Un ponte tra l’effimero e l’Immenso e maturità poetica di Tommaso Romano 

Emana un fascino singolare la poesia di Tommaso Romano, recentemente riproposta in questa ricca antologia. Una riflessione in versi lunga quarant’anni, un’instancabile interrogazione esistenziale vibrante di tensione etica ed ansia gnoseologica, che ne fanno un originale esempio di poesia-pensiero di ascendenza filosofica. Una vera e propria Weltanschauung (mai termine fu più appropriato) si dispiega in queste liriche ‘elementari’, spesso d’intensa brevità come quelle che compongono la prima sezione della raccolta, costruite sull’ossessivo ritorno di parole-chiave – tutto/nulla, vita/ morte. Liriche dall’ apparente freddezza cerebralistica, e che invece lasciano affiorare, con straordinaria efficacia, un flusso di coscienza al contempo oscuro e profetico. 

Si affaccia l’ombra del nichilismo in questa solipsistica confessione di un mondo inteso come «chaos di vuoti senza uscite», apparentabile al mondo come «grande deserto» cantato da Sbarbaro, un universo astratto e metafisico dove si staglia la reverie sonnambula del poeta, quella che risente ancora delle atmosfere del sogno notturno: «Il mio era pensiero triste; / camminavo e la via era deserta / non vidi bene, / la nebbia, pensai, / e continuai i tristi sogni / ad occhi aperti, ma non sognavo, piangevo». La componente gnomica di questi versi giovanili, immersi in un clima di stanchezza esistenziale, scandito dai rintocchi inesorabili del demoniaco Χρóνoς, si ritrova con sorprendente coerenza anche negli esperimenti poetico-visuali d’impronta futurista, come se dietro la parola agita, quella che graffia la superficie del foglio, s’insinuasse sempre il rovello filosofico, ma anche l’istanza religiosa scaturente dall’urgenza di sfidare il Tempo, lanciando un ponte fra l’Effimero e l’Eterno: «linfa / latomie / in fiore / accende / il suono / anelito / vita-morte / apparenza / D.N.A. = eterno / amen». 

È proprio di una duplicità di piani che si sostanzia la poesia di Romano, oscillante fra un’ anima futurista, piena di élan vital – specchio dell’ anima agens dell’autore – e una tormentata vena intimistica – l’anima cogitans, che spesso prende il sopravvento. Quasi che la cognizione dolorosa della sostanza effimera delle cose umane – il mondo delle apparenze – frustasse in partenza l’ansia febbrile del fare, a meno che questa non si orienti in tutt’altra direzione, nell’ottica di una panteistica trascendenza, di un superamento del transeunte. Quest’ansia di Assoluto, del resto, scaturisce proprio dalla consapevolezza senecana dell’implicito legame tra la vita e la morte; da qui il ritorno ossessivo di questa diade nelle poesie dell’ autore, che trova un precedente illustre soltanto in certe meditazioni filosofiche michelstaedteriane: «Vita, morte / la vita nella morte; / morte, vita, / la morte nella vita». 

Guarda caso, proprio Michelstadter invocherà, nella sua ansia di redenzione, la figura di un Salvatore inteso come l’antiZarathustra, e Romano, sottraendosi alla delusione del quotidiano, rilancerà sempre la sua sfida a Χρóνoς, nell’attesa salvifica dell’Eterno. Una sfida reiterata anche nei componimenti più maturi, quelli che compongono la seconda sezione dell’antologia, dove un lirismo nominale traduce la frammentazione del vivere, di cui il poeta fa l’inventario: «La mia solitudine, / una canzone di Leo Ferrè mille volte ripetuta / un pezzo di piombo / miraggio d’immortalità, / qualche poeta maledetto / nostalgie di memorie perdute / vecchie stampe e fiabe sui castelli / carta su carta / di mistici, filosofi e sapienti … » Ma ciò non basta e allora l’autore, «qualche volta incatenato alla noia / – apprendista eremita -» ricompone esausto ogni giorno «frammenti d’esistenza mortale / in attesa d’eterna, sacra quiete». Perché la sua vera aspirazione è quella di fuggire la noia, il cui alleato più fedele è proprio il Tempo, dio sinistro e implacabile, veicolo di lutti e sventure. 

