dando fuoco all’aula approfittando di una momentanea assenza dei compagni. Ma, si diceva poc’anzi, questi soggetti perdono anche il controllo dei propri pensieri e si inventano delle verità che non hanno riscontro nella realtà effettuale. A Julian che gli dice di volerlo aiutare a stare meglio, replica accusandolo di non essere un medico e addirittura di aver detto delle falsità sul suo conto. Robert non guarirà del tutto, pur avendo partecipato allo spettacolo conclusivo con cui si chiude il romanzo. Continuerà a sentire delle voci di dentro, delle allucinazioni uditive che tuttavia non sembrano schernirlo come una volta. Il lavoro di rider che procura lo distrae e aiuta a dimenticare le sue ossessioni che puntualmente riversa in un diario.

 Lara, ovvero un pizzico di pedagogia

       Il disagio psicologico di Lara non è, come si vedrà, di quelli traumatici vissuti da Shana e Soleil, ma è conseguenza ugualmente di un errato comportamento di chi ha invece il compito, come gli insegnanti, di non mortificare mai gli alunni che vengono loro affidati. È il caso di Lara che a una sua richiesta di rispiegare una lezione non del tutto da lei compresa, si sente investire dalla maestra che con occhi torvi e parole di fuoco le grida: “Sei una bambina disattenta…Non ascolti mai gli altri” (p. 100). Parole stridule che possono  provocare danni irreversibili se non opportunamente e tempestivamente curati. Maiorana non dà nessun giudizio sulla maestra limitandosi ad ascoltare la ragazza che lucidamente espone il suo disagio psicologico. “Quelle parole sono rimaste impresse, incise, nella mia memoria. Non sono riuscita a cancellarle o a rimuoverle. Ogni giorno sentivo la voce della maestra e la percepivo…come una affermazione della mia incapacità a non sapere relazionare con gli altri” (Ivi). Da qui l’insicurezza, la mancanza di autostima che possono a comportamenti compulsivi, fuori controllo, del tutto errati se non contrastati in tempo con opportuni suggerimenti. E il suggerimento che Julian dà è quello di scrivere un diario dove riversare emozioni senza infingimenti pensieri anche i più intimi, angosce, paure, sogni. “Devi essere vera, dirà Julian anche a Shana, la verità è fondamentale per guarire” (p. 116) e ritrovare la serenità perduta. E Lara ritroverà se stessa, la capacità di relazionarsi con gli altri. Apprendiamo, sul finire del romanzo, che lavora presso un artigiano dove si modella la creta e che fa volontariato andando a trovare dei bambini incurabili cui strappare un sorriso vestita da clown e raccontando loro delle fiabe tra le quali quella della maestra severa. La verità, vista ormai come qualcosa di lontano, di altro da sé, l’aveva guarita e ne poteva parlare come di qualcosa che poteva accadere solo nelle fiabe.

 Shana 

      La vicenda di Shana ci riporta ai giorni nostri con la fuga di tanti diseredati su barconi precari in cerca di un asilo che li metta al sicuro da fame, guerre intestine, pestilenze stupri. Shana ha vissuto esperienze del genere, ma è riuscita a fuggire dall’inferno siriano dove un missile aveva distrutto la sua casa e ucciso i genitori e un fratellino. Sindrome post-traumatica. Questa la diagnosi. Da qui  un disagio psicologico devastante, la paura del buio, l’immagine dei genitori e del fratellino distrutti, inghiottiti dalle macerie sempre davanti agli occhi, gli incubi nel silenzio della notte. Si leggeva nei suoi occhi terrorizzati la richiesta di aiuto a superare questo suo stato d’animo, queste sue paure, queste ombre che oscuravano la sua idea di mondo e per ciò stesso si mostrava decisa a volere collaborare con Julian per ritrovare se stessa e la sua tranquillità. Lo mostrano le sue risposte chiare, ampie, date senza imbarazzo alle domande di Julian che la invita a raccontare dei suoi sogni, dei suoi incubi popolati di esplosioni, di cadaveri, di uomini senza volto che le usano violenza, la stuprano. Queste confessioni sono un toccasana per chi è affetto da queste turbe. Apprendiamo infatti più in là che Shana ha ripreso a dipingere e messo in atto le tecniche apprese a Damasco quando, prima della guerra civile, frequentava la Scuola d’Arte.

    Soleil, invece, ha inizialmente difficoltà, come vedremo, a rievocare i suoi disagi, i suoi tormenti dinanzi ai quali l’atteggiamento di Julian è in genere quello che ci si aspetterebbe da uno psichiatra dinanzi alle confessioni dei suoi pazienti, un atteggiamento empatico, di immedesimazione apparentemente distaccata dalle loro sofferenze. “Penso che l’arte, la poesia, la narrativa, la pittura, la danza, il teatro” (p. 92), annoterà Julian nel suo diario, siano i rimedi che soli possono aiutare a superare disagi del genere. In questa notazione c’è peraltro l’annuncio di uno spettacolo in cui poesia, musica, arte in genere convergono in un capitolo conclusivo e risolutivo per tutti i pazienti.

Soleil, o di un amore nascente

       In Maiorana spesso le situazioni drammatiche sono precedute da descrizioni che non lasciano presagire nulla di buono. Così è, a. e., per l’incipit del romanzo allorché Julian scopre la morte violenta di Alison. Tutto si fa spettrale in questo inizio del romanzo: il silenzio che rimanda a mondi lontani, sconosciuti, una luna arida, smorta, l’accenno alla Terra Desolata di T.S. Eliot, la luce  giallastra dei lampioni, il tanfo di morte, di carcasse di animali in disfacimento, perfino il miagolio di un gatto simile ai vagiti di un bimbo appena nato. Lo stesso accade con i nomi sia quelli comuni che propri di persona, che si caricano di un significato simbolico. Si è visto come l’accenno alla primavera sia come un risveglio, un rinascere a nuova vita. Analogamente avviene per Soleil, in francese Sole. Non è un nome scelto a caso, né la motivazione va ricercata nel fatto che la madre era francese. Anche in questo caso Soleil è sinonimo di luce, di vita, quella vita che soltanto un innamoramento puro, non viziato dall’idea di possesso può suggerire. E infatti – è opportuno dirlo subito – Soleil finirà con l’occupare il posto che Alison occupava nella vita di Julian. 

      Soleil ha subìto diversi traumi tra i quali quello della morte della madre vissuta come un abbandono, trauma al quale si è aggiunto quello del ragazzo di cui s’era innamorata e che era scomparso prima della nascita del loro bambino. Sofferenze, queste, abbandoni che ne hanno fatta un’anoressica preda di una inevitabile depressione. Soleil, annoterà Julian nel suo diario – ed è qui, come in altri passi , che il romanzo si fa saggio – “non ha fiducia in se stessa” (p. 91), vede solo le brutture del mondo nel quale vive. “La psicoterapia dovrebbe stimolare la sua ‘anima’ a produrre immagini di vita, immagini positive” (Ivi). Ed aggiunge, ripensando a quanto aveva pensato per Shana: “Un’esperienza artistica le permetterebbe di avere maggiore fiducia in se stessa”(Ivi). Si vedrà come maturerà questa esperienza artistica. Per il momento, è opportuno ripercorrere brevemente il percorso che condurrà la ragazza alla guarigione.

