Il mare sano è vita 

Attendo la calda estate, da quando mi accorsi che il tuo Stagnone, o mare, stava a poche centinaia di metri da casa mia. E sono smanioso di tuffarmi nelle tue acque, perché solamente esse mi spogliano di tutti i pensieri che nascono e affollano il mio cervello, anche quando m’appisolo dopo pranzo. E in te m’illudo d’essere bambino o, meglio, embrione, immerso nel liquido amniotico. E più mi muovo in te e più mi sento libero, senza alcun disturbo, anche quando, giunto malconcio, agitandomi a più non posso, l’euforia che m’aveva preso aveva lasciato il posto all’incoscienza, che è uno stato paradisiaco. 

Non so se tale magnifico effetto, che somiglia – per quello che ho letto – a quello della droga, sia dovuto al tuo colore che non riesco a catalogare, tanto è vario e bello e si confonde in lontananza con quello del cielo, tranne dove ci sono isole alte, come le Egadi, di fronte a San Teodoro, o quando c’è foschia o al tuo sapore che pare di bibita eccellente, quando vieni ingoiato con una boccata di tramontana, che lì è di casa, o alla tuamusica incessante che anche quando è debole, è sempre dolce e struggente, ancor più di quella di Brahms o di Schubert che sono le mie predilette. 

Quando sei immobile, mi stendo come un cartellone pubblicitario o, meglio, uno spaventapasseri e faccio il morto con il petto gonfio d’aria e il viso rivolto al cielo. Attratto dal tuo fondo che scopro nitidamente, mi tuffo con gli occhi aperti ma dolenti e lacrimosi alla ricerca di un qualcosa che non conosco, infilo le mani nella ghiaia, nella sabbia o nella melma o in una polla d’acqua dolce e fresca. Allora mi piace scavare, seguire l’andamento geometrico delle dunette sabbiose prodotte dai tuoi moti, che gli anglosassoni chiamano ripple marks, tastare gli scogli erbosi sino a toccare un granchio, leggere le impronte dei gasteropodi, il lavorio del paguro, studiare il comportamento dei neonati tra ciuffi algacei o in praterie di posidonia, e risalgo sbuffando, come un palombaro, quando il fiato mi viene meno. 

Tutto filmerei, perché sei vario, dal Baltico alla Patagonia, e nello stesso luogo da oggi a domani e ininterrottamente girerei per conoscerti meglio. La tua immensità, la molteplicità dei tuoi habitat, con la vivacità, le forme, i colori, le abitudini dei micro e macrorganismi che t’abitano, le tonnellate e tonnellate di elementi chimici e le innumerevoli molecole che ti costituiscono, il cui calcolo approssimato farebbe soffrire il più quotato cervello elettronico, mi fanno minuscolo ma grandemente consapevole che tu sei – permettimi, forse ti sentirai offeso – una creatura come lo sono io, o come lo è quella farfalla bianca che approda sulla terraferma visibilmente stanca, dopo non so quante ore di volo, come lo sono quei germani reali che remigano allineati e coperti come fanno i ciclisti, velocemente verso settentrione, come lo è l’aria o quella stella che fiammeggia ininterrottamente da miliardi di anni prima della comparsa dell’uomo, come lo è tutto il sensibile e tutto quello che ancora non percepiamo che, a prescindere delle anime dei trapassati, è più abbondante del pur maestoso visibile. 

Tu, o mare, ogni qualvolta vengo a te, cosa che faccio spesso nella calda stagione, rinnovi la mia vita, al pari dell’elettrauto che ricarica le batterie. Ed anche oggi, mentre la Rotonda e la Torre, da cui per mesi interi si levarono odori di fritture e suoni agitati, stanno uscendo dal letargo, mentre alcune roulottes già si preparano ai viaggi, e nubi bianche e sparse gareggiano nell’alta troposfera da Ponente ad Oriente, io sono là, al sole di mezzogiorno, con Maria Antonietta e Paoletta, insaziabili quanto me. Non te la prendere, ti prego, se mi vedrai per molto a mollo e saltellare come un fauno forsennato sulla tua spiaggia bagnata, dove oggi ho tentato ancora una volta, ora che il curioso è impegnato altrove, di battere il record del mondo stabilito da Mennea, perché tu, che sei un componente essenziale dei miei liquidi vitali, che entri in me attraverso i pori e per le decine di migliaia di scambi osmotici che trame e te si stabiliscono, dal momento che m’avviluppi, e talvolta a sorsi dalla bocca, mi sei gradevole lassativo: accettando le mie annuali scorie, mi disinquini e riequilibri le condizioni fisico-chimiche dei miei ambienti interni, condizione determinante per poter vivere sano e a lungo, Mi trattieni quasi con un elastico invisibile, forse testimone delle origini dei nostri lontanissimi progenitori o perché in te solo riesco a scaricare le tensioni dell’anima mia senza nuocere a nessuno. 

Anche i viaggi mi rasserenano, e per questo ho girato un po’ per l’Europa, Mi piace l’alta montagna, quella delle nevi eterne e l’intricata foresta, e la tundra e la nuda hammada, ma in esse non saprei starci che qualche mese, mentre mi scoppierebbero certi organi se dovessi lasciarti per qualche anno, mare vivo, fecondo, ventilato, pulito, genuino e musicale, accolto come mamma da coloro che t’hanno avvicinato, medicina naturale polivalente, Anche se non sempre sei accettato, e sconsigliato da certi che, non avendo ben compreso le funzioni semplici ed insostituibili della natura, si affidano a somministrazioni di farmaci ottenuti per sintesi. Sostanze che inquinano gli ambienti interni e non giovano, anzi rovinano spesso irreparabilmente il paziente. 

Avviciniamoci alla natura con animo fiducioso, e rispettiamola, se vogliamo essere amati come figli e tutelati. 

Aldo Nocitra 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 14-16.




Cultura e Società 

 La cultura è parte integrante di ogni società, qualcosa di inscindibile per cui l’una non può fare a meno dell’altra. Questo da sempre. Le varie società non hanno fatto altro che servirsi di una cultura su cui modellare l’esistenza delle collettività e cultura erano non solo le conoscenze in genere, ma il comportamento, gli usi, i costumi che differenziavano un popolo da un altro. 

Nei tempi passati la cultura, intesa come un insieme di conoscenze letterarie, artistiche, scientifiche, era dominio di una élite molto ristretta e spesso vicina, se non addirittura legata, alla classe dominante. Mentre non veniva affatto considerata la cultura propria della povera gente che, pur non sapendo leggere e scrivere, faceva tesoro della sua esperienza e la trasmetteva ai figli. Per essa cultura era educazione, rispetto verso gli anziani, tutela della famiglia, amore, riserbo del sesso, osservare e tramandare, cioè, tutte quelle nozioni e massime di vita capaci di fondere in una comunione di intenti il gruppo entro cui viveva e, quindi, la società. 

Oggi, per cultura, intendiamo il bagaglio di conoscenze che l’uomo si porta dietro per tutto il corso della sua vita. Conoscenze di ogni genere che egli acquisisce nell’ambiente familiare, nel giuoco, a scuola, nel lavoro, oppure, quelle che gli propinano i mezzi d’informazione o, ancora, quelle che apprende tramite i propri interessi di studio, letterari, artistici o scientifici che siano. A differenza del passato, chiunque può farsi una cultura nel senso più ampio del termine e chiunque viene integrato nella vita sociale in rapporto al grado di conoscenze acquisite. Ma la società è discriminatoria, e solo chi è bene preparato può sfuggire ai colpi che gli vengono inferti da ogni dove. Prima questo non si notava tanto. Gli uomini di studio venivano tenuti in grande considerazione, e i dotti si additavano per quelli che veramente erano: uomini di scienza e saggi, perché la cultura implicava saggezza e bontà d’animo. Adesso le cose sono cambiate. Con l’avvento dell’era tecnologica che tutto confeziona, perché tutto possa essere facilmente consumato, persino la cultura viene confezionata, fatta su misura, pronta ad essere utilizzata e messa da parte come un qualsiasi oggetto di consumo che non serve più, mentre altre conoscenze si accavallano e si accumulano, e l’uomo non ha il tempo sufficiente per selezionarle e per assimilarle. 

Siamo in un’era tecnologicamente avanzata che massifica qualsiasi cosa. Non è nemmeno il caso di ricorrere ai grossi nomi della sociologia (Ortega y Gasset, Marcuse, E. Morin) per analizzare sinteticamente questa evoluzione che certamente non ha influssi positivi sulla personalità umana. Ognuno di noi sa bene come vanno le cose. E, in verità, non è la qualità che viene richiesta. 

L’industrializzazione. con i suoi fattori positivi di crescita materiale, ha creato tanti scompensi da considerare l’uomo, costretto a vivere per ragioni di lavoro assieme ad altri con usi e costumi differenti ai suoi. non più come un individuo, ma come una massa, un insieme indeterminato, un numero fra altri numeri. spinto più che altro da una sete insaziabile di produzione e non di creazione. Da ciò deriva che in questo ultimo ventennio l’uomo ha subito un’inversione di tendenza. Non privilegia la creatività, ma valorizza la produzione, sicché egli non si realizza come si deve e si abbrutisce ancora di più, perché quello a cui tende è la quantità, non importa se il prodotto è deludente. Importante è che si smerci. 

Questa è la tendenza delle società odierne. Tranne quei pochi gruppi privilegiati che ne sono tuttora esenti (le piccole comunità, i Paesi del Terzo Mondo), l’industrializzazione ha reso l’uomo sempre più un alienato, non solo perché sradicato dalla terra di origine, ma, sopratutto, perché costretto a fare ciò che altri milioni di uomini fanno in ambienti ristretti e sopraffollati (fabbriche e città) con le conseguenze logiche della precaria vivibilità per gli intasamenti e l’inquinamento. L’uomo ne esce sminuito, non ha una propria personalità, e chi non si adegua, insistendo sulla sua unicità, viene trattato con indifferenza, come un diverso, e non trova spazio, perché, appunto, non si conforma ai modi comportamentali degli altri. 

La società di massa, esclusivo prodotto delle società tecnologiche, fa propria una cultura che non è espressione del libero pensiero, ma è standardizzata e, come un qualsiasi bene di consumo, risponde alle esigenze del mercato. Così, per esempio, accade che in un rotocalco o in una rivista di larga diffusione, accanto alla notizia di un’attrice che si separa dal marito, viene riportato il commento ad un film di prima visione o, se vogliamo, accanto ad una pagina pubblicitaria della Fiat, troviamo una nota di costume o l’apprezzamento su un libro appena edito. Ma, se facciamo caso, sono dei semplici spunti, brevi riflessioni, quasi lapidarie, che non centrano il discorso di fondo, che riferiscono piuttosto che criticare nel senso più positivo del termine. È perché quelle note devono andare bene per tutti, sia per coloro che hanno una cultura più elevata sia per quelli con un’istruzione media. Sicché abbiamo una culturizzazione che tocca ogni strato sociale ma, al tempo stesso, abbiamo un appiattimento che limita la cultura ad una conoscenza superficiale di certe nozioni. 

La cultura vera e propria, quella che si prefigge di elevare moralmente e socialmente l’uomo, ha vita difficile e quasi vive per sé, non perché vuole emarginarsi, ma perché la società post-moderna non le dà lo spazio dovuto, poiché non ne riceve vantaggi, anzi ne viene ostacolata nella corsa verso il denaro. Ecco, quello che conta e che ha il posto d’onore in questo tipo di società è il denaro, e tutto si fa in vista di un preciso tornaconto dove l’umanitarismo è solo di facciata. 

L’uomo, messi da parte tutti quei valori che per secoli lo avevano caratterizzato, è per un verso disorientato perché profondo è il vuoto in cui si viene a trovare, ma per un altro verso corre dietro ad un effimero benessere che non gli dà pace, anche perché i detentori di denaro gli creano tanti di quei bisogni che, pur essendo fittizi, a lungo andare diventano indispensabili. Sicché spesso compra non per bisogno, ma per le continue sollecitazioni che riceve sia dall’esterno che dall’interno del proprio ambiente. Non va trascurata l’emulazione degli altri. In una società così fatta non esiste la legge dell’utile, secondo cui agiamo in un determinato modo perché lo riteniamo interessante e necessario agli scopi che ci prefiggiamo, ma operiamo in un senso perché gli altri operano in quel dato senso. L’omogeneizzazione investe tutto, e con l’utilitarismo l’uomo rincorre uno sfrenato edonismo che gli presenta come lecito ciò che lecito non è affatto. 

Cosa può, allora, prospettare la società odierna, se non il vuoto che si concretizza col sentirsi e mettersi alla pari degli altri, magari, col superarli, ricorrendo a qualsiasi mezzo? Per arrivismo ci si arrampica sugli specchi, e assistiamo all’emergere di tanti mediocri che squalificano ancora di più i luoghi di lavoro o la professione a cui appartengono, a scapito di coloro che operano con competenza e serietà. 

Il degrado delle istituzioni trova qui le sue origini. Ci lamentiamo che le cose non vanno per il verso giusto e intanto ci raccomandiamo a questo o a quello perché certe nostre pratiche vadano avanti. Questa, purtroppo, è la cultura del clientelismo (vecchia anch’essa di secoli), degli arrivati, dei nuovi sapienti che tutto e tutti condiziona. Un tempo le università erano centri di cultura. I professori erano qualificati e qualificanti, ispiravano fiducia, anche se incuotevano timore. Adesso anche le università hanno perso prestigio: accanto a persone veramente preparate ne ruotano altre (le più), vuote e presuntuose, senza un curriculum adeguato, prive di iniziative di ricerca. Cosa devono insegnare ai giovani. cosa dovranno insegnare i futuri docenti se essi stessi non hanno imparato? La società risente di tutto questo e ne subisce le conseguenze. 

Ancora, il timore di guerra che da quarant’anni ad ora, per un motivo o per un altro, 

come uno spettro, incombe sull’umanità, non è forse frutto della cultura del denaro che vuole tutelati gli interessi e rafforzati i domini dei pochi? Che dire della critica situazione del Golfo Persico? Con quale criterio giudichiamo se una guerra è giusta o no? Non perdono prestigio e reputazione tutti coloro (Norberto Bobbio compreso) che si pongono argomentazioni del genere? Una guerra. qualsiasi sia il movente, non è 

mai giusta, per il semplice fatto che a sopportare il peso delle distruzioni e delle morti è la povera gente, chiamata spesso a sostenere interessi economici e di potere di alcuni che non vogliono affatto rinunciare ai loro privilegi. Certo, le motivazioni ideali di una guerra si troveranno sempre, si dovranno pure trovare per tenere buone le popolazioni e ottenerne il consenso, ma sono sempre motivazioni false, che non hanno riscontro nei fatti. E, nel caso nostro, si è parlato di guerra santa da una parte e di guerra per la pace dall’altra. 