A dare corpo a quest’inesausta riflessione è allora una pronuncia scarna e rigorosa, che non si compiace in vacui estetismi, so stanziata di memorie poetiche – Ungaretti, Rebora, Caproni, Luzi – ma sostenuta anche da memorie filosofiche – ad esempio Julius Evola, traduttore degli oscuri e profetici Versi doro dei Pitagorici – e soprattutto di memorie musicali, – Beethoven, Wagner, 

Dvorak, Malher – che dettano al testo un’orchestrazione polifonica, rimandante i diversi stati d’animo dell’ autore. Certo, il tono dominante è quello luttuoso-malheriano della quarta sinfonia, eppure, coerentemente con queste fantasie funeree, si celebra l’ansia metafisica dell’io, la dolcezza addolorata che ci rammenta la caducità del vivere e, al contempo, la «speranza dell’altezza». Quello della morte è infatti uno dei leit-motiv delle liriche, la morte che «prende ogni giorno» come «un implacabile doganiere asburgico», ma in un misterioso rito iniziatico è possibile «rigenerare i corpi / eternare la vita / al fuoco sacro». Il desiderio di risarcimento nella sfera del Sacro non rimuove tuttavia la consapevolezza dolorosa della finitudine umana: «So che ricerco infinito / più arduo è comprendere quest’ esistente / che risveglia dai sogni / inesorabile e scarno»; «È facile invocare il sole d’Eone / più difficile ammettere la paglia umida di Chrònos». 

La quotidianità, fatta di urgenze e «diari di bordo», è analizzata sempre con ironico distacco, e persino le incombenze della politica, ridotte talvolta a monotona routine priva di significato, sono spogliate di qual si voglia narcisistico compiacimento perché è un’altra la meta cui anela il poeta, oltre le concatenazioni spazio-temporali, oltre i miraggi e le lusinghe inconsistenti. Ma, come dicevamo all’inizio, l’ansia prometeica è talvolta minata dalla stanchezza esistenziale, spesso oggettivata dai luoghi «in antica decadenza pietrificata», come la Venezia viscontiana de I logori merletti, o la Palermo tomasiana delle dimore avite, rose dall’usura del tempo. A fronte di questa condizione, di questa malheriana percezione del vivere, la parola poetica, misurata ma straordinariamente pregna d’intensità espressiva, si configura allora come «esmesuranza», enfasi e delirio beethoveniano, viatico d’intensa spiritualità per chi non accetta di piegarsi alla «vacua temporalità» del mondo, ma osa far risuonare, ostinatamente, la sua confessione nel deserto. 

Lavinia Spalanca 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 59-61.




F. Grisi, Affettuoso sentiero, Palermo 1995.

Una plaquette in versi di Francesco Grisi, Affettuoso sentiero, pubblicata elegantemente dalle edizioni Thule di Palermo. Collana “Oltre il sole” diretta da Tommaso Romano. Un volume prezioso. Occasioni per riflettere e per inoltrarsi assieme nei viali della memoria. Ma, attenzione. La poesia di Grisi è sorpresa. È un cerchio che non si chiude nel .chiaroscuro del ricordo. Il diario è vitale. Segreto e vibrante. C’è nostalgia stemperata nell’allegria. Perché per Grisi il passato è sempre strettamente connesso al futuro. Tutto è avvenuto e tutto è avvenire. Ecco. Il gioco dinamico del poeta. Il gioco infinito. Luci e ombre. Momenti e figure. E il giocoliere che agisce. La grande magia accomuna la tradizione all’iperbole. Infrange usato e abusato. Non sopravvivono diaframmi. Lo spazio è aperto nel vento fresco dell’immaginazione del sentimento. Le occasioni. I motivi. Chi mi legge e chi legge Grisi da tempo capisce. 

