MARIA CRISTINA MAGGIO, Le circostanze, collana di narrativa «Meridiana», I.l.a. Palma, Palermo-Sao Paulo.

Un «passeggiatore della vita» 

«Non vi è grandezza né piccolezza, né nobiltà né bassezza, né bene né male. Tutte queste cose sono relative, dipendono dai tempi e dalle circostanze, dall’apprezzamento degli uomini e dalle opportunità.» È davvero esplicativo questo vecchio proverbio cinese che chiude l’ultimo romanzo di Maria Cristina Maggio dal titolo, Le circostanze, nel senso che conferma quanto, per l’autrice, il destino e i comportamenti degli esseri umani siano frutto di elementi provvisori; nulla vi è di fisso, tutto si mescola nella dimensione cangiante del destino fatale. 

Protagonisti un uomo «narciso» ed egoista, concentrato su se stesso, e una donna giovane, affascinante e possessiva, che lo costringe a fare i conti con se stesso, in un clima di amore e di tensione che gli causa un senso di malinconia fino al punto da indurlo a lasciare moglie e figli e analizzare i suoi sottostanti meccanismi psicologici. In realtà è la storia di un uomo che ha accettato di farsi trasportare dall’occasionalità, dalle circostanze appunto, e si è sempre rifiutato di assumere le redini della propria vita, quella vita errabonda e amareggiata che nel racconto sembra non appartenergli. 

Un individuo che ha vissuto come se accumulasse sensazioni, quasi a farne una collezione, come se la sua esistenza fosse un mezzo per eternare l’istante magico che, invece, egli mummifica e stilizza mascherandosi dietro se stesso. Un perfetto passeggiatore della vita che cammina senza sapere dove va e guarda senza vedere quello che vede. Sono gli incontri che fanno da padroni; è la mancanza di una morale che non gli permette di avere il senso della realtà; è l’innata non consapevolezza del sé che fa venire il sospetto che non si tratti di un vero uomo, ma di un piccolo uomo che, in realtà, non vuole crescere, non vuole responsabilizzarsi. 

II primo plauso che viene spontaneo fare alla scrittrice è per la capacità empatica di introdurre, in uno stile lineare moderno, un protagonista maschile, rispecchiandosi in lui con energica introspezione, quasi occultamente, svelandone i più reconditi sentimenti e, ancor più, le sue problematiche interiori che non possono non differenziarsi da quelle di una donna, non tanto nella sua struttura descrittiva quanto in quella esistenziale, che da sempre ha costituito una netta demarcazione tra il mondo femminile e quello maschile. Eppure la Maggio non si schiera. Ma l’autrice da che parte sta? Condivide l’atteggiamento passivo, se non fatalista dell’uomo, trascurando il vero ruolo delle immagini femminili che spesso vengono rilegate in un angolo, soprattutto la moglie del protagonista, oppure mira a svalutarne la figura? 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 58-59.




GIUSEPPE VITALE, Viaggio nell’Etnomusica. Tradizioni e nuove tendenze. Dai Qawal alle tribù del XXI secolo, dal jazz all’etno-rock e alla world music. Vol. II, Europa, Ila Palma, Palermo, 2006.

Tradizioni e nuove tendenze della musica popolare nel mondo 

Questo volume è un emozionante viaggio che esplora le tradizioni musicali pure della musica etnica e quelle contaminate della world music che, una dopo t’altra, compongono il multicolore mosaico della nuova Europa. 