La cultura del denaro non ha confini e non s’arresta dinanzi alle stragi e alle conseguenze negative che possono ritorcersi contro il mondo intero. Per essa importante è raggiungere l’obiettivo prefissato, e non conta il mezzo, non contano le opinioni dei più che soffrono le angherie e i soprusi dei pochi. Quello che conta è il guadagno . La guerra del Golfo non era ancora cessata che le multinazionali, come rapaci, si contendevano gli appalti della ricostruzione. 

Che pretendiamo di meglio se è questo tipo di cultura che predomina? 

Prendiamo un altro esempio: i premi letterari. A parte quei pochi che premiano la qualità, continuando la serietà di intenti che vuole evidenziare il migliore, gran parte dei premi viene vinta a tavolino, con tanto compiacimento degli editori che sperano in un incremento delle vendite. Ma quanti altri libri, artisticamente validi e degni di essere letti, non raggiungono il pubblico e rimangono sconosciuti ai molti? 

La quantità ha la parte del leone sulla qualità, e andrà così fino a quando non ci sarà la consapevolezza da parte di tutti di rientrare in noi e valorizzare la nostra umanità. Certo, l’uomo rincorrerà sempre il progresso, ma non deve perdere di vista il suo essere ragionevole: deve ridimensionare se stesso, se vuole vivere dignitosamente, da uomo. Non ha altre scappatoie, l’alternativa è questa: o continuare sulla strada del cieco edonismo che porta a consumi senza criterio, in balìa dei pochi che questo vogliono, perché si arricchiscano ancora di più, o rientrare in sé e rivalutare il mondo che lo circonda e la natura, riscoprendo valori più costruttivi e duraturi per una sua migliore realizzazione di uomo fra altri uomini. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 11-15.




A proposito di referendum 

 Spesso mi sono chiesto se erano proprio inevitabili questi referendum che avrebbero dovuto impegnare gli Italiani, se la maggior parte, per vari e discutibili motivi, non avesse deciso di astenersi. 

Da anni si parla di caccia sì o no, di regolamentazione e controllo dell’uso dei pesticidi in agricoltura, e se n’è parlato in lungo e in largo, in difesa o contro, in dibattiti e in tavole rotonde, per mezzo stampa o per televisione; se n’è parlato a Palazzo, non recependo, però, i nostri onorevoli rappresentanti quelle che sono le aspettative dei cittadini e non facendo propria l’urgenza di dare loro leggi adeguate a passo coi tempi. 

Rischiare l’impopolarità è un azzardo e nessuno è disposto a giocare a proprie spese. Eppure, vuoi o no, il governo è caduto lo stesso nell’impopolarità, perché il cittadino taccia di incapacità chi di competenza è delegato a legiferare. E non ha tutti i torti a pensare questo, dal momento che s’è vista rigettare la patata bollente tra le mani. È possibile che, sentita l’opinione pubblica, lo Stato non sia nelle condizioni di tutelare i suoi cittadini, di trovare una via di mezzo (non un compromesso) che soddisfi gli ambientalisti e i venatori, l’esigenze di tutela della salute di tutti e dell’ambiente e gli interessi economici di altri? 

I referendum chiedevano al cittadino il sì e il no, mentre i partiti politici, tranne pochi che tuttora fanno propria la battaglia, sembravano guardare da lontano, come se niente li toccasse, ritenendo, forse, questa consultazione marginale o di poca importanza, o forse per timore di perdere adesioni – come s’è detto – facendo indirettamente il gioco di chi invitava la gente ad un’astensione in massa. 

Mancando l’impegno politico, non era già prevedibile che questi referendum passassero sotto silenzio, facendo sfumare nel nulla 600 miliardi? È stata garantita una informazione corretta? 

Il cittadino deve sapere. Deve sapere, per esempio, che è suo dovere votare e che, in ogni caso, bisognava andare a votare. Anzitutto per gratificare i promotori dei referendum – che si fosse votato sì o no, ognuno era libero di esprimersi secondo coscienza – il cui obiettivo era il nobile intento di migliorare il rapporto dell’uomo con l’ambiente e gli altri esseri che hanno pur essi il diritto alla vita. E poi bisognava votare perché dal risultato i nostri rappresentanti potessero trarre precise indicazioni di governo dalle quali sarebbero emerse le reali esigenze di tutti che non sono solo di carattere materiale. 

A che vale che l’uomo progredisce in ogni campo, se le sue condizioni di vita sono pessime? Sinora non ha operato se non per tornaconto e sempre nell’ottica del proprio interesse? A che vale questo smodato benessere pagato a caro prezzo e col rischio di rompere in modo irreparabile un equilibrio così ingegnosamente perfetto? 

L’uomo, guardando solo all’utilità, distrugge con la sua azione ogni cosa. In tempi non molto lontani si provava piacere a stare nella tranquillità della campagna con le sue varietà di coltivazione e al canto degli uccelli. Pettirossi e cardellini nidificavano dovunque, e le tortorelle svolazzavano in cerca di frescura da un albero d’ulivo secolare ad un altro… Era troppo bello avere la natura veramente a portata d’uomo! 

Ricordo, bambino, le lunghe passeggiate nelle campagne di Montesole, un’altura che sovrasta Licata e guarda il mare, allora contaminata dal cemento, roccaforti di lepri e di conigli, ora deturpata e resa irriconoscibile da un abusivismo e da una speculazione che non rispettano regola alcuna. Ricordo che in primavera la natura sembrava veramente svegliarsi da un lungo sonno, rinnovata nei colori e nelle voci. Voci di uccelli vari, cardellini che gareggiavano nel canto tra gli ulivi, a quattro passi dalla pineta. Di tanto in tanto sentivi un rumore di piccoli passi, quasi in punta di piedi: mamma coniglia sbucava fuori di qualche cespuglio con tutta la sua nidiata: incurante della presenza dell’uomo, sicura di rimanere indisturbata. Di rado si vedeva un cacciatore: c’era ben altro a cui pensare! E l’aria… che aria ossigenava il corpo e ti rendeva leggero… 

Vai a vederlo adesso, Montesole! Non è più quello, e nemmeno l’aria è pulita e leggera come una volta. Gli uccelli, i conigli, tutti gli animali che lo popolavano sembra si siano trasferiti altrove. La piana sottostante, caratteristica allora per la varietà dei colori che andavano dal verde denso allo sfumato o, a seconda la stagione, dal giallo oro del grano da falciare al rosso papavero, ora è ridotta ad un mare cinereo di plastica e avvolta nel tanfo nauseante di pesticidi. 

Lo chiamate progresso questo. È evoluzione? E i morti per i mali oscuri del secolo dove li mettiamo? Quando ogni cosa è immangiabile, imbottita com’è di ormoni e di dosaggio esagerato e irresponsabile di veri e propri veleni, e non sei affatto tutelato come consumatore nella salute, non credi che sia proprio tempo di chiedere al governo una giusta regolamentazione dell’uso dei pesticidi? 

È da ignoranti aver pensato e fatto capire agli altri che pronunciarsi contro la caccia o i pesticidi ne avrebbero decretato la loro abrogazione. Nessuno avrebbe voluto questo e tuttora ne chiede solo un’intervento immediato dello Stato che prenda seri provvedimenti per il bene di tutti. Il cittadino chiede leggi adeguate, a misura d’uomo, che facciano rispettare l’ambiente in cui vive, gli animali, la sua salute, mai come ora minacciata e così incessantemente bombardata dagli agenti negativi prodotti dalla stessa azione umana. 

Chi ha detto che i prodotti usati nell’agricoltura moderna debbano essere venduti a casaccio e a chiunque li richieda? È possibile che debbano essere utilizzati senza alcun discernimento e senza alcuna cautela a rispetto dei consumatori? Il contadino pensa solo a se stesso, riservandosi magari, un piccolo angolo della serra per gli usi propri, non sapendo che i pesticidi in un ambiente chiuso infestano ogni cosa. E lui in prima persona maneggia quei prodotti senza alcuna prevenzione. Perché non affidarne le vendite ai tanti laureati in chimica· o in agraria in cerca di una prima occupazione? Veri e propri farmacisti con norme da osservare e far rispettare. Da parte di tutti si sente l’esigenza d’un immediato riparo a questi guasti che interessano la vita nel suo insieme. 

La caccia? Perché non creare riserve pubbliche e private, permettendo agli appassionati della doppietta di sparare a loro piacimento? In un momento come questo, dove alta è la disoccupazione, ci sarebbe lavoro per tanta gente. E chiunque sarebbe contento, persino le fabbriche di armi continuerebbero nella loro produzione. Stabilite le modalità di accesso a queste riserve (in ogni caso a pagamento), lo Stato dovrebbe intensificare i controlli, servendosi di personale qualificato, in nessun modo ricorrendo – come spesso e tuttora avviene – a guardacaccia. volontari, i veri bracconieri che niente risparmiano e a cui tutto torna lecito, controllori incontrollati come sono. 

Gli animali vanno tutelati e rispettati, perché anch’essi hanno diritto alla vita e fanno parte integrante di questo mondo. Ma, continuando di questo passo, noi decretiamo ogni giorno di più la totale estinzione delle varie specie. E intanto si spera all’innocuo e utile passerotto, si spara per il semplice gusto di sparare in qualsiasi stagione e momento dell’anno. 

L’irresponsabilità dei cittadini è il riflesso di ben più altre e più gravi irresponsabilità che portano al disorientamento e, quindi, all’apatia verso le istituzioni. Perciò lo Stato non può rimanere impassibile dinanzi a queste storture e deve reagire energicamente, seIVendosi degli strumenti a sua disposizione, se vuole operare per il bene dell’intera collettività, per un mondo più sano e più giusto nel rispetto dell’ambiente e della vita in ogni sua manifestazione. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 11-14.




 Filosofia e pace:  un rapporto possibile? 

1. La storia della riflessione filosofica sul tema della pace, iscritta nel più vasto ambito della filosofia morale e politica, riprodurrebbe in sintesi la storia stessa della filosofia. Dai sofisti a Platone. da Sant’Agostino a San Tommaso, da Hobbes a Kant, non è mai mancato l’assillo di fornire una risposta definitoria e definitiva alla questione della pace tra gli uomini e tra i popoli. Nella tradizione filosofica l’interrogativo si è risolto in teorie, sistemi compiuti, visioni del mondo, ed è sembrato volta a volta destinato a soluzione durevole. In Kant ritroviamo forse il momento più alto di tale pretesa di normatività, nella quale il rigore logico dell’enunciazione aggredisce la complessità storico-politica del problema. 

Ma la filosofia moderna. che trova in Kant la sua più conseguente sintesi, è stata già da lungo tempo corrosa dallo spirito della «critica» (essa stessa sorta con Kant); diviene sempre più ricorrente la figura del «declino» della filosofia, correlata alla epocalità della crisi della civiltà occidentale. Anche chi non ha fatto proprie le metafore del «pensiero debole» e non ha accettato l’idea di una dissoluzione della filosofia nella letterarietà ornamentale riconosce la difficoltà di un filosofare ancorato ad assunti normativi, dovuta soprattutto a una crisi della cultura che ha reso tangibili secolarizzazione e disincanto1. Quando la filosofia non si fa scienza, e non fornisce una risposta «produttiva» alla crisi, deve giocoforza dedicarsi a svelare una realtà frantumata. facendosi così luce critica. ma – nello stesso tempo rispecchiandosi come linguaggio retorico, discorso mitico che ancora una volta trasforma e cela il reale. 

Se la filosofia affronta quindi oggi il tema della pace lo fa soltanto a partire dalla crisi della propria stessa collocazione in quanto filosofia. In altri termini, i «filosofi» si trovano da un lato nell’impossibilità di assegnare alla realtà odierna un «destino», o anche soltanto un ordine ultimo e un senso teoretico, dall’altro nella necessità di assolvere al compito che viene loro affidato (anche contro la loro volontà), articolando nuove modalità di pensare il reale. Da un lato il disincanto dinanzi alla diffusione incrementale della guerra, in forme e strategie non ancora pienamente «comprese», disincanto che può risolversi in una critica nichilistica dell’effettuale: dall’altro il rinnovarsi di un discorso che oltrepassi il disincanto e la stessa epocalità della crisi per farsi speranza concreta, nella forma sempre uguale dell’intreccio tra logos e mythos. Per quanto consapevoli della profondità della frattura che – nella società contemporanea – si è prodotta rispetto a una tradizione millenaria, i «filosofi» muovono ancora sempre dal luogo del discorso, dal carattere ultimativo del discorso filosofico. Oggi come non mai la crisi della filosofia si muta nel variegato panorama di una «filosofia della crisi». Al suo interno trova senso una riapertura del dibattito filosofico sulla pace. 

2. A parziale motivazione di quanto sopra scritto sul carattere irreversibile del passaggio dalla tradizione critico-sistematica della filosofia moderna alla costellazione frantumata della filosofia della crisi mi sia permesso soffermarmi brevemente su qualche aspetto di quest’ultima, anche in relazione al mutare del referente morale e politico del quale qui si tratta, ovvero del tema della pace. 

La riflessione su tale passaggio non è del tutto compiuta, se è vero che le «cronache» filosofiche si sono tanto fermate sul rapporto tra teoresi e tacita o esplicita adesione al nazismo in Heidegger2. Senza voler entrare in alcun modo nei particolari, va ricordato che è in questione proprio l’autolegittimazione della filosofia come luogo centrale e assoluto della cultura di un’epoca e come commento fondante della stessa prassi politica. Nella filosofia della crisi si concorda sull’abbandono di questo ruolo universalistico, ma si riconosce anche che la rinuncia alla centralità della filosofia non deve comportare la riproduzione di una fondazione «forte» – se pure negativa – della filosofia stessa. Non basta tuttavia che i «filosofi» non si ritengano più depositari di un sapere universale e politicamente efficace, poiché, in qualche modo, viene richiesto loro da parte dei «non filosofi» pur sempre un «orientamento» che presuppone profondità e responsabilità teoretica. Per quanto muti la figura «professionale» del «filosofo» e il suo stile di pensiero, il pensare stesso, inteso nella distanza e nello scarto rispetto alle forme e ai miti del senso, si fa sempre filosofia. Ma, forse, lo stile del pensiero è costitutivo del pensiero e nel nuovo stile di pensiero sono impresse le tracce dell’epocalità della filosofia della crisi. Si possono infatti individuare nuovi abiti e figure: crisi della ragione. complessità, pensiero debole sono termini che comportano nuovi profili, nuove metafore e anche nuovi miti. I termini sono ormai polisemici e non univoci, racchiudono una insolubile contraddizione, poiché rinviano a un pensare che si distacca dai miti del senso comune per riprodurne altri ugualmente «infondati». La filosofia della crisi intende quindi distinguersi per la sua dedizione ad «abitare la contraddizione del pensiero» (P.A. Rovatti). Pensare nel luogo stesso della contraddizione tra il pensiero e il mondo, senza far prevalere il primo rispetto al secondo e senza ritenere questo luogo un ancoraggio fisso: così la filosofia risponde alla crisi. Essa muta livello, allontanandosi e differenziandosi rispetto alla stessa tradizione filosofica e affermandosi come riflessione di secondo grado rispetto a questa tradizione. In altre parole. il «filosofo» accetta che la distanza non neghi la passione, che la responsabilità si risolva in semplice disponibilità a rispondere, che il pensare stesso ospiti e sia ospitato nel mondo, senza alcuna «volontà di potenza». 

