Occhi 

Racconto di Angela Giannitrapani 

Era lì, davanti a me, con l’aria di chi volesse interrogarmi. 

Che impertinente, pensai, non appena gli occhi scuri penetrarono oltre la sottile ma resistente barriera che avevo costruito per dividermi dal mondo, fino a quel momento. 

Feci finta di niente e mi immersi nelle pagine di giornale che quasi mi nascondevano il viso. Ma non riuscivo a concentrarmi. Sapevo che, al di là dei fogli sottili, c’era quello sguardo. E mi scrutava. 

Avrei anche voluto avere una lente, non reggevo bene la vista di quei colori così intensi, dopo tutto il bianco in cui avevo vissuto. Ma, benché mi ferissero gli occhi e mi scombussolassero l’anima, ne godevo, come un affamato ad un banchetto nuziale. Mi ci era voluto un po’ per penetrare in quel punto del parco, proprio a causa di tutto quel verde e giallo e rosa e blu: solo quando mi ero seduta sulla panchina mi ero resa conto dei suoni e delle voci. Fino a quel momento avevo solo visto, come se il mio contatto uditivo con il mondo si fosse ripristinato proprio nel momento in cui, esausta e guardinga, mi ero seduta. 

Udire quell’accozzaglia di suoni desueti era un po’ come imparare una nuova lingua e nuove regole armoniche. Dapprima arrivavano mischiati e, man mano, andavano distinguendosi, ma continuavano a sovrapporsi e sentivo il cervello bombardato, ma avido di ingoiare quella musica recente. Tuttavia era troppo. Troppo, tutto in una volta. Fortunatamente avevo il giornale e lo usai di nuovo come schermo. Sì, certo, mi aiutava a filtrare quell’abbondanza che tentava di travolgermi. E cominciai a rilassarmi. Ci sarei riuscita completamente, se non avessi avuto quegli occhi puntati su di me. 

Perché proprio io, poi, tra tanta gente? Non avevo fatto nulla per essere notata ed era certo l’ultima cosa che desiderassi. In quel momento non desideravo molto, a dir la verità. L’ unico pensiero chiaro che ricordo di avere avuto in mente era quel programma, che mi ero prefissata di portare a termine. Quel progetto, fatto più di bisogni e di risoluzioni pratiche che di desideri . Non mi restava che decidere dove andare. Non doveva poi essere così difficile. Ricordavo bene da dove venivo. 

Così, mi immersi più attentamente nelle pagine del giornale. Se non fosse stato per quei leggeri capogiri si sarebbe detto che ero in perfetta forma. Allora, presi a respirare più lentamente e più profondamente, come avevo imparato. Quegli occhi erano ancora fissi su di me, avrei potuto scommetterlo. Bisognava far finta di niente. 

Cercai, tra gli articoli e le rubriche, qualche luogo che mi ispirasse; ma venivo continuamente inghiottita dalla cronaca scarna e quotidiana. Che titoli banali per fatti complessi! Chi scriveva non sembrava accorgersene. Io sapevo cosa c’era dentro quelle storie, ma avevo anche imparato a non dirlo più. 

Ci fu appena un sospiro e fui costretta a scavalcare i fogli. Mi scontrai con il suo sguardo, adesso più incuriosito che mai; e ne fui scossa. Mi leggeva i pensieri? Ero certa di non aver parlato ad alta voce. Non questa volta, almeno. Mi sistemai meglio sulla panchina, che sentii un po’ più scomoda e rigida di prima e annaspai tra gesti indecisi e, ne ero certa, sguardi vaghi. Decisi, alla fine, di apparire attratta dagli alberi, dallo scintillio del sole e addolcita dal vociare dei bambini. Feci finta di concentrarmi su una pozzanghera affollata di passeri; emisi un profondo sospiro che risuonasse di soddisfazione e sperai che anche lo sguardo dirimpettaio mi seguisse, distogliendosi da me. 

Lo fece, per pochi secondi. Poi, decise di tornare a me, come se, dopo un breve intermezzo, fosse di nuovo il mio turno. 

Delusa e un po’ indispettita, trafissi i suoi occhi con il mio sguardo tagliente, antico di anni, ma dissepolto di recente. Consapevole, ne ebbi paura, nel ricordo di ciò che mi aveva sempre causato. E mi risuonarono urla, domande, silenzio, irruzioni, lunghi sonni indotti. 