Il percorso di questo meraviglioso, imperdibile viaggio attraverso i suoni, le voci, i ritmi, le forme, le danze, gli strumenti e gli interpreti, partirà dalla civiltà celtica – la più antica d’Europa – che ai nostri giorni rivive nelle performances dei Chieftains e di Enya, Alan Stivell, Braz e i Malincorne, ma toccherà poi i repertori musicali di tutti i paesi: il fado portoghese di Amalia Rodrigues e dei Madredeus, il flamenco iberico di Cameron de La Isla e Paco De Lucia, la rumba-flamemco dei figli del vento francesi Gypsy King e Los Reyes, la patchanka dei Negresses Vertes e del loro fuoriuscito leader Manu Chao, le raffinatezze delle canzoni d’autore francesi (Breil, Brassens, Cohen, Ferré, Gainsbourg) e italiane (De André, Fossati, De Gregori, Bennato, Dalla, Graziani, Branduardi), il canto a tenore sardo, le tammurriate napoletane della Nccp, lo yodel alpino, la world fusion di Joe Zawinul, la ballad scozzese, il lied tedesco, il runo finlandese delle Varrtina, le marce dei Paesi Bassi, lo joyk lappone di Mari Boine, la romska orientalana musiki dei Taraf di Haidouks e delle Orkestar balcaniche di Bregovic e Naat King Veliot, la doina rumena di Maria Tanase, la ruchenitza e le misteriose voci bulgare, il canto polifonico albanese, il rembetiko greco, la raq sharki turca, il canto armonico della sciamana di Tuva Sainkho, il maqam uzbeko di Mastaneh Ergoshova, il popfolk di Yulduz Usmanova. 

Si tratta – come si può notare – di uno dei primi e più aggiornati atlanti geomusicali, che fornisce una rassegna sistematica per orientarsi o lasciarsi coinvolgere, piena com’è di suggestioni, vicine o lontane, in cui i suoni tradizionali si fondono con la ricerca di nuove sperimentazioni. Certamente è un valido supporto alla curiosità di quanti cercano i meridiani e i paralleli che portano alla scoperta della vera musica, di un universo sonoro fatto di canti dei popoli che hanno sfidato e sfidano le barriere dello spazio e del tempo. 

L’autore è dirigente nelle scuole medie statali, operatore culturale, presidente dell’ Associazione filarmonica artistica culturale Banda cittadina di Torretta, autore-compositore e socio della S.I.A.E. Negli anni ’80 ha riesumato la nenia di Natale Ninnaredda Capaciota, ha diretto le bande di Trappeto e di San Vito Lo Capo ed effettuato una tournée negli U.S.A. Ha composto varia musica: folk, jazz, leggera e bandistica tra cui quella originale per il film Lo zio di Brooklyn di Maresco e Ciprì, che ha ricevuto il premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha pubblicato per l’ILA PALMA di Palermo: Klangfarbenmelodie (1977), Le nove sinfonie di Beethoven (1980), Canzoniere siciliano (1992), Sicilia duci e amara e Pasturato (1994), Bedda Sicilia mia (1996), Viaggio nell’etnomusica, voI. I (2000), Il trovatore del tempo che fu (2006). 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 59-60.




GIUSEPPE MELIS, Lineamenti di scienza dello Stato, collana di studi «Athena», Ila Palma Mazzone Produzioni, Palermo, 2005.

Una disciplina da approfondire tra filosofia e politica 

Pubblicato a Palermo, dall’editrice Ll.a. Palma, il saggio intitolato Lineamenti di scienza dello Stato, scritto da Giuseppe Melis, contiene una nuova scienza che si pone coordinatamente ma anche autonomamente tra la scienza della politica e la scienza del diritto pubblico e si inserisce, assieme alle discipline sorelle, nei più generali problemi filosofici dello Stato, da cui si specifica e si distacca. 

È scritto con la volontà di comunicare una scoperta ad un pubblico interessato ed intelligente e nella consapevolezza che la nuova disciplina, solo ora finalmente delineata, si pone agevolmente nell’evoluzione storica della realtà. 

Abbiamo recentemente vissuto in Italia una situazione di campagna elettorale accanita ed avvelenata tra i due poli di destra e di sinistra: in definitiva la propaganda mirava a conquistare quell’ elettorato, di oltre il 38%, che non è né di destra né di sinistra. Questo 38%, pur votando al momento opportuno ora a dest :l ora a sinistra ed essendo determinante della vittoria, riprenderà la sua connotazione essenziale che è quella di non essere né di destra né di sinistra. Anche la nuova scienza assume questa linea. 

