Tahar Ben Jelloun, L’enfant de sable, édition du Seuil, Paris, 1985, pagg. 209. 

 Tahar Ben Jelloun, premio Goncourt 1987 per La nuit sacrée, che è la continuazione de L’enfant de sable, in questo romanzo tocca veramente il cuore degli uomini e fa riflettere, lasciando l’amaro in bocca, proprio di chi si rivolta contro il destino. 

È la storia di un padre che, dopo sette figlie, desideroso di avere un erede, decide forzatamente che il prossimo figlio sarà un maschio. Il destino sembra accettare la sfida. Il bambino nasce, ma è una femmina. Hadj Ahmed, così si chiama il padre, complici la moglie e la vecchia governante, annuncia e pubblicizza, tramite giornale, la nascita del desiderato figlio maschio. Sarà una persona che conosce il diario segreto del figlio Ahmed a rivelare l’esilarante verità di una vita così provata dal destino. 

Jelloun dimostra di conoscere bene l’animo umano, scandagliandolo nei suoi angoli più riposti. Il suo è un romanzo di scavo, il cui protagonista è combattuto continuamente dal ruolo che gli è stato imposto e dal suo vero sesso. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pag. 66.




Sempé – Goscinny, Il piccolo Nicola (a cura di S. Vecchio), Coppola editore,  Trapani, 1989, pagg. 194. 

Il titolo originale del libro è Le petit Nicolas. pubblicato nel 1960 dalle Éditions Den6el, e la traduzione italiana è di B. Cardoville. Gli autori sono due noti umoristi francesi: Jean-Jacques Sempé e René Goscinny. 

Il libro viene proposto come testo di narrativa nelle prime due classi della scuola media. È di piacevole lettura ed è interessante anche per i grandi, perché ha in sé certe verità che vanno attentamente meditate e prese in considerazione. 

Nicola, che è l’io narrante del libro, sotto forma quasi di diario, annota tutto quanto gli capita in classe e fuori. E riferisce con la spontaneità propria di un fanciullo che, se inizialmente fa ridere, lascia poi disorientati e fa riflettere. 

Vengono affrontati diversi temi (rapporto tra padri e figli, la famiglia, la scuola, l’amicizia, …) e sono di grande interesse, perché al centro vi è l’uomo con tutte le sue sfaccettature, c’è la società odierna con le sue contraddizioni, la negatività, e c’è anche il sotteso desiderio di volerla migliorare. 

Il libro è corredato dagli stessi disegni originali e da un’appendice di schede che ne facilitano la lettura e l’approfondimento linguistico-riflessivo. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 66-67.




Salvatore Di Marco, Sopra oriva la ginestra. Alessio Di Giovanni e la Sici- lia delle zolfare, Palermo, Nuova Ipsa Ed., 2006.

Salvatore Di Marco, Sopra fioriva la ginestra. Alessio Di Giovanni e la Sicilia delle zolfare

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 57-59.




Nello Sàito, Gli avventurosi siciliani, Matelica (Mc), Hacca ed., 2010.

Per la Sicilia col cuore e con la mente 

Nello Sàito (di origine siciliana, nato e morto a Roma, 1920-2006) è tra noi, e la sua presenza si vede e si tocca con mano, forse più di quando era vivo, perché lui, da uomo libero, per dire ciò che pensava senza condizioni, non era ben accetto e i suoi scritti erano rifiutati. Egli è presente e continua ad operare e a guardare le cose del mondo e della Sicilia e per essa agire col cuore e con la mente attraverso le sue opere che stanno vivendo un’assolata stagione. Già era stato ripubblicato, qualche mese dopo la sua morte, nel 2006 (il nostro rammarico fu che non poté vederlo nella nuova veste editoriale), Il pinocchio studioso, ed ora è la volta del suo secondo romanzo, Gli avventurosi siciliani, per i tipi di Hacca ed., che evidenzia ancora il Sàito estroso e anticonformista nella vita come nell’arte. 

Questo romanzo fu pubblicato nei “Gettoni” Einaudi, diretti da Vittorini, nel 1954, negli anni in cui il neorealismo cercava nuova linfa per rendere più incisivo l’apporto della letteratura nella società Nello Sàito va oltre le tendenze e continua la sua ricerca iniziata con Maria e i soldati (1948) nel segno della razionalità che vede l’uomo più orientato ad affermare la sua lindura morale piuttosto che a cadere nelle maglie di un malcostume rapace. 

