Crialese e il suo film «Nuovomondo» 

Nuovomondo di Emanuele Crialese è un film anzitutto istruttivo, a parte la sua bellezza, il suo interesse, l’attualità. È un film dove la fotografia fa da padrona, 

s’impone sulla parola, domina la musica, e mette tutto sotto silenzio, perché essa stessa di viene parola che urla, musica che al pari dell’acqua dirompe e invade con impeto per essere compresa e sentita nella sua essenzialità, senza sentimentalismi né reboante retorica. Un’immagine che diviene parola e musica al tempo stesso, una musica struggente, una parola lacerante. 

Per tutto questo, Crialese riesce a rendere partecipe lo spettatore e ad emozionare veramente, a suscitare pensieri e buoni propositi verso l’altro, il bisognoso, l’emarginato, l’uomo di colore che approda nelle nostre isole con la speranza nel cuore. Emozionano i suoi personaggi speranzosi di riscatto da un ultrasecolare abbandono, protesi verso un’umanità più umana e più degna di essere vissuta; soprattutto, emoziona la dignità con cui essi affrontano la vita, sacrificando affetti e sopportando disagi. Come avviene tuttora, perché la Storia, vichianamente, si ripete. 

Il film parla, prima, di un viaggio che si dovrà fare, con tutti i preparativi che esso comporta, poi, del viaggio vero e proprio, lungo, interminabile, che ha l’epilogo nello sbarco, con i dovuti controlli, tesi a scartare i non idonei e quanti potevano risultare di peso ad una società materialistica che guarda solo alla produttività e non cura i sentimenti più sani e veri. Ci voleva poco, ad esempio, che il figlio di Salvatore Mancuso fosse rimandato indietro, perché ai primi accertamenti era stato scartato. A niente erano valse le proteste del padre che si vedeva scindere la famigliola, e sarebbe andata così, se il figlio non avesse superato lo stato emotivo in cui s’era venuto a trovare. Ritornerà in Sicilia la madre, Fortunata, perché si rifiuterà di accettare il «nuovo mondo». Il richiamo della terra è troppo forte per lei, e la nostalgia la riduce al silenzio e la chiude in sé. 

Bella, spontanea, naturale, l’interpretazione degli attori nelle vesti dei componenti la famiglia Mancuso e della giovane inglese che ad essa s’accoda. Salvatore, interpretato da Vincenzo Amato, riesce bene a coinvolgere e a tenere a bada il filo del discorso, come se gli altri venissero ad essere risucchiati dalla sua affabulazione; e Lucy (C. Gainsbourg) che, quando tutto sembra crollare, apre gli occhi del cuore a Salvatore e viene ad essere il suo <<nuovo mondo», iniziandolo alla speranza. Per questo, a differenza degli altri, che cadranno nello sconforto una volta che vedono cadere a pezzi l’idea bella fattasi della nuova terra, Salvatore non sarà un deluso, perché ha trovato già sulla stessa nave quello che cercava. 

Emanuele Crialese, a parte i volti e le immagini dei nostri immigrati visti in Ellis Island, sicuramente, come tutti, sarà stato toccato e colpito nel profondo dallo sbarco delle tante migliaia di clandestini che quotidianamente nel bel tempo arrivano sulle coste della Sicilia e a Lampedusa: uomini pronti ad affrontare qualsiasi evenienza, pur di raggiungere un obiettivo, che poi è quello comune: sfuggire la fame, voltare le spalle a decenni di guerre fratricide, iniziare una nuova vita per sé e per i propri cari. In fondo, è un ideale realizzabile, ma spesso destinato a svanire per pochezza e trascuranza degli uomini. 

Ben approfondita la ricerca che dà un’immagine vera della Sicilia degli inizi del ‘900, con la sua povertà e con la gente che reagisce e si ribella a quello stato di cose, ma anche con le credenze, alimentate dalla miseria e dall’abbandono, per cui chi non sa di tradizioni popolari, all’inizio, ha difficoltà a comprendere alcune scene (portare un sasso tra i denti, depositarlo in un posto ben determinato e aspettare un segnale di avallo, nel caso nostro, al viaggio da intraprendere; e, quando incerto sembra il responso, rifare un altro scutu ascolto, così viene chiamato – e aspettare), come quella in cui Salvatore s’interra e aspetta. La conferma positiva l’avrà quando gli viene di immaginare una cascata di monete sonanti, e solo allora darà il via ai preparativi del viaggio. 

Non va trascurata la parlata, che è la siciliana, la lingua viva del popolo, ricca di significati profondi, accompagnata da gesti, i quali aiutano a dare senso e tono al discorso, molto ricco e circostanziato, che trova nel film il suo luogo ideale. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 62-63.




Calogero Messina, Sicilia e Spagna nel Settecento (Pref. di M. Ganci), Palermo, Società Siciliana per la Storia Patria, 1986. 

Calogero Messina è uno storico che fa onore alla Sicilia e agli studi che la interessano, degno continuatore dell’altro grande storico, recentemente scomparso, Virgilio Titone. 

Questo libro che presentiamo offre un’ampia panoramica della Sicilia nel Settecento e i suoi stretti rapporti con la Spagna. L’Autore non si sofferma sui documenti tante volte visitati dell’Archivio di Stato di Palermo e della Biblioteca Comunale, non sfrutta solo archivi e biblioteche spagnole, tra cui quelli di Barcellona e di Simancas o gli altri meno noti di Vienna, come l’Haus-, Hof- und Staatsarchiv, ma si rifà con tanta attenzione e cura alle fonti letterarie che sono altrettanto importanti per la conoscenza della vita e del costume di un popolo in un determinato periodo. 

Metodo di ricerca, questo – come ci ricorda il prof. Gangi nella sua Prefazione- indicato da Marx e poi da Gramsci e seguito dagli storici francesi Jacques Le Goff e George Duby. Ma sentiamo cosa dice il Messina: «Anche quando sembrano incontestabili, i documenti di archivio non sono sufficienti per ricostruire l’immagine di una società e degli individui singoli. Sono necessarie anche le altre testimonianze, soprattutto dei poeti. Per questo li abbiamo citati e continueremo a citarli». 

Sicilia e Spagna nel Settecento si compone di nove capp. di cui sei rifanno la storia della Sicilia spagnola in generale e tre scendono nel particolare (L’Inquisizione, Il Commercio, Il ricordo), dandoci un quadro completo della realtà isolana di quel tempo. 

Il libro è di facile lettura ed è interessante, perché, oltre ad essere valido strumento di conoscenza e di consultazione, contribuisce a fare luce sulla dominazione spagnola in Sicilia, cogliendola nei suoi aspetti politici, sociali, economici e culturali. 

Ugo Carruba 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pag. 45.




C. MESSINA, SOLIDITAS, PALERMO-SAO PAUW, 1999, PAGG. 116.

Un libro di poesie è sempre accetto, specie se l’autore è un nome noto che è stato seguito passo passo nell’evolversi della sua opera di letterato, storico e narratore. 

Ma Calogero Messina con questo suo nuovo libro non s’improvvisa poeta dall’oggi al domani. Messina è un poeta che ad un certo punto della sua esperienza di vita e di arte ha preferito far macerare a lungo le sue creature quasi per caricarle di maggiore pregnanza. Ed ecco perché, dopo più di un decennio di silenzio poetico (le prime sue composizioni antologizzate in Motivi del nostro tempo risalgono al 1978), viene allo scoperto proprio ora con Soliditas, un libro dettato da esperienze di vita e di cultura, ricco di emozioni e di incontri, quali possono essere dati dalla vista di una donna o di un paesaggio o, ancora, dal silenzio notturno che avvolge uomini e cose, mentre un treno avanza sbuffando nella notte. 

Il bello di questa poesia è che a distanza di tempo segna un continuum con l’altra anzitempo pubblicata, sia per il suo andare prosastico con il ricorso alle figure retoriche, sia per l’ispirazione sempre pronta a cogliere le intime esigenze dell’anima e a tradurre in sentimenti nobilissimi i palpiti della vita. Esempio, Quando mi nasce un libro, oppure A Lorenzo Panepinto, l’uno e l’altro componimenti abbastanza sentiti che rivelano l’uomo e il poeta con le sue aspirazioni e la fiducia in una ritrovata umanità più sana e più giusta. 

Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pag. 60.




C. Messina, Jordanus non est conversus retrorsum, Roma, E.I.L.E.S., pagg. 170.

 C. Messina con questo suo lavoro rende omaggio all’illustre suo concittadino, San Giordano da Santo Stefano, ripercorrendo le tappe della vita fino al martirio, restituendoci l’uomo, con la sua bontà e carità, e il santo, con la sua dedizione a Dio e agli uomini, per i quali non risparmiò fatiche e sofferenze. 