La trama si dipana su temi ormai familiari al lettore amico. La Calabria dove sempre -un fremito scorre tra le pietre•. Cutro e Crotone. -La stagione dell’infanzia / quando l’acqua tremava sulla pelle•. Il mare -colorato con musica-musica / in variazioni tonali•. La figura del padre: -Con te rivivrò mattini di rugiada e ricorderò le lunghe stanchezze del crepuscolo.. L’Umbria. Todi, -città misurata in secoli•. La donna -nata tra cavalli sognati / e calici colorati di vento•. Roma, appena intravista: -Camminiamo tra le foglie accartocciate / dei platani. Gianicolo. / L’autunno romano cicaleggia•. E poi c’è Cristo. E c’è Dio: -Tu sei l’infmito senza geometrie / e io sono nel cerchio confinato•. 

Ma, come dicevo, è un cerchio che non si chiude e si apre a orizzonti sempre più vasti. Ventitré poesie. Ventitré perfette occasioni nelle quali Grisi tiene fede a quanto esplicitamente dichiara a chiusura della breve intervista in apertura al volume: -La vocazione-uomo è quella di ‘raccogliere’ tutta la storia del mondo•. 

Pierpaolo Serarcangeli

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pag. 31.




Giuseppe Ferrante, Un treno lungo più di cent’anni sino ad Enna da Castrogiovanni, Palermo, Ila-Palma, 2010.

Storia siciliana del I Novecento 

Una storia siciliana dell’emigrazione, uno spaccato di usi e costumi siciliani misti a valori di un umanesimo novecentesco scomparso nei dedali della modernità repubblicana e dell’attuale nichilismo morale che lo scrittore Giuseppe Ferrante rievoca in questo romanzo della memoria, la cui trama s’intreccia con l’epoca fascista che nel 1936 ribattezzò la città di Castrogiovanni in Enna e con certe riflessioni del protagonista Giuseppe senza esondare nel genere del romanzo di idee. Dunque, un romanzo della memoria, a tratti storico. 

Giuseppe, natìo di Castrogiovanni, è un giovane sognatore, bello come un adone, in cerca di affermazione e riscatto dalla consueta arretratezza siciliana. Quando partì alle h. 4,50 per Catania, era riuscito a maritare Maria, la ragazza più bella del paese. 

La partenza è il cauterio secolare dei siciliani che tuttora partono in cerca di fortuna. Insieme alle tiritere dello stereotipo mafioso, questo dell’emigrazione è un tipico remarque della letteratura siciliana, che Ferrante ha avvolto in una prosodia nostalgica che permea tutta la narrazione. Il treno a vapore non solo simboleggia il progresso e le aspirazioni dei siciliani che sperano nel distacco veloce dall’arretratezza, ma nello stesso tempo è il feticcio narrativo di una ambiguità che non recide il cordone ombelicale con la terra natìa, e si presume mezzo di ritorno al punto di partenza. Uno stereotipo, dunque, che tuttavia l’opera di Ferrante impregna di una umanità che reagisce e non si piega alla protervia di un canone violento, ovverosia mafioso. Sotto questo profilo, èun’opera originale che ha meritato la fiducia dell’Ila Palma, nota casa editrice palermitana che pubblica all’insegna della qualità. 

Il viaggio di Giuseppe non è un percorso fine a se stesso, ma è uno slancio interiore che dura «più di cent’anni», ovverosia, oltre lo spirito d’iniziativa che scema in misura inversamente proporzionale all’etàanagrafica. Una statistica che sembra tanto ovvia quanto la necessità che l’esperienza del protagonista si tramandi ai suoi figli, lasciando subodorare al lettore la storia futura di questo prevedibile fato che non perde i connotati della sicilianità dopo avere perduto la congenita negligenza della sicilianitudine: un altro marchio impresso come un cauterio dalla cronaca e dalla letteratura nostrana. 