Gli avventurosi siciliani fu subito salutato dalla critica (G. de Robertis, N. Gallo e altri) che, pur riconoscendone i meriti, non condivise le scelte dell’autore. De Robertis parlò di uno stacco tra la prima e la seconda parte, mentre Gallo di essere incappato nella «raffigurazione, tra il simbolo e la favola, di una mentalità e di un paese». La realtà è che molti critici si trovarono spaesati dinanzi all’esuberanza del giovane Sàito. 

Strutturato com’è il romanzo, è facile giungere a siffatte conclusioni, e Sàito lo sapeva bene fin dall’inizio, dal momento in cui si prefisse di parlare della Sicilia da due angolazioni diametralmente opposte: una dall’esterno, ed è la solita retorica campanilistica di chi da lontano (l’avvocato Pennisi e l’esportatore Petralia) con nostalgia reclama la sua terra, dando sfogo al sentimento e risolvendo tutto nel mito (i discorsi che questi personaggi fanno sul treno, il dirsi e sentirsi siciliani, il loro muoversi e agire), nel parodistico e nel comico, senza avvedersene. L’altra angolazione riprende la Sicilia dall’interno. Qui non c’è posto per la retorica, tanto meno per i sentimenti che sono quasi repressi, perché tutto è abbrutito dalla misera quotidianità del vivere che non dà scampo alla povera gente costretta a vendersi più che a lavorare dignitosamente. Ed è la Sicilia del sopruso, dove i prepotenti o detengono il potere o fanno lega con quanti lo esercitano. 

Sàito ha sperimentato a spese sue questi sentimenti e ne soffre, perché sa che a niente portano i tentativi dei singoli, se non c’è la volontà di cambiare le cose. Questa intima sofferenza è nella pagina e, al di là delle apparenze, s’intravede come in filigrana, grazie ad una scrittura ben dosata e ad una presenza vigile, eppure discreta e mai invasiva. E come Silvestro in Conversazione in Sicilia, Fulvia, la protagonista, esprime il suo stato d’animo e – come scrive N. Borsellino -, cogliendo nel segno il senso del romanzo, «evidenzia il contraddittorio rapporto di attrazione e rifiuto dello stesso scrittore verso l’isola e la sua realtà ambientale». 

Il viaggio, tante volte intrapreso dal nostro autore per o dalla Sicilia (Dentro e fuori, 1970; Una voce, 2001), ha al suo centro la Sicilia con l’amore e l’odio propri di chi vorrebbe che la sua solarità non contrasti con la triste realtà della gente; quindi, un viaggio d’amore ma anche di delusione nel constatare con amarezza che dopo anni di assenza niente è cambiato nella sua terra. E quando, per bocca di Pennisi, afferma che «la Sicilia è un paese avventuroso», dice la verità perché non ha potuto essere altra, ed è stata sempre bistrattata terra di conquista (ultima quella piemontese), e non si è mai realizzata come avrebbe potuto e dovuto. La realtà è che la Sicilia è sfuggita di mano ai Siciliani (Sàito lo ribadisce) e non resta loro che darsi all’avventura. Il viaggio ne Gli avventurosi siciliani di andata e ritorno, Milano-Trapani con soste a Napoli e a Palermo, è fatto dalla giovane Fulvia insieme con Pennisi e Petralia, due casuali amici che, per attirarla a sé mettono in campo la loro estrosità evidenziando così la loro sicilianità. Ma se esso si svolge nel segno di un’esaltante euforia, l’arrivo a Trapani segna il cambio di registro che apre al drammatico e anche al tragico, quando la morte di un salinaro scatena una rivolta che fa presagire il peggio. Ed è allora che Fulvia rigetta quel mondo e progetta la fuga. 

Fulvia-Sàito getta la spugna per cadere nella sfiducia? Niente affatto, anzi sceglie la denuncia contro uno Stato latitante, perché si metta dalla parte della gente e una volta per tutte renda giustizia delle inconcludenze e dei tanti problemi ultrasecolari irrisolti. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg.  54-56.




M. Caruso, Il ladro di sogni, Roma, E.I.L.E.S., Pagg. 126.

 Con Il ladro di sogni Mario Caruso chiude la trilogia dei suoi romanzi. Se con Il balcone del professore Agostino Vicoplato certi luoghi comuni sono condizionanti della vita umana, se ne L’ascensore di Cartesio il dubbio vitalizza la nostra esistenza, ne Il ladro di sogni la speranza emergente del bene comune spinge l’uomo, nonostante le difficoltà, ad operare e ad imporsi. 