Nello stile che gli è proprio, l’Autore consolida le sue qualità di scrittore e s’afferma ancora di più nel vasto panorama della letteratura italiana del nostro tempo. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pag. 61.




C’è in questa poesia, da parte del suo autore, il volere affidare alla pagina scritta la sua interiorità, che è amore di Dio e degli altri, un guardare nel proprio intimo e un volgere al tempo stesso lo sguardo a tutto ciò che lo circonda. 

Masia trae ispirazione dal sacro e dal profano, un binomio che ha la sua ragion d’essere nel bisogno di amore (“Amore/sfiora le mie labbra./Ho sete di te.”) tanto sofferto e sentito. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pag. 61




ANTONIO LICARI, Giovani di 300 anni fa e d’oggi, Club Unesco, Marsala, 2007.

Le distanze tra i giovani e gli adulti, come quelle tra padri e figli, sono state sempre incolmabili e così sarà, fin quando non prevarrà la piena consapevolezza di agire nel rispetto dell’uomo, sia pure un giovane. Il prepotere che gli adulti esercitano sui giovani, il servirsene per i propri esclusivi interessi, senza considerare bisogni né esigenze altrui, l’escluderli, senza peraltro rinunciare al loro sfruttamento, il decidere su ciò che riguarda loro spesso senza consultarli, sono motivi di continui attriti e di astio senza fine. 

Il saggio di Antonio Licari, medico, interessato ai problemi dell’adolescenza e scrittore, attivo e impegnato nella ricerca, mette a confronto i giovani di 300 anni fa che, magari, abitavano la splendida e ricca Mozia e quelli di oggi, facendoci notare come i giovani soffrano e come, anche nel silenzio, rinchiudendosi in sé, rigettino le decisioni degli adulti prese senza averli consultati, arroganti e spesso prepotenti. 

«La presa di coscienza che l’adolescente è una persona a tutti gli effetti», scrive A. Licari, «con peculiarità specifiche, può aiutare la nostra società ad evitare conflitti fra giovani e adulti (ne parlava già Platone), a ridurre le morti di tanti giovani d’oggi che, come al tempo dei Fenici, per una sorta di analogia psicodinamica, vengono sacrificati sull’altare di Moloch.» 

L’analisi condotta da Antonio Licari è corredata da pezze d’appoggio di carattere 

storico e scientifico convincenti. Ci riferiamo alla proiezione guidata dei simboli e ai casi clinici riportati: sia nella prima ricerca effettuata tra gli studenti di un liceo che nei casi clinici, i cui attori sono giovani, emerge il bisogno di dare un senso alla esistenza che non sia condizionato dagli altri, il volere operare veramente in un mondo libero da prevaricazioni in cui giochino un ruolo primario i sentimenti, al di là degli interessi che alzano steccati e tendono ad emarginare e a sottomettere. 

I giovani cercano certezze e fiducia per cooperare e realizzarsi, in poche parole, vogliono essere considerati alla pari e avere uno spazio per potere gestire al meglio la loro vita. «Essi cercano», scrive a conclusione Licari, «comprensione, affetto, speranza; verità rispetto all’ignoto, bellezza di fronte al degrado, libertà di fronte alla schiavitù, in un periodo della vita in cui si rivelano il mistero dell’esistenza e la caducità.» 

Un discorso convincente che è auspicabile arrivi ai giovani e agli adulti, perché se ne facciano carico e da ambo le parti con responsabilità si adoperino per un mondo più giusto e più buono, dove ogni individuo possa realizzarsi e dire in libertà e nella pienezza di sé sì alla vita. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 59-60.




 Antologia de Los poetas del 27 ( a cura di J. L. Cano), Madrid, Espasa-Calpe, 1988. 

Chi vuole avvicinarsi alla splendida stagione dei poeti spagnoli del ’27, può farlo con questo libro tascabile della Colección Austral della Espasa-Calpe, curato da José Luis Cano. 

Nella sua ampia Introducción, Cano, sostenendo le posizioni di Guillermo di Torre e di Damaso Alonso, parla di una generación de poetas, rigettando la tesi di Jorge Guillén e di altri, secondo cui dovrebbe meglio parlarsi di «un grupo de amigos». 