La struttura ellittica del romanzo si scopre presto, e il feedback è dietro l’angolo. Infatti, la tensione narrativa esaurisce tutta la sua energia nelle vicende amichevoli spese senza tradimenti o congiure. Un’amicizia di vecchissimo stampo, un legame indissolubile, quasi la realizzazione perfetta della filosofia epicurea incarnata da Mario, il maestro di vita di Giuseppe. Insomma, il vero amico è un filantropo, un ottimista capace di dare senza chiedere nulla in cambio. Ad onore del vero, la moglie di Giuseppe, Maria, sentirà spontaneamente il dovere di ricambiare l’ospitalità offerta senza condizioni, garantendo un felice desco quotidiano a tutti gli ospiti della grande casa signorile. 

Sappiamo bene che stature spirituali così alte, purtroppo, non esistono più. Ciononostante, dall’unità d’Italia in poi, è proprio la Sicilia a vantare il maggior numero di filantropi del fare e del dare in amicizia, con onestà e umanesimo solidale. E oggi, uno, non più di due, sono tuttora in vita: che Dio li renda immortali!, affinché siano esempio di abnegazione contro l’intoccabilità delle caste che approfittano dei più deboli fino al delirio d’onnipotenza. 

Il romanzo è ambientato bene. Inizia dalla fine del XVIII secolo e si conclude alla metà del XIX. Nel mezzo, il tempo del dominio regale dove incise l’arretratezza culturale, ma anche un periodo di transizione storica dalla terra all’industria: la posa delle strade ferrate e le macchine a vapore sono la nuova forza motrice applicata al servizio dell’uomo e della produzione; la radio e le traversate transoceaniche fanno sognare il popolino curioso di alterità e l’incetta di notizie è preda di esagerazioni popolari che ingrandiscono a dismisura il mantello della fama; il mito dell’Arcadia è ricorrente, ma lo scrittore Ferrante non esagera, anzi lascia decidere a Giuseppe di quale fato fidarsi. E lui, artigiano del berretto, decide bene, non volta le spalle alla fortuna e insieme alla famiglia raggiunge Alessandria d’Egitto. 

L’autore intesse la sua trama intorno al saggio Mario, il ricco borghese di origini triestine, benefattore di Giuseppe e mentore dell’umanità Dopo la morte di costui, il romanzo si inonda di nostalgia e rammarico. La morte del filantropo porta pesantezza esistenziale, i rapporti economici e sociali di Giuseppe con la gente d’Alessandria d’Egitto si adombrano di sospetto e malafede e Giuseppe entra in crisi, diventa abulico. La borghesia alessandrina è ipocrita e snob, incline alla sufficienza e all’affettazione della verità. E mentre scivola nell’ozio, tradisce Maria per la seconda volta, ma Elisa non è innamorata, ama la lussuria. Egli si sente usato. La società egiziana è volgare e violenta, non tollera neanche la marachella di un bambino. 

Il punto di vista del narratore esterno che corrompe il contesto rivela al lettore la natura melodrammatica della stesura. Il treno è un simbolo onnipotente. Come trascina i vagoni, esso trascina con leggerezza i sogni di Giuseppe, a cominciare dall’amore indelebile della moglie Maria capace di resistere ai rovesciamenti a favore di una meticcia che tradirà il marito incapace di apprezzare la sua femminilità e dolcezza. Fatima è una bella donna. Questa parte centrale del libro denuncia un Ferrante nello stato di grazia che, purtroppo, coincide frettolosamente con l’inizio del denuement. Non inizia la stesura di un romanzo di idee, bensì il contesto si piega alle introspezioni destinate ad esaurirsi subito, perché le paturnie sono dichiarate, non traspaiono fra le righe. 