Nel libro pubblicato osserviamo una nuova scienza, che viene delineata con chiarezza non solo nella sua matrice filosofica, come ogni scienza, ma soprattutto nei principi che la caratterizzano e più esattamente nella sua dimensione sia statica che dinamica, ed infine nei suoi rapporti di interdisciplinarità. 

L’opera reca la volontà di comunicare una scoperta al pubblico intelligente ed interessato a tali materie, ma anche di trasmettere la predisposizione a mettersi nella dimensione dinamica e cioè evolutiva della nuova disciplina e ad assumere i suoi fini quali scopi della propria azione per il rinnovamento della civiltà occidentale. 

Questi sono i caratteri del libro di Giuseppe Melis, docente nell’Università di Palermo: il contenuto è quello di una nuova scienza che si pone quale specificazione dei problemi filosofici dello Stato e si colloca autonomamente tra la scienza del diritto pubblico e la scienza della politica per i princìpi che la contraddistinguono. 

La sua utilità non si esaurisce nelle luci che dallo studio si accendono. È un libro utile anche perché contiene la delineazione sintetica e precisa delle materie affini quali la filosofia politica, la dottrina dello Stato, la scienza giuridica e del diritto pubblico, la scienza della politica: queste discipline vi sono chiaramente delineate. 

Il libro dà una voce a quella maggioranza sociale, che è determinante della vittoria elettorale, ma che dopo si ritrae politicamente non identificandosi costantemente a destra o a sinistra. Tuttavia è grande il suo impegno politico. Esso ricorda al vincitore delle elezioni che ci sono valori eminenti di civiltà, che bisogna perseguire consequenzialmente i fini dello Stato, che i provvedimenti pubblici devono essere presi con giustizia distributiva, che il cittadino deve essere plasmato quale uomo civile. 

Questi sono gli stimoli che provengono dal libro, a parte l’utilità che deriva dalla precisa descrizione delle scienze affini. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 54-55.




GIUSEPPE MELIS, La didattica nell’Università, Principi di Neoagogia, I.l.a. Palma, Palermo-Sao Paulo.

Per un nuovo modo di fare didattica nei corsi di studio universitari 

Il libro di Giuseppe Melis, La didattica nell’Università. Principi di neoagogia, si compone di due parti: la prima riguarda il momento contingente ed attiene all’attuale riforma universitaria, alla sua critica e ad una proposta alternativa; la seconda contiene un aspetto perenne e delinea una nuova scienza che si pone tra le scienze dell’educazione. 

Riassumiamo brevemente. Nella prima parte l’autore espone in maniera sintetica e chiara il decreto ministeriale (n. 509/99) di riforma universitaria, calando gli schemi della scienza giuridica e dell’educazione non in modo frammentario sui singoli articoli, ma in modo globale, sull’insieme del provvedimento; successivamente descrive l’applicazione, nei decreti attuativi, di quel fondamentale provvedimento. Viene inserita nell’ambito della società italiana ed effettuata secondo il punto di vista della scienza politica la penetrante critica della riforma, nonché una proposta persuasiva di una laurea efficiente che sia esclusivamente triennale, ma con un piano di studi tale da equivalere alla laurea quadriennale. 

C’è un capitolo intermedio dedicato alle facoltà accademiche, che sono il luogo dove non solo si svolge l’insegnamento ma si formulano i piani di studio che possono essere efficienti o inefficienti a seconda che l’élite dominante della facoltà sia paretianamente un’élite di merito o di fatto. 

La seconda parte attiene alla neoagogia, che è una nuova scienza tra le scienze dell’ educazione ed ha per contenuto la pedagogia universitaria, la neagogia (da néos e aghein) in quanto la parola pedagogia universitaria sarebbe una contraddizione in termini: vengono analizzati gli atti tipici di cui si compone la didattica universitaria (lezioni, seminari, conferenze, esami, tesi di laurea), quali costitutivi del metodo educativo. 

Il libro è di una vibrante attualità. Il D.M. n. 509/99 è tuttora vigente, nonostante il dissenso di esperti e professionisti, che ha assunto il carattere di dissenso sociale: la classe politica precedente non ha avuto né l’avvedutezza né il coraggio di abrogarlo o di modificarlo. La classe politica attuale è quella stessa che fece emanare il decreto nello spirito di imitazione della cultura anglosassone: come se l’ intelligenza italiana, per esprimersi compiutamente, dovesse imitare gli inglesi e gli americani. 

Il saggio si rivolge contro una situazione sin cronica a quella attualmente vissuta: perciò la sua attualità. Esso contiene una nuova scienza che, in quanto tale, è destinata a rimanere per sempre ed attende solo di essere ulteriormente sviluppata. Tende a sollecitare la scoperta di nuove discipline scientifiche che si pongano in modo intermedio tra di essa e la pedagogia. 

Il libro, per le sue proposte costruttive, si pone quale strumento e messaggio di programmazione politica. Si rivolge a chiunque voglia accostarsi impegnativamente al problema dell’università: al governante che voglia cercarvi ispirazioni per una più autentica riforma universitaria; al docente che voglia trovarvi idee per la ricerca e la formulazione di nuove scienze; allo studente che voglia individuare e stabilire uno statuto scientifico che protegga agevolmente la propria condizione studentesca. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 47-48.




GIUSEPPE FERRANTE – l raccollli di Roccadisopra, collana di narrativa «Meridiana», Ila Palma, Palermo, 2006.

Una prosa schiettamente siciliana di sapore quasi pirandelliano 

Un libro frutto di riflessioni, di ricordi ma anche di invenzioni quello dell’avvocato catanese Giuseppe Ferrante. Si tratta di una raccolta di dieci racconti ricchi di toni e di sfumature. Storie di passione, sogni, paure, rimpianti che racchiudono una vita, un destino. 

Dinghilindò ed altri racconti sono un piacevole sequenza di immagini, figure e vicende costruite tra i risvolti di un mondo semiserio che non sembra vero, ma è forse la quint’essenza della realtà. Sono racconti talvolta surreali, descritti con un linguaggio vivo, semplice e diretto, in grado di dipingere con colori nitidi i personaggi e le loro emozioni. Una scrittura che porta lontano, che ha la capacità di affabulare e far pensare, di stupire, far ridere e commuovere. 

Ritroviamo quella ben nota scoperta della sensualità esistenziale, non priva di sottile ironia e di affettuosa adesione, la capacità di cogliere il messaggio della natura, i suoi colori, i profumi, gli afrori, le «piccole cose futili» che danno il vero piacere. 

Pino Ferrante è un abilissimo narratore di stati d’animo, testimone di un mondo in cui la transitorietà della vita e la corruttività della carne si contrappongono all’immanenza della memoria del tempo passato. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 54-55.




 FRANCESCA SIMONETTI, Il ponte necessario, prefazione di  Antonino De Rosalia,«Poesia/Oggi», Ila Palma, Palermo. 

L’essenzialità poetica di Francesca Simonetti 

In un tempo che scorre travolgente, minacciato da una forma di barbarie tecnologica e da un nuovo analfabetismo interiore, in cui l’esibizione teatrale sostituisce l’autenticità e la sterilità inaridisce ogni piccola sorgente e spegne ogni scintilla, quale può essere il posto della «più discreta delle arti, la poesia»? Direi che è quello di collocarsi tra la realtà e l’uomo, anzi è quello di stabilire un ponte attivo tra tempo ed eterno, finito e infinito: tra il reale quotidiano, in cui l’uomo necessariamente è immerso, e l’infinito cui l’uomo da sempre aspira. Un «ponte necessario» dunque. Ed è proprio questo il titolo del volume di poesie di Francesca Simonetti, che rispecchia il carattere profondo, la funzione testimoniale della parola poetica. Dell’idea che la poesia sia un valore culturale ed estetico tra i più nobili, la Simonetti è fermamente convinta: è il verso che ci tiene in vita, ed è convinzione che ha alimentato in lei, fin dall’adolescenza, una passione ispiratrice di un’attività poetica sempre più valida, sostenuta da ricorrenti appelli alla musa: il ponte necessario / è sorto insieme all’alba / e mi invita ad andare, /per ritrovare l’ombra / con mani di velluto. E se un giorno dovessi / varcarlo, sarà soltanto / per ritrovare te, musa ribelle,/ che sempre te ne parti, / se pure pellegrina penitente. 