Tale trasmutazione di stile dovrebbe rendere la filosofia nuovamente accessibile, oltre che sul piano degli interrogativi anche su quello della scrittura (sempre più intessuta di letterarietà), rinnovando la sua valenza morale e politica. Sappiamo bene che l’urgenza etica condensata negli interrogativi che tutti ci poniamo non è soltanto l’effetto di un ripensamento interno sul ruolo attuale della filosofia, ma come – ben più – essa traspaia con forza dai mutamenti concreti della materialità stessa della civiltà occidentale. Se da un lato il declino della filosofia si risolve in una filosofia multiforme della crisi. dall’altro la crisi reale della civiltà occidentale annuncia un baratro possibile, che la filosofia può soltanto pensare, ma che ha il dovere di pensare. Inutile qui ricordare le vicende catastrofiche che hanno attraversato il XX secolo, dominato – fino al 1945 – da una guerra mondiale 

La civiltà «planetaria» nella quale viviamo mette infine in discussione le ottimistiche previsioni sugli stessi tempi di sopravvivenza del genere umano. Pur senza menzionare le trasformazioni della storia recente, appare tuttavia ben stagliato lo scenario contemporaneo, in cui dominano conflitti, singolarità, contingenze non più riducibili ad un ordine o ad una «filosofia della storia». È questa la crisi della quale si parla, crisi che non tocca soltanto la quantità e la complessità degli eventi, ma che implica una rottura profonda degli equilibri che hanno permesso il consolidarsi di sistemi sociali e viventi all’interno dell’ambiente-mondo. Non è un caso se divengono frequenti i tentativi scientifici e filosofici volti a valorizzare una «coscienza ecologica». Si uniscono gli sforzi per educare ad una «ecologia della coscienza» che si prospetta come l’esito di una rivoluzione intellettuale senza precedenti e si riconosce nel «ritorno del catastrofismo» l’effetto di superficie di un più consistente mutamento nell’immagine della civiltà planetaria3. 

Dinanzi alla doppia trasformazione che coinvolge insieme modi di pensare e volto del mondo, umano e naturale, l’arco delle possibili risposte è ampio, ma tutte si iscrivono in una prospettiva genericamente politica. 

3. Prima di presentare due soluzioni filosofiche sul tema in questione, a modello del modo di pensare moderno e di quello attuale, offrirei un sondaggio, appena accennato, su qualche figura ricorrente nelle odierne prese di posizione dei «filosofi» dinanzi alla crucialità della trasformazione. 

Se il filosofo è destinato – come si è sopra concluso – a «comprendere e […] ordinare la diversità fenomenica secondo un ordine di ragione – o di ragioni»4, allora egli deve interpretare il proprio tempo, essere il proprio tempo nella sua forma migliore. All’urgenza etica sollevata dai conflitti del mondo si risponde con una «pazienza filosofica», che moltiplica le circostanze nelle quali è possibile pensare. In tal modo il dialogo e l’interrogazione sostituiscono il conflitto, ma con modalità spesso divergenti. 

C’è chi interpreta oggi il dialogo infinito, il «pathos dello stupore» nel quale si muove il pensare, come un abbandono volontario della filosofia. La letteratura prende il posto della filosofia della crisi poiché nella prima il pathos dello stupore è rappresentabile senza «volontà di potenza»; bellezza e verità si fondono in un pensiero pacificato. 

Altri accolgono fino in fondo l’esperienza corrente, le aspettative più diffuse nel senso comune, moltiplicate dal sistema delle comunicazioni di massa, e risolvono il ruolo politico della filosofia nella continuità dell’esperienza collettiva. Il filosofo si fa portavoce delle aspettative dei più e la filosofia diviene «retorica sociale». Riflettere sulla pace equivarrà ad amplificare luoghi e figure del pensare comune. 

Ma, in direzione opposta, si sottolinea che il conflitto comporta sempre una possibilità di scelta e che il filosofo è coinvolto nella scelta, non solo come uomo, ma anche come filosofo «professionale». Heidegger e Gentile hanno scelto per la guerra come altri (Cassirer, Lukàcs) hanno lottato contro la guerra. E i primi non furono responsabili soltanto come cittadini, ma anche in quanto il loro ruolo implicava la «critica», la presa di distanza, «un uso cautamente responsabile» della parola loro concessa per collocazione professionale. 

Infine non manca la prospettiva della cancellazione della «pazienza filosofica» nell’impegno sociale e politico, tanto più se questo impegno coinvolge scelte ecologiche che assumono la loro forza dall’accumularsi di teorie biologiche e cosmologiche sempre più raffinate5. 

La conflittualità epocale del presente dissolve la filosofia in letteratura, viene minata nella retorica sociale, viene esaltata dalla critica dialettica, viene superata nell’olismo dell’ecologia. Figure possibili e concrete di una risposta difficile all’eventualità di una «filosofia della pace», tra rinuncia, insuccesso e marginalità utopica. 

4. Non si può negare una qualche nostalgia per la lucidità e la sicurezza con la quale la questione della pace perpetua veniva risolta – nella prospettiva più alta della filosofia moderna – dal genio di Kant6. 

Nel suo scritto più celebre sull’argomento Kant si pone in una prospettiva irenica, insieme ancorata e separata rispetto al corso degli eventi, oscilla tra utopia e progetto, secondo un movimento tipico della ragione illuministica. La nozione di pace assume un aspetto «categorico»: essa non può che essere perpetua, altrimenti non è vera pace. Nell’orizzonte della «ragion pura pratica» non c’è posto per le teorie della «ragion di Stato» e non si può accettare la massima si vis pacem, para bellum, in quanto la corsa agli armamenti è scorretta sul piano teoretico (non risponde al concetto di pace) e su quello concreto (genera un reale pericolo di guerra). Ma Kant è consapevole che la realizzazione di una pace perpetua può avvenire soltanto se si fonda una volta per tutte il diritto internazionale; deve di conseguenza ricorrere alla teoria hobbesiana del contratto sociale, estendendola al rapporto tra gli Stati. Tuttavia se l’idea di stato di natura viene trasposta sul piano degli Stati produce un esito paradossale: il diritto istituito, del quale gli Stati sono la più alta rappresentazione, coesiste con lo stato di natura, raffigurato nell’aggressività tra Stati e nella persistenza della guerra. 

La quarta esigenza viene esemplificativamente fatta valere da W.I. Thompson in Gaia e la politica della vita. Un programma per gli anni novanta?, in AA.W., Ecologia e autonomia, cit., pp. 169-210. 

Kant coglie questo paradosso, che avvolge la civiltà europea: essa è in fondo incivile e selvaggia, anche se culla del diritto. Peraltro dietro di esso si nasconde – a detta di Kant – una disposizione morale assopita, che prima o poi prenderà il sopravvento sul male. Il diritto internazionale va quindi compreso e fondato sempre a partire dalla legge a priori della «suprema potenza morale legislatrice», della «ragion pura pratica». L’inevitabile divaricazione tra necessità astratta della legge morale e complessità concreta e storica delle relazioni internazionali provoca sì in Kant un supplemento di indagine, in vista di una riduzione prospettica della seconda nella prima, ma le proposte, anche rilevanti, formulate al proposito non possono risolvere le aporie insite nell’affermazione che una legge a priori della ragione pura soggiace e orienta entità storicamente definite e volte alla supremazia e al conflitto. Kant si rifugia allora in risposte di tipo provvidenzialistico e naturalistico. Il destino, originato dalla natura stessa degli uomini, finalizza le discordie umane a una prospettiva di concordia, poiché proprio le continue discordie renderanno consapevoli gli uomini della necessità di un accordo ultimo. Tale destino assume anche la profondità di una legge incognita e cela quindi il disegno di una superiore Provvidenza. Al di là delle interpretazioni che si possono fornire sui limiti di questa istanza di secolarizzazione va riconosciuta l’oscillazione presente nell’argomentazione kantiana: felicità e pace sono utopiche, ma pur sempre oggetto di un desiderio naturale, forniscono il «senso» stesso della storia, originata nella naturalità di un desiderio e tesa a quella moralità non meno radicata nella natura umana. Un’oscillazione che – si è detto – è tipica della ragione illuministica e che è comunque sorretta dalla negazione di ogni discordanza razionale tra morale e politica. Con questo movimento Kant elabora lo stile più compiuto di una filosofia normativa della pace, nello spirito sistematico della modernità; ma pone anche le condizioni per il suo «declino», tramite la dissoluzione della legge universale in utopia irrealizzabile, definitivamente staccata dal procedere devastante della storia dei popoli. La teleologia provvidenzialistica e naturalistica prospettata da Kant si infrange nella tragicità delle catastrofi storiche, che – a partire dalla rivoluzione francese – hanno segnato l’intera umanità. 

Dobbiamo allora abbandonare la nostalgia per le definizioni ultime e prescrittive, per una sanzione perpetua sulla questione della pace. 

5. Il modello con il quale intendo chiudere il cerchio di .questa riflessione frammentaria, si ritrova alla fine di quel processo di trasmutazione di stili e di modalità del pensare sopra rievocato. Esso riconosce soprattutto la dilatazione estrema delle contingenze presso le quali risiede, viene dopo la crisi e la catastrofe, sa del crollo delle speranze più vitali. Si potrebbe dire, con una impossibile metafora, che ha già assistito alla fine dell’umanità7. Pur tuttavia intendo – tramite l’opera di Michel Serres – rinviare a una filosofia della pacificazione. 

In questo paragrafo sono utilizzate soprattutto le seguenti opere di Serres: Genesi (1982), tr. it. di G. Polizzi, il melangolo, Genova 1988; Statues, F. Bourin, Paris 1987 e Lucrezio e l’origine della fisica (1977), tr. it. di G. Cruciani e A. Jeronimidis, Sellerio, Palermo 1980. 

Serres rende consistente e credibile una modalità del pensare estranea alle forme del pensiero polemico, pensiero espresso in linguaggio militare o giudiziario, intessuto di strategie e di giudizi. Il razionalismo e la dialettica negano o coprono l’evenienza delle molteplicità, del possibile indifferenziato, vanno d’accordo con l’argomentazione del politico o con la logica dello scienziato, sempre finalizzate a rendere stabile la «ragione». Sul versante del possibile il filosofo dovrebbe invece mirare a salvaguardare il nuovo, l’inatteso, abbandonando consapevolmente l’ordine costituito della ragione imperante e sopportando le difficoltà di un’odissea senza fine, prezzo da pagare perché ci sia ancora un futuro per la cultura. 

Pacificazione innanzitutto come imperativo «fisico»: l’evento di una conciliazione tra uomini e mondo richiede uno spazio aperto, privo di steccati e di garanzie, che permetta alle molteplicità irriducibili della naturalità e della storia di miscelarsi senza scontrarsi. Una fisica della riconciliazione, epicurea e lucreziana, che ritiene ancora possibile un ritorno all’indifferenziato, per salvare la consistenza materiale del nostro mondo. 

Pacificazione quindi come imperativo «morale»: l’evento di una conciliazione tra gli uomini presuppone l’abbandono di quell’idealismo diffuso che fa credere a ciascuno di noi di essere centrale ed eterno, in nome di un «noi» che designa l’elemento miscelato e unitario del nostro vivere. Non si tratta soltanto di una impresa filosofica, nella quale alla contrapposizione classica tra soggetto e oggetto si sostituisce l’apertura alla miscela di vita e di morte che compone insieme il corpo vivente e la società. Si tratta di una necessità vitale. L’incubo persistente della morte atomica e della morte ecologica costringe ad ascoltare una filosofia che annuncia una pace senza alternative. 

La «filosofia dei corpi miscelati» è allora una scommessa augurale che – tramite le figure congiunte del messaggero Ermes e della bella Afrodite – diffonde la novella della pienezza e dell’abbondanza, la logica del terzo incluso, la mescidanza dei nostri corpi nella miscela infinita della vita sociale e naturale. Ritrovare l’androgino che dimora nel «noi», nella collettività, è impegno straordinario, ma ne va della vita o della morte. Se fossimo consapevoli di quanto sia piccolo lo scarto tra vita e morte, di quanto sia ridotta la fluttuazione che permette alle masse umane e sociali di ondeggiare sulla nostra matrice materiale, riverseremmo tutto il nostro impegno nel tentativo di allontanare il più possibile la morte individuale e collettiva che scandisce inesorabilmente il nostro tempo. 

Prima di inchinarci definitivamente dinanzi all’impeto di distruzione e di morte che – nella forma odierna di una pace sempre più guerreggiata – attraversa l’intera nostra civiltà, possiamo sentire ancora un’esigenza di resurrezione. Su questa tenue speranza poggia la parola filosofica di Serres. 

6. Il richiamo alla filosofia di Serres può però apparire puramente retorico. Siamo tutti convinti che una «filosofia della pace» presuppone una qualità pacificata del vivere. Si potrebbe anzi aggiungere senza forzature che l’intera filosofia si dispiega secondo modalità del vivere essenzialmente pacificate. Oggi è facile diagnosticare invece un mondo attraversato fin nelle sue pieghe più profonde dalla violenza e dalla «potenza»; in esso la tradizionale dialettica pace-guerra è venuta meno, sostituita dalla pervasività di una guerra non combattuta e di una pace guerreggiata, da uno stato di guerra interna (si pensi a delinquenza, droga, inquinamento, ecc.) e da una condizione di pace conflittuale tra gli Stati (si pensi al coesistere di accordi generali e generici e di guerre locali e irrisolvibili). Di conseguenza la «filosofia della pace» si è risolta nella forma «privata» di un’utopia. La filosofia di Serres può sembrare retorica dinanzi alla normatività kantiana, ma è cogente come modalità del vivere individuale; essa non è priva di aporie e non possiede alcuna conclusività, ma ci costringe a cimentarci con la speranza, per quanto esile, di una pace possibile. Sappiamo che soltanto una interdipendenza reale tra i popoli e all’interno dei popoli che escludesse ogni logica di dominio potrebbe sostanziare la diffusione sociale di una «filosofia della pace». Siamo liberi quindi di assumere l’aspetto retorico della questione. Ma sappiamo anche che esistono vincoli ai quali non possiamo più sfuggire, che una nuova modalità del vivere e del pensare si impone come obbligo dinanzi al futuro individuale e sociale. 