Giuseppe decide di tornare a Castrogiovanni, dove produrrà berretti insieme ai figli, ormai giovanotti. La svolta è rosea, gli nasce una figlia, gli affari vanno bene, Maria indossa abiti da sera e gioielli da mostrare alla cittadinanza. Il primogenito che nel 1909 si specializza a Torino, tornato a Castrogiovanni, apre la premiata sartoria di piazza Balata. Sull’abbrivio del successo Giuseppe fa innamorare ancora, tradisce di nuovo e lancia una sfida commerciale ai ricchi commercianti della via Etnea di Catania. Tuttavia, la Sicilia di Ferrante danza il ballo del mattone, la vita di paese è quella della piazza e delle speranze riposte nei nuovi ideali fascisti. 

Il fervore patriottico investe anche Castrogiovanni che nel 1936 diviene capoluogo di provincia con il nome di Enna, dove Benito Mussolini è al centro di un aneddoto divertente che riguarda la preparazione di un minestrone. 

Scoppia la guerra. Se le notizie dal fronte non fossero state disastrose, queste pagine sarebbero lietamente intonate con la «sensazione che un passato stava per morire e che il sogno, anche degli ennesi, di un’era di grandezza e di progresso stava per avverarsi». Giuseppe morirà vittima non solo dell’età avanzata, ma di una brutta notizia che alimenterà un senso di colpa mortifero fino al crepacuore. 

Marcello Scurria 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 59-61.




 Rino Giacone, Il bestiario comparato, Ed. Ct Sera, 1989, pagg. 64, s.p. 

Questo volume, in edizione di pregio, pubblicato in occasione del 35° anniversario della fondazione del periodico «Catania Sera», con illustrazioni di Luigi Patinucci, segue un filone – quello della satira – che ha illustri predecessori. Ma non è meno illustre il poeta-critico-letterario e scrittore catanese Rino Giacone, collaboratore del quotidiano «La Sicilia», per la parte culturale e del settimanale «Catania Sera», edito da Giuseppe Massa. 

L’argomento di questi epigrammi riguarda gli animali, che godono di una lunga tradizione letteraria, da Esopo a Marziale, a Giovenale e, perfino, a Catullo. Ma c’è anche l’epigramma greco, che ha una varietà maggiore rispetto a quello latino e si adatta, come queste poesie di Giacone, a tutte le occasioni e le circostanze della vita. È un epigramma realistico e prezioso che, oltre per un singolare carattere di concretezza, per la varietà di tono, che comprende la battuta, la riflessione rapida e profonda, è gradito in un momento in cui si punta alla satira e al realismo per svecchiare la tradizione. 

La prefazione è di Emanuele Mandarà, il quale scrive, fra l’altro, che «gli esemplari di tale zoo ideale, impersonano, è ovvio, altrettanti prototipi di fauna politica e sociale, periferica o di centro, della nostra contemporaneità». E lo stesso Giacone, nella premessa, sostiene che «chi credesse di riconoscersi in una delle bestie descritte non se la prenda: la somiglianza tra uomini e bestie è naturale e quasi scientifica». Ed ora un paio di epigrammi, tanto per avere l’idea di questo Bestiario comparato di Giacone: «La pasta col nero di seppia / dalle mie parti è un piatto prelibato / …Solo quel tal poeta / grafomane incallito / usa l’inchiostro di seppia / per scrivere il poema infinito» (La seppia). «Quando comincia a gracchiare / (e lo fa tutte l’ore) / non c’è nessuno che la può fermare. / Gracchia di tutto / dalla politica alla geologia / e con più che evidente competenza / anche d’ecologia. / S’interessa in sostanza d’ogni cosa / come fa l’ape sulla rosa». 

Emanuele Schembari 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pag. 55.




Nicola Lo Bianco, Rapsodia del centro storico, Borgonuovosud, Palermo, 1989, pagg. 56.