Il suo universo poetico trova motivi di canto e di ricerca nell’osservazione del reale e nell’interpretazione di esso; come scrive Salvatore Orilia, la poesia della Simonetti è «quasi una finestra aperta sulla realtà», è strumento per dare senso alle cose, delimitandone i contorni. Una quotidianità immediata che la poetessa trasforma in elevata contemplazione, in penetrazione interiore, in un grande sentire universale. 

Una poesia dotta che risente degli influssi di una cultura umanistica di cui Francesca Simonetti si fa scudo contro il materialismo dei nostri giorni. C’è l’amarezza di aver dovuto patire delusioni, la disincantata visione del vivere come deriva / su zattere pietrificate, / e i compagni di viaggio / nulla ti danno per lenire il male. C’è la denuncia delle colpe dell’uomo, in particolar modo di quel suo vizio antichissimo che ha nome egoismo. C’è il bisogno di un mondo in cui regni l’amore. 

Una poesia personale dai toni sommessi eppure decisa, ricca di riflessioni, di pensieri e ciò contribuisce a renderla varia ma pure limpida. Versi ben fatti e fluidi che nascono dal di dentro e danno vita a immagini, pensieri, atmosfere poetiche che svelano i diversi battiti della vita ma anche l’intimo della poetessa e le sue convinzioni. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 59-60.




FRANCESCA SIMONETII, Da Quental all’inquieto Novecento, prefazione di Aurelio Pes, collana di ricerche «Le vie del saggio», Thule, Palermo 2005 .

La natura segreta e tormentata di un grande artista portoghese 

Francesca Simonetti, poetessa siciliana dalla tempra robusta, ha dimostrato, con il suo ultimo saggio letterario dal titolo Da Quental all’inquieto novecento, di possedere anche una buona vena critica che la porta ad indagare con sottigliezza sulla genesi inquieta del portoghese Antero De Quental, il poeta-filosofo che ha dedicato la sua vita quasi esclusivamente alla difesa degli ideali socialisti. 

Con questo lavoro, la Simonetti ha il merito di aver portato alla ribalta un poeta di grande calibro, quasi ignoto all’Italia del nostro tempo, che si inserisce a pieno titolo nella storia del pensiero europeo e universale del Novecento, legandosi idealmente a quei capostipiti europei quali Baudelaire ed Eliot. L’autrice ci conduce in un viaggio attraverso il secolo e attraverso la complessità dei suoi problemi storici ed esistenziali, ma soprattutto in un viaggio all’interno dell’uomo- poeta. Quental è uno tra i più significativi interpreti della condizione dell’uomo moderno, dotato di immensa umanità e altruismo, un «santo laico» per i suoi contemporanei che aspirava già alla fine del XIX sec. all’unità dell’Europa. 

Una modernità quella di Quental, sottile ma al tempo stesso inequivocabile, di cui Francesca Simonetti ci dà una valida chiave di lettura attraverso la tragicità della sua vita, delle sue scelte umane e sociali, dei suoi versi e dei suoi sonetti eleganti e fini, significativi e toccanti per lo scavo interiore non soltanto della sua psiche ma dell’ anima del mondo intero. La parola poetica di Quental è l’emblema della parola che combatte per farsi lingua universale dell’ anima contro le superstizioni, gli idoli ideologici che dividono la mente degli uomini dal loro cuore. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 50-51.




DANIELA MUSUMECI, Devota come un ramo, Ila Palma, Palermo 2006.

Diversi percorsi di lettura tra poesia e meditazione filosofica 

Tenendo tra le mani questo volumetto di Daniela Musumeci, già prima di leggerlo, si ha una sensazione di leggiadria: i disegni a china e i pastelli di Sabina De Pasquale, pensati per le poesie intercalate ai brevi saggi, donano aria e respiro aperto. La De Pasquale è un’artista poliedrica: attrice, musicista, ma soprattutto autrice di delicatissime incisioni. Il disegno di copertina che illustra il verso di Cristina Campo, «devota come ramo»; la donna che reca due uccelli nelle mani che pare la sollevino in volo trasformandola in angelo; Demetra che culla una figlia invisibile, forse l’umanità tutta; il passerotto scaldato da uno sguardo d’amore: sono figure sapienti, tracciate con poche, immediate e sicure linee di penna, figure mitiche e magiche come il mandai a che apre il libro. Essenziali e scarne. Spirituali. Invitano alla lettura. E vien fatto di leggere, una dietro l’altra, tutte le poesie, come una sorta di armonia distillata. Esse costituiscono un dialogo dell’ anima con se stessa, un percorso di purificazione e di semplificazione, dal desiderio al distacco. Riecheggiano gli haiku giapponesi, quando non sono vere e proprie preghiere. 

L’altro sentiero è quello della prosa, più arduo, perché esige un’attenzione concentrata. Si tratta di un viaggio attraverso i quattro elementi naturali, aria, acqua, terra e fuoco, rivisitati attraverso il mito classico e le filosofie occidentali e orientali; un viaggio animico, ispirato da una sorta di mistica materialistica e panteistica, maturata nella consuetudine con Spinoza, Goethe e il taoismo. Qui forse la scrittura è fin troppo densa; va centellinata pian piano perché in poche righe si moltiplicano le suggestioni. L’ordine del discorso non è quello induttivo- deduttivo della dimostrazione, ma quello analogico e allusivo del «pensiero del cuore» e del «nomadismo intellettuale », come lo hanno insegnato Maria Zambrano e Rosi Braidotti, ma soprattutto Simone Weil, prima e indiscussa maestra dell’ autrice. 

Si può poi aprire il libro a caso e leggere, a seconda dell’umore o dell’urgenza interiore, la pagina che capita, il capitolo, il brano, i versi che più risuonano dentro, righe e rime sparse. 

E c’è infine la sequenza che l’autrice ha voluto proporre e che alterna alle riflessioni e alle meditazioni, talvolta faticose, il dono morbido di aforismi e metafore; perché questo è in fondo la poesia, un gioco di specchi tra aforisma e metafora. Insomma, basti dire che quello che sembrava o diceva di essere un «libretto di devozione» si rivela un documento di impegno estremamente concreto. 

Daniela Musumeci insegna filosofia e storia in un liceo di Palermo, sempre segnata dalla contraddizione tra delizia poetica e lavoro sociale, che è poi la contraddizione fra le due materie che le tocca insegnare, il cielo dei pensieri e la terra dei bisogni quotidiani. 

Per lungo tempo ha collaborato con la rivista Mezzocielo, sperimentando una divulgazione delle filosofie, grandi e misconosciute, da Diotima ed Eloisa sino alle contemporanee. 

Questa è la sintesi delle sue ricerche per i laboratori interculturali ideati per la scuola. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 48-49.




CRISTINA GIORCELLI et alii, Abito e identità, vol. VII, Ila Palma, Palermo, 2007.