Tutte e tre i romanzi, da angolazioni diverse, prendono spunto dal vissuto quotidiano. Ma se nei primi l’interesse di Mario Caruso è rivolto a Singoli individui che vivono determinate situazioni, a prescindere dalla loro volontà, ne Il ladro di sogni il condizionamento è più evidente che mai. L’uomo non solo è manipolato da forze occulte che agiscono per imporre i loschi interessi di un gruppo sparuto di persone, ma addirittura è condizionato in ciò che gli appartiene e di cui non può fare a meno: la volontà di darsi ai sogni o, meglio, di sognare come liberazione di sé, degli altri, del mondo che lo circonda, per realizzare, a volte, l’irrealizzabile, che è proprio della speranza. È quanto di più brutto ci possa essere, è come tagliare le ali ad una farfalla. 

Tutto ciò in un’aureola di fantapolitica, perché, a mio avviso, c’è l’amara realtà che cade sotto i nostri occhi, ma che abbiamo difficoltà a riconoscere come tale. I fatti di cronaca recente o lontana di scorie tossiche o di pseudo ricerche umanitarie ce ne danno prova. 

Fantapolitica, allora. E noi ce lo augureremmo, se effettivamente fosse cosi. Ne Il ladro di sogni c’è il bisogno di voler pensare in positivo, di volere costruire, come fa uno dei protagonisti del romanzo, rivelando agli altri i retroscena più mortificanti e deleteri. 

È l’affiorare di un ottimismo che ci vuole vigili e consapevoli di quanto accade per controbattere i colpi mancini che giungono inaspettatamente da ogni parte, causando all’uomo e all’ambiente danni irreparabili. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pagg. 43-44.




 Il profumo della vita e altro 

Dino D’Erice, pseudonimo di Dino Grammatico, politico e pubblicista, fondatore di numerose riviste, scrittore di storia regionale siciliana, poeta. 

Pubblichiamo dall’ultimo suo libro, Il verde sulle pietre, alcune poesie in cui è facile cogliere i temi cari a Dino D’Erice, riconducibili tutti all’amore per la vita, che è sacrificio, lavoro, tradizione, terra (specie quando si tratta della sua Sicilia), ricordo. 

Dino D’Erice, col saputo dosaggio del verso che gli è proprio, partecipa al lettore questa ricchezza di sentimenti e lo apre all’ascolto di ciò che si porta dentro, in un momento in cui tutto sa di frenetico e di passiva accettazione nel nome del più deleterio conformismo. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pag. 44.




Francesco D’Orsi Meli, Appunti e ricerche per una storia del territorio di Palma di Montechiaro, vol. II, La civiltà dei metalli, S. F. Flaccovio ed., Palermo, 1986, pagg. 184. 

 Questo è il secondo (il primo è già stato pubblicato nel 1984) di una prevista serie di 6 voll. 

Passate in rassegna le Culture della pietra, qui costituisce argomento di ricerca La Civiltà dei metalli nel territorio di Palma, cittadina tra Agrigento e Gela. L’A. mette a frutto i lavori e gli scavi fatti da altri ricercatori con l’intento di .storicizzarli », passando in rassegna le varie tappe della preistoria di questa terra dall’età del rame sino a tutta l’età del bronzo. 

Pregevoli tavole e fotografie illustrano oggetti, statuette e resti di insediamenti preistorici nelle varie contrade del territorio palmese, delle quali viene fatto anche un elenco.




Calogero Messina, Giordano Ansalone in Sicilia, Comune di S. Stefano Quisquina, Palermo, 1987, pagg. 129, s.p.

Un libro nitido, come il Beato che ne costituisce l’oggetto, questo di Calogero Messina, appassionato studioso di storia patria e cultore attento e scrupoloso. 

Attraverso una puntigliosa analisi di documenti, noti o poco noti e rari, e di registri parrocchiali, non sempre tenuti nella debita considerazione, il Messina non solo delinea con tratti salienti la figura, ma risale – col rigore di storico che gli è proprio – alle origini, alla famiglia, alle condizioni socio-economiche di questo grande missionario e Martire in terra d’Oriente. 