      Il primo incontro con Soleil non sembra produrre risultati. La ragazza risponde con riluttanza alle domande che Julian le pone, ma lascia trapelare l’odio per l’isola dove ha sofferto. Julian capisce il disagio della ragazza e interrompe la seduta rimandandola ad altra seduta. Ma, a questo punto, accade qualcosa di straordinario tutti e due fanno uno stesso sogno. È proprio qui che il romanzo si fa palesemente saggio, perché il sogno simultaneo dà a Maiorana l’opportunità di inserire il concetto di sincronicità già descritto, ci avverte lo scrittore, da Jung nel corso delle sue ricerche. La sincronicità, spiega Maiorana, non è “un problema di comunicazione telepatica, ma qualcosa di più complesso” che annulla “le categorie di spazio-tempo” (p. 98) come accade, precisa Maiorana, “con due particelle etangled” (Ivi) e come gli confermerà più tardi Sarah arricchendo le sue osservazioni con altri particolari (p. 134). Almeno questa è anche la tesi ultima di Maiorana così come possiamo leggerla nell’ultimo capitolo del racconto: “Julian e Soleil erano come due anime inseparabili. Pensavano le stesse cose, provavano le stesse emozioni di fronte a un tramonto o a un’alba” (p.199). Insomma, le due anime si erano fuse come in un unico organismo che vive e pensa le stesse esperienze. “Le nostre anime, conclude Maiorana forse pensando al suo precedente romanzo, L’Archetipo, sono come due elettroni che, lontani anni luce, sanno cosa fa l’altro” (Ivi).

       Il sogno sincronico è foriero peraltro di qualcosa di buono destinato ad accadere. Più avanti, infatti, Maiorana riporta testualmente quella che è stata definita l’equazione dell’amore descritta dal Premio Nobel per la fisica 1933, il britannico Paul Dirac: “Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema” (p. 104). “Questa forma di etanglement, commenta ancora Maiorana pensando ai suoi futuri rapport con Soleil, “esiste tra due menti che siano legate da un vincolo d’amore o di affetto” (Ivi). È quanto gli conferma Sarah nel corso dell’ultimo colloquio telefonico nel corso del quale Julian le parla del sogno sincronico (p. 137). È una breve seduta alla fine della quale Julian mostra di  essere del tutto guarito. Nell’anima di Soleil accade contemporaneamente lo stesso fenomeno. Ne è segno il fatto che la ragazza abbraccia Julian prima di andar via dopo un incontro, abbraccio che è da interpretare come l’inizio della sua guarigione. Soleil vede in Julian un’ancora di salvezza, qualcuno di cui ci si può fidare ciecamente. Infatti, al terzo incontro, alla sollecitazione di Julian a raccontare di sé e della infanzia, Soleil si apre ricostruendo senza infingimenti i suoi rapporti con il padre, la madre, le sue delusioni, i suoi desideri, la danza, il pianoforte, il primo vero amore per un artista di strada improvvisamente scomparso prima che il frutto della loro relazione nascesse. Le sue risposte alle sollecitazioni di Julian ampie, circonstanziate, sono dunque segno che la ragazza è ormai avviata verso il superamento delle sue angosce, trasformazione, questa, avvalorata dal fatto che l’abbraccio della seduta precedente si è trasformato in qualcosa di più intimo, in un fuggevole bacio sulla guancia di Julian. Ma c’è più, l’innamoramento avviene per gradi. Alcuni pescatori trovano il cadavere di un giovane che, come Ariel, si era gettato dalla tristemente ormai nota Rupe. Si forma una piccola folla attorno al cadavere. Julian ne fa parte e così Soleil terrorizzata perché crede trattarsi di André, il padre del bambino. Si avvicina a Julian e gli sfiora la mano. È come una scintilla. Julian ha la sensazione che stesse accadendo qualcosa di nuovo e alla mano di Soleil che lo sfiora risponde stringendola nella sua e abbracciando la ragazza teneramente. Quel filo invisibile che la legava a sé si stava materializzando. La guarigione era più vicina, qualcosa ormai di incontrovertibile, contro cui nessuna forza ostile poteva opporsi (“Soleil e io abbiamo bisogno di una nuova vita” (p. 130) confesserà Julian lasciando intendere così di non essere del tutto guarito). Soleil torna a casa e ricordandosi di quanto le aveva detto Julian (“L’arte ti aiuterà a guarire dalle tue paure e dalle tue ansie” p. 113) prende la Leica che la madre le aveva lasciato e comincia a dare corpo alla sua creatività, a dare segni di un nuovo interesse a partecipare fotografando ciò che le sembrava degno di incidere su una lastra. Sembra, come si vede, che tutto si risolva per il meglio. Ma non è così. Improvvisamente si rifà vivo Andrè che vorrebbe il bambino e che tenta di violentare Soleil. Soleil riesce a fuggire con il bambino dirigendosi verso la Rupe dove la trova Julian mentre contempla il mare con l’intenzione di farla finita. Sono attimi di angoscia interminabili a cui pongono fine le lacrime che inondano le guance di Soleil mentre Julian la cinge per le spalle allontanandola dal precipizio. È a questo punto che il legame tra paziente e psicoterapeuta si trasforma in amore annunciato, come spesso accade in Maiorana in altre situazioni da immagini simboliche, in questo caso è il vento il protagonista: “In quel momento il vento di ponente che veniva dal mare soffiò forte e spazzò via le foglie degli alberi” (p. 143). Non a caso Maiorana precisa che si tratta di un vento di ponente. Ponente è la parte dell’orizzonte dove tramonta il sole. Qualcosa dunque sta per finire, per concludersi in maniera definitiva. E questo qualcosa non è altro che la fine dell’amore per Alison avvalorato dal verbo usato – ‘spazzò’ -, un verbo forte, violento, come a dire che non si trattava di amore a senso unico e cioè dal paziente verso il medico che la cura e che quindi è amore come un risarcimento o come riconoscenza. È un amore reciproco perché anche Julian non èdel tutto guarito. È quanto lui stesso confesserà quando annota sul suo diario: “Provo per lei un sentimento di tenerezza. Soleil è una piccola stella che brilla nel cielo della mia anima” (p. 150). Ma del resto, ‘ponente’ risuona ancora simbolicamente qualche rigo oltre e a proposito proprio di Alison. Julian è in partenza per Milano per uno dei pochi incontri con il magistrato inquirente e annota ancora sul diario: “Penso ad Alison quando guardo il cielo stellato dell’isola” (p.  150), e qui sembra che l’immagine di Alison sia incancellabile dall’animo di Julian, ma subito dopo, a fugare ogni dubbio, scrive: “Mi sembra di vedere il suo volto tra le nuvole quando il vento le trascina verso ponente” (Ivi). Il vento dunque, un vento di ponente trascina definitivamente con sé le nuvole e il ricordo di Alison e se anche sognerà ancora di Alison, sarà un incubo, sarà come sognare il nulla come mostra quanto ci apprestiamo a citare dove dietro a ogni parola si celano significati reconditi e simbolici: “(Alison) era nuda in un prato verde. Sembrava un fantasma. Julian la prendeva per mano e cercava di coprirla. Il suo volto era irriconoscibile (…). Julian si era tolto la camicia e aveva coperto il suo corpo quasi trasparente” (p. 157). Ma come si può coprire un fantasma, un corpo che non è più corpo, che è qualcosa di immateriale, che altro non è ormai che un ricordo? Infatti lei improvvisamente si dissolve, “la camicia vuota era caduta come un lenzuolo bianco sui fiori di campo” (Ivi) dove il lenzuolo bianco richiama il sudario, il panno con cui una volta si velava la salma di un defunto, e gli umili fiori di strada riportano agli omaggi che si fanno ai propri cari che non sono più. Il dado è tratto, è il caso di dire. Alison non è ormai che un ricordo sbiadito. Ne è una ulteriore prova il lungo bacio che Soleil e Julian si scambiano pubblicamente al ritorno di quest’ultimo da Milano dopo un ulteriore colloquio con il magistrato inquirente. Ma c’è di più. A suggello di questa intesa, i due fanno l’amore. Fuori, l’azzurro copre mare e cielo che formano  un tutt’uno “come i loro corpi e le loro anime” (p. 160). Julian sognerà ancora una volta Alison, un sogno ricco di significati che tuttavia Julian non ha voglia di interpretare. Il suo pensiero è rivolto allo spettacolo d’arte che tutti coinvolgerà amici visibili e invisibili e tutti immergerà in un bagno di bellezza.   