Ricerche di storia e letteratura tra costume e cultura 

La moda è un intreccio continuo dell’evolversi della storia delle idee e quella del pensiero economico. Protezione, pudore, ornamento, sono le tre motivazioni principali del vestirsi che si inseriscono in un sistema di immagine di sé e di coinvolgente emozione. Ci si chiede: che cosa trasmette la moda? Trasmette la funzione identità, seduzione, vitalità, eleganza, comunicazione. Con il predominio della cultura positivista si sviluppa un approccio sistematico al problema nel campo sociologico. 

A. Spencer interpreta il fenomeno della moda all’interno del complesso di norme che concernono i rapporti tra classi superiori e inferiori; il sociologo R. Barthes propone un parallelo tra 1’analisi della moda e la linguistica, riprendendo la differenza postulata da F. de Saussure tra langue e parole. Un campo di approccio, questo, affrontato in modo articolato dalla scrittrice Cristina Giorcelli, professore ordinario di Letteratura americana all’Università di Roma Tre, curatrice della serie di ricerche di storia letteraria e culturale Abito e identità. 

L’intera opera è cosparsa di originali osservazioni sui significati sociali del1’abbigliamento e del costume. Un lavoro di estremo interesse, uno studio sul rapporto tra abito e identità sociale, in un percorso orientato a considerare il vestimento come scrittura di storie. Si inizia da un’analisi storica del tema che evidenzia come la moda sia parte integrante non solo del nostro apparire ma anche dell’ essere. Vestirsi vuol dire parlare un linguaggio stratificato, un alfabeto di segni di cui il corpo si ricopre: abiti, accessori, tracce sulla pelle, maquillage, acconciature… Valori sociali, funzioni rituali, generi e non generi sessuali si ritrovano in questo gergo antichissimo. 

Eppure all’origine del vestire come pratica quotidiana, all’ origine del gesto più massificato si nasconde un comportamento archetipico che consiste nel tra-vestire, nel mascherare, nello scrivere il corpo e sul corpo. Per secoli 1’abito ha cercato di consolare coloro il cui apparire non dava testimonianza del loro essere o ha tentato di dissuadere chi progettava di sostituire, con 1’apparire, un diverso essere. 

I saggi del presente volume indagano il problema abito/identità attraverso interventi che si riferiscono alle culture statunitense, algerina e italiana in un’epoca che va dalla metà dell’Ottocento ai giorni nostri, in generi diversi, come il romanzo e il racconto, e fuori dalla letteratura, in ambiti specifici come i fumetti, la sociologia, la psicoanalisi e la filosofia. Un rapporto, o meglio una interconnessione tra abito e identità che sfiora le categorie del pensiero metafisico. Infatti, tematizzando la questione dei sentimenti e affrontando il complesso rapporto che si instaura tra una identità che muta e insieme non muta nel tempo, si fa dinamicità e staticità, cambiamento e ricordo, metamorfosi e riconoscibilità, sia testuale e tessile, sia individuale e sociale. Il cambiamento costante caratterizza il fenomeno della moda, ma a differenza del cambiamento insito nella modernità, esso nella moda è irrazionale, è il cambiamento per il puro cambiamento. Il multiforme e poliglotta universo semantico vestimentario, che si forma e si riforma senza sosta, nel momento in cui l’abito incontra il corpo, costruendo una struttura di senso e, perciò, oggetto del desiderio. 

Eb l’identità, comunque, il concetto che emerge costantemente. Lo ritroviamo già nel capitolo iniziale dedicato ad una definizione esaustiva del fenomeno moda. Di notevole interesse anche il paragrafo relativo al rapporto corpo-moda, che va letto ancora alla luce del concetto di identità, posto che noi cerchiamo la nostra identità nel corpo e gli abiti ne sono l’immediata prosecuzione. 