L’epocalità della crisi conduce a disperare, ma – proprio per questo motivo – a far sempre rinascere la scommessa di una filosofia. Un rapporto tra pace e filosofia è dunque ancora possibile. E forse può rinascere proprio dalla Sicilia che tutti noi tristemente conosciamo, ma che è stata spesso anche metafora concreta per la rinascita del pensiero: «Agrigento, Selinunte, Catania, Siracusa, Palermo, abbiamo fatto il giro dell’isola o quello del mondo; Empedocle, Archimede, Majorana, ecco chiuso il ciclo del tempo, della storia, delle scienze; abitiamo ormai una sorta di Sicilia isolata chiusa sotto la luce nera di Etna numerosi, che dipendono e che non dipendono da noi»8. 

Gaspare Polizzi 

(1) Sul tema del disincanto e del pensiero tragico rinvio a s. Givone, Disincanto del mondo e pensiero tragico, Il Saggiatore, Milano 1988. Le tematiche concernenti il «declino» della filosofia e le sue responsabilità, anche in rapporto alla crisi della tradizione del pensiero moderno, sono state oggetto di recente dei fascicoli monografici di «aut-aut», n. 226-227, luglio-ottobre 1988 (Il filosofo e l’effettuale. Questioni sulla responsabilità della filosofia) e di «autrement», n. 102, novembre 1988 (A quoi pensent les philosophes), ai quali rinvio per uno sguardo d’insieme aggiornato sui temi considerati nei primi tre paragrafi. 

(2) Il dibattito sull’adesione di Heidegger al nazismo e sui più generali rapporti tra filosofi e potere si è esteso fino a coinvolgere anche i quotidiani; per un orientamento più diretto rinvio – oltre ai fascicoli sopra ricordati – ad «Alfabeta», n. 103, 105, 107, 113, 1987-88. senza confronti in durata, in morti, in distruzione,e – nella metà successiva – da una pace, puntuata di conflitti profondi e persistenti, interni ed internazionali. 

(3) Ricavo queste considerazioni dal saggio di W. I. Thompson Le implicazioni culturali della Nuova Biologia, in AA.W., Ecologia e autonomia. a cura di W.I. Thompson. presentazione di M. Ceruti, tr. it. di L. Maldacea, Feltrinelli. Milano 1988, pp. 33-52, dove si sostiene tra l’altro: «Il passaggio da una condizione di conflittualità ideologica a una ecologia della consapevolezza a livello globale richiede oggi un chiarimento più profondo di quello offerto in Europa dalla filosofia illuminista che ispirò le rivoluzioni americana e francese» (p. 49). 

(4) Cfr. P. – J. Labarrière, Quand est-il temps de philosopher? in «autrement», cit., pp. 71-75. 

(5) Le posizioni qui presentate richiamano, nell’ordine, i contributi di F. Rella, Contro la seduzione del potere, di G. Vattlmo, Predicare il nichilismo?, di M. Vegetti, Per una dialettica indebolita, in «aut-aut», cit., pp. 102-108, 111-116, 117-120. È il caso di ricordare le seguenti affermazioni divergenti di Vattlmo e di Vegetti: «Da noi – del resto secondo una tradizione che risale a Vico, Croce, Gramsci – la filosofia appare più chiaramente come una ‘re-torica sociale’; e può darsi che questo modello italiano non sia destinato a valere solo per noi, e configuri invece i tratti (post-moderni?) di una responsabilità filosofica per la prima volta consapevole della dissoluzione dclla metafisica e del suo problematico superamento» (p. 116); «Ma se c’è comunque responsabilità dei filosofi (in ogni caso impegnati nel conflitto perché gli piaccia o no impegnati dal conflitto), può valer la pena di tentare un uso cautamente responsabile di quel tanto di parola che è loro concessa, nei margini di indeterminazione che la conflittualità sociale consente. Per il resto, o altrimenti, è meglio tacere o parlar d’altro, come saggiamente fa la maggior parte degli uomini» (p. 120). 

(6) La posizione di Kant è espressa nello scritto Per la pace perpetua (1795), per il quale rinvio all’edizione italiana a cura di D. Faucci, in I. Kant, Scritti di filosofia politica, La Nuova Italia, Firenze 19692. 

(7) La fine dell’umanità sta assumendo gli aspetti di uno scenario immaginabile, nel quale si possono comporre: la catastrofe nucleare (civile e militare), la sovrappopolazione, la scomparsa delle specie animali e vegetali, l’inquinamento delle terre, dei mari e dell’atmosfera, la sovrapproduzione di scorie. 

(8) M. Serres, Statues, cit., pag. 273. 

da “Spiragli”, Anno I, n. 1, 1989, pagg 19-28.




Viaggiatori stranieri in Sicilia  tra il Cinquecento e l’Ottocento 

Virtualmente collegata alla nota ricerca ottocentesca di Giuseppe Pitrè, sui viaggiatori italiani e stranieri in Sicilia, è l’opera in cui è impegnato con la sua équipe Rosario Portale, ordinario di lingua e letteratura inglese presso la facoltà di letterature straniere all’Università di Catania e presidente del «Centro Linguistico multimediale d’Ateneo». 

Portale dirige, con la passione dello studioso e la curiosità del ricercatore, una collana sul tema «Viaggi e viaggiatori in Sicilia», che suscita sempre nuovo interesse nel mondo scientifico e culturale. 

Sono già usciti dodici volumi ed è in preparazione il tredicesimo. Le pubblicazioni, frutto di lunghe e accurate ricerche, grazie anche al ritrovamento di materiale inedito, offrono testimonianze, relazioni, documenti, carteggi, diagnosi sulla società siciliana di varie epoche e le immancabili descrizioni delle bellezze artistiche, naturali, paesaggistiche dell’ isola, che culminano spesso (vedi Emily Lowe e Patrik Brydone» nell’incantato stupore per la maestosità dell’Etna. Anche il mito e la leggenda sono rievocati e rivissuti da alcuni viaggiatori in tutta la loro suggestione. Sulle finalità e il contenuto storico-scientifico dell’opera abbiamo rivolto alcune domande al prof. Portale, che ci ha accolto nella sede del Centro Linguistico, la più prestigiosa struttura didattica per le lingue straniere dell’ Italia meridionale. 

D.: Quali sono le finalità della collana da lei creata e diretta? 

La collana «Viaggi e viaggiatori in Sicilia: traduzioni, testi critici e documenti » è pubblicata da Lumières Internationales, sotto l’egida della Provincia regionale di Catania, col patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, del Ministero per le Pari Opportunità, della omonima Commissione Nazionale, del British Council, delle Ambasciate di Francia e d’Inghilterra, e naturalmente, dell’Università di Catania. 

Con questa iniziativa, alla quale collaborano docenti universitari, ricercatori, studiosi ed esperti di letteratura odeporica (per usare il termine coniato dal lo studioso Luigi Monga), mi sono proposto di portare all’attenzione del pubblico e della critica alcuni illustri personaggi stranieri – diversi per credo religioso, cultura e status sociale – che dalla seconda metà del Cinquecento alla fine dell’Ottocento fecero della Sicilia la loro meta privilegiata e di questa esperienza lasciarono testimonianze affidate a diari, lettere, resoconti, relazioni, saggi, appunti, racconti e opere a stampa. 

Diversamente da altre attività editoriali similari, la ricerca si caratterizza per la particolarità della scelta e l’ampia varietà dei temi. Sono infatti presentati autori ritenuti minori, le cui opere presentino situazioni ambientali interessanti e insolite, frutto della complessa realtà siciliana del tempo. 

D.: Vuole illustrare qualche volume? 

Mi limiterò a darle una campionatura esemplificativa ma non certo esaustiva. 

Per esempio, Lo sguardo dei Consoli. La Sicilia di metà Ottocento nei dispacci degli agenti francesi presenta materiale inedito (dispacci, memorie e corrispondenze) ritrovato negli archivi del Ministero degli Esteri francese. Questo materiale può farci scoprire non il volto della Sicilia com’era, ma in che modo ne ricostruiva i tratti quel particolare tipo di osservatori, un po’ viaggiatori, un po’ funzionari, che erano gli agenti stranieri nell’isola. Il volume Trinacria. Passeggiate ed impressioni siciliane del francese William Fleury (edito con lo pseudonimo di A. Dry) si configura come un percorso sociologico con una caratterizzazione dei personaggi-tipo ed una trattazione diacronica degli eventi storici. Il raffronto continuo con altri territori, l’Oriente in particolare, permette di costruire una rete di riferimenti analogici e comparativi che inserisce l’isola in un circuito geografico ad ampio raggio. Un altro volume, Il dialetto siciliano nei testi odeporici del Settecento, risponde alla legittima domanda: come facevano i viaggiatori stranieri del XVII secolo a comunicare coi siciliani, la maggior parte dei quali conosceva solo il dialetto? Per soddisfare questa curiosità, si sono presi in esame venti opere di viaggiatori, provenienti dall’Inghilterra, dalla Francia, dalla Germania, dalla Danimarca, dall’Olanda e dalla Polonia, studiandole da una prospettiva linguistica e mettendo in rilievo i passi nei quali vengono espressi giudizi, per lo più impressionistici, sulle varie parlate isolane. Particolare attenzione è stata dedicata ai toponirni variamente deformati, alle rare etimologie, spesso fantasiose, e alle espressioni che mostrano una interferenza fonetica, morfologica e lessicale tra dialetto locale e lingua del viaggiatore. Con questa ricerca si è pertanto cercato di evidenziare l’importanza che i resoconti di viaggio hanno per gli studi dialettologi. 

D.: Lei parla di autori ritenuti minori … Chi sono? 

R.: È il caso dell’inglese John Dryden junior, figlio del poeta omonimo. La sua opera, Un viaggio in Sicilia e a Malta nel 1700-1701, non ha grandi pregi letterari ma affida la sua originalità alla descrizione dell’itinerario Napoli – Messina – Catania – Siracusa – Malta – Palermo con il suo corredo di eventi, di incidenti di viaggio, di incontri e di osservazioni spicciole, alla registrazione di una gamma eterogenea di reazioni psicologiche di fronte ad una realtà altra e al sapiente dosaggio di reminiscenze storiche e letterarie. 

D.: Nella collana sono presenti anche donne viaggiatrici? 

R.: A compiere il viaggio nella nostra isola non furono soltanto uomini, ma anche donne di varia estrazione sociale, che affrontarono difficoltà materiali oggi impensabili. Un caso straordinario è quello di una viaggiatrice vittoriana, Emily Lowe (fra l’altro prima donna inglese a conseguire la patente di capitano navale), autrice di Due viaggiatrici indifese in Sicilia e sull’Etna. Diario di due lady vittoriane. Il racconto si presenta come narrazione in prima persona di una impresa, per quel tempo eccezionale, compiuta da due donne – l’autrice e la madre – che, senza accompagnamento maschile, intrapresero nel 1858 un tour in Sicilia e si avventurarono su vetture noleggiate e carrozze postali, passando per località archeologiche e per piccoli centri delle zone di Enna e Caltanissetta. Esplorarono la costa orientale, da Siracusa a Catania e Messina. Momento culminante della narrazione è l’ascesa del cratere centrale dell’Etna in pieno inverno. 

D.: A proposito dell Etna, è presente anche lo scozzese Patrick Brydone, autore, fra l’altro, della bella descrizione del vulcano e dell’alba vista dalla sua sommità? 

R.: A lui è dedicata la mia corposa monografia La meteora Brydone, frutto di minuziose ricerche negli archivi di mezza Europa. Grazie al ritrovamento di materiale inedito, faccio un’accurata ricostruzione della biografia di questo viaggiatore scozzese, di cui non si sapeva quasi nulla, e un’analisi documentata del suo Viaggio in Sicilia e a Malta, 1770, opera che ebbe una diffusione straordinaria anche negli Stati Uniti, e che esercitò tanta influenza sui viaggiatori inglesi, europei ed americani che, sulle sue orme, visitarono la Sicilia. Completano il volume cinque appendici, ricche di materiale inedito (relazioni, documenti, carteggi ed un’ampia selezione epistolare). Scopo di queste appendici è di offrire anche una tranche de vie, fino ad oggi sconosciuta, di Brydone e dei suoi interessi scientifici e letterari, compresi i rapporti che nel corso della sua vita intrattenne con varie personalità del mondo politico, diplomatico e culturale. 

D.: La Collana contiene esclusivamente traduzioni, monografie critiche e documenti? 

R.: No. Cammin facendo, ho pensato di arricchirla con due contributi che rivestono particolare importanza per gli studiosi italiani e stranieri. Si tratta di Viaggiatori britannici e francesi in Sicilia, 1500-1915. Bibliografia commentata e The Errant Peno Manuscript Journals of British Travellers in 1taly. Fra le peculiarità del primo, le traduzioni italiane apparse dal 1500 al 1915, l’itinerario di ogni viaggiatore e un indice di toponi mi utilissimo per chi volesse conoscere quale viaggiatore britannico o francese abbia visitato in quei secoli una città, un paese o un semplice villaggio siciliano. Il secondo, l’unico in lingua inglese, dispiega una ricchissima documentazione di manoscritti inediti, in particolare diari, relazioni, appunti e carteggi lasciati da viaggiatori inglesi che dal XVI secolo hanno visitato l’Italia e la Sicilia. È un’opera che si rivolge soprattutto agli studiosi di odeporica, archeologia, storia dell’ arte, architettura, storia, musica e anche a quelli di letteratura italiana e inglese. 

D.: Sono presenti solo viaggiatori inglesi e francesi? 

R.: La maggior parte sono inglesi, ma non mancano viaggiatori di altre nazionalità, quali il danese Friederich Leopold Graf zu Stolberg, di cui presentiamo il Viaggio in Sicilia, e il filologo, scrittore e giornalista russo Osip Senkovskij che non venne mai in Sicilia ma scrisse Viaggio sentimentale sul monte Etna (tratto da I viaggi fantastici del barone Brambeus) sotto l’influenza del più famoso barone di Mlinchhausen, come lui impegnato in viaggi soltanto immaginati. Il racconto di Sekovskij, dalla forte carica polemica e ironica nei confronti della società letteraria e scientifica russa, è una splendida parodia del genere odeporico, diffuso in Russia a partire dalla fine del Settecento. Redatto inizialmente in forma diaristica, questo straordinario ed esilarante racconto fantastico si trasforma via via in un monologo fanfaronesco, dispiegandosi attraverso l’ascesa sull’Etna fino al cratere, entro il quale l’improvvisato viaggiatore finisce per cadere. 

D.: All’inizio dell’intervista, lei ha detto che la collana consta di dodici volumi ... 