L’arte come terapia

       Una cifra che distingue il libro e quindi Maiorana è l’incipit di ogni singolo capitoletto che, a seconda di ciò che lo scrittore si appresta a rappresentare si carica di un’atmosfera poetica più o meno intensa e più o meno densa di significati simbolici. È anche il caso del capitoletto nel quale l’arte si fa terapia curando e guarendo ogni malessere psichico. “C’era all’orizzonte un chiarore insolito. La luce era di una polifonia che si rifletteva nell’acqua creando misteriosi riflessi” (p. 175). Già in questi brevi righi si posso cogliere significati nascosti. ‘Chiarore insolito’, scrive Maiorana, dove l’enfasi è posta sull’aggettivo ‘insolito’, perché insolito, eccezionale, straordinario è quanto sta per accadere. La luce che si smembra in più parti ciascuna a sé stante e diventa musica polifonica richiama la danza, la poesia, la musica che di lì a poco saranno le vere protagoniste di qualcosa di indimenticabile. I ‘misteriosi riflessi’ che questa luce scomposta forma nell’acqua richiamano il miracolo che la bellezza di un evento può operare in un’anima più o meno turbata.

      All’evento partecipano tutti i protagonisti del romanzo. Ritornano figure che avevano partecipato al funerale di Alison: Alexandra seduta al pianoforte, Neil Ferri, pronto col violino, e Thomas con la tromba, gli artisti Christian e Claire avevano messo su una scenografia per Soleil, Shana, Lara e Chiara. La neuropsichiatra Jane coordinerà gli interventi di quanti leggeranno poesie mentre una piattaforma sul mare doveva servire da pista da ballo. Come si può vedere musica, danza, poesia si intersecano, si fondono in un tutt’uno di gradevole efficacia tanto da destare la curiosità dei rudi pescatori del villaggio, che, lasciate le reti sulle barche, si accostano ai musicisti toccati dalla dolcezza di quanto vedevano e delle note che udivano. Siamo alla fine. È quasi l’alba. Gli strumenti tacciono. S’ode soltanto il respiro del mare nel quale si riflettono le luci di un cielo stellato mai visto prima. Qualcosa di nuovo è accaduto simboleggiato anche dalla stella ancora luminosa che l’astro che annuncia l’aurora e reca la luce del giorno, cioè il Pianeta Venere, non a  caso la dea dell’amore e della bellezza. Una dea dunque che esorta gli esseri umani ad amarsi e ad amare il bello, l’armonia, quell’armonia che è “l’anima del mondo”(p. 180).

La poetica dello sguardo

      Il libro di Maiorana si caratterizza anche per gli aspetti poetici di cui è pieno. Anima infatti si apre con tre poesie dedicate alla madre, anzi Madre, da non confondere con la madre biologica; la Madre, in questo caso, è “l’Archetipo della Bellezza” – lo capiremo verso la fine del romanzo dove le tre poesie vengono riprese testualmente alle pagine 178-179-. E l’Archetipo della Bellezza altro non è che la specie umana cui affidare senza timore di venire respinti i nostri sogni, le nostre angosce, le nostre paure, il nostro vivere.

            I versi

  I versi si aprono con una invocazione:

  Vieni, dammi la mano

Andiamo ai confini del mondo

Alla ricerca di una stella

Per vivere

     Un atto d’amore e riconoscenza, si direbbe quasi di risarcimento, in quel ‘vieni’ che si ripete nella seconda poesia con delle varianti che ne allargano, ne dilatano l’orizzonte:

  Vieni, andiamo dove le stelle illuminano

Le gocce di rugiada

Di questa notte d’autunno

L’alba brillerà nei nostri occhi pieni di stelle

Guardando l’aurora.

 

       Già si notano in questi primi versi il cromatismo (azzurri abissi, riferiti agli occhi e poi, ricorrendo alla figura retorica della sinestesi dove il suono, l’udito si fonde con la vista, esplosione di colori ancestrali, primordiali, mai visti), il tempo (le mani della Madre che lo carezzano quasi fosse il tempo un essere vivente), lo spazio, il sogno.

        Anche da questo punto di vista, il libro si può considerare come un manuale di psicanalisi almeno per chi si trovi psicologicamente in una situazione di disagio. Allora bisogna ricreare – il termine è del Maiorana – correggere l’inconscio che è in noi fin dalla nascita. Ma sappiamo anche –è ancora Maiorana che scrive – dallo junghiano James Hillman che l’inconscio è un contenitore, un miscuglio di immagini che spesso “ci fanno male, creano in noi dei malesseri, delle patologie (p. 31)”. Da qui, la necessità di “creare dentro di noi altre immagini positive, immagini di bellezza…immagini di parole, di suoni, di musica, di sensazioni, di percezioni” (pp. 30-31). Non a caso viene rivolto da Maiorana l’invito all’ascolto di brani musicali quali Melody of Love di Beethoven o Notturno di Chopin o ancora Claire de Lune di Debussy o infine Ravel, Mozart, tutti brani che Alison amava suonare e dinanzi ai quali Julian provava come un senso di benessere tale da rimanerne ‘estasiato’.