Questo VII volume raccoglie saggi di Nello Barile (docente di Sociologia alla «Sapienza»), Mariapia Bobbioni (docente di Psicanalisi alla «Domus Academy», Milano), Vittoria C. Caratozzolo (docente di Storia della moda alla «Sapienza »), Paola Colaiacomo (ordinario di Letteratura inglese alla «Sapienza»), Emory Elliot (ordinario di Inglese all’Università di Riverside California), Agnès Derail-Imbert (docente a’ «La Sorbonne», Paris IV), Michel Imbert (docente all’Università «Diderot», Paris VII), Dominique Marçais (prof. emerito dell’Università di Orléans), Guillermo Mariotto (direttore artistico della «Maison Gattinoni»), Bruno Monfort (ordinario di Letteratura americana all’Università di Lille II), Paula Rabinowitz (ordinario di Cultura americana all’Università di Minnesota), Viola Saches (già docente all’Università di Paris VIII), Cristina Scatamacchia (prof. associato di Storia americana all’Università di Perugia), Sina Vatampour (docente all’Università di Lille III). 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 53-54.




CHIARA TOZZI, Condividere, collana di narrativa «Meridiana», I.l.a. Palma, Palermo 2005.

Otto racconti di storie diverse: un campionario di nevrosi comuni 

Racconti di vita e di sentimenti «quotidiani» nell’ultima raccolta di racconti della scrittrice toscana Chiara Tozzi, docente di psicologia a Roma. Il libro ha avuto un brillante esordio a Roma, nella prestigiosa sede dell’Enciclopedia Treccani, tenuto a battesimo da Barbara Palombelli, Filippo La Porta e Franco Tatò. 

Svariati aspetti dell’animo umano, un campionario di allegre e comuni nevrosi che non possiamo non sentire anche nostre, lasciate dall’autrice laconicamente sulla pagina in uno stile scarno ed essenziale. Otto racconti di storie diverse ma accomunate da una continua tensione d’ordine esistenziale e morale che confluisce nella possibilità di condividere, di affrontare insieme le emozioni che dividono e al tempo stesso uniscono. In questi racconti della Tozzi,si scorge un interesse particolare per personaggi sfasati rispetto alla normalità offuscata ma accettata da tutti. Incontriamo, infatti, i personaggi più vari, figure di una umanità defilata e senza pretese che emergono raccontandoci, nei fatti, una possibilità diversa di stare al mondo. L’autrice scrive di donne e di bambini, di amori un po’ proibiti, di piccoli fatti significativi: una ragazza che non ama i colori ripercorre la trama della sua vita in bianco e nero con l’uomo da cui poteva avere un figlio, un musicista che non ama la mondanità si reca a una cena affollata con la speranza di trovarvi la donna amata … Il finale dei racconti talvolta riscatta le cupezze e le conflittualità del nostro tempo e pare ristabilire una possibile lettura positiva dei segni del mondo. A volte ci si imbatte in momenti anche scomodi, in sgradevoli disvelamenti di debolezza, come il fragile legame fra due fratelli messo alla prova dalla spartizione di un’ eredità dopo la morte del padre, in lontane memorie di infanzia, quella di un bambino che ferisce con un paio di forbici la compagna di scuola. Storie, come quest’ultima, vogliono far luce sul mondo dell’ infanzia e dell’ adolescenza e aiutare chi non è più ragazzo a ricordarsi di quell’ età per comprenderla e rispettarla. Un modo più immediato e meno sterile per unire le due età. 

Dai racconti emerge un continuo scavare, che a tratti può sembrare eccessivo, un volere trovare a tutti i costi qualcosa da evidenziare, da segnare col dito, perfino nella più anonima delle esistenze. Ma è questo il bello dei racconti di Chiara Tozzi. L’autrice non va alla ricerca di drammi, di avvenimenti eclatanti. In ogni suo racconto c’è una lente di ingrandimento, un caleidoscopio di umanità. Non ci sono mai le frasi definitive, quelle frasi, cioè che sembrano voler racchiudere tutto il significato dell’esistenza. Nel suo mondo letterario c’è soltanto spazio per incursioni rapide ed efficaci, nella vita per quello che è adesso e qui, nei perché e nei modi di manifestarsi dello spirito vitale dei suoi personaggi, che pur nella loro differenziazione hanno un comune denominatore, quello di essere molto umani. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pag. 52.