R.: Erano stati previsti dodici volumi, che nel giro di pochi mesi sono quasi tutti esauriti. Con la casa editrice «Lumières Internationales» e il suo direttore editoriale, dotto Antonio Scollo, stiamo pensando ad una ristampa di tutta la collana, ma nel frattempo farò uscire, speriamo entro l’anno, un tredicesimo volume dal titolo Viaggio in Sicilia e a Malta nell’estate del 1772. Si tratta di un delizioso diario inedito del giovanissimo inglese William Young, che visitò la nostra isola nel 1772, quando cioè l’opera di Brydone non era stata ancora pubblicata. Conterrà, fra l’altro, materiale iconografico dello stesso Young.le faccio presente che la parte iconografica di questo, come di ogni volume, è costituita, per quanto possibile, da materiale inedito e mira a creare un rapporto tra testo e illustrazione che in taluni casi è determinante per la migliore comprensione dei luoghi descritti. 

D.: Da quanto lei ha affermato, mi par di capre che tutte queste opere aiutano il lettore a scoprire / riscoprire una Sicilia che gli stessi siciliani non conoscono. 

R.: Per chi vuole riscoprire la Sicilia che fu, c’è in queste opere tutta una gamma minuziosa e colorita di schizzi, episodi curiosi di vita, tradizioni, abitudini delle varie classi sociali, incidenti di viaggio, curiosità culturali, intriganti minuzie aneddotiche, e suggestive descrizioni paesaggistiche: tutte espressioni vive di una Sicilia d’antan e insostituibili testimonianze per un recupero memoriale del nostro passato. 

Nino Piccione

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 43-46.




 Un Centro linguistico multimediale d’Ateneo per l’apprendimento specialistico delle lingue 

Intervista di Nino Piccione a Rosario Portale, dell’Università di Catania 

Nuova sede a Catania del Centro linguistico multimediale dAteneo (C.l.m.a.), la più prestigiosa struttura didattica dell‘Italia meridionale, all’avanguardia nel campo delle attrezzature informatiche. Il Centro è presieduto dal prof. Rosario Portale, titolare della cattedra d’inglese della università etnea, eminente studioso, 

riconosciuto in una dimensione culturale europea. Incontriamo il prof. Portale in un antico palazzo, nel cuore della Catania barocca, e gli rivolgiamo alcune domande. 

– Professor Portale, cos’è il Centro linguistico multimediale? 

-È stato istituito nel 1995 dall’ Ateneo catanese, con lo scopo di promuovere, con l’ausilio delle più sofisticate tecnologie multimediali, la diffusione delle lingue straniere. Sappiamo che oggi la conoscenza di almeno una lingua straniera, oltre ad essere fondamentale per lo sviluppo personale, è determinante per quello professionale. L’Europa è multilingue e pertanto saper parlare bene le lingue, sottolineo bene, diventa necessario, poiché il rischio è di rimanere tagliati fuori dalla realtà europea e non solo. 

Il C.l.m.a. dal 1998 è socio A.i.c.l.u. (Associazione Italiana Centri Linguistici Universitari), si avvale, per l’insegnamento delle lingue e l’assistenza tecnica, di tutor linguistici, di esperti in didattica, di tecnici informatici e di formatori madrelingua. In qualità di presidente del Centro sono orgoglioso di dire che all’ultimo G8, tenutosi a maggio in Giappone, abbiamo inviato una nostra traduttrice ufficiale. Nella gestione della struttura sono affiancato da uno staff di giovani altamente qualificati, oltre che dal direttore scientifico e dal Comitato tecnico scientifico. 

– Quali sono le finalità del Centro? 

– Le finalità e i compiti del Centro sono molteplici: promuovere l’apprendimento strumentale della lingua straniera, la pratica e lo studio per gli allievi dei corsi di dottorato di ricerca, specializzazione, perfezionamento, ma anche per gli assegnisti di ricerca, per il personale docente e tecnico-amministrativo dell’università. Il C.l.m.a., che è anche un centro di ricerca, risponde in maniera adeguata alle esigenze culturali di approfondimento nel settore dell’insegnamento linguistico. Questo Centro è una struttura aperta al territorio e perciò, oltre ad organizzare corsi di microlingua e a programmare corsi per formatori di lingua italiana per stranieri e per studenti universitari, promuove importanti iniziative come il Learn by Movies. Inoltre collabora coi vari Centri linguistici presenti sul territorio nazionale; stabilisce accordi con enti locali, pubblici e privati; stipula convenzioni con l’Irssae Sicilia per la realizzazione di corsi di formazione e aggiornamento per il personale degli uffici scolastici provinciali, i docenti di lingua straniera e le scuole di ogni ordine e grado. 

– Di quali strumenti dispone il Centro? 

– Il Centro è un gioiello dell’elettronica e dell’informatica. I nostri spazi, tutti appositamente progettati, sono ampi e confortevoli. La fase di progettazione è stata seguita da un collega della facoltà di Ingegneria dell’Università di Catania e sono fiero che per la realizzazione di questo ambizioso progetto l’Ateneo catanese non abbia dovuto pagare consulenze esterne. Disponiamo di tre laboratori multimediali, dotati di software sofisticati, di cui uno attrezzato con postazioni Apple, di tre aule per corsi frontali e di una fornitissima mediateca a disposizione degli utenti. Tutte le nostre classi possono essere utilizzate anche per riunioni e seminari. Esse consentono di ospitare fino a 15 studenti (oltre alla postazione docente) in un ambiente altamente professionale, high-tech e anche piacevole. 

Siamo in grado di ospitare circa cento utenti ogni ora. 

– Qual è la tipologia dei corsi? 

– Il C.l.m.a., dove, oltre all’inglese, vengono insegnate altre lingue, come il francese, lo spagnolo, il tedesco, l’arabo, il russo e, quanto prima, anche il cinese, offre una vasta gamma di corsi. La loro tipologia è varia. Il nostro obiettivo è di soddisfare le richieste dei nostri utenti anche in termini di flessibilità di orario e di pagamento delle tariffe; e così, gli studenti possono concludere agevolmente il percorso di studio! Tenga presente che i corsi non sono aperti soltanto agli studenti universitari, ma a tutti coloro che, indipendentemente dal titolo di studio, dalla professione, dall’ età e dal grado di competenza linguistica ne facciano richiesta. Il nostro obiettivo è di rispondere alle esigenze degli utenti. Non è un caso che il nostro slogan sia: «Da noi le lingue sono una cosa seria.» 

Ci sono corsi multimediali di conversazione e di preparazione alle certificazioni internazionali (Cambridge, Dele, Toefl, etc.). Siamo l’unico ente certificatore universitario per la preparazione del prestigioso esame Toefl, richiesto dalle università straniere. Ci sono poi i corsi «uno a uno», dove lo studente ha la possibilità di avere un docente tutto per sé. I corsi multimediali, tenuti tutti rigorosamente da formatori madrelingua, hanno una durata che varia dalle 40 alle 90 o più ore, con frequenza bi o tri-settimanale, e si offrono strumenti e opportunità per sviluppare tutte le abilità linguistiche (lettura, ascolto, scrittura, etc.). Quelli di «conversazione in lingua» hanno una frequenza bi-settimanale, per un training complessivo di 40h. Tutte le lezioni hanno come obiettivo lo sviluppo dell’ abilità di speaking (produzione e interazione orale) attraverso un percorso di studio coerente e mirato nell’ambito dei livelli e dei parametri stabiliti dal QCER (Quadro comune europeo di riferimento per le lingue). 

Anche i corsi di preparazione agli esami Cambridge PET (Preliminary English Test), FCE (First Certificate in English) e CAE (Certificate in Advanced English) e alla certificazione americana Toefl IBT (Test ofEnglish as a Foreign Language internet based) sono tenuti da formatori madrelingua ed hanno come obiettivo l’ acquisizione delle tecniche più idonee al superamento dell’esame. Ogni corso può avere un numero massimo di quindici studenti e si avvale dell’ausilio di software e attrezzature glotto-didattiche sofisticate. Stiamo molto attenti a non superare il numero di 15 utenti, poiché è ritenuto il numero ideale al fine di ottimizzare la capacità di apprendimento di ogni singolo studente. 

– Ma tocchiamo una nota dolente in questi tempi di recessione. Mi riferisco ai prezzi... 

– Le nostre tariffe sono assolutamente abbordabili e competitive. A coloro che fruiscono dei nostri servizi viene richiesto il pagamento di una cifra stabilita dal Consiglio di amministrazione dell’Università. I prezzi variano a seconda del tipo di corso. Faccio un esempio. Il corso di preparazione al PET si svolge in 90 ore, con una frequenza tri-settimanale, e costa 650 euro, con possibilità di rateizzare il pagamento. Le iscrizioni, si possono effettuare on fine, collegandosi al sito www.clma.unict.it. Chi vorrà iscriversi dovrà sottoporsi a un test gratuito della durata di 30 minuti, cui seguirà un colloquio con un formatore, al fine di stabilire il livello di conoscenza linguistica e il relativo inserimento in una classe. 

Ci sono nuove iniziative in cantiere? 

– Gliene anticipo tre. La prima riguarda i neolaureati: per loro sto attivando un corso per «esperto in editoria e comunicazione», realizzato in collaborazione con la nota casa editrice Lumières Internationales di Lugano. Si tratta di un progetto che non è mai stato realizzato da Bologna in giù e che offrirà ai nostri laureati maggiori opportunità di impiego. La seconda novità è il corso «The Language of International Politics», della durata di tre mesi, con due incontri settimanali di un’ora, tenuto da docenti ed esperti universitari. L’altra iniziativa, di cui sono particolarmente orgoglioso, riguarda l’istituzione di un «Centro traduzioni», che sarà fra i pochissimi esistenti in Italia e che nasce con l’obiettivo di offrire, ad un costo moderato, come è nella nostra filosofia, servizi altamente qualificati e di alto livello, grazie anche alla collaborazione di traduttori esperti, referenziati nei diversi campi della traduzione (giuridico-legale, tecnico-scientifico, letterario, medico, economico, etc.). Il «Centro traduzioni» offrirà un accurato servizio di traduzione, revisione e consulenza linguistica in regime di prestazioni a pagamento in conto terzi. Oltre che per le più diffuse lingue europee, cercheremo di garantire servizi anche per quelle extraeuropee che si sono ormai imposte sulla scena internazionale, quali la cinese e l’araba. Come per i corsi di lingua, esso non soddisferà solo le richieste dell’Università e delle sue strutture didattiche, scientifiche e amministrative, ma anche quelle di tutti gli utenti esterni (pubbliche amministrazioni, enti locali, tribunali, imprese, privati) che si rivolgeranno a noi. Anche con questa iniziativa ci si propone l’obiettivo di diventare un punto di riferimento per tutto il territorio. 

La conversazione è finita. Vogliamo ricordare l’attività e le opere principali del prof. Portale. Ha collaborato, come responsabile unico e di settore per la letteratura inglese e del Commonwealth, a numerose pubblicazioni edite dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Tra le sue pubblicazioni: «Plays of the Absurd. Beckett, Pinter, Simpson», studio su tre dei maggiori esponenti dell’Assurdo; «Virgilio in Inghilterra», raccolta di saggi di comparatistica sull’influenza del poeta latino su alcuni grandi scrittori inglesi dal 1500 al 1800. Ha curato la traduzione di T.L. Peacock, «Le quattro età della poesia»; di PB. Shelley, «Difesa della poesia»; di John Dryden, «Un viaggio in Sicilia e a Malta nel 1700-1701»; e due volumi di autori vari su «La traduzione poetica nel segno di Giacomo Leopardi» e «Omaggio a Keats e Leopardi». 

Nino Piccione 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 33-35.




 In fin dei conti, cos’è poesia?  di Renata Pallottini* 

Alcune recenti letture di buona fonte mi fanno rivivere i tempi dei miei studi filosofici, l’epoca felice in cui gli scavi nel terreno della teoria e del pensiero astratto ci chiamavano e richiamavano alla parola. Lontani da noi, i semplici piaceri e le faccende del quotidiano. Kant non aspettava dietro la porta… 

Dedita alla modesta pratica della Poesia, non pensavo di dovere oggi tornare alle indagazioni “sui primi princìpi” e sulle “cause ultime”. Ma andiamo avanti: che cos’è Poesia e, più propriamente, la Poesia lirica? 

Rovistando nell’erudizione degli antichi, ci tocca cominciare da Platone ed è un inizio poco felice. Dice Platone che la Poesia (la Poesia tutta, non solo lirica) ricrea o imita la parola passionale dell’anima, quella che sta più appartata o discosta dalla conoscenza, dalla sapienza. Il poeta fa l’imitazione della imitazione e, di conseguenza, soltanto dell’apparenza. 

Come tale, dev’essere…bandito dalla Repubblica, dai suoi fini educativi. Per fortuna, Aristotele è meno crudele: nel primo capitolo della Poetica, tratta di passaggio la poesia lirica. Di passaggio, perché l’epica e la drammatica occupano molto di più il suo pensiero, in modo tale che, almeno per quanto concerne il teatro, lo stagirita è un’autorità che va costantemente consultata. 

Secondo Aristotele, si tratta di citaristica, per cui la poesia è fatta per essere cantata, avvalendosi dei ritrovati della melodia e del ritmo. Ma una poesia per dire che cosa? 

Con ricorsi melodici speciali parlerebbe degli intimi movimenti dell’anima. Poesia del soggettivo, pertanto, contrapposta all’epica, alla narrativa, alla drammatica, quasi in conflitto con ogni tipo di azione… 

Passando con un lungo salto ad Hegel, abbiamo più materia da mescolare. 

Per il filosofo idealista (XVIII-XIX secolo), la Poesia ha il compito di rivelare alla coscienza il potere della vita spirituale, le passioni che agitano l’anima, gli affetti del cuore umano, i pensieri che si sviluppano nella coscienza dell’uomo; in una parola il dominio completo delle idee, degli atti, dei destini umani, tutto ciò che accade in questo mondo e il governo divino dell’universo (Poetica). 

Così sia pure caratterizzata come espressione del soggettivo, degli stati d’animo, delle emozioni e dei sentimenti umani, proprio per questo, la Poesia lirica non si può caratterizzare appena come pura versione di amori contrastati, di emozioni individuali o particolari, senza importanza o rilevanza per il complesso sociale nel quale si inscrive. Essa è stata ed è in ogni tempo, denuncia arma di lotta, parola modificatrice. 

Basterebbe citare a riprova alcuni poeti, le loro opere. Non si può dimenticare, per esempio, l’influenza che in Inghilterra, come nel mondo intero, ha esercitato la Ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde, scritta forse al tempo dell’esilio in Francia (1897), dopo la condanna del poeta a due anni di lavori forzati. Influenza sulle condizioni carcerarie dell’epoca, nonché sull’abolizione della pena di morte. 

Parimenti difficile è ignorare l’importanza che, in occasione della guerra civile del 1936 in Spagna, ebbero i versi di Federico Garcia Lorca, specialmente quelli che compongono il Romancero gitano, in cui denunciava con straordinario vigore e forza lirica gli eccessi e gli arbitri commessi dalla Guarda Civil sugli zingari ed altri gruppi di emarginati. 

