A vent’anni dallo sbarco sulla luna (Noterelle senza pretese) 

Il 20 luglio 1969 due terrestri, gli americani Armstrong e Aldrin, dal modulo dell’astronave Apollo Il, guidato dal pilota Michael Collins, sbarcavano, muniti di scafandro e telecamera, sul suolo lunare. 

Quel giorno veniva violata la verginità della silente peregrina del cielo e l’ariostesca utopia del viaggio d’Astolfo diventava realtà. 

Si ricordi, però, che il bravo Astolfo viene immaginato dall’Ariosto come protagonista di una stupefacente esperienza: la scoperta di tutte le bontà che, fuggite dalla terra, erano approdate fantasticamente sulla luna; il recupero, tra esse, del senno dell’amico Orlando impazzito d’amore per la bella Angelica; la rivelazione che l’unica cosa non rintracciabile sulla luna era la pazzia rimasta fra gli uomini assieme a tutte le altre brutture della vita. 

Si disse vent’anni fa che con la storica impresa lunare, paragonabile a quella degli Argonauti, sarebbe cominciata una nuova era. E poiché, come dimostra Giacomo Leopardi nel Dialogo d’un venditore di almanacchi e di un passeggere, gli uomini suppongono, quando si parla di novità, che queste preparino tempi migliori, si sperò che il nuovo traguardo lunare della scienza umana avrebbe comportato la possibilità di risolvere, se non tutti, molti antichi problemi del genere umano. 

Qualcuno ne dubitò e l’uomo della strada, sia pure con grossolana saggezza, arguì che, non essendosi trovato sulla polvere lunare nulla che servisse alla vita umana (né frutta, né insalata, né le gustose triglie del mare di Sicilia) l’impresa era servita solo a fare spendere dollari e a preparare armi nuove e più micidiali delle antiche. Qualche altro, come Marcello Cini su «L’Unità» del 21-7-1989, ha definito la conquista della luna nient’altro che «il trionfo e il punto d’arrivo di una visione tipicamente ottocentesca della scienza e della tecnica». 

Certo è che nel 1969 l’astrofisica e le collaterali tecnologie dello spazio, comprese quelle concernenti la computeristica e la telematica, hanno fatto balzi in avanti meravigliosi e impressionanti in direzione della facilitazione dell’informazione e dell’abbreviazione delle distanze nonché in direzione dell’esplorazione degli abissi dell’infinito universo fino a lambire e svelare i misteri dei remoti satelliti di pianeti prima sconosciuti. 

Ma la vivibilità sulla nostra terra è migliorata? È stata cacciata o sconfitta la pazzia che già nel 1500 fu al centro delle tematiche dell’Orlando Furioso? È diventata meno infelice l’umanità che ora ha – come aveva auspicato il Leopardi nel Canto Notturno d’un pastore errante dell’Asia – le ali per «volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una»? 

Ed è finalmente riuscita a scoprire ove tende il vagar suo breve e lo stesso corso della luna e degli astri? 

Il benessere materiale e consumistico (non può negarsi) è cresciuto a dismisura nelle aree ad elevata industrializzazione. Ma chiunque abbia un minimo d’intelletto si accorge che in questi ultimi vent’anni, benché non si sia precipitati nella voragine di una terza con11agrazione mondiale, l’imbarbarimento dell’uomo e la sua atavica pazzia sono cresciuti sensibilmente; la violenza e la crudeltà sui più deboli, sui bambini e sugli anziani assieme alla violazione massiccia dei diritti della libertà personale e domiciliare avanzano in modo capillare e devastante; la droga (nuova arma di sterminio e di schiavistica disumanizzazione nelle mani di potentati criminali non facilmente scindibili dall’alta finanza tout court) e la conseguente spudorata criminalità dilagante stanno disgregando ogni tipo di organizzazione sociale e civiltà che hanno impiegato millenni per formarsi, e stanno riducendo i popoli ad ammassi di «animali parlanti» ispirati soltanto dal più gretto ed egoistico individualismo competitivo, a «vulgo disperso che nome non ha» di manzoniana memoria. 

È in pericolo lo stesso concetto di civiltà perché, se è ancora valida la concezione vichiana e foscoliana di civiltà intesa come intreccio solidaristico («esser pietosi di se stessi e d’altrui») scaturito dall’affermarsi di «nozze, tribunali ed are», allora possiamo affermare che i popoli che non hanno più fede in niente, che sono amitti dal vizio della disgregazione familiare e che sono torturati dall’inefficienza della magistratura, non sono più popoli civili, anche se le loro autostrade (anche qui però quante migliaia di morti all’anno) sono percorse da milioni di automobili, e le loro abitazioni sono fornite di tutte le comodità tecniche. Allora aveva forse ragione Gyorgy Lukacs quando, 20 anni fa, dopo avere affennato che nell’epoca odierna lo sviluppo eccessivamente rapido della scienza e della tecnica è collegato ampiamente con l’alienazione dell’uomo e che questo dell’alienazione è il problema centrale del nostro tempo, così concludeva: «Io non vedo che su questa linea, la vera questione dell’umanità – cioè il divenire uomo dell’uomo e il superamento dell’alienazione – possa ottenere alcun risultato sostanziale anche attraverso i più grandi risultati scientifici conseguiti nell’astronomia e nella tecnica del volo». 

Penso quindi che non è cosa saggia ridurre tutto (lo stesso mondo, il cielo, la terra e il mare) in termini di macchinismo e di congegni smontabili o separabili. Troppo grande appare ormai il rischio della inevitabile scomposizione e dello squilibrio prodotti dagli effetti di tecniche spericolate. Basti pensare un po’ ai buchi della fascia dell’ozono e alla irrespirabilità delle città. 

Non si può impunemente continuare in uno sviluppo illimitato e perseguito caparbiamente a gloria del denaro che lo sostiene. Occorre ridurre alle giuste dimensioni il culto di Plutone e ridare validità e prestigio alle altre divinità dimenticate o oltraggiate. Bisogna insomma che il cosidetto progresso scientifico sia condizionato dall’egemonia degli antichi valori umani. 

Non si tratta di impiantare il paradiso sulla terra, ma cominciare qui da vivi, come ci suggeriva Paolo VI nell’enciclica Populorum Progressio, a costruire Il Regno di Dio, rinnovandoci in meglio nel solco dell’insegnamento che ci proviene dalle antiche civiltà. Del resto mai nella storia alcun movimento di rinascita e di liberazione ha potuto svilupparsi disancorandosi dai valori trasmessi dagli antenati. 

Gaspare Li Causi 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 47-49.

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