A futura memoria – Letteratura come vita.  Ricordo di Nino Tripodi 

Il romanzo di Francesco Grisi A futura memoria (edito dalla “Newton Compton” nel 1986, finalista al premio “Strega” con quattro edizioni) , sarà pubblicato nei “tascabili-economici” in Germania e in Italia. 

Per l’occasione siamo’ lieti di fare conoscere un breve saggio-recensione inedito di Nino Tripodi scritto pochi giorni prima di morire il 22 luglio 1988. 

Si tratta di una riflessione che prende avvio dal romanzo di Francesco Grisi e propone una visione della letteratura come problematica creativa. C’è nello scritto di Tripodi la cosiddetta “immaginazione teologica” che faceva da guida alla vasta cultura del politico e dello storico. 

L’articolo lo pubblichiamo per ricordare il Tripodi, scrittore, docente universitario, deputato e letterato. 

Il volume che diede al Tripodi popolarità ha come titolo Intellettuali sotto due bandiere. L’ultimo è una raccolta di novelle: Nuvole e simboli, del 1988. 

* * * 

“La ragione non è stata più sufficiente per capire la vita”: questo concetto conclude il libro che Francesco Grisi, con il titolo A futura memoria, ha recentemente pubblicato e che, allo “Strega” si è affermato al terzo posto, con uno scarto di appena qualche voto dal secondo. Il concetto – già del vecchio Shakespeare (“ci sono più cose al mondo di quanto non pensi la vostra filosofia”), anzi del tutto dell’antichissima saggezza latina (“cave a consequentiariis”) – è anche un po’ il filo conduttore del romanzo. Ma il libro è proprio un romanzo? O non piuttosto un riflessivo saggio intercalato, in apertura e in chiusura, dalla brillante inventiva d’arte con la quale Grisi narra la parentesi esistenziale del suo inquieto personaggio? 

Saggio o romanzo, nelle sue pagine la vita è avvolta nel velario del mistero. Per penetrarne il segreto, le simmetrie dei principi o la dialettica dell’ordine dello spirito, spiega il reale e guida il mondo. La fede rompe le tavole della ragione. Maria di Nazareth, non ricordo più in quale canto dantesco, suggerisce pacatamente alla “umana gente” di stare “contenta al quia”, cioè di fermarsi al poco che sa. 

Ma non è che ragionare sia superfluo o vano. Basta capire che i concetti nati dalle pur necessarie procedure logiche non chiariscono tutto. In fondo ad esse resta sempre una porta chiusa sulla quale i credenti scrivono la parola “Dio”. Se Grisi, ambiziosamente, tenta di forzarla attraverso le ramificazioni della fede. riesce appena a scorgere il sottile spiraglio che illumina l’anima e accompagna il disperato e disperante viaggio dell’esistenza. Come nella raffigurazione romanzata della madre di Maria, sottrattasi al mondo sotto il saio monacale della clausura. 

Il convegno narrativo – ed è qui l’arte di Grisi – consiste nel contrapporre un modernissimo personaggio piuttosto stravagante o del tutto schizofrenico come il suo Giovanni ai trapassati e rassegnati estensori dei vangeli cristiani. