CAMILLA SANTORO, Io parlo italiano, collana «Memorie / Testimonianze», I.l.a. Palma, Palermo, 2003.

Una esperienza didattica emozionante nella testimonianza di Camilla Santoro 

«Educare – scriveva Platone – vuole dire resuscitare esistenze morte ed aiutare a nascere esistenze, nasciture, indurre l’altro alt’ auto-educazione per entrare nella realtà piena di se stesso». L’ultimo racconto di Camilla Santoro rappresenta la metafora del genere umano che spazia, nella sua molteplice diversità, alla ricerca della luce, la luce di una cultura che accolga tutti all’insegna dell’appartenenza alla «famiglia umana » quale parte insostituibile del tutto. 

È quasi un romanzo denso di emozioni, che descrive un’esperienza didattica di laboratorio teatrale nel grigiore di un’aula del «profondo Sud», con lo scopo di proporre una riflessione sulle possibilità e modalità di partecipazione di insegnanti e studenti alla gestione della vita nella classe come comunità sociale. Protagonisti gli studenti di un ipotetico gruppo-classe, accomunati da un potenziale di umanità, che se da un lato ne scopre la fragilità, dall’ altro ne potenzia la forza nel valore «solidarietà» ritrovato grazie al credo e al potenziale volitivo della giovane insegnante Adriana, pronta a favorire l’autonomia personale, l’autostima, l’acquisizione del sé e l’appartenenza ad un gruppo con le sue regole e le relative responsabilità. 

L’esperienza di Adriana fornisce, nel suo semplice percorso, validi spunti di riflessione. Attraverso la rappresentazione teatrale della pirandelliana «Giara», che ha il potere di avvicinare i giovani al piacere della lettura e alla personale rielaborazione del sapere, propone ai suoi studenti di riappropriarsi dell’ orgoglio della identità nazionale, che viene evidenziato da ognuno, anche da Filippo, portatore di handicap, nel tentativo di usare correttamente la lingua italiana. Ne consegue l’abbattimento dei separatismi che hanno spesso afflitto i ragazzi dal Nord al Sud e, in un momento ormai plurietnico, il riappropriarsi della lingua comune rafforza la loro identità. 

L’esperienza di laboratorio teatrale e l’accuratezza nella scelta dei ruoli da interpretare rappresenta, per gli studenti, una delle rare occasioni per esprimere liberamente il proprio io, «un io che spesso non ha la capacità di rivendicare il suo semplice diritto all’ esistenza, ad uno spazio vitale che lo vedesse indiscusso attore della sua vita»; come nel caso di Filippo che, sia pure con una minima particina, riesce a sentirsi, finalmente, integrato nel gruppo-classe e a trovare espressione di sé nell’uso della varietà dei colori. L’aula diventa, così, una sorgente di identità, il luogo della civile convivenza e del reciproco arricchimento, in cui «l’io esisto» trova riscontro e nutrimento nel mondo relazionale del gruppo-classe. Uno spaccato della società che abbraccia un mondo variegato e multirazziale e che fa intravedere, grazie alla ritrovata umanità, la speranza nel domani. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 57-58.




BIAGIO SCRIMIZZI, ViZiai supra ‘na nuvula, Ila Palma, Palermo, 2007. Prefazione di Pino Giacopelli.

La capacità espressiva del dialetto e la poesia di Biagio Scrimizzi 

Biagio Scrimizzi, programmista-regista alla Rai, autore di testi radiofonici e televisivi, ma soprattutto poeta innamorato della parola e affascinato dal ritmo, ci conferma con questa silloge la capacità del dialetto di raccontare ed esprimere, in modo autentico e persuasivo, mondi geografici e interiori. Ci si chiede allora: ma di che cosa parlano queste poesie? L’uso del dialetto potrebbe, infatti, fare pensare a descrizioni ed evocazioni di luoghi, storie, sentimenti radicati nella Sicilia di Scrimizzi. Invece no. O meglio, sì ma in misura assai contenuta. I temi su cui sono prevalentemente incentrate queste poesie sono la natura, gli affetti e i ricordi, la personale visione del mondo del poeta. A una prima lettura ci si rende conto che il poeta va diritto al cuore dei sentimenti universali di ogni tempo; va oltre i confini del luogo natio senza prescinderne, senza abbandonare il viatico materno, primigenio, la salda piattaforma da cui scrutare e leggere il mondo, esprimendolo e infine comunicandolo. Un mondo ampio, perciò, e un dialetto che ci conduce nella lingua transazionale della poesia. Lo sguardo al cielo, all’orizzonte (i versi di questa silloge sono ali di vento, nuvole) potremmo anche dire, e i piedi ben piantati in terra: la stessa che lo ha originato e nutrito. 

Qua e là, poi, oltre a un susseguirsi di immagini e colori di suoni, scenari naturali colti nella loro dinamicità, nel poeta si fa largo quel filo allusivo a lui così congeniale, con cui riesce a stabilire un vincolo affettivo di comunicazione con gli altri. Ne sono spia testi come funci l’autunnu, Unni li to paroli, Aprili chi mori, La cannata tu sì, dove con una concentrazione straordinaria, la condizione umana ci viene offerta con una intensità poetica e figurativa raggelante e sublime al tempo stesso. 

La scrittura di Scrimizzi è sobria ed essenziale, vi s’intuisce un lungo lavoro di selezione e sottrazione; la sobrietà dei versi sembra rispecchiare quella del poeta, il suo forte senso etico, qua e là affiora, parimenti a una serietà di fondo che nasce, probabilmente, più da un sentimento tragico della vita che da un senso ilare o gioioso. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 61-62.




ANNA MAIDA ADRAGNA, Spremute di limone. I racconti di Vallebianca, collana di narrativa «Meridiana», I.l.a Palma, Palermo – Sao Paulo.

«Si cunta e si raccunta» e il lettore diventa personaggio del racconto 

«Si cunta e si raccunta …» è il refrain di un nuovo libro della scrittrice palermitana Anna Maida Adragna, che ha già al suo attivo, come poetessa, ben dieci pubblicazioni. 

Spremute di limoni, questo il titolo della raccolta di racconti che presentano con sapiente ironia uno spaccato di vita vissuta a Vallebianca, borgata immaginaria di una città mediterranea, caratterizzata da una intensiva produzione di agrumeti, in un arco di tempo che risale fino ai primi del novecento. Sono trentacinque racconti straripanti di sicilianità. 

Basta aprire a caso una pagina di questo volume ed ecco diffondersi un gradevole profumo di limone, protagonista sempre implicito, spremuto con mani abili e affabili, che riproduce metaforicamente, essendo tra gli agrumi quello che produce contemporaneamente frutti e fiori in tutte le stagioni, un percorso all’indietro che si rinnova nello scorrere del tempo e della memoria. C’è il ritorno ai gesti semplici che fanno grande la vita, filosofia genuina alla base della felicità a cui ambisce ogni creatura umana. 

Basta pensare alla serenità di Saro e Giovanna, i due coniugi che in modo più o meno diretto sono i veri protagonisti dell’intera raccolta, presentati come i due autentici supervecchi contenti e felici anche della loro età avanzata, perché «vuoi dire che non siamo morti giovani». Le loro vicende si intrecciano, in un carosello di situazioni sempre efficacemente delineate in chiave satirica, a quelle di personaggi senza dubbio originali, come ad esempio lo stravagante Tano, debole di mente, guarito grazie alla misteriosa sparizione di un orologio. 

Il racconto per Anna Maida Adragna ha una forza liberatrice e purificatoria, e trova la sua più perfetta espressione in una prosa poetica leggera ed elegante, dove tutto non è quello che sembra e dove l’epilogo si trova solo alla fine del viaggio. È la «storiella» che si raccontava un tempo, seduti a tavola, provando meraviglia, ansia, sensazioni : «Le risate allora costavano poco e condivano riccamente lo scorrere del quotidiano.» Echi lontani di memoria, frammenti di un vissuto personale che generosamente l’ autrice ci regala, conducendoci nei salotti di un’altra epoca, dove odori e sapori si fondono in una perfetta sintesi, dove tenui colori di vita ne compongono un quadro dolcemente pieno di emozione. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 55.




ANNA BELLINA ALESSANDRO, Diario impertinente, collana di narrativa «Meridiana», Ila Palma, Palermo, 2007. 

 Questo Diario impertinente è la quarta prova letteraria di Anna Bellina Alessandro, già autrice delle sillogi liriche Anna e Anna (a due voci, con la Maida Adragna), Ho toccato la corda pazza dell‘amore, e di una raccolta di poesie in dialetto siciliano, Caminu di la vita. È un diario scritto in punta di penna, in uno stile lineare, semplice e al tempo stesso raffinato, intimo ma anche razionale, che incuriosisce, intriga, fa riflettere e apre al dialogo. 

Fin dalle prime pagine, colpisce lo sforzo di ricordare, di non voler dimenticare nulla: felicità, attese, gioventù,sorrisi, emozioni, morte e pianto; e ancora, come sostiene l’autrice, abbracci e qualche schiaffo che la vita le ha dato. Tutto custodito come in uno scrigno prezioso segretamente chiuso che ora l’autrice apre al lettore per condividere «i cari anni della sua infanzia; anni insostituibili, impareggiabili: sono i giganti immobili del suo pensiero, il rifugio, il relax, il pozzo incantato da cui attingere acqua limpida, mani fresche da poggiare sulla fronte che scotta». 

C’è, in questo Diario, l’autrice bambina, vagabonda del pensiero, che guarda il mondo con gli occhi curiosi e attenti, con la disinvoltura frutto di una felice ingenuità, con l’anima lieta e gioiosa delle cose semplici e belle, con il coraggio di affrontare situazioni di ogni tipo. C’è la donna che inizia a capire che la vita è tutta un senso, il senso di viverla in tutti i suoi passaggi, il senso dato dall’amore che lei definisce «il contagio sano di un sentimento, che ha un’immunità ben delineata». Quell’amore puro e semplice fatto di calorose e piacevoli lettere ora sostituite dagli sms sterili e freddi, privi d’attesa, orfani di personalità. C’è ancora la moglie che si scopre a volte impotente e sconvolta, la mamma che si sente indifesa da un mondo ora pieno di indifferenza, ma non smarrita perché comunque la «vita rimane così bella e con amore la voglio possedere follemente, pur sapendo che da ogni finestra non si può vedere tutto un panorama. Mi accontento di ciò che possono guardare i miei occhi sempre bruciati di amore per il bello». C’è anche la nonna preoccupata per i giovani che rifiutano sia la realtà che i sogni e ancora più tristemente la speranza. 

L’autrice ci porta ad acute riflessioni sui valori attuali; un mondo sfasciato, fatto di invidia e distruzione, indifferenza e ignoranza, che l’autrice definisce una cella la cui chiave si è perduta. Quale allora la chiave per aprirla? Bisogna, dice la Bellina, recuperare la coscienza, perché è proprio la carenza di questo dono che ci ha traditi, annullandoci. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 60-61.




A.N.F.E., Lettera a un detenuto, «Documenti di lavoro / 1», a cura di Uliano Greca, I.l.a Palma, Palermo, 2007.

Alunni delle elementari di Enna a colloquio coi carcerati 

Questo volume raccoglie le lettere degli alunni delle IV e V classi delle scuole elementari di Enna scritte in occasione del concorso «Lettera a un detenuto», una fra le tante iniziative varate dallo Sportello multifunzionale operante, nel 2006, all’interno delle Case circondariali di Enna, Nicosia e Piazza Armerina, con lo scopo di fornire un servizio di informazione e orientamento al lavoro per i detenuti. Gli alunni, in occasione delle feste natalizie, hanno avuto 1’opportunità di rivolgere un pensiero spontaneo a quanti si trovano dietro le sbarre, diventando loro «amici di penna». Certo chi sta dentro non è un santo, altrimenti si troverebbe altrove, ma per la gente è difficile capire che i detenuti sono persone nonostante abbiano subito condanne, anche lunghe, da scontare. 

Potere essere in contatto con altre persone esterne è sicuramente un modo per uscire dal muro dei soliti ragionamenti. Perché, se dall’ esterno è difficile capire cosa accade in cella, da dentro è altrettanto complicato avere una visione di ciò e di chi sta fuori. Un muro simbolico che si aggiunge a quelli fisici e rende ancora più complicato il reinserimento di chi, avendo finito di scontare la pena, cerca di reinserirsi nella società. Problema che le istituzioni non hanno ancora seriamente affrontato. 

Le lettere sono state giudicate da una commissione di esperti e le migliori sono state premiate, ma nel volume sono riportate tutte le lettere, perché tutte sono meritevoli di essere ricordate; tutte lanciano un messaggio di solidarietà e disponibilità al perdono e rilanciano un messaggio fondamentale. Insomma, alla luce di un’ esistenza che non deve essere vista solo nell’ottica della produttività, è necessario coscientizzare, è essenziale, oggi più che mai, che gli studenti, sin dalla tenera età, posseggano una cultura «umanitaria». Le iniziative svolte nel campo scolastico devono essere incoraggiate; servono a sensibilizzare le nuove generazioni alla solidarietà, alla civile convivenza e al reciproco arricchimento, concretizzando il principio della solidarietà umana, della «responsabilità sociale». 

Angela Maria Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 58-59.




Le donne della poesia

Il curatore di questa Antologia, Domenico Cara, studioso d’Arte e di Letteratura, raccoglie il lavoro poetico di poco più di un centinaia di poetesse, una centuria di scrittrici in qualche modo etereogenea, ma in cammino verso un’elaborazione di pensiero che dal greto di un’esistenza perversa a volte urla la sua sete di trascendenza e di sogno. Pur nella diversità degli argomenti e delle occasioni, dirò meglio, del proprio spazio-tempo, alla fine tutto si coagula in una richiesta d’amore, dove l’armonia d’amore è la fiaccola tesa più che mai al cuore femminile. Anche se l’amore si aggira ancora circospetto nei residui e teme la rima con il cuore in una sorte di virilità violentata, è già nel segno di un superamento riparatore, sul bilancio soppesato delle pulsioni oltre il femminile. 

Il pensiero inevitabile per servire l’idillio, nonché il fatiscente per sperimentare la capacità di rinnovare i registri e le manifestazioni di stile della scrittura, si fa canto, cauto e riflessivo al massimo. 

Da un campo minato si muovono le disuguaglianze rivelatrici di una meta di avvicinamento comune in quanto il dire poetico punta sempre su una verità annunciata nell’intimo di ogni creatura. Questa Antologia giunge dopo l’emblematico periodo femminista – e cerca di captare oltre il femminile – il nuovo senso dell’epoca decorticata di valore per redimere il silenzio dal rumore, le compronùssioni aspre dal quotidiano, oltre l’urto con il mondo rifiutato, con la passione dichiarata per l’estasi silenziosa. 

Il sogno è di inseguire l’inquietudine come “l’arte alla luce della coscienza ritrovata: – tu l’afilato,/l’audacia, l’eterno” (A. Santoliquido). Ecco, diciamolo pure chiaro e forte, oltre la nebbia degli indifferenti la donna poeta ha fatto tesoro della propria storia occulta nel processo restaurativo della sua creatività. Nell’equilibrio della ricerca c’è la donna amazzone di Maria Grazia Lenisa che mette in guardia la fanciulla dalle penne d’oro e turchine: “La donna è senza terra, dovrà / andare oltre davvero il potere delle nuvole, oltre la tela… ” (pag. 139). “Preparammo forse il nuovo tempo, l’uscita /tra i corvi con molte fionde, con gridi, colori / e l’appuntita intelligenza”. Nella catarsi docile di Helle Busacca: “La fiumana / di ombre indistinte e incolori su cui si spiana il silenzio” e di Liana De Luca: “La morte della morte nella morte / la morte per unica sorte” (p. 50), si innesta la riflessione dell’uomo e la sua effimera fragilità. 

Maura Del Serra così conclude una poesia: “… ebbi per madre la piaga di tutti/e per figlio illegittimo il veggente dolore” (pag. 46). 

Concludiamo anche noi con due versi della già citata Anna Santoliquido: “ho solo frammenti di mia madre/ vivrò per ricomporli …” 

Tutte alla ricerca dell’oltre della pura contingenza fisica per assurgere al mondo dell’assoluto dove le vibrazioni dell’essere si accordano all’armonia dell’universo, con le nostre piccole schegge luminose vaganti e pulsanti in quell’altrove per ricongiungersi nella defluente unità del tutto. 

Se ciò era da mettere in evidenza secondo le intenzioni del curatore, è qui testimoniato con somma trasparenza dai molti nomi illustri o appena esordienti: allora accettiamo come – oltre il femminile o l’oltre il maschile – nulla è più confutabile nello scambio complementare di trasalimenti sia pure “con la fatica di scaldare il gelo in ogni dove ristagni l’ombra”. 

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 77-78.




FRANCESCO GRISI, La poltrona nel Tevere, romanzo, Rusconi, Milano, 1993.

Uno degli ultimi romanzi di Francesco Grisi, poco prima della sua immatura scomparsa, La poltrona nel Tevere è in pratica la prosecuzione di Maria e il vecchio, pubblicato nel 1991. 

Personaggio eclettico, quasi vulcanico, Grisi ha avuto ed ha molteplici interessi: narratore, critico, saggista, pittore, già docente nei licei e assistente di Giacomo de Benedetti alla cattedra di Letteratura italiana contemporanea, grande viaggiatore; come scrittore si può definire toco (come direbbe Cernetti) in quanto sa dare come pochi luce alla pagina e la sua scrittura si distingue per forza e potenza. 

La poltrona nel Tevere è un’opera di narrativa particolare; presenta cultura seria ed elaborata, ha singolarità di taglio, vigoria immaginativa, fervida ed allucinata fantasia e il supporto primario della memoria. Nel suo Diario Guido Morselli notava che «la memoria è una cosa con la fantasia. Ricordare è credere. E la memoria in noi è continuamente attiva oltre che spontanea. In questo senso la vita nostra si intesse di poesia, cioè di sentimento. Dunque il tessuto è dato da un intreccio di reminiscenza». Nel romanzo primeggiano memoria e fantasia e l’opera è un intreccio di reminiscenze (impasto, dice l’autore). La pagina è illuminata da irradiazioni che provengono dal ricordo che Grisi espone’ con stile inconfondibile e tetragonamente anticonformista. Va detto che il romanzo richiede una lettura attenta e lo stesso autore avverte in prima pagina che ha bisogno della collaborazione del lettore: «La mia vicenda è vera anche se sarà vissuta dal lettore.» 

La stessa vicenda è raccontata in prima persona da un postino, Francesco, laureato in Lettere, che ha scelto quel mestiere vuoi per pigrizia, vuoi per l’aspirazione di tanti italiani a diventare statali. Viene coinvolto da un deputato che saluta col roboante quanto decaduto «Avanti popolo alla riscossa». È indotto a violare il segreto postale, aprire con un marchingegno le lettere che il presidente, uomo di potere, fulcro del romanzo, riceve da brigatisti, dai quali era stato catturato e poi inspiegabilmente rilasciato con grande raccapriccio degli avversari politici. Ora riceve lettere dai brigatisti e il partito del deputato, che teme e odia il presidente, intende controllare la corrispondenza, sicché il postino viene invitato (e corrotto) ad aprire la corrispondenza inviata al presidente, fotocopiare le lettere, consegnarle al suo committente e poi, ricomposte, portarle al destinatario. 

Questo è l’avvio del romanzo. Il 2 di aprile, giorno di San Francesco di Paola, segna l’inizio delle reminiscenze. Il postino ricorda la natìa Calabria, il suo mare di un azzurro intenso e rievoca il miracolo del Santo che traghetta lo stretto di Messina a bordo di un mantello. Di reminiscenze il lettore ne troverà molte e sono talmente bene inserite che non turbano lo scorrere della vicenda anzi l’arricchiscono o la rendono affascinante. 

Tra i personaggi, vibra di lucentezza la terrorista Cristiana, vestale di una lotta che passava per la politica, donna visionaria e passionale che lotta con tenacia pur conscia che la partita è persa. È lei che indirizza missive al presidente, per il quale 

sente molta ammirazione. E le pagine di Cristiana sono tra le più calamitanti del romanzo. Il presidente – facilmente riconoscibile – è il perno della vicenda; rapito, affascina i brigatisti con la sua dialettica e con la forza della ragione, e viene liberato con sorpresa dei vari politici. 

Qui Grisi inserisce un dialogo tra il presidente, che liberato s’avvia verso casa e attende l’autobus, in piazza Venezia, e Mussolini che s’affaccia al fatidico storico balcone. È un dialogo serrato, imprevedibile, che ripercorre parte della nostra storia. Dopo un certo periodo di libertà, il presidente viene rapito nuovamente e finisce con lo scomparire su una poltrona che veleggia sul Tevere. Accanto al postino narratore la madre, vecchia e malata che inventa sogni profetici, attraverso i quali richiama storia recente e passata e non manca di cantare «Casta diva», «Giovinezza», «Volare». Infine, Chiara, dolce compagna del postino. 

Semplice a grandi linee, il romanzo trova il suo epilogo nella scomparsa del presidente, nella cocente sconfitta del brigatisti, nel crollo delle loro utopie e la morte della vecchia madre. Ma alla vicenda Grisi, con una tecnica tanto abile quanto valida, inserisce personaggi del passato, come se fossero tuttora viventi. Con un fare di stampo poundiano, divaga, discetta, medita, richiama personaggi del passato che rivivono, come se fossero protagonisti, con tutti i connotati di bene e di male. Con una tecnica innovativa, fantasia fervida e allucinata, lo scrittore analizza (inserendo sapientemente i dialoghi) temi e problemi che ancora ci fanno giungere il loro riverbero. E l’ analisi è condotta con intenti anagogici e gnomici. 

«Se c’erano i Tedeschi da una parte e gli Alleati dall’altra, è anche vero che c’erano gli Italiani che si uccidevano. È mai possibile che due ideologie in contrasto abbiano fatto dimenticare la fratellanza, la famiglia, l’idea comune di patria?» E ancora: «La guerra santa è l’unica frontiera che unì gli Arabi. Il nemico è anche Israele ma il vero demonio sono gli Americani e i Russi che non hanno religione. Operano per politica o per economia. Svincolati dalla religione, sono i figli del male. Non credono neanche nella libertà. Anzi si servono di questa parola magica per comandare e dividersi il mondo.» Di queste considerazioni – che hanno valido fondamento e mostrano la perspicacia dell’autore – il libro è zeppo, talché si può affermare che il romanzo è a un tempo storia, disputa filosofica, meditazione cristiana, teologia, analisi psicologica, sottilissimo gioco di ironia che Rilke avrebbe definito pura parènesi. 

La scrittura ha unità di tono, qualche varietà di lessico (sono inseriti frasi dialettali, strambotti, storielle), è glabra e il periodare, generalmente breve, è incalzante. A nostro avviso il romanzo è un invito all’unità e alla concordia, presenta una sorta di filosofia dell’amore, e contiene un messaggio di grande valore: la fratellanza umana è riscattabile soltanto da un anelito verso l’Altissimo 

perché la vita è viaggio che si conclude con la morte che unica consente la resurrezione. («La morte è un vivere», scriveva Holderlin.) 

Al di là della splendida indovinata allegoria sul potere, l’opera di Grisi è anche atto di fede nella storia, se la storia è esaminata senza spirito di parte o senza travisamenti, oggi frequenti. Come è scritto nel risvolto di copertina, «sarà il senso dell’immortalità la resurrezione, promessa dal figlio di Dio, ad offrire una possibile risposta alla domanda che il postino ripete a se stesso: “Perché la terra è così bella e atroce?”» 

Salvatore Arcidiacono 

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 43-45.




SABINA CARUSO, Sale cinematografiche a Palermo. dalle origini al 1953. Campo, Alcamo, 2007.

I luoghi di uno spettacolo che fiorì a Palermo nella prima metà del ‘900 

Questo libro, oltre che studio storico-architettonico delle sale destinate a cinema, dalle origini a metà degli anni ’50 del ‘900, sembra dare l’idea di un documentario-manifesto per rilanciare, con la rievocazione degli anni d’oro del cinema, l’interesse per questa forma di spettacolo. Il cinema, infatti, ha esordito a Palermo in un momento in cui la città viveva un periodo felice, grazie alla forza trainante della dinastia FIorio che, coinvolgendo l’imprenditoria locale e straniera, aveva risollevato le sorti dell’intera isola, facendo del suo capoluogo una capitale dal respiro rrlltteleuropeo: Floriopoli. 

L’atmosfera brillante della Belle Époque favorì più che altrove il veloce attecchimento del cinematografo, che entrò nelle abitudini dei palermitani modificandone gli stili di vita. Il fenomeno si protrasse anche dopo il declino dei Florio e la grave crisi economica, sociale e culturale che investì la Sicilia a ridosso del primo conflitto mondiale. 

L’evoluzione di una tipologia architettonica per i cinematografi, messa a punto nel 1913-1925, rispecchia il perdurante entusiasmo di quegli anni alimentato da una committenza privata lungimirante (Biondo, Finocchiaro, Utveggio, Bonci, Mangano, per citare i più rappresentativi) che seppe intuire la forza di espansione di questo mezzo di comunicazione e vi investì risorse per assecondare le istanze di un pubblico sempre più esigente e numeroso. 

I progetti per le sale cinematografiche vennero affidati alle firme più prestigiose dell’ epoca, a cominciare da Ernesto Basile che, col Kursaal Biondo, cominciò ad allontanarsi dallo schema del teatro ottocentesco, ponendo le premesse di una ricerca tipologica atta a connotare questi edifici sia strutturalmente sia per il linguaggio architettonico. 

Passare in rassegna attraverso documenti fotografici i vari locali dall’origine sin quando televisione e discoteche ne hanno contratto la frequentazione assume un doppio significato: da una parte far rivivere le immagini di quella che può definirsi un’epopea che ha caratterizzato la nostra storia urbana; dall’altra indurre riflessioni sulla necessità di recuperare quel che resta di un patrimonio storico-culturale che rischia di disperdersi per incuria o disinteresse. Ne ricordiamo i nomi più rilevanti: 

Gran Salone Biondo – Teatro Olympia – Kursaal Biondo – Cinema Excelsior, – Palazzo-Cinematografo Utveggio – Palazzo- Cinema Massimo – Palazzo Finocchiaro – Supercinema – Cinema «II Modernissimo» – Cinema Imperia – Cine- teatro Diana – Cinema Orfeo – Cineteatro Dante – Ci ne-teatro Colajanni – Cinema-teatro Arena Trianon – Cineteatro San Lorenzo – Cinema Gaudium – Cinema Astoria. 

Oltre il profilo architettonico, lo studio ha contestualizzato la società dell’ epoca e i suoi rituali mondani, di cui il cinematografo divenne il luogo più rappresentativo. 

E opportune ci sono parse le rievocazioni di vari interventi nella produzione cinematografica di alcuni gestori e architetti, come Paolo Bonci e Raffaello Lucarelli. 

Per completare il quadro, ricordiamo le principali sale di spettacolo. 

Agria Bellina

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 57-58.




 Giuseppe Palmeri, Giornali di Palermo. Settimanali d’opinione dal dopoguerra agli anni ’80, Ila Palma, Palermo. 

 

Giuseppe Palmeri nei Giornali di Palermo, tra un gelato di scorzonera e cannella sotto le Mura delle cattive, le stigghiole arrostite dello Spasimo e della Kalsa e i primuneddi salati, descrive in maniera puntuale gli odori ed i sapori della sua città, nel trentennio successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Partendo dalle bombe che hanno devastato Palermo nel 1943, passando poi al dopoguerra e all’autonomia siciliana e finendo con la rinascita della città ed il boom edilizio incondizionato, l’autore crea una breccia nella realtà politico-culturale del capoluogo siciliano. Interessante soprattutto il modo in cui Giuseppe Palmeri incrocia la descrizione dello stato in cui giace la Palermo del dopoguerra alla carta stampata locale del periodo; si sofferma soprattutto su I vespri d’Italia (1949-1963), Semaforo (1961-1964), La Rivolta (1965-1968), Il Domani (1957 1985) e Voce Nostra (1968-1980), emblemi di un giornalismo politico palermitano libero e spontaneo. La prosa di Palmeri è quindi una lettura educativa, oltre che piacevole, perché permette di capire, attraverso i suoi settimanali di opinione, una parte importante della storia della città di Palermo in un periodo in cui, secondo l’autore, si predilige «clientelismo, particolarismo e spreco di risorse». 

Agria Bettina

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 56-57.

 




Un poeta fertile e di rara sensibilità

Un poeta fertile e di rara sensibilità  

Giovanni Monti, con il suo A due voci, in poche pagine riesce ad emozionare ed a creare nello spirito del lettore un varco, quel «qualcosa» che fa riflettere sulla vita, sulla morte ed in generale sull’esistenza. 

Il testo è un’unica poesia, anzi un poemetto, di colloquio con il padre malato; un discorso silenzioso, impercettibile con cui sembrano darsi l’addio. 

Versi semplici sia nel linguaggio che nello stile ma che creano un contenuto ricco e denso di significati profondi, di emozioni contrastanti che lasciano un segno nel lettore. 

Poco altro resta da aggiungere sulla raffinata prosodia di Giovanni Monti, se non l’invito a leggere A due voci non solo con la mente ma soprattutto con il cuore ed a lasciar penetrare nel proprio spirito la dolcezza e insieme l’amarezza dei suoi versi. 

Bettina Agria

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 63