        Accanto alle sensazioni uditive, ecco quelle visive che si imprimono nella nostra anima attraverso gli sguardi, gli occhi. Gli occhi non sono soltanto l’organo della vista, sono le visioni, gli occhi dell’anima attraverso i quali è possibile penetrare e fare nostro l’affascinante mistero della vita. E qui è ancora James Hillman che ci soccorre, e non soltanto perché anche lui ha scritto un libro dal titolo Anima, ma per come ha letto il pittore americano Edward Hopper. Si guardino le sue opere. In diverse tele del pittore americano compare una finestra da cui guardare gli interni di una casa o da cui, se lo sguardo è proiettato all’esterno, fissare ipnoticamente orizzonti immobili, privi di ogni forma di vita che li animi. Le immagini appaiono come inerti, fissate, incollate sulla tela. Ma non è solo questo che conta sottolineare in Hopper. Anche chi guarda ha la sua funzione e chi guarda è in genere una donna vista di profilo o di spalle.

      Anche in Maiorana si può rinvenire una poetica dello sguardo. Non è un caso che la poesia alla madre al terzo verso fa riferimento agli occhi, occhi luminosi, e nell’altra, la  seconda, gli occhi ne sono il titolo: Se non dovessi mai più rivedere i tuoi occhi. Ma ecco la poesia che si trascrive quasi per intero:

            Se non dovessi mai più rivedere i tuoi occhi

            I tuoi occhi mi vedrebbero dal profondo

           della mia anima

           Se non dovessi mai più rivedere il tuo volto

           Sognerei il tuo volto tutte le notti per riportarlo

           alla memoria

           Se non dovessi mai più vedere la tua immagine

           Essa vivrebbe dentro di me nell’intimo

           del mio essere

     Ancora gli occhi ritornano nella terza e ultima poesia dal titolo Non spegnere mai la luce dei tuoi occhi, un vero e proprio inno agli occhi paragonati al ‘mare d’autunno’, ai ‘colori dell’arcobaleno’, a ‘diamanti feriti dalla luce dell’aurora’, alle ‘gemme di primavera’.  Non si finirebbe mai di esaltare la delicatezza e il profondo significato di questa poesia che andrebbe letta e riletta più volte per coglierne a ogni lettura significati nuovi come accade quando la poesia è autentica poesia.

      L’inno agli occhi non si ferma qui. Risuona a più riprese all’interno del romanzo. Qui  gli occhi – il riferimento è ad Ariel, ‘la ragazza più bella dell’isola’ (p. 41) sono verdi e vengono paragonati al ‘colore del mare’ (ivi), ma non di un mare qualsiasi, ma di un mare, precisa l’Autore ‘nelle vicinanze della costa’ e quindi in primo piano, e quindi intensamente verdi che diventa di un verde sempre più sbiadito man mano che ci si allontana e ci si avvicina alla linea dell’orizzonte. Il riferimento agli occhi non è solo quello citato, altri ve ne sono e tutti risplendenti di una luce nuova, vivida, “d’oro, dice il poeta, che illuminava il fondo del mare”.

La prosa poetica notturno n. 9 –

      Complementare al poeta Maiorana è il poeta in prosa, complementare perché egli anche in questo settore innova. Innova nel senso che non si pone sulla scia di Baudelaire e dei suoi Petits poèmes en prose per il quale c’era sempre un intento pedagogico al fondo dei suoi poemetti. Né rimane interessato alle poesie e alle prose poetiche dei vari Giampiero Neri, Tommaso Ottonieri, Eugenio De Signoribus nei quali l’intento etico e sperimentale è prevalente.

      A Maiorana interessano immagini di bellezza filtrate attraverso le ‘parole’ e quindi attraverso una prosa che si fa poesia o una poesia che si fa prosa. Ecco qualche esempio, ma se ne potrebbero portare tanti quanti sono i capitoletti, non numerati peraltro, nei quali si dipana il racconto. Nell incipit di uno dei primi al primo capitoletto fa il suo ingresso la luce, ma non è una luce qualsiasi, è una luce che illumina ‘alberi spogli’ (p.29) lasciando così intuire che si è nella stagione in cui tutto è letargo e silenzio e che si è in una zona dove sembrano scorrere rigagnoli: “La luce del mattino entrò nella sua camera da letto. I tiepidi raggi del sole illuminavano gli alberi spogli e lasciavano nell’acqua luminescenze dorate”. Ecco un altro esempio – siamo nel bel mezzo del romanzo – nel quale è il pittore che annota e qui vale la pena ricordare che Maiorana è anche un pittore. Maiorana osserva e descrive “Era l’alba. Una linea sottile azzurra con sfumature di rosa pallido separava il mare dal cielo. Il cielo e il mare sembravano fossero uniti come i corpi di due amanti in attesa dell’aurora. Il cielo era coperto di piccole nuvole bianche spinte da una leggera brezza…” (p. 85). Ed ecco infine un ulteriore brano coincidente con la ritrovata gioia di vivere di Julian e Soleil. Tutto si fa colore, luce, movimento quasi fermo, immobile, lento ritorno alla vita che riprende discretamente il suo corso: “Era un tiepido mattino di primavera. Il mare era di colore azzurro come il colore del cielo senza nuvole. Il grande disco dorato illuminava la scogliera e il faro. Un vento leggero increspava il mare. Delle piccole vele bianche, verdi e blu si muovevano lentamente verso la costa” (127). Tutto viene visto come in lontananza quasi a non volere  turbare un momento di felicità pura, in una atmosfera di leggerezza, di levità, di inafferrabilità si direbbe quasi, come quando si sfiora con le mani un tessuto di seta e se ne avverte appena il fruscio.

Tra i personaggi invisibili, il sogno

       Accanto ai personaggi per così dire fisici, i protagonisti a vario titolo della vicenda, ve ne è uno che si può etichettare come personaggio invisibile, il Sogno e, meglio, i Sogni di cui il romanzo è peraltro costellato.

       I sogni sono stati sempre oggetto di ricerca e di riflessione degli studiosi della psiche umana. Per Freud, neurologo e fondatore, come è noto, della psicanalisi, i sogni altro non sono che l’emersione, la rappresentazione di desideri inconsci e, come tali, si direbbe quasi inconfessabili; per altri neuroscienziati, Klein, a esempio, è da vedere in essi il mistero della nostra coscienza. Maiorana non si pone il problema di spiegare questo mistero. Lui si limita a descrivere i sogni, a coglierne i contorni, gli aspetti ancestrali. I sogni da lui descritti sono curiosi, nel senso di straordinari, di non comune e lunghi. E così è nel primo sogno da lui descritto alle pagine 25-27: è notte fonda, sferzata da un vento gelido. Julian raggiunge un parco al centro del quale una donna suona un piano, mentre poco distante un uomo suona un violino. L’atmosfera è surreale. La donna indossa un vestito azzurro, laminato, precisa l’Autore, e sul quale, è da presumere, si riflette la luce del globo lunare che illumina anche il biondo dei lunghi capelli ondulati e l’avorio delle mani che si confonde con l’avorio dei tasti. Tutto appare come sospeso, vissuto in un tempo lontano reso ancora più lontano dal brano che la donna suona in perfetta armonia con l’uomo: Ave Verum Corpus, un testo del XIV secolo musicato da numerosi compositori fra i quali Mozart che è quello suonato dalla donna. Questo sogno non finisce qua. Esso continua per un’altra pagina con altre ombre che si stagliano nel parco mentre in lontananza riecheggiano le note del Concerto n, 23 Adagio di Mozart, il brano, come si sa, tra i più carezzevoli se non il più carezzevole dei concerti di Mozart.