Altrettanto significativi, se vogliamo cercare altri esempi, sono i poemi di Walt Whitman sulla dignità dell’essere umano e la libertà in tutti i sensi; i poemi libertari di Castro Alves, gli “indianisti” di Gonçlves Dias, come le opere di Fernando Pessoa, di Sophia de Mello, di Breyner Andersen, di Cesar Vallejo, di Raphael Alberti, di Pablo Neruda, di Giuseppe Ungaretti e di altri. 

Di tanti poeti e del loro inestimabile contributo alla poesia lirica si può dire che hanno saputo stimolare il dibattito delle idee, hanno saputo riflettere il proprio paese, lottare contro le tirannidi e soprattutto hanno significato l’opera d’arte sul piano nazionale loro proprio e su quello universale. 

Renata Pallottini

(Versione italiana di Renzo Mazzone) 

* Vicepresidente dell’Unione brasiliana scrittori dello Stato di São Paulo. 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 47-48.




 Un dibattito da non ritenere chiuso e archiviabile 

1. Fantasticherie e fantasia 

Accettata, per la sua parte, la proposizione di Heidegger che l’arte è una messa in opera della verità, non si negherà che la fantasia ne è non poche volte il battistrada a scoprirla. 

Ma la verità è. Essa non è né passato né presente né futuro, ma è nel passato, nel presente, nel futuro dell’uomo e oltre il tempo dell’uomo. Nella sua sostanziale perennità, la verità, è senza tempo. I mutamenti che le girano intorno – e solo apparentemente sembrano riguardarla fino, a volta a volta, a smentirla – smentiscono, in effetti, credenze e vicende d’uomo. 

Sono, in effetti, mutamenti fenomenici, legati alla dinamica dell’essere e del mutare chimico-fisico-astronomico nel cosmo; antropologico nella storia: logico e conoscitivo nella ricerca e nel cammino del pensiero ecc. Ritenere, perciò, datate e superate alcune verità per il solo fatto che appartengono al passato e, per questo, giudicarle scadute e da seppellire, è l’errore di ossessi avanguardismi sempre con la puzza sotto il naso del già visto, del già sentito e che, proprio in quanto si accaniscono ad abbattere verità per sola smania d’innovare, mostrano i loro presupposti o miopi o chiassosamente esibizionistici. 

Ma altrettale è l’errore di chi vuole, in forza di una tradizione sacralizzata, tenere in vita nei miti del passato – e nei riti e nei modi del passato – come verità le suggestioni e le autosuggestioni, gli sprofondamenti logici in profondità mistico-magiche dell’inconscio, i tolomeismi di scrittura e di pensiero. 

Così, infine, risulta presuntuosa ed anch’essa portatrice dello stesso errore quell’asserzione di verità che si pretende tale se ha il marchio di origine controllata nel riscontro positivistico – che può dare risposte ai come e mai agli ultimi perché – e nega che vi possa essere via alla verità in forza, talora, di una illuminante intuizione. Nella quale è il momento del più alto e teso impegno creativo dell’uomo nel campo dell’arte, della scrittura e, non raramente. anche in quello della scienza e dell’indagine sociale. 

Ma farlo scadere, questo momento, a smania di futurismi senza futuro e a vezzo di fantasticare senza fantasia è vastamente rintracciabile e operante nei nostri tempi. E, insieme con le altre davvero non molte opere di effettiva trazione verso il futuro e il nuovo, manderemo al giudizio dei posteri questa fine di secolo, madre di tanta sconcertata e sconcertante produzione artistica e letteraria, in cui si vanno a nascondere nell’oscurità e nel bizzarro, portati a parodia di genio, false profondità e assenze. E non so prevedere se sarà maggiore lo stupore o la condanna dei posteri – prevedibilmente agganciati domani più che noi oggi da temi e problemi drammatici, in uno stesso contesto tecnico che si va facendo delirio tecnico – per la connivenza di certa azione critica, che conclama originali e creative le provocazioni e le vocazioni della stramberia e, consonante, vibra a ricavare gli assoluti dalle magie, l’insolito da un fantasticare pargoleggiante, trovato rifugio comodo dall’incapacità di scavo psicologico e di lettura al fondo dell’anima delle cose e degli uomini. 

Così si chiama spesso inventiva l’uso spettinato e capovolto di frantumi del passato di seconda e terza mano; si accoglie e saluta come rigeneratrice rivoluzione il trionfo del grottesco come dissacratore di ogni tirannia di ordlne razionale; si dà credito al nonsenso, disertore da ogni umana verità o plausibilità, e disossato completamente della struttura portante delle idee e dei sentimenti; si irrompe nell’antico eccesso di una pulizia troppo agghindata e esornativa con l’altro eccesso della trasgressione di ogni norma della pulizia e del gusto, apponendogli la moda codificata di imbrattarsi di sterco e di trasandatezza, in un’accesa gara a chi trasgredisce di più. Si marcia, così, baldanzosamente contro regole e paradigmi, ingredienti necessari di un prodotto che in tanto è in quanto lo creano, lo reggono in vita e lo giustificano suoi elementi specifici e essenziali a connotarlo e lo verificano norme del giuoco e severe prove del fuoco dei veri talenti. 

Ma per un esteso andazzo, travestite da avanguardia, vengono incoraggiate e trovano accredito una supponenza ciarlatana e un’anarchia donchisciottescamente dissacrante, in mezzo alle quali soltanto possono cantare numerosi e confusi anche i più stonati e gridare protervi quelli che, un tempo, l’incapacità di affrontare vere prove del fuoco costringeva al silenzio e, se non a questo, la spudoratezza al ridicolo. 

Ma, oggi, si è non poco perduto di vista il limite oltre il quale c’è il ridicolo o il risibilmente velleitario. Di qui, col dilagare e l’imperare della moda, il dilagare della resa. Quanti nel nuovo regime culturale i trasformisti affannati a far sparire tessere di figurativismo o di realismo – quasi come dive che, pervenute al successo, si affannano a cancellare dal loro passato il trampolino di lancio del letto del regista o del produttore – e, ora, i più selvaggiamente impegnati a far saltare con le mine del «disordine creativo» e con mimesi del caos ogni struttura di progetto nelle opere e ad annebbiare, fino a uno stato confusionale e al nonsenso, di ambiguità polisemantiche e multipiani di lettura l’autenticità – sorrisa come ingenuità del tutto e chiaramente detto – della cristallina chiarezza, chiesta dall’urgenza del dire e del sentire e fatta necessaria dal proporsi della verità. Il risultato è che il significato (in tempi di disperata ricerca del dove consistere) è mandato in esilio e con esso il pensiero; l’autentico sentire è mandato in bocca ai clown; alla comunicazione si recide ogni filo, aumentando i sigilli alla bocca del silenzio. Ma soprattutto resta sconfitta la vera fantasia: non quella per turisti di evasione nel fantastico posticcio né quella della fuga e del rifiuto, ma quella che si impasta con la storia degli uomini e con la loro realtà a sventolarvi dentro gl’ideali del superamento del limite e a combattervi le battaglie delle sue utopie e, con ciò, a fare la storia e a far crescere la coscienza, forza motrice, pur in un contesto di contrasti violenti e di mortificazioni e di ritardi, della promozione umana. 

2. I vestiti del buon senso 

Sì, v’è un preteso buon senso, così battezzato in forza di tradizioni che lo hanno impastato col pregiudizio, con la paura del nuovo vestita da cautela, con la crassa autorità del potere, con i falsi valori arzigogolati dalle ipocrisie, dai sofismi e dalle furberie degli egoismi. Lo hanno poi sorretto, via via, e sacralizzato vassalli, valvassini e valvassori del pensiero altrui e, infine, tenuto in vita menti pigre spaventate dal solo pensiero di lasciare il comodo tradizionale giaciglio per un arduo e nuovo cammino. 

Ma v’è un buon senso figlio della luce che ha indagato; nato dall’esperienza che si è scottata le mani al fuoco e ha imparato la fiamma; seguito al volo che si è ammaccato al suolo e ha, perciò, imparato i limiti del sognare e l’inaffidabilità della velleità; che si è chiuso spesso nel silenzio e lì ha avvertito l’inutilità del rumore; che ha portato e prestato le idee all’esperienza e l’esperienza alle idee.  

È questo un buon senso da cui nessuno e niente, se non gli arruffamatasse e le loro astratte stupidaggini, possono prescindere. 

3. Avanguardie senza passato, senza presente, senza futuro 

A guardarvi in fondo, ogni movimento di avanguardia, mirando al rinnovamento, parte, pur in mezzo a dichiarazioni solenni di rivincita dell’irrazionale, da una profonda rivolta del razionale contro l’abuso delle forme, contro la maniera, contro la ripetitività, contro il pappagallismo delle mode contro l’insincerità melensa delle arcadie di ogni genere. Parte, ripeto, da una rivolta razionale, ma che, carica, come ogni ansia di abbattere e rinnovare, di una sua ebbrezza, si va, via via, sempre più euforizzando fino alla pesante ubriacatura e alla perdita di controllo ed esaspera le premesse radicalizzandole, le svia, le svuota delle ragioni, pure giuste, dell’originario progetto, tutto portando a cadere in braccio a un irrazionale astratto che per niente collima con quell’irrazionale della vita che, in quanto risponde a logica di vita, si scontra e si mescola col razionale e ne mantiene i segni della probabilità e della necessità. 

Accade, così, che ineluttabilmente il movimento di avanguardia si confina e restringe, strada facendo, nella rivolta del gusto col naso arricciato. Nella ricerca ad ogni costo del cambiamento, scambia e non cambia, scambiando le allucinazioni per intuizioni, la droga per ispirazione. Scivola nello snobismo come stadio patologico dell’esclusivismo. Si va sempre più esaltando nell’esercizio della provocazione e della dissacrazione e, quando un certo tipo e una certa dose di provocazione non bastano più, ne inventa e adotta altri più vistosi e rumorosi: si fa chiasso per attrarre l’attenzione, meravigliare o scandalizzare; si va facendo sempre più enorme (nel senso di uscire sempre più dalla norma per ogni aspetto), infervorandosi in un imperialismo di poetica e in una perentorietà di giudizio, finendo a una costante e talora esagitata (quando scappa la pazienza falsa della sufficienza) opera di mortificazione e irrisione dell’equilibrio, del senso comune e, perciò, di una maggioranza – quasi totalità – di lettori, spettatori, uditori, al cui consenso, spregiato in parole, in effetti intimamente si aspira, ma a cui si vieta la partecipazione col cartello «Vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori». 

Eppure, proprio quando pare che la pretesa avanguardistica abbia schizzinosamente tenuto lontana la quasi totalità, è, invece, essa stessa che si è rinchiusa nei limiti e nella improbabilità del suo recinto, fuori della storia, fuori del respiro della verità umana, esaltandosi in ripetute dichiarazioni di guerra alla figura, al significato, al contenuto e, come quelli che pretendono di cambiare l’amplesso amoroso, tale nella sua essenziale, genuina, semplice e pure meravigliosamente creativa forza di natura con l’apporto lentamente suicida della cocaina, così la sindrome ossessiva del sempre più fuori dal banale del quotidiano porta arte e letteratura sempre più fuori dalla vita in un loro lento suicidio. 

Non pochi avanguardisti già arrabbiati. facendo emergere un più avvertito senso autocritico da quegli angolini della riflessione, cui portano l’età e l’onestà intellettuale. hanno avvertito o vanno avvertendo l’esaurimento e la labilità delle ragioni del correre nel deserto di un futuro, che mai sarà. e rientrano nell’ordine non di codici paleoartistici né di anchilosate istituzioni che vi trovano ancora rifugio. ma in quello che ha costruito e va costruendo per modifiche e convalide la vita con le sue pulsioni e la sua mai stanca creatività nell’ancora illetto contesto delle sue leggi. Patetica, a fronte di ciò, risulta la resistenza ad oltranza degli ultimi e fanatici cecchini delle pseudorivoluzioni culturali sulle rocche sbrecciate delle loro astrattezze, rimanendo senza un passato, in quanto lo hanno distrutto, senza un presente in quanto, tenendo l’occhio a un futuro astratto, non vedono quel che vive e urge nel giorno che si svolge, senza futuro, in quanto straripano dal letto che vi porta per le vie dell’uomo e non dell’idea astratta di uomo. 

Caravaggio, gli impressionisti, Pascoli, Einstein, per fare, fra gli altri, alcuni significativi esempi, operarono nel loro tempo, rimanendovi, una irriducibile, irricucibile, epocale rottura col passato che nel loro tempo permaneva, e, quindi col loro tempo, ma senza chiasso di manifesti né costituzione di gruppi scamiciati sulle barricate delle pseudorivoluzioni. E le loro opere e l’effetto di esse rimangono senza l’ausilio di revival a suffragio editoriale né mobilitazioni ad hoc di critici generosamente accomodanti e generosamente retribuiti. 

4. Le gabbie 

Ma arte e vita, non verità di vita filtrata per il crivello di zdanovismi di qualsiasi tipo, accomodata alle proprie chiese per inginocchiare opere e autori al Molock delle ideologie, ai catechismi delle estetiche di gruppo (niente è più soggettivo e isolato della reazione a un dato del pensare e del sentire che si fa ispirazione e creazione), ai sistemi onnicomprensivi, montati nei laboratori cerebrali, che pretendono di sostituirsi alla vita, anzi di ingabbiarla. 

E niente è più fuorviante e devitalizzante del voler regolare la vita fuori delle sue insostituibili norme naturali, combattendone la flessibilità, la logica tramata di raziocinio e irrazionalismo, la fantasia, le emozioni, le gare e le trovate sempre nuove e creative dell’insopprimibile egoismo come difesa, affermazione e proiezione di sé per naturale espansione di forza vitale, i voli, i crolli, i fragili eroismi, la saggezza del cuore e lo scandaglio della mente nei suoi viaggi al nulla e ritorno, il gran libro della memoria, l’aspirazione che si leva dalla, sulla e per la vita e oltre, irrorata di sangue, di carne, di storia e delle alte utopie che la muovono. 

Non c’è bisogno di uscire dai suoi territori per ricerche di altri linguaggi e cammini: nella vita c’è tutto: dai ghirigori estrosi del capriccio alla drammatica febbre dell’assoluto, dalle verità emerse nel tempo attraverso la più didatticamente efficace lezione dei sudori, degli errori, dei fervori, degli stupori e dei tremori dell’uomo alle verità ancora nascoste nelle pieghe dei suoi non ancora svelati misteri. 

Perciò la vita resta il vero e materno utero dell’arte. Le opere nate da piatta ubbidienza a mode o a diktat ideologici, estetici, filosofici, proprio in quanto sono state concepite fuori dalla vita come luogo del sentire, agire, progettare dell’uomo, hanno, nascendo in rigide strutture obbligate, una, per così dire, già loro rigidità cadaverica. 