Ingolfata nel mio stesso respiro, non mi resi subito conto di aver provocato soltanto maggiore interesse e un tentativo, discreto, di accorciare le distanze da parte di chi mi stava di fronte. Non era un’aggressione e questo bastò a rassicurarmi. Rallentai il mio respiro, chiusi gli occhi, svuotai la mia mente e contai finché potei, come mi era stato insegnato. Quando li riaprii, nulla era cambiato intorno, e in certo qual modo ne fui rassicurata. 

Ma che impertinente, pensai di nuovo, non appena incrociai quegli occhi scuri. Adesso, mi studiavano con una certa comprensione e sembravano volerne sapere di più. No. Non ero disponibile a far capire di più. Mi era sfuggito fin troppo. Fin troppo adesso e in passato; quando con ingenuità avevo dato in pasto agli altri i miei umori, le mie tristezze, i moti di entusiasmo, l’amore, una vitalità fastidiosa che costava fatica a tutti, e me stessa, d’impaccio per chi mi amava e odiava. 

Adesso potevo perfino sentire il suo odore, tanto vicini eravamo. Avrei voluto fuggire, ma ero inchiodata contro lo schienale della panchina. Se mi fossi alzata avrei comunque rischiato d’essere sfiorata e ne avevo il terrore. Così, decisi di sbarrare quel breve spazio con l’unica arma in mio possesso e mi nascosi ancora dietro il giornale. 

Ma le righe e le parole presero a tremolare convulsamente, prima di sparire e riapparire come per incanto, in una indesiderata quanto improvvisa liquidità, che non riconobbi subito come mia. Quanti giorni, quanti mesi, quanti anni erano passati dalle mie ultime lacrime? Quante me stessa? Frantumata in mille e dispersa in frammenti divisi tra coloro che, inconsapevoli di possederli, vivevano nelle strade, nelle case, nelle loro famiglie? Quanti anni avevo vissuto sola, più nella memoria altrui che nel mio presente? 

Non avrei permesso oltre quell’intrusione nella mia vita. Decisi che avrei fatto un gesto spazientito o detto parola, per allontanare quella sfacciata indiscrezione che mi stava di fronte. Abbassai il giornale con uno scatto dal suono secco, come una schioppettata; ma non intimorii altri che me stessa. 

Al contrario, adesso potevo specchiarmi in tutta la sua simpatia. Calda e accattivante, come di chi, sicuro del proprio passato, non teme il dolore né la gioia altrui ed è pronto alle sorprese, purché vissute in comunione. Non seppi più cosa dire e cosa fare. E, indesiderato, mi sfuggì un debole sorriso. Anche l’altro sembrò sorridermi, tra i tanti sentimenti affiorati nei suoi occhi. Sembrava, perfino, pronto alla lucida follia di consorziare il suo destino ad una sconosciuta e a scommettere su di me, senza riserve. 

Mi sentivo travolta da tanta sicurezza. Ma, invece che disagio, ne ebbi un caldo piacere che, scivoloso, andò giù fino in fondo e risalì alla mia mente riordinata di recente, facendorru dire: perché no? Pensandoci bene, il rischio più grosso l’avevo corso alcune ore prima e non potevo che compiacermi del luogo in cui mi trovavo. Nell’ultima mezz’ora, a causa di quella investigazione silenziosa, ero anche stata costretta a ripercorrere i miei anni e le mie fughe. Compresa l’ultima. E giurai a me stessa che non ce ne sarebbero state altre. 

Mi ritrovai la mano sul suo viso tiepido e, bisbigliando, dissi: «Sì, grazie.» 

Fece cenno di goderne e ricambiò lambendomi le dita con tenerezza. 

Raccolsi i frantumi dei miei ultimi pensieri e il giornale, scivolato ai miei piedi; mi alzai dalla panchina lentamente e insieme ci incamminammo. 

Sì, sarebbe stato facile trovare dove andare. Avrei chiesto di una casa con giardino. Per via del mio compagno, naturalmente. L’avrei ottenuta. 

Chi mai avrebbe potuto sospettare di una giovane donna con un cane? 

Angela Giannitrapani

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 30-32.