Singolarmente passa, poi, in rassegna i poeti di questa generazione (F. Villalon, P. Solinas, J. Guillén, G. Diego, V. Aleixandre, F. Garda Lorca, Damaso Alonso, E. Prados, L. Cernuda, R. Alberti, J. M. Hinojosa, M. Altolaguirre), evidenziando l’impegno umano e civile e l’attaccamento agli ideali di libertà e di vita democratica’ per i quali alcuni affrontarono la morte, altri il confino, le umiliazioni e la censura. 

La scelta antologica è preceduta da una bibliografia generale ed ogni autore da una breve notizia biografica e una bibliografia essenziale.

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pag. 46.




Anna Vinci, La Terra senza (dramma in due atti), Palermo – Roma, Ila-Palma, 2010.

Una realtà tutta meridionale 

Cosa c’è di strano nell’abbandonare il luogo natìo per andare altrove, in una grande città o in uno sperduto paesetto di montagna? Niente – mi si risponde -, abituati, come si è al giorno d’oggi, a spostarsi da un capo all’altro dell’Italia o del mondo alla ricerca di un posto sicuro per lavorare e vivere. Più che strano, brutto è invece, lasciare il proprio paese per l’aria insopportabile che vi si respira, a causa della delinquenza organizzata che tutto soffoca e opprime. Non ci sono alternative, o adeguarvisi, e vedere e accettare l’illegalità imperante, o andarsene, perché la debolezza dello Stato rende deboli e impotenti i cittadini, costretti a far silenzio per non subire. 

Ludovico de La Terra senza di A. Vinci, dramma in due atti pubblicato da Ila-Palma, è dovuto andarsene dal suo paese perché non aveva avuto altra scappatoia, e lui non aveva voluto accettare una realtà così avvilente quale quella dei mafiosi che impongono il silenzio con l’arroganza e la forza delle armi. Non era per lui e non vi si riconosceva, dopo che il padre, per essersi ribellato, era stato malvisto dai paesani e considerato un pazzo, costretto a vivere in casa, e il suo amico migliore, Antonio il cantastorie, ucciso proprio per aver denunciato col canto uomini e misfatti nella pubblica piazza. Che vita sarebbe stata la sua, quali aspettative gli avrebbe potuto riservare un luogo che aveva fatto svanire le illusioni e le speranze della sua gioventù Una terra senza pace cosa avrebbe potuto offrirgli, se non di diventare come i peggiori dei disonesti? 

Anna Vinci ha saputo calarsi con questo dramma nella realtà meridionale e siciliana, rimasta invariata fino agli ultimi decenni del secolo scorso. Non che ora sia cambiata, ma non c’è più quell’omertà che condizionava persino l’aria da respirare. In ogni caso, è un dramma ben riuscito, perché vero che trova linfa in quella realtà ma il suo sviluppo è nei personaggi, anzi in essi esplode e si realizza. 

Anche questi sono ben riusciti, e lo è Ludovico che, ritornato dopo tanti anni, quasi pronto a ripartire, una volta venduta la casa paterna, ha difficoltà ad accettare quella realtà e a riconoscervisi, tanto da venire in contrasto con Rosa, la sorellastra, che aveva atteso e desiderato la sua venuta; e quando gli chiede se è stanco, risponderà che più del viaggio è il ritorno a stancarlo. Lei, invece, accetta il passato nel ricordo dei giorni belli e fa di tutto per vivere il presente, anche se dentro le mura domestiche, perché sa bene che la gente è stata cattiva con tutti loro. Perciò si sforza di non pensarci, corroborata dalla fede che la sostiene nella solitudine e dall’affetto, anzi dall’amore che riversa sul figlio e su Ludovico. Con l’arrivo di Ludovico, atteso da chissà quanto, Rosa sperava di ricomporre in piccolo la famiglia. Ma il ritorno pesa come un macigno sulla testa di Ludovico a cui di tanto in tanto gli manca l’aria e ha fatica a respirare. 

Il dramma si gioca soprattutto tra questi due personaggi. Giacomo, il figlio di Rosa, fa la sua comparsa alla fine del primo atto e rimane in scena per buona parte del secondo. È come dice Ludovico, un “disincantato”. In effetti, egli rappresenta il nuovo, e il passato non lo conosce; non riesce a calarsi nello stato d’animo di Ludovico e nemmeno condivide quello della madre che pure vuole bene. 