5. Un conto aperto 

Né è chiuso il conto tra sogno e realtà. Né, prevedibilmente, per destino di uomo, l’uno escluderà l’altra o viceversa. E, infatti, la ragione (necessità-onestà-orgoglio intellettuale di rigorosamente consequenziali partenze e approdi logici – che non si lascino sedurre e sviare dalla prepotenza del dato emotivo -) e sentimento (rimpianto di cose tempi eventi insaporiti di mito, bisogno di sogno, proporsi e riproporsi di tradizioni legate al cuore e, per esso, ai ricordi e agli affetti – che si oppongano all’inaridimento e alla desertificazione, cui spinge la ragione -) non riescono a stipulare una pace definitiva, per la quale l’una si riconosca vinta definitivamente dall’altro, e viceversa, e ne riconosca finalmente la sovranità. 

Fanno delle tregue, alla cui base è il compromesso, nel quale si compenetrano delle temporanee necessità. più che delle ragioni, l’uno dell’altro. E su ciò soltanto poggiano le contingenti clausole delle loro precarie tregue. Per il resto l’una e l’altro, come superstiti di un’armata rotta e dispersa, che rifiutino tuttavia di alzare la bandiera bianca della resa, vanno ogni volta radunando i motivi – sia pure laceri di ferite, sporchi di polvere e di sudore, traballanti di dubbi – per un’eventuale vittoria. Non prevalgono ancora e sempre le ragioni di una pacifica convivenza, come pure tanto vastamente è nella natura e necessariamente deve essere della vita. 

Accade perciò che spinti e puntigliosi illuminismi non riescano ad affrancarsi, nella loro demolizione dei miti, dallo scrivere Dio con la maiuscola e, dall’altra parte, che i sudditi più lealisti del dogma anelino a rivolte per evadere ai luoghi della libertà, del dubbio e della ragione. 

Il più alto tasso di arte, le più folgoranti scariche di poeticità, i più alti contenuti di civiltà non sono nati e non nasceranno da una realtà non lievitata dal sogno, staccata e inerte, né, tanto meno, dal sogno solitario eremita, che si maceri e si dissolva nell’aeriforme impalpabilità dell’irreale, ma si registrano nella coabitazione e nello scontro tra sogno e realtà, tra storia e ideale, quando il pensiero si sanguifica e si avviva nell’emozione dell’utopia e l’utopia con le gambe tremanti per l’emozione chiede il sostegno del pensiero. Nel caos Si aprono spiragli all’armonia, nel nonsenso ammiccano lontane luci di significato e l’essere. proprio perché s’interroga a ricercare un suo fine, svela la sua ansia ad un’alta milizia nella vita. Sono i momenti in cui le pretese dell’intellettuale puro e dell’arte pura avvertono il segno del pudore e il sospetto e il timore dell’inutilità. 

6. Le pseudoterapie 

I gelosi guardiani dello splendido isolamento della letteratura, col pretesto della difesa della sua specificità e inappartenenza, spingono a fare della storia (e, quindi della vita, che di tutta la storia è matrice, nel bene e nel male) la, nemica dichiarata della letteratura, che essi vogliono fuori della storia e contro di essa sempre e indistintamente, come altro da essa. In questo prendere le distanze dalla storia. la letteratura è portata a una neutralità che di necessità la riduce a una schizzinosa lontananza dalla vita, a una corporativa letterarietà tutta chiusa in una vita da scaffale, a una incorporeità, in cui anche lo spirito si dissangua. E a siffatta letteratura, ormai, non molti – e pochi anche fra gli stessi addetti ai lavori – sono disponibili a concedere la giustificazione dell’essere e rimanere tale. 

È incontrovertibile, invece, che la letteratura, come ogni altra manifestazione di arte. è una delle tante esigenze ed espressioni del vivere dell’uomo in società (chi scrive sempre e in ogni caso. anche quando recita solitudini, si pone di fronte dei lettori o a dei lettori) e, come tale, una delle componenti della vita nel suo farsi storia e civiltà. concorrendovi e promanandone. 

Da qui la necessità che la letteratura tenga o riporti i piedi nella vita, la narrativa, a narrare, non distorta dalle sue motivazioni e dai suoi fini, la poesia, a rifarsi interprete di quel mondo inesaurito e inesauribile che è dentro l’uomo e, perciò, nella sua vita e nella sua storia. È qui che la letteratura deve operare a portarvi sì il suo sentore di esilio ma anche i suoi progetti di alternativa e il suo grido, sì i capogiri delle sue altezze, ma anche lo sgomento e la rottura e, al tempo stesso, i materiali della ricostruzione e della pacificazione, ma, in ogni caso vivendoci e vivendone e ravvivando, nel ruolo di cervello che riceve e pensa e di cuore che lo nutre e irrora di sangue e di sentire. 

A così operare, senza ruoli di servizio permanente effettivo agli ordini di niente e di nessuno, è necessario il coraggio dell’uscire da certo conformismo gregale che acriticamente piega il capo alle mode e, non meno negativo, alle consegne dell’abitudine e dei giudizi passati di bocca in bocca, e aggiungere senza la paura che il proprio dire si senta e noti più nel generale silenzio, la propria voce a quella dei pochi coraggiosi, che, ad esempio, dicono che Picasso non è poi stato quell’inarrivabile genio che si dice in coro; che, sempre ad esempio, i Zanzotto. i Manganelli, i Sanguineti e succedanei, nel proposito validissimo di sconfiggere rancidume e ristagno, sono soltanto pervenuti allo stravolgimento, punendo, peraltro, la loro stessa spiccata vocazione e autenticità e togliendo alle loro opere. essi che pure ne hanno capacità e mezzi notevolissimi. il respiro che vincesse la contingenza e con essa i limiti del tempo e dello spazio per farsi attuale sempre e ovunque, che è il presupposto dell’universalità. E si sa che ciò non è se non si riesce a cavarsi fuori dalla smania dell’inusuale che scivola alla soglia del dandismo letterario e dello snobismo o anche se non ci si porta fuori da quella troppo risentita reattività che spinge a esasperare poetiche dell’opposto con i loro eccessi del contrario fino alle distruzioni con solo rovine e solo babeliche summe di rifondazioni. 

Perciò, diciamole queste cose prima dei forse necessari cinquanta anni per dirle poi in pentimenti, getto di tessere e rivisitazioni critiche e autocritiche. 

Altrimenti? Sì, altrimenti, avversata dai suoi nemici e screditata, per la via della estenuazione o per quella della esasperazione, da non pochi dei suoi stessi cultori; spinta dai grandi e incalzanti rivolgimenti di valori e mutamenti dei costumi in angoli sempre più piccoli e remoti del vivere; sconfitta, di fatto, da mezzi più tecnicamente aggiornati, più rapidi e, perciò, più mediatori di informazioni e formazione dell’opinione; tenuta in uggia dalle sedi e dai criteri della programmazione del tempo libero; aggiogata dalle mode e dal profitto editoriale, la letteratura, si troverà in sempre maggiore difficoltà a giocare la sua carta decisiva: o a dare quello che il cinema non può dare, la televisione non mediare fino alle segretezze del sentire e del pensare, la sfilata delle mode non riempire, lo stadio, il sesso, il partito politico, la discoteca, l’oratorio, il bar, il club, i jeans non tacitare né ogni sforzo di vacanze più o meno intelligenti sostituire, oppure finire nella preagonia, che si crede ancora vita, degli enti inutili a sovvenzione statale. 

E il problema tocca più da vicino e con più urgenza la poesia. Proponendosi, infatti, nell’urto dei tempi e nella sospensione dei giudizi l’interrogativo se ancora poesia e, se sì, con quali motivazioni, per quali vie, con quali strumenti e con quali riferimenti, la pseudoterapia proposta dai costruttori di bare poetiche e cioè che la poesia, per esser tale, debba tenere sempre e necessariamente almeno un piede – tanto meglio, poi, se ce li tiene tutti e due – nel surriscaldamento del delirio lirico, nella allucinazione onirico-visionaria, nel furore della eversione linguistica fine a se stessa, nel congedo illimitato da ogni ordine mentale, negli eremitaggi della incomunicazione, nell’autoghettizzazione dell’afasia – tuttavia piena di presuntuosi ammicchi per dare ad intendere che ha in corpo cose troppo grosse da poter dire con le possibili parole dell’uomo -, nella boscaglia intricata delle metafore che si rincorrono sempre più impervie e oscure, perché il buio più buio del buio fa tanto ambiguità e intelligenza, questa terapia, diciamo, è l’esatto contrario del rimedio necessario, perché, lo ripetiamo, propone messaggi in profezie senza futuri. Il diritto del poeta a sognare irragionevolmente? Sì. anche questo diritto, contro ogni possibile censura. Ma, volerlo, il poeta, sempre e soltanto consacrato e sfinito in questo ruolo? Come ci svoglia, questa idea, e immalinconisce e spinge al sorriso, non cattivo, che è più irrimediabile! 

Né meno esiziale, per portata di effetti primari e collaterali, è quella pretesa terapia d’urto che volendo combattere e sconfiggere il pateticume va a deragliare nella caccia all’ultimo sentimento. Con la conseguenza di una poesia prosciugata fino alla disidratazione di ogni umore vitale, alla scomparsa dalla letteratura dei figli, dei padri, delle madri (uccidendo le madri per uccidere il mammismo), di ogni pur piccola traccia di pathos, ignorando, o fingendo di ignorare vergognandosene, i visceri, le molecole, gli ormoni, le scariche elettriche che passano per i neuroni al cuore, fisiologicamente presenti nell’uomo con la stessa necessità e, perciò, inestirpabilità, dei sentimenti, cui danno vita. E l’elogio di certa geometrica impotenza di fuoco poetico di un poetare androgino, le cotte di scapigliati ex seminaristi per i Céline, gli esibiti (in pubblico) distacchi dalla debolezza del sentimento in recita di forza d’animo e di intelletto, le poetiche della flemma (Poesia e Flemma!). ogni principio di ardere spento con gli estintori della ragione. E poi in casa? Togliersi la maschera, svestire i paludamenti degli eroi di carta per una febbre di figlio, per un venir meno di vecchio padre o di vecchia madre, per un affacciarsi cupo di futuro. E il tragico pathos dell’esistere se appena l’intelligenza vi scruta dentro? 

È anche questa della guerra al sentimento una conseguenza di sessantottesche deviazioni (dal buono, dal nuovo, dal veramente vitale e dirompente che pure il sessantotto propose). Pensiamo al radicalismo di certo femminismo ammazzasesso, rancoroso e punitivo e autopunitivo, alla figura posticcia del rivoluzionario tutto Mao e rivoluzione, che si atteggiò a trascurare e disprezzare, come mollezze del vivere borghese, impulsi sacrosanti in natura, alle pseudofilosofie che ignorano che niente inizia a filosofare che non inizi dalla vita, ai socialismi scientifici che ignorano che niente c’è di meno scientifico nell’operare a tradurre in atti idee del non tenere in conto ciò che di individuale non è estirpabile dall’individuo per costante testimonianza antropologica, alle strategie che non seppero essere se non impastate di sangue come il tragico donchisciottismo dei partiti armati. 

Un rivolere, allora, i prati sempre fioriti di speranze o innaffiati delle lacrime del pathos? No. Fare anche entrare nei sentimenti, com’è nella vita, il soffio freddo della verità e della ragione, la misura, ma non l’astinenza, perché i sentimenti non siano vaneggiamenti né pretendano di trascinare anche il logos nei manifesti di vitalismi miopi e ottusi o nella sfrenata sarabanda dei loro inni e nelle lunghe e inconsolabili loro trenodie del perduto e del rimpianto, ma, ciò, entro i limiti che neghino anche alla ragione ogni pretesa di razionalizzare gli impulsi e snaturare la natura. 

Mario Ortu 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 11-21.




Un movimento per l’educazione

Solo chi ha un interesse teorico o pratico per le materie educative può volere che nasca un movimento per l’educazione. Esso è da moltissimi anni in embrione, ma stenta a venire alla luce per mancanza di sinergie e innanzitutto di idee chiare. Se ne avverte l’esigenza dalle conseguenze umane della politica di uno Stato che genera pericoli e richiede rimedi in se stessa. Ma questi non vengono attuati se non c’è una pressione sociale che spinga ad attuarli.

La politica culturale

La politica economica di uno Stato produce diverse forme di occupazione che incidono sullo status sociale del lavoratore: quando l’occupazione consiste in un lavoro subordinato notiamo uno squilibrio nelle relazioni ed un’alterazione della spontaneità e dell’autodeterminazione. Non c’è da meravigliarsene. La politica sociale ha, tra i suoi compiti, quello di riequilibrare le relazioni nel valore della comune civiltà e di incidere sull’atteggiamento politico in modo che questo si attui in forma spontanea secondo i valori civili. Tutto ciò non si realizza senza la debita arte. La politica sociale ha bisogno della politica culturale. Non c’è da meravigliarsi di questa organicità dell’azione.

La politica culturale si distingue in quella della ricerca ed in quella della Un movimento per l’educazione istruzione-educazione: la ricerca, sia pura che applicata, può considerarsi come un prolungamento della politica economica nella sua tensione verso le innovazioni tecnologiche e produttive; l’istruzione-educazione fa parte della politica economica – nella sua tensione ad educare per occupare – che della politica sociale per porre rimedio ai difetti  e alle insufficienze della politica. Nonostante queste interdipendenze, essa mantiene una vitalità e una connotazione autonome.

La politica culturale persegue lo scopo di far esercitare professioni e mestieri secondo requisiti lavorativi elevati e adatti, di far tenere rapporti sociali improntati al senso della dignità, proprio del valore sociale preminente, e di suscitare un atteggiamento politico consapevole ed autodeterminantesi nel valore della civiltà.

 

Nello specifico, la politica dell’istruzione- educazione si serve di una gamma di docenti che, nella loro didattica, attuano un metodo educativo che produce conseguenze intellettuali e morali sugli allievi: abbiamo una diversità di contenuti didattici ed un grado diverso tra i docenti a seconda delle diverse fasce degli allievi da educare; così la politica culturale a seconda dell’evoluzione di età deglli allievi, esige che i docenti attuino una didattica in forma ora di pedagogia, ora di meiragogia, ora di neoagogia. È logico che l’insegnamento avvenga in modi differenti adattandosi a differenti tipi psicologici dovuti all’età. Così abbiamo la pedagogia (dal greco παῖς παιδός, fanciullo) e ἄγειν (guidare) che attiene ai bambini; la meiragogia (da μείραξ, ragazzo) e ἄγειν che riguarda gli adolescenti e consiste nella pedagogia liceale; la neoagogia (da νέος, giovane) e ἄγειν che si qualifica come pedagogia universitaria. Sotto queste scienze non può non esservene una che le sussume e le accomuna; questa è la scienza generale dell’educazione che le unifica.