     Sogni simili sono descritti alle pagine 45-47 e alle pagine 79-80. Ma sono soltanto dei sogni che si apprezzano anche per la delicatezza con cui vengono raccontati. Sono sogni che ci trasportano al di là del tempo e dello spazio, che annullano il tempo e lo spazio così come la vita quotidiana ce li fa percepire. Un tempo immobile nella sua fluidità, nel suo trascorrere lento. Un tempo senza tempo.

Brevi considerazioni conclusive

       Quali conclusioni trarre da quanto si è detto? Intanto, va affermato con convinzione che il libro di Maiorana andrebbe letto da tutti, perché tutti siamo in misura minore o maggiore presi da turbe psichiche e che quindi non se può trarre che giovamento da quanto Maiorana ci segnala e segnala a se stesso (il protagonista, Julian, lo ricordiamo è il personaggio dietro cui Maiorana si cela, finisce col curare e guarire se stesso riconciliandosi con la vita, superando l’angoscia andando a vivere con Soleil e ritrovando così la sua pace, l’equilibrio e l’armonia interiori). Anima è inoltre un libro godibile sotto tutti i punti di vista. A parte il fatto che si è davanti a un romanzo complesso, come afferma Ubaldo Giacomucci in sede di postfazione, Anima, val bene ricordarlo, ricalca il titolo di un omonimo libro di James Hillman. Ciò non significa che si è davanti a una ripetizione. Anima è un libro unico, irripetibile, inimitabile. Unico anche e forse soprattutto perché Maiorana ha prodotto un giallo a lieto fine non perché come in tutti i gialli il colpevole del delitto viene individuato, ma perché ci affranca da tutto ciò che ha il sapore, rancido, della morte, da annoverare, come si è detto, tra quelli che curano, di Hillmaniana memoria; unico, infine, per la prosa poetica e la poesia che lo pervadono, per la levità di un linguaggio che è tutto da scoprire e da gustare.

      Come non accogliere allora il messaggio di Maiorana? come non fare nostro l’assunto che la bellezza emenderà il mondo, lo purificherà, lo guarirà e lo salverà? Tutta la vicenda narrata da Maiorana mostra che, sì, si può. Si deve, a parte l’augurio che un regista si accorga del libro di Maiorana e ne tragga un film. Il giusto dosaggio tra l’inevitabile lentezza di alcune scene e meglio visioni oniriche e le scene piene di movimento, concitate lo lascerebbero sperare.                                                            

                                                               V. R.




Pioggia notturna

Un tiepido sole

m’ha inondata di raggi

nel mattino. Tra questi rami

spogli dell’inverno, parla di gioie

remote, di pigre estati in cui

spirano zefiri nella dolcezza

amara che l’anima respira.

Passeggio sulla terra 

che ha accolto la pioggia del Buon Dio

la notturna pioggia che benefica l’anima;

penetro nell’intrico di ramaglie

bagnando un poco le mie vesti

un poco il viso.

Sento gli effluvi, sotterranee essenze

spargersi in muschi e in capelvenere

nelle orme che segnano i miei passi.

Mi sento benedetta da questa lacrima

di cielo in un baluginio iridiscente,

da questa pioggia che fu data alla terra

come dono e, forse, inopinabile promessa.

Rossella Cerniglia

(da Mito ed Eros. Antenoro e Teseo con altre poesie, Genesi ed., Torino 2017, p. 31)




Ufo

Sospeso nel vuoto

riluce

scheggia di specchio

nell’etere azzurrino

e brilla indifferenza

come quando dalle mani del giorno

ti giunge l’evento quotidiano.

Così furono nel cielo terso

diamantino

un mattino forse di maggio

tanto tempo fa.

Rossella Cerniglia

(da Il retaggio dell’ombra, Guido Milano ed., Milano 2019, p, 96)




Carlo Bo e Jean Paul Sartre. Il cattolico sofferente e il comunista dissidente

        Ho avuto la grande fortuna di incontrare nella mia vita due grandi scrittori della cultura mondiale: Carlo Bo alla prestigiosa Università di Urbino e Jean Paul Sartre alla grande Università della Sorbona a Parigi.

      Carlo Bo, nato a Sesti Levante/Genova il 25 gennaio 1911, grande ispanista e francesista, critico letterario e politico italiano, è stato considerato uno dei massimi studiosi del Novecento in Italia; fondò la scuola per interpreti e traduttori nel 1951 e la IULM nel 1968,  con  sede principale a Milano, e per oltre cinquant’anni Magnifico Rettore dell’Università di Urbino cui è stata intitolata l’Università. Compì gli studi superiori presso i gesuiti dell’Istituto Arecco di Genova, dove ebbe come professore di greco Camillo Sbarbaro. Si laureò in  Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Firenze e iniziò subito la carriera universitaria, insegnando Letteratura Francese e Spagnola alla Facoltà di Magistero dell’Università di Urbino. Dal 1959 fu cittadino onorario di Urbino, dal 1972 fu Presidente della giuria del premio Letterario Basilicata e nel 1984 fu nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Collaborò per tanti anni al “Corriere della Sera” e al settimanale “Gente”. Fu insignito dell’Ordine della Minerva dall’Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio”. Nel 1966 l’Università degli Studi di Verona gli conferì la laurea honoris causa in Lingue e Letterature Straniere: Nel 2001 Sestri Levante gli conferì la cittadinanza onoraria, e lo stesso anno, in seguito ad una brutta caduta sulle scale avvenuta nella sua casa di Sestri, venne ricoverato all’ospedale di Genova, dove morì. Fu sepolto nel cimitero di Sestri.                   

        Con Carlo Bo, mio maestro di vita e di formazione, ho sostenuto la tesi di laurea in Lingue e Letterature Straniere proprio all’Università di Urbino su “Jean Paul Saartre et la polémique de l’engagement”. Due grandi scrittori a confronto, Carlo Bo, cattolico sofferente, e Jean Paul Sartre, comunista dissidente; il mio maestro scrisse il monumentale saggio “La letteratura come vita”, pubblicato sulla rivista “Il Frontespizio” nel 1938, ristampato nel volume Otto studi (Vallecchi, Firenze 1939), e il grande filosofo dell’esistenzialismo francese: “Qu’est-ce que la littérature?”, pubblicato in Francia dall’editore Gallimard, tradotto e pubblicato in Italia da Il Saggiatore: Che cos’è la letteratura?Letteratura come vita è di fondamentale importanza per Bo, fa comprendere le motivazioni profonde dell’Ermetismo, contiene i fondamenti teorico-pratico della poesia ermetica, e Bo lo pronunciò come manifesto al Quinto Convegno degli scrittori cattolici di San Miniato.