Prima raccolta di versi di Nicola Lo Bianco, insegnante di materie letterarie al Liceo Classico di Termini Imerese, con varie esperienze in campo teatrale e con varie opere messe in scena. Si tratta di eventi non collegati a fatti usuali e letterari dietro ai quali c’è la Palermo dello Zen, dei baraccati, dei transessuali, la mancanza di contatti umani e la dispersione dilagante del dramma dell’uomo contemporaneo. Rappresenta un tragitto commovente, vissuto, nei cui versi è trasferita la tensione tipica della poesia dialettale. ?Lo Bianco individua una sua precisa identità, sia umana che letteraria, innescandola nelle matrici di una cultura popolare capace di necessarie acquisizioni e di scrollamenti». Questo è quanto scrive il critico Francesco Carbone, del Centro Studi Ricerca e Documentazione «Godranopoli?. Infatti viene sottolineata, in questa poesia, dura, narrativa, dall’andamento poematico, l’attualità dei motivi sensibilmente tesi ad interpretare la tragedia spirituale dell’uomo di oggi, travolto da un’egoistica rabbia e distrutto dalle contraddizioni e dallo scontro fra la società dei consumi e l’individuo, a livello problematico. Il poeta, in questa sua prima opera, dimostra una personale visione delle cose, apparendo come il disilluso personaggio che può interpretare la quotidianità contemporanea.

E. Schembari

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pag. 64.




Mario Mazzantini, Attraversare i binari, Edizioni Rari Nantes, Roma, 1989, pagg. 120. 

 Poesia insolita (come è, da sempre, la poesia ad alto livello) quella del toscano, ma residente a Roma, Mario Mazzantini. Si tratta di un atto di pura creatività dove emergono le contraddizioni di un mondo oscillante fra il reale e l’immaginario, carico di incognite e di stupori, ma sempre controllato dall’intelligenza. 

Si sottolineano la labilità dei ricordi e la temporaneità dei giudizi, in un’enigmatica ambivalenza, che rappresenta una metafisica senza memoria, senza passato e senza futuro. 

Giacinto Spagnoletti, nella prefazione, accenna allo zavattini di Parliamo tanto di me o I Poveri sono matti che gli ricorda il candore di certa poesia di Mazzantini. 

Noi siamo stati colpiti, più che dalla satira di questi versi, dalla serena drammaticità. Il linguaggio, infatti, ha la stessa semplicità strutturale di quello di Kafka ed il verso viene trascinato sul filo del provvisorio, dentro il confine del probabile. Ma Mazzantini (che ha la particolarità di sistemare i titoli di ogni poesia alla fine e non all’inizio) sorride su un fondo amaro, come se fosse consapevole dell’inutilità di qualunque sforzo. 

E. Schembari 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 64-65.




Angelo Scandurra, Vivere la parola (Pref. di C. Muscetta), Bonanno Editore, Catania, 1989, pagg. 140. 

 Angelo Scandurra, bibliotecario presso il comune di Valverde, poeta, editore, saggista, ha avuto una serie di esperienze in campo artistico e letterario ed ora ha pubblicato un originale libro di interviste. 

Al suo attivo ci sono, infatti, due libri di versi (Proposta per incorniciare il vuoto, 1979 e Fuori delle mura, 1983), un saggio storico (Valverde un comune dalla leggenda alla storia, 1977) e un testo teatrale (Evoluzioni di una metamoryosi, 1978); ha fondato il «Gruppo Teatro Nuovo di Valverde» e la rivista letteraria «Il girasole»; 

ha dato vita a «Il Girasole Edizioni», dove ha pubblicato opere di saggistica, di poesia e di narrativa, gli ultimi dei quali di Luigi Compagnone e di Luca Canali. 