Essa deve essere conosciuta dal governante che deve indirizzare questi tipi di attività didattica secondo le fasce d’età degli studenti, ma essa è intuita dal legislatore quando deve legiferare sulle differenti didattiche per lo sviluppoo il rinvigorimento di una civiltà.

La politica dell’istruzione-educazione si manifesta in diverse forme che incidono gradatamente sulla personalità degli allievi tendendo a svilupparne intelligenza e volontà per inserirli adeguatamente nel lavoro e nella società.

 

La teoria dell’educazione

La scienza dell’educazione, con la sua specifica gamma di problemi, già esiste nella mente del legislatore quando legifera sull’attività didattica; già esiste quale specificazione dei problemi di filosofia generale in quelli educativi, ma anche quale coordinazione di scienze intorno a quella gamma di problemi; è esistente nel sostrato più o meno consapevole del buonsenso pedagogico che gli insegnanti applicano nella prassi educativa. Se volessimo descriverla, dovremmo individuare ciò che hanno in comune le discipline: pedagogia, meiragogia e neoagogia.

Alla base c’è la figura dell’allievo che possiede sue attitudini e tendenze naturali e si colloca in rapporto ad un ambiente sociale e familiare con le loro esigenze: l’ambiente sociale con una stratificazione socio-economica, una cultura fatta di idee diffuse e relativi valori, una sua organizzazione ed abitudini di chi vi appartiene. La famiglia si inserisce in una classe sociale, ha una mentalità che può essere identica o diversa da quella dell’ambiente sociale, educa secondo peculiari criteri e finalità formando soprattutto moralmente. Così l’allievo si affaccia ad una scuola portando con sé interessi teorici e pratici, che sono frutto di attitudini e tendenze naturali ma anche di esperienze di vita, di una conseguente mentalità fatta di idee e valori via via acquisiti anche da esperienze scolastiche precedenti che orientano la sua attenzione e il suo carattere.

La scuola, sia inferiore e media che universitaria, è rivolta agli interessi pubblici il cui contenuto è pedagogico ed è illuminato dalla scienza stessa dell’educazione. È organizzata su un’autorità che coordina i docenti e diverse classi o corsi di allievi verso scopi formativi sia intellettuali che morali. Le classi e i corsi sono disposti gradualmente verso un fine particolare, in modo da conseguire fini più generali che sono sia di formazione intellettuale e morale degli studenti sia di influenza sull’ambiente familiare e sociale.

L’attività didattica si articola essenzialmente nella lezione e nella valutazione, in quanto i compiti a casa e il ricevimento degli studenti non sono altro che forme di prolungamento della lezione: la didattica deve essere improntata da un metodo efficiente che consiste nello sviluppare e trattare la materia d’insegnamento in funzione degli interessi degli allievi. Bisogna stimolare gli interessi conoscitivi e pratici degli studenti; suscitare interessi, quando non siano presenti in modo da poterli poi stimolare; ciò costituisce l’essenza del metodo pedagogico che si deve trasporre a quello meiragogico e neoagogico.

Un altro aspetto della didattica, complementare a questo ed ugualmente importante, è il mantenimento della disciplina: si attua nel tenere tutti gli allievi costantemente impegnati nell’applicare coerentemente le norme. Ciò permette di far percepire e assimilare norme di condotta agli studenti e presuppone la comunicazione di valori tratti dallo studio della materia insegnata e dall’esempio di coerenza di comportamento. Nella singola lezione ci deve essere la spiegazione di principi generali, coordinati organicamente in tutta la materia studiata, e di fatti concreti, illuminati dai principi generali: bisogna permettere la discussione sulle diverse questioni, e cioè sulle difficoltà che sorgono in modo da far assimilare l’oggetto della spiegazione.

La valutazione attiene alla maturità dell’allievo, e cioè alla sua capacità raziocinante e alla sua preparazione, e cioè all’assimilazione della organicità e sistematicità di nozioni della materia: si attua attraverso l’esame della preparazione settoriale ossia di argomenti particolari; dai risultati evidenziati su ogni domanda, si fa la media e si attribuisce, quale risultato finale, un voto ovvero un giudizio standardizzato. Questa è una procedura frequentemente praticata. Essa si applica sia nelle interrogazioni durante l’anno scolastico, per sondare il grado di preparazione  dell’allievo e porre rimedio a sue eventuali lacune, sia negli esami finali dove bisogna valutare la preparazione globale ed assegnare un giudizio definitivo.

I fini proposti si concretizzano nel produrre conseguenze intellettuali e morali sull’allievo, ma anche nell’incidere sull’ambiente sociale. Si deve allenare, nello studente, la capacità raziocinante e di conoscere con metodo scientifico. Si deve far sviluppare il suo interesse su oggetti che siano congeniali alle sue attitudini e farlo applicare in essi. È opportuno che la sua preparazione sia composta da conoscenze scientificamente rigorose e costituita non da semplice nozionismo. Bisogna tendere alla sua autonomia di giudizio.

 

L’educazione non è solo intellettuale ma si protende anche in campo morale. L’allievo deve assimilare norme di condotta e cioè principi d’azione che siano in armonia col suo temperamento e con i valori sociali. Così è indotto all’autodisciplina, a radicare in sé abitudini attive in modo da affrontare coerentemente gli ostacoli della vita e riuscire ad inserirsi nella società.

Le conseguenze intellettuali e morali del metodo educativo sugli allievi hanno ulteriori risvolti: nella classe e più latamente nella comunità scolastica tende a generarsi un affiatamento, una reciproca comprensione, simpatia umana, tolleranza; si tende alla collaborazione verso un fine comune da raggiungere con lo sforzo di ciascuno.

Passando dall’ambiente scolastico a quello sociale, notiamo la tendenza ad ulteriori trasformazioni: si incide positivamente sull’ambiente sociale attraverso la qualità delle persone che lo compongono e lo si dirige conformemente ai valori della civiltà.

Tutti questi elementi sono costituda tivi di una teoria generale dell’educazione. Così vediamo l’influenza positiva sull’ambiente sociale generata dalle conseguenze intellettuali e morali sull’allievo prodotte da un metodo educativo praticato da un docente impegnato in una scuola saggiamente organizzata: a questi concetti si contrappongono quelli di una scuola disorganizzata, di docenti senza preparazione ed impegno, di una didattica priva di metodo che sviluppa la personalità degli allievi e, conseguentemente, non influisce sull’ambiente sociale, ma lo lascia evolversi in situazioni negative. 

Tutte queste idee, nella loro dialettica contrapposizione, sono costitutive della teoria generale dell’educazione: essa conferisce afflato ai pedagogisti nella loro immaginazione innovativa di metodi educativi e costituisce il sostrato ideativo del buonsenso pedagogico, illuminando l’applicazione coerente di principi ed alimentando l’entusiasmo. degli insegnanti nella prassi educativa.

 

Il movimento per l’educazione

Da anni esiste in fase embrionale un movimento per l’educazione che trae ispirazione quasi esclusivamente dalla pedagogia e si basa su di essa. La situazione è mutata dopo che sono state fondate la meiragogia e la neoagogia ed è stata formulata una teoria generale dell’educazione. Ora il movimento può aspirare a nascere basandosi su una scienza generale e su scienze specifiche. Esso deve mirare ad influenzare consapevolmente sia le norme di costume che quelle giuridiche: la sua influenza dovrebbe espandersi non solo sulle norme giuridiche formali, emanate dal legislatore, ma soprattutto sulle norme giuridiche realmente praticate dalle istituzioni scolastiche.

Un movimento per l’educazione deve essere teorico e pratico: l’aspetto pratico non può essere che stimolato da genitori, allievi e docenti, i quali si rendano consapevoli delle loro esperienze ed intendano affermare le loro esigenze entro finalità più ampie, mantenendo stretti rapporti con la teoria.

Tutto ciò non può non contribuire ad elevare docenti e studenti nella loro personalità. Conduce a portare ad un livello superiore la stessa nazione, nei suoi componenti e nella sua volontà. Dovrebbe riuscire a diventare guida cosciente del legislatore conferendogli maggiore consapevolezza dei problemi educativi e maggiore autorevolezza delle norme emanate. Dovrebbe orientare il governante nella sua politica di riequilibrio delle relazioni sociali dei cittadini, in presenza di rapporti economici negativi, facendoli adeguare ai valori della civiltà.

In pratica, l’impegno di genitori, allievi e docenti non sia inferiore a quello dei ricercatori che vi profondono la loro attività.

Giuseppe Melis

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 37-40.




 La scienza dello Stato nella Costituzione italiana 

di Giuseppe Melis 

Nella nostra Costituzione la volontà dei costituenti si mostra impegnata a chiedere al diritto quanto di meglio si potesse realizzare, nello Stato, in un determinato momento storico: in ciò dimostrano un’intuizione della scienza dello Stato, pur essendo inconsapevoli della sua reale esistenza1. È logico che fosse così. C’è uno stretto rapporto tra scienza del diritto pubblico, con le sue prescrizioni formalistiche, e scienza dello Stato, che si concentra in realizzazioni determinate con loro caratteri specifici2: la realtà, tra i suoi elementi e aspetti diversi, ha connessioni ineludibili. Così notiamo, nella nostra Costituzione, che il legislatore si comporta come se conoscesse la scienza dello Stato. 

La civiltà si concreta in una nazione guidata dai valori del pieno sviluppo della persona umana e del dovere congiunto al diritto del lavoro per conseguire il progresso materiale e spirituale della società3: il lavoro appare uno strumento di sviluppo della persona soprattutto nella ricerca scientifica e tecnica, nella diffusione della cultura fino a culminare in una elevatezza morale fatta di coerenza coi propri principi d’azione4; tutti questi valori, tra loro organicamente connessi, costituiscono un sostrato comune per amalgamare e unificare gli animi al di sopra delle distinzioni sociali e delle fedi religiose. 

I governanti devono essere omogenei allo scopo dello Stato, che ha per contenuto i valori della nazione: così la Costituzione prescrive che coloro, cui sono affidate funzioni pubbliche, rappresentano la Nazione e sono al suo servizio esclusivo; nell’espletare le loro funzioni hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore5. Altra forma di omogeneità si rileva nei limiti posti al legislatore nel suo potere di legiferare: la legge è limitata dal rispetto della persona6 e dalle esigenze associative e religiose7; assumono una dignità che si impone alla stessa legislazione. 

La giustizia distributiva viene postulata con l’espressione di «giustizia nell’amministrazione»8 e viene prescritta col carattere di i mparzialità9, che deve essere il piedistallo su cui si basa il buon andamento amministrativo. Si guarda anche ai presupposti umani perché la giustizia si attui e cioè al fatto che i funzionari non sentano di restare impuniti per le loro azioni inique: perciò i funzionari pubblici sono riconosciuti direttamente responsabili per gli atti commessi in violazione dei diritti10. 

Questo è un mezzo per prevenire gli abusi: conseguentemente si può proporre azione giudiziaria contro tutti gli atti della Pubblica Amministrazione – senza restringimenti a determinate categorie di atti o a particolari mezzi di impugnazione – per tutelare diritti e interessi legittimi11. Nelle controversie o davanti a reati, la giustizia dovrebbe attuarsi mediante il «giusto processo»: qui il giudice deve essere terzo e imparziale, le parti devono essere poste in condizioni di parità e tra loro in contraddittorio specialmente nella formazione della prova, mentre va assicurata la ragionevole durata dei processi12. 

Da una linea politica improntata alla giustizia distributiva dovrebbe sorgere, alimentarsi, mantenersi il carattere dell’uomo civile. Egli ha innanzitutto il diritto alla salute che è riconosciuto di interesse della collettività ed è fondamentale per l’individuo13. Importantissimo è il diritto al lavoro: va curata la formazione e l’elevazione professionale, mentre la retribuzione deve essere proporzionata alla qualità e quantità del lavoro svolto e, in ogni caso, sufficiente per un’esistenza libera e dignitosal4. 

Spetta a tutti il diritto di frequentare la scuola e ai capaci e meritevoli quello di raggiungere i più alti gradi degli studil5. La scienza e l’arte sono libere e libero ne è l’insegnamento, mentre sono promossi la ricerca scientifica e tecnica e lo sviluppo della cultural6. 

Così i diritti di libertà e uguaglianza non sono solo riconosciuti formalmente, ma devono realizzarsi con l’impegno a rimuovere gli ostacoli, in modo da conseguire lo sviluppo della persona umana e la partecipazione all’organizzazione complessiva del Paese17. 

La meta ultima, cui tutto si volge, è il progresso materiale e spirituale della società, mediante cui si mantengono elevati i valori della nazione. 

La realizzazione dei diritti è compito dell’indirizzo politico e amministrativo del governo: i suoi componenti ne sono responsabili e per tale scopo sono investiti delle loro carichel8. 

Così la nostra Costituzione cerca di realizzare i principi della scienza dello Stato: si sforza di costituire un tipo di uomo civile, di attuare la giustizia distributiva, di postulare l’omogeneità dei governanti allo scopo dello Stato, il quale coincide con i valori della civiltà e della nazione. I costituenti intuirono una tale scienza anche se non la conoscevano: la loro intuizione si fondava sulla conoscenza dell’affine scienza giuridica e sul contatto con la realtà, la quale si impone con la sua organicità totale. 

Giuseppe Melis 

NOTE 

1 La Costituzione è stata redatta tra il 1946 e il 1947: la scoperta ufficiale della scienza dello Stato è del 2005, con la pubblicazione dei Lineamenti di scienza dello Stato. 
2 Il rapporto tra scienza del diritto pubblico e scienza dello Stato viene messo da J.J. Rousseau nel famoso articolo Economia politica, pubblicato quale voce dell’Enciclopedia nel 1755: il rapporto si pone non specificamente tra scienze, ma nel descrivere organicamente la società, lo Stato, l’esercizio del potere, la situazione del cittadino. 
3 Cfr. specialmente art. 3 co. 2 e art. 4. 
4 La libertà di manifestare il proprio pensiero attraverso stampa e spettacoli (art. 21 co. 6) e di professare la propria fede religiosa con l’esercizio del culto (art. 19) trova il suo limite nelle norme sul buon costume. 
5 Artt. 54 co. 2, 67, 98 co l. 
6 Cfr. soprattutto l’art. 32 co. 2: è importante l’art. 13 co. 4 che, anche se non attiene direttamente alla legge, la implica. 
7 Cfr. specialmente l’art. 20. 
8 Art. 100 co. l. 
9 Art. 97 co. l. 
10 Art. 28. 
11 Art. 113. 
12 Cfr. art. 111 co. 1-5: questi commi non sono originari della nostra Costituzione, ma sono stati introdotti con legge cast. 23-11-1999 n. 2. 
13 Art. 32 co. l. 
14 Art. 35 co. 1-2 e art. 36. 
15 Art. 34. 
16 Art. 9 co. l, art. 33 co. I. 
17 Art. 3 co. 2. 
18 Art. 95. 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 31-32.