L’ambiente, che è uno studio, permette di seguire da vicino ciò che si svolge attorno, mentre dal sottoscala alcune voci di donne s’intercalano alle scene. Molto interessanti e utili sono le didascalie che aiutano nella lettura e nella comprensione del testo, e quelle dell’inizio sono un’ottima introduzione al dramma. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 62-63.




A.V. Stallone – G. Accordo, G. Pantaleo, estratto da «Annali 2005-2006» dell’I.S.I.S. di Castelvetrano-Selinunte.

Un eroe siciliano dimenticato delle battaglie risorgimentali 

Giovanni Pantaleo (Castelvetrano 1831 – Roma 1879), nobile figura di uomo, di frate e di intellettuale, fu tra quelli che parteciparono, con senso di abnegazione 

e per il bene della Sicilia, al moto insurrezionale garibaldino che portò all’unificazione dell’Italia. Insieme con tanti altri (mentre la grande massa di picciotti non ebbe altra alternativa che seguire Garibaldi, perché – dietro preventivi accordi – quella era la volontà di baroni e mafiosi), fra’ Pantaleo sperò, abbattuto il Borbone, un riscatto che avrebbe portato migliorie socio-economiche dei ceti più umili e per questo lottò, brandendo la spada, senza abbandonare il Crocifisso. Fu un valido combattente e un convincente predicatore di sani valori e di principi liberali e solo all’ultimo, l’Italia unita, si rese conto che erano cambiati i sovrani ma erano rimaste immutate le realtà socio-politiche della Sicilia e di altre regioni, con un inasprimento della presenza militare, a causa delle proteste e delle rivolte sopravvenute. 

E tutto ciò perché non erano state mantenute le promesse. E la rivoluzione apparve agli occhi della moltitudine tradita. 

Se questa è la storia, che spesso viene sottaciuta per spirito patrio (ai Siciliani non so fino a che punto torni utile), è pure vero che uomini come fra’ Giovanni diedero e sacrificarono la vita per quello che allora era sembrato la soluzione dei tanti problemi. Per questo vanno ricordati e onorati uomini come Pantaleo, perché possano essere di spinta per il bene comune, che è la terra a cui apparteniamo. 

Lo scritto di Anna Vania Stallone e Giuseppina Accordo è meritorio e degno della massima diffusione specie tra i giovani, perché nel ricordo si perpetui la memoria di quanti patirono il carcere o morirono, e ci si adoperi sul loro esempio per una Sicilia riscattata, centro e non periferia, aperta e in competizione con i popoli vicini. Questo lavoro, frutto di un progetto scolastico veramente formativo (malgrado tanti progetti poco educativi. ma lucrativi, che una scuola seria non dovrebbe avallare), consta, a parte l’introduzione del preside Francesco Fiordaliso, di quattro capitoli che ripercorrono la vita e le opere di Giovanni Pantaleo, di un’appendice di lettere e documenti, e di due note delle curatrici. Abbastanza ricca è la bibliografia riportata, un valido aiuto per gli studiosi. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 53-54.




 A Tararà, professionalità magistrale come progetto educativo, Marsala, Ed. La Siciliana. 

Un’opera certamente utile per quanti operano nel mondo della scuola elementare e materna e per chi si accinge a sostenere un concorso magistrale,. questa di A Tararà. 

Suddiviso in 10 capp., il libro presenta la figura del nuovo «maestro» nel contesto sociale, soffermandosi sulla necessità di professionalità, di cui oggi, più che mal, il docente ha bisogno per’ svolgere la sua azione didattico-educativa. Importanti sotto questo aspetto sono i capitoli: «Il maestro nella società italiana», «Professionalità e deprofessionalizzazione: assenteismo e presenza educativa»,«Verso il futuro». 

L’autore, esaminando i mali che affliggono la scuola, auspica ai docenti maggiore senso di responsabilità e attaccamento al dovere, senza i quali sarebbe assurdo, appunto, parlare di «professionalità magistrale». 

Il libro è ricchissimo di citazioni e annotazioni bibliografiche e, per questo, si presta bene all’aggiornamento di quei maestri che vogliono puntualmente documentarsi sullo sviluppo dell’azione educativa di questi ultimi anni. 

Ugo Carruba 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pag.74.