Questa sua ultima opera, Vivere la parola, è strutturata in una serie di interviste, effettuate fra il 1981 e il 1987, rivolte ad alcuni fra i maggiori personaggi della nostra epoca. Si tratta di un tentativo di portare avanti un discorso nuovo che, all’informazione rapida ed essenziale, associ una documentazione dei fatti, inquadrati in una problematica storica, tale da suggerire spunti per una personale rimeditazione degli argomenti trattati. Il dialogo si trasforma, quindi, in contenitore di sogni, dove, alcune fra le persone più rappresentative e note del nostro tempo, traggono le conclusioni sulla propria vita, sul proprio lavoro ma, soprattutto, sull’eterno contrasto fra i due aspetti della stessa medaglia: la vita e la morte. 

Vengono così intervistati poeti come Léopold Senghor, Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Dario Bellezza, Nelo Risi, Emilio Isgrò: scrittori come Cesare Zavattini, Fortunato Pasqualino, Leonardo Sciascia, Enzo Siciliano, Antonio Aniante, Eduardo De Filippo, Giorgio Saviane, Luca Canali, Giuseppe Bonaviri: registi cinematografici come Michelangelo Antonioni e i fratelli Taviani: registi teatrali come Giorgio Strehler, Orazio Costa, Tino Schirinzi: attori come Valeria Moriconi, Glauco Mauri, i fratelli Maggio, Salvo Randone, Vittorio Gassman, Giorgio Albertazzi; cantanti come Giuseppe Di Stefano e Maria Carta, cantautori come Gino Paoli ed Enzo Iannacci e uno scienziato come Norberto Bobbio. 

In Vivere la parola il gioco della scrittura unifica tutto. La raffinatezza tecnico-stilistico-strutturale delle domande penetra nei personaggi, cercando di comprenderli e di giustificarli dall’interno. Ed ognuno riesce ad essere autenticamente se stesso (cosa abbastanza difficile per persone che, in ogni caso, interpretano un ruolo, nella vita). 

Molto originale la prefazione di Carlo Muscetta, in forma d’intervista, il quale afferma, fra l’altro: «Il genere dell’intervista non è nuovo, ma non a caso oggi ha una particolare fortuna dovuta alla prevalenza della cultura orale. Ovviamente in televisione siamo abituati alla banalizzazione di questo genere… Tu come intervistatore» scrive, rivolto a Scandurra, naturalmente, «hai una problematica fondamentalmente esistenziale, per cui consideri importante la risposta quale che sia l’attività culturale, la minore o maggiore rappresentatività storico-sociale dell’intervistato… La tua amorosa provocazione ha una ‘ingenuità’ specchiante, da cui l’animo dell’intervistato viene fuori nella sua autenticità o nella sua artificiosità. Perciò queste interviste hanno tutte un valore ‘storico’, che non potrà essere trascurato da chiunque abbia curiosità di conoscere più a fondo questi protagonisti della nostra vita culturale». 

Emanuele Schembari 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 65-66.




M. Caruso, L’ascensore di Cartesio, Mazara del Vallo,1996, pagg. 78.

Questo secondo romanzo, L’ascensore di Cartesio, rivela la tendenza dell’Autore ad approfondire l’indagine filosofica volta anche qui alla ricerca affannosa della verità. 

In questa ricerca il lettore talvolta è disorientato e non riesce a distinguere la realtà vera da quella virtuale.È, per fortuna, uno sbandamento momentaneo e serve, anzi, da stimolo alla verità; è uno sbandamento che rivela l’ansia eterna dell’uomo verso quella verità che è solo capace di fugare ogni dubbio e ogni incertezza. 

Ma la via che conduce ad essa è difficile: «Avevo avuto la presunzione di uscire dal dubbio e conquistare la verità con le mie sole forze. Ero sprofondato nell’inganno». Cosi fa dire l’Autore al protagonista, dimostrando ancora una volta che, nonostante il progresso della scienza, i dubbi permangono e l’uomo può solamente tentare di pervenire alla conquista della verità. 