     Dopo sessant’anni Bo scrisse un grosso articolo sul “Corriere della Sera”: “Il critico deve tenere conto della vita dello scrittore oppure deve limitare la sua indagine soltanto ed esclusivamente all’opera? La questione è antica per il maestro di tutti, Sainte Beuve, la conoscenza della vita era più che utile, insuperabile. Per altri, a cominciare da Croce e da Proust, se ne  poteva fare a meno, anzi era bene stringere lo studio alla valutazione pura dell’opera”.

      Bo rifiuta l’idea di una letteratura vista come pratica abitudinaria o come esercizio professionale nel tempo libero, e la definisce come la strada più completa per la conoscenza di noi stessi e per dare vita alla nostra coscienza. La letteratura si identifica con l’io profondo del soggetto, risalendo alle origini centrali dell’uomo. La letteratura esprime la purezza dell’esistenza e l’indiscutibilità di valori, si propone come scopo esclusivo la ricerca della verità e per questo è una missione e non un mestiere. La letteratura recupera i significati profondi e primitivi della vita dell’uomo e, pertanto, non può che escludere ogni rapporto con la politica e con la storia. La letteratura contribuisce alla scoperta di un’identità che si allontana dalla realtà storica della società umana. La letteratura è ricerca  continua di noi stessi ed impegno quotidiano dell’uomo.

         In una lunga intervista il critico letterario Bo definisce Sartre il profeta della nuova letteratura francese, figura  poliedrica di filosofo e letterato, autore teatrale, romanziere e saggista. Dopo la lettura di un brano dell’autobiografia “Les Mots”, del 1964, Carlo Bo ricorda Sartre nelle vesti di direttore della rivista “Les Temps Modernes”, attorno alla quale si erano raccolti i migliori giovani degli anni Cinquanta, e parla della “moda del sartrismo”, che si diffuse in quello stesso periodo. Secondo Carlo Bo, Sartre è stato il primo a mettere in dubbio la necessità e il valore della letteratura, ponendo in essere provocatoriamente atti clamorosi, come il rifiuto del premio Nobel nel 1964.

        La letteratura è la vita stessa, ossia la parte migliore e vera della vita. Letteratura come vita, uno dei testi fondamentali e decisivi della nuova civiltà, la forza rovente della letteratura si misura per Carlo BO dalla sua potenzialità di accogliere la vita, di intervenire sulla realtà in forma di intervento morale, e da Letteratura come vita si diramano le fertili, sistematiche esplorazioni di Bo degli autori francesi, italiani e spagnoli, introducendo in Italia scrittori di alta tensione etica e poetica, come Kafka, Eliot, Maritain, Claudel, Mallarmé, Unamuno, Garcia Lorca, ossia quella letteratura che non si occupa delle vanità, della sola estetica, ma che tende alla formazione umana e presuppone una fedeltà continua alle proprie idee e ai propri ideali. Bo si chiede: «Che cos’è per noi la lettura se non tenere in mano questa parte viva della verità e consumarsi per non saperla restituire, che cos’è se non durare su questo oggetto chiuso e palpitante dell’animo?». La sua capacità di lettura è attentissima a cogliere in ogni testo la misteriosa presenza della poesia.

       Bo è rimasto fra i pochi a conservare integro il senso carico di assoluto delle domande brucianti, che investono, per voce dei poeti, i fatti fondamentali della nostra vita. Il suo interesse andava verso quella cultura cattolica che in Francia aveva espresso Pascal, prima, Maritain, Claudel e Mauriac, dopo; al contrario, la sua attenzione in Italia andava soprattutto su Leopardi, Serra, Don Mazzolari, Giovanni Testori e tanti altri. Bo, interrogato sulla questione morale e sulle ingiustizie sociali, rispose: «Siamo pronti a combattere contro l’ingiustizia e le questioni morali, tutto comincia da noi, il male che vediamo in spaventose forme esteriori ha un’esatta rispondenza nel nostro cuore».

      Jean Paul Sartre nacque a Parigi il 21 giugno del 1905. A solo quindici anni rimase orfano di padre, frequenta gli studi all’École Normale Supérieure, in  quegli anni conosce la sua compagna di vita, la scrittrice Simone de Beauvoir e insegna filosofia in  diverse scuole parigine fino al 1945. 

       Finita la seconda guerra mondiale, si dedica esclusivamente alle sue opere filosofiche e letterarie, tra cui i romanzi La Nausea (1938), I cammini della libertà (1945-1949). Per il teatro scrisse, tra l’altro: «Le Mosche» (1943), A porte chiuse (1944), Le mani sporche (1948), suscitando grosse polemiche e irritazione da parte del Partito Comunista Francese, per questo l’ho definito “comunista dissidente”.

       Nel 1945 fonda la rivista “Les Temps Modernes”, i cui principi fondamentali sono: la filosofia, la letteratura e la politica. Nel 1968 prende una forte posizione contro la politica francese in Algeria, schierandosi a favore dell’insurrezione studentesca. Nel 1964 rifiuta il Premio Nobel per la letteratura, suscitando tante polemiche e irritazioni intellettuali. Tra le sue fondamentali opere troviamo: L’Essere e il Nulla (1943), La critica della ragione dialettica (1960). Dopo una lunga malattia muore di edema polmonare a Parigi il 15 aprile 1980, ai suoi funerali partecipano oltre cinquantamila persone.

      Jean Paul Sartre, romanziere, drammaturgo, filosofo e critico letterario, è stato tra i pensatori più significativi del Novecento, rappresentante dell’esistenzialismo. Nel 1939 fu chiamato alle armi e fu fatto prigioniero dai tedeschi. Venne liberato nel 1941 e, tornato a Parigi, partecipò  alla Resistenza. Molto critico verso il gaullismo come anche verso lo stalinismo, si avvicinò alle posizioni della sinistra marxista, attirando sia le critiche dei comunisti sia quelle degli anticomunisti, arrivando ad una clamorosa rottura con Albert Camus. Prese posizione in difesa dell’Indocina, fu contro la repressione sovietica in Ungheria, a sostegno della libertà algerina e contro i crimini di guerra statunitensi nel Vietnam insieme a Bertrand Russel, fondando l’organizzazione per i diritti umani denominata “Tribunale Russel-Sartre”, e contro l’invasione della Cecoslovacchia.

     Il manifesto letterario di Sartre lo scopriamo nel 1947 quando pubblicò Qu’est-ce que la littérature, apparso per la prima volta sulla rivista “Les Temps Modernes”. La letteratura è lo spazio in cui scrittore e lettore dialogano, per mostrare quel tipo di letteratura impegnata nel suo tempo e contemporaneamente rispondere ai quesiti che Sartre pone proprio alla prima pagina del testo: «E poiché i critici mi condannano in nome della letteratura senza dire mai che cosa intendano per letteratura. La risposta migliore sarà di esaminare l’arte di scrivere senza pregiudizi. Che cos’è scrivere? Perché si scrive? Per chi scrivere? In realtà sembra che nessuno se lo sia chiesto».