Ma non è tutto qui. Dalla narrazione si evidenzia la Sicilia tra ‘500 e ‘600, quella Sicilia ricca di chiese e conventi attorno ‘ai quali si svolgeva la vita delle popolazioni. 

Documento di fede popolare e di storia, Giordano Ansalone in Sicilia. 

Suddiviso in 6 capitoli, che si leggono come un romanzo, ricco di fotografie e documenti, il libro viene arricchito da una testimonianza dell’abate Estournet e da un’Appendice tratta da uno scritto di M. A. Coniglione che riferisce della vita e del martirio del Beato Giordano. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pag. 67.




AA. VV., La storia proibita (Quando i Piemontesi invasero il Sud), Napoli, Controcorrente, 2001.

AA. VV., La storia proibita (Quando i Piemontesi invasero il Sud)

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 64.




GIOVANNI MONTI, A due voci. Colloquio con il padre, collana «Poesia / Oggi», I.l.a. Palma, Palermo – Sao Paulo.

Giovanni Monti – La poetica dell’onirismo 

Ecco un nuovo libro di versi di Giovanni Monti. Nulla di nuovo, si potrebbe dire, vista la ponderosa produzione di Monti, i cui esordi letterari risalgono al 1962. E tuttavia, la pubblicazione di questo poemetto (A due voci Colloquio con il padre, Ila Palma Edizioni) va rimarcata per motivi sia formali che contenutistici, che danno all’opera caratteristiche peculiari e specialissime. 

Attraverso stilemi pseudo-narrativi, Giovanni Monti affronta il tema onirico del dialogo col padre morto (di cancro, ma poco importa). Si tratta di un onirismo di specie particolare, il cui compito è di coagulare gli aspetti della realtà attraverso la sua deformaz.ione. Nel quadro onirico prendono sostanza le immagini di una quotidianità filtrata dal ricordo. Tutto ciò consente al poeta di riattraversare il racconto della propria vita e di quella del padre, evitando il rischio dell’elegia e lasciandosi anche imprigionare dal suo mondo tutto kafkiano. Come? Attraverso una serie di espedienti ritmici (il nonario che inframmezza l’endecasillabo), che sostengono i due interlocutori immaginari del poemetto, che monologano quando sembrano dialogare e viceversa. Per questa via, l’autore ottiene un duplice risultato: far prendere alla lettera quello che si dice e dare nello stesso tempo la sensazione che di quello che si dice niente è vero, perché tutto è soltanto visione o follia. 

La grande novità di quest’ultimo Monti è la creazione di un verso assolutamente postermetico, colloquiale e teatrale, cantabile e ripetibile, privo di enfasi (o, peggio, di sentimentalismo). Un verso capace di trasformare l’introspezione in figure aggettanti, i grovigli emotivi in ingorghi dialogici e di rovesciare, l’uno nell’altro, il monologo e il dialogo. Eppure, Giovanni Monti è di formazione ermetica. I suoi maestri dichiarati sono Ungaretti e Montale, Verlaine e Rimbaud. Mai un tradimento aveva dato frutti tanto succulenti. 

Giovanni Monti appartiene a una generazione di poeti che ha saputo fare dell’amore e della morte i temi dominanti della propria poesia. E la morte è la presenza costante di questo poemetto (ed è davvero aderente la citazione, in prolepsis, da Discussione sul ponte di Giovanni Raboni). 

Per non essere complice della realtà, il poeta adotta un’ottica mortuaria. D’altronde, la morte ha sempre reso bene in moneta lirica. Però si guardava alla morte dalla parte dei vivi. Monti la guarda dalla parte dei morti. E fa parlare il padre morto; gli fa narrare le sue angosce e le sue ansie di uomo che forse ha scelto di morire per meglio comprendere le cose del mondo; o forse è morto contro ogni sua volontà perché un dio infame l’ha deciso. Solo Edgar Lee Masters ha saputo fare altrettanto. 

Ben vero, non sappiamo se questo A due voci sia una svolta nella produzione poetica di Giovanni Monti a quasi mezzo secolo dal suo debutto e superati i sessant’anni. Ci sembra, comunque di potere affermare che questo poemetto ha un tono tuttaffatto diverso dalle precedenti opere poetiche di Monti (una trentina) e che esso apre la strada a ulteriori, imprevedibili sviluppi. 

Luigi Vajola

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 55-56.