Spesso, però, in questa ricerca rimane deluso ed insieme illuso: «Ricordo il tepore di un letto, l’odore delle piume del mio cuscino e… un profumo di maiale arrosto. Chissà chi lo stesse cucinando!» 

Ricompare il dubbio, ma è proprio questo dubbio che mette in moto quel meccanismo che ci induce a far di tutto per risolverlo. 

Antonella Scardino

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pagg. 41-43.




M. Caruso, Il balcone del professor Agostino Vicoplato, Mazara del Vallo, 1995, pagg. 111.

Il balcone del professor Agostino Vicoplato colpisce il lettore soprattutto per l’attualità della tematica affrontata, in quanto tutti, come Agostino Vicoplato, potremmo essere « vittime delle circostanze ». 

Molto valido il messaggio. Il libro vuole indurre a non lasciarci influenzare dai pregiudizi, a non giudicare il prossimo dai “si dice”, ma andare al di là delle apparenze per tentare di conoscere la verità. E anche se essa è triste ed amara, non è compito nostro giudicare o emarginare con un « non è dei nostri», come avviene a scapito del protagonista di questo romanzo. Nostro dovere è approfondire, scavare nell’animo per tentare di capire le motivazioni dell’agire. 

Un messaggio, a nostro parere, carico di ottimismo, perché, nonostante tutto, nonostante le disavventure, di cui si può essere vittime, affiora sempre la speranza che prima o poi spunterà il sole, riempirà tutto il balcone e Agostino potrà finalmente essere riconosciuto per quello che è e come noi vogliamo sia l’uomo. 

Antonella Scardino

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pag. 41.




F. Monaco, Ma perché scrivono? (La lingua italiana devastata), Roma, E.I.L.E.S., 1987, pagg. 105.

 L’autore F. Monaco, giornalista, titolare anche di un’agenzia di stampa (Italia Notizie), con sede in Roma, è di quegli scrittori che possiamo definire, per molti -scomodo… 

Senza peli sulla lingua, e con coraggio, da 20 anni circa, sottopone al vaglio della sua critica pungente gli argomenti più disparati, tutti, però, riconducibili al filo conduttore di un costume sociale disinvolto e dai valori discutibili. Basta scrivere il solo titolo di alcuni suoi libri per rendercene conto: La buonanima dello Stivale, Il circo degli inconcludenti, Dizionario della mala repubblica, etc. 

Con il nuovo lavoro, Ma perché scrivono, è sotto accusa e sotto tiro la leggerezza con cui viene usata la lingua italiana a tutti i livelli e in tutti i settori, senza rispetto alcuno per la grammatica, la sintassi e il buon senso. Dall’indice si capisce che l’Autore non risparmia nessuno. C’è da dire che nulla è lasciato all’anonimato e che ogni citazione porta il nome e il cognome dei responsabili. 

È motivo, perciò, anche di notevole curiosità, perché compaiono tanti insospettabili che mai, prima d’ora, avevamo immaginato colpevoli di sviste negligenze o ignoranza in tema di lingua italiana. 

Il libro prende le mosse dall’art. 21 della Costituzione che sancisce: -Tutti hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero con le parole, con lo scritto e ogni altro mezzo d’espressione… L’autore non contesta, ma commenta con ironia: -Però fra le tante, madornali amnesie dei Costituenti c’è stata anche quella relativa a un fondamentale dovere di chi scrive: il dovere di rispettare chi legge. E rispettare chi legge significa non propinargli corbellerie in maniera oltre tutto, pedestre… 

Da tali espressioni si può arguire facilmente che il libro, oltre ad essere caratterizzato da un’analisi pungente di certi andazzi, contiene anche elementi che lo rendono oltremodo spassoso e piacevole alla lettura: lo stesso stile brillante e incisivo di tutte le altre opere del nostro Autore. 

G. Salucci

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pag. 60