       La prima di queste domande riguarda soprattutto l’atto dello scrivere, ossia quella forma d’arte che si differenzia dalle altre proprio tramite l’uso delle parole. Risulta chiaro il malessere vissuto da Sartre a causa delle critiche ricevute in tutta la sua vita. Ogni scrittore deve fare i conti non solo con i suoi lettori, ma anche con chi ha fatto della critica la sua professione; Sartre è ben consapevole di tutto ciò, non riserva parole generose ai propri avversari: «Mi è parso che i miei avversari mancassero di lena al momento di mettersi all’opera e che con i loro articoli si limitassero a trarre un lungo sospiro scandalizzato, tirato avanti per due o tre colonne. Mi sarebbe piaciuto sapere in nome di che cosa, di quale concetto di letteratura mi si condannava: ma quelli non lo dicevano, non lo sapevano nemmeno». Per la critica avversa a Sartre, tutto ciò che non rientra all’interno di una sfera di valori già costituiti crea in qualche modo scandalo. L’autore autentico e impegnato deve fare scandalo, ossia deve usare parole forti e urgenti. Il compito dello scrittore  è quello di parlare al lettore e scuotere la  sua coscienza.

      La lettura è, dunque, un esercizio di generosità e lo scrittore pretende dal proprio lettore un’applicazione della libertà, ossia pretende il dono di tutto il suo essere, delle sue passioni ed emozioni, dei suoi pregiudizi e della scala di valori. Scrivere e leggere sono due aspetti di uno stesso fatto di Storia, e la libertà alla quale lo scrittore invita il lettore, è una libertà che si conquista all’interno di una situazione storica. In questa attenta analisi compiuta da Sartre sul ruolo della scrittura, dello scrittore e di chi legge, risulta necessario indagare sulla tipologia di rapporto che si instaura tra scrittore e lettore. Tutto ciò appare talmente chiaro dalla lettura di Qu’est ce-que la littérature? Il concetto di littérature engagée si impose così sulla scena sia politica che letteraria, dopo essere stato formulato da Sartre nella presentazione di “Les Temps Modernes” nel 1945.                                        

                                                                                    Giovanni Ferrari

“Spiragli”, Nuova Serie – Anno IV 2023 NN. 1-2, pagg. 45-50.

 




FRANCESCO GRISI, L’affettuoso sentiero – poesie, Palermo, Thule ed., 1994.

L’affettuoso contemptus di Grisi 

Scoprire l’«affettuoso sentiero» che Francesco Grisi ci invita a percorrere è cosa difficile ed insieme facilissima. Difficile, perché nella raccolta non esiste una poesia eponima o per lo meno una nella quale ricorra l’espressione del titolo. Ma se guardiamo al trans-correre delle ventitre liriche, ci accorgeremo facilmente che il “sentiero” che costituisce la guida e quasi l’anima degli “affetti” che accendono la fantasia del poeta è l’ordine stesso con cui quelle liriche sono state raccolte e presentate al lettore.

La prima lirica (“Veleggiavo una mattina…”) sembra dire che la vita del poeta trova “ormai” significato soltanto nella “disperata memoria” del passato, negli anni dell’adolescenza calabrese dello scrittore. Ma se così fosse la poesia di Francesco Grisi sarebbe come quella di tanti altri, anzi, una di quelle voci “prometeiche” e pagane che, non sapendo dare un significato alla “realtà della morte” nella vita degli esseri e del mondo intero, si inventano favole di immortalità terrestre e battaglie baroccheggianti contro il tempo, la Morte e l’oblio nel tentativo “disperato” di essere ricordato dai posteri o di richiamare in vita il passato, il tempo perduto: magari illudendosi ed illudendo, come il buon Proust, che il sapore del tempo è superiore al tempo stesso e che il ricordo è l’unica realtà in un esistere ridotto a mera apparenza, senza più alcun barlume di trasparenza.

Il culto della memoria, per quanto seducente, è religione da disperati – dice Grisi; “allarga il cuore”, ma lascerebbe vuota la nostra esistenza, se il veleggiare nel mattino all’ombra degli ulivi di Crotone, si fermasse alla pura memoria, se non tendesse a trascendere il fatto o il ricordo in sé, se non diventasse mito facente parte di una globale armonia, nella quale il tempo non si divide più in “stagioni” perché gli uomini «siamo nati invece per non morire»; anzi, in verità, malgrado la presenza della morte e proprio grazie ad essa «siamo quelli della resurrezione». Ecco, Francesco Grisi non rimpiange, né ci attrista con il suo rievocare l’infanzia, la figura del padre, quella della madre, o le cadenze e i ritmi musicali del mare di Calabria (“Allora. Il mare”). La rievocazione non è canto dolente, né il “così sia” che egli scandisce e quasi frantuma con amabile, irriverente ironia, significa rassegnazione, bensì capacità di cogliere i ritmi dell’universo nella bellezza che contraddistingue le figure, le scene, gli accadimenti, le cose. Tutto e sempre, di là e oltre, la pura (o stupida) peculiarità di ciò che serve a caratterizzare un individuo o una civiltà, un momento della nostra vita o una tranche della storia.

Il poeta è così sereno dinanzi alla prospettiva della morte da affermare che allora, quando che sia, egli tra giorni sarà “greco in Cielo”; ma noi vorremmo aggiungere che egli è greco, nobile figlio della Magna Grecia, anche per il suo sentimento di una vita che ha inchiodato Prometeo «per secoli/ a una rupe rassegnata» ed ha rifiutato l’atteggiamento implorante di  Orfeo («Orfeo implorante più non mi appartiene») per ricercare alla fine il Dio Ignoto della Resurrezione, rivelato agli Ateniesi da Paolo.

E allora, se la realtà vera è la resurrezione, la morte non fa più paura, né la vecchiaia si carica di attributi poco lusinghieri, né in essa e di essa si rilevano le sofferenze o gli acciacchi. Essa è un sereno avanzare per “i sentieri del ritorno” verso il Padre, dopo che la giovinezza e la maturità hanno esaurito quella carica, cosiddetta vitale, che ci aveva portato, come folli tralci, ad allontanarci dalla Vite-Vita, e ad inorridire della morte. Scrive il poeta: «Per ignoto privilegio / accolgo anche la morte / e docilmente la scrivo / in forme di vita».

In questa prospettiva autenticamente cristiana, attraverso la celebrazione mitica dell’infanzia, di Crotone, della nativa Cutro, del suo mare e del suo cielo, di Todi e dell’Umbria, terra di fede, attraverso il canto della donna, dell’amore, delle bellezze della natura, il poeta perviene ad una sorta di contemptus mundi rovesciato, dove l’attesa dell’altra vita e l’ansia della resurrezione non comportano il distacco dalla vita di ogni giorno o il disprezzo dei beni materiali, ma piuttosto un più attento e vigile amore per le cose del mondo, un disincantato “affetto” ricco di ironia, il quale, fra l’altro, ci fa scoprire che fra le verità religiose e le seduzioni terrestri non c’è contrasto ma complementarietà e che – anche in questa vita – la creazione e il mondo nei suoi infiniti aspetti di bellezza e bontà fanno parte di un piano armonico tutto da scoprire e da gustare: Dio – dice il poeta in forma potentemente suggestiva – è un racconto senza fine.

Vincenzo Monforte

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 64-65.




AA . VV., Dio nella poesia del Novecento (a cura di R. Ricchi-M. Rosito), Firenze Libri, 1991.

La coscienza del sacro

Una lunga catena di poeti, ordinati alfabeticamente, sfila come le perle di una collana bene assortita nel colore prescelto; in questo caso la religiosità in campo letterario nella sublimazione poetica. È nell’amore che parla al proprio Dio, è nell’io trascendente l’amore dell’anima assetata in cerca della fonte della vita che nella quiete contemplativa si fa domanda, esce dal tormento e si fa estasi. Nel libro così impostato da Renzo Ricchi e Massimiliano Esposito, direttore della rivista “Città di Vita”, si susseguono poeti noti e meno noti, poeti santi e poeti inguaribilmente scettici, dove sussiste qualche sprazzo di luce e dove l’ironia sorniona è assunta per sottolineare la cecità degli uomini chiusi alla lunga mano di Dio insita anche in un timido coniglio (vedi il caso Prévért).

Nella vasta geografia letteraria europea del Novecento sono accostati poeti russi, spagnoli, francesi, inglesi, greci, tedeschi e italiani. Dalla russa Anna Achmatova che chiede consolazione a Cristo nel suo dolore stringato di madre e di sposa, il confronto, a rigore di pagina, con Guillaume Apollinaire che, svolgendo il suo credo in una ininterrotta discorsività spesso vaniloquente, addita poi «la torcia dalla rossa chioma che nessuno può spegnere». Insieme vanno Alfonso Gatto in “Santa Chiara” e Kahlil Gibran con la sua mistica orientale che «giunge a vedere il mondo come un’unità perfetta, e la vita un’armonia eterna». Così è per Rabindranath Tagore che dalla via del dolore risale alla gioia della conoscenza ed esclama: «La vita è immensa!».

Anche se da più parti si è gridato alla morte di Dio, gli Autori di questa bella antologia trovano la coscienza del sacro in ogni poeta; siano essi agnostici, nel tarlo del dubbio o nella dimensione della trascendenza, non negano mai l’esistenza di Dio in assoluto. La porta della Verità è lì che attende, sino alla fine dei secoli per dire ai giusti: «Venite, benedetti del Padre mio; ricevete in eredità il Regno, perché mi avete beneficiato nella persona dei miei fratelli»; dirà ai peccatori: «Andate maledetti al fuoco eterno, perché non mi avete amato nella persona dei fratelli bisognosi».

Nella ricerca di Dio attraverso il dolore pur necessario a smuovere la coscienza della Verità, il canto religioso si fa preghiera di conforto. Illuminato dalla fede il cammino della conoscenza si fa ardore in Ferdinando Antonio Nogheira Pessoa, macerazione in Clemente Rebora, abbandono in Miguel de Unamuno: «Non cerco più, / non mi posso più muovere, m’arrendo; / t’aspetto qui, Signore, e qui t’attendo…». Il distacco riverente di Costantino Kavafis accede alla “pietas” nel senso umano, non va oltre:«Forse sarà la luce altra tortura».

Incombe la paura nella caratteristica follia dei tempi moderni in cui la mancanza di equilibri genera smarrimento e diffidenza in tutto ciò che va oltre il visibile percettivo. Paura e pigrizia mentale non offrono sostegno allo scavo interiore. Anche Guido Gozzano si trincerà dentro rifugi d’avorio e in un suo sonetto semiserio dice: «Amare giova! Sulle nostre teste / par che la falce sibilando avverta / d’una legge di pace e di perdono: / – non fate agli altri ciò che non vorreste / fosse fatto a voi!». E mi pare giusto per la pace del mondo.

La poesia religiosa si è fatta preminente in questi ultimi decenni, di buon auspicio per il nuovo millennio. Ben vengano queste antologie. I poeti riportati sarebbero tutti da citare, ma ci contentiamo di concludere con un’attenzione al poeta Herman Hesse, considerato un maestro delle nuove generazioni che apprezzano soprattutto il forte equilibrio interiore che è nelle sue opere e certe forme di misticismo orientale. Così scrive in una sua riflessione: «Dio è lo Spirito ed eterno, / Incontro gli andiamo, strumento di Esso / ed immagine; a questo aspiriamo nell’intimo: / diventare com’Esso, brillare della sua luce». Nella discordia dei tempi moderni ora si avverte un incipit vita nova.

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 62-63.




Le ragioni del castagno 

Racconto ecologico di Il boscaiolo arriva a valle e comincia la sua fatica. La motosega, come una piranha impazzita, morde la carne del vecchio castagno, padre di tutti gli alberi della vallata. Fra poco, l’ombra sarà sparita e il vecchio tronco sarà un cadavere il cui corpo sarà pasto per i denti aguzzi delle segherie chiamate industrie. 

Lì vicino, un giovane castagno assiste e una lacrima di rugiada scende dalle sue foglie, ultimo commosso omaggio dedicato all’albero genitore di tutte le piante del bosco. 

Una folata di vento giunge e scuote il ramo vicino all’uomo. Il quale si ferma. Il giovane castagno lo guarda con tristezza – un misto di pena e indignazione – e fa: «Perché stai ammazzando mio padre? Che male ti ha fatto? Il tuo accanimento, certo incosciente, mi dice che no, niente. Ora ti dico: questa vallata era spoglia, senza verde, assolata. Sai cos’è una capoeira? Questo posto era una sterpaia o pressappoco. Un giorno, un arara dai vivi colori giunse in volo da lontano. E nella zampa aveva un semino. Stanco di volare, posò qui. C’era nel terreno quasi arido una pianta di goiaba e c’era un frutto. L’arara si mise a mangiarne, ma lasciò cadere il semino che portava. 

Da questo è nato l’albero che tu stai abbattendo … Come detto, il terreno era triste e rinsecchito. Una terra malandata, ma quella semente era di sana costituzione e poté crescere robusta, grazie a radici che cercavano alimento nel profondo. E l’albero venne su e diede frutti. Tutti noi qui che vedi, siamo figli suoi o figli dei suoi figli. E formiamo questo bosco pieno d’ombra, dove uomini ed esseri viventi vengono a riposare il corpo e ad … ammazzare la sete nel vicino ruscello. Non trovi forse che sia un posto delizioso? .. Oggi uccidi nostro padre, domani me, poi un altro ancora. Così, da qui a poco, questa sarà una valle senza vita, il cui ultimo respiro sarà su quello che una volta un granello di sementi trasformò in vita e in speranza che la vita continuasse. E così, mio povero pazzo assassino, capiterai di nuovo qui e ti accorgerai che tutto sarà finito. Vedrai che non ci sarà più vita. E i tuoi figli intristiranno, condannati a vedere la fine. Come me, ora.» 

JoCalixto de Medeiros 

Il racconto si trova nella raccolta In memoriam, «L.B.», Sao Pau lo. Trad. il. di Renzo Mazzone. 

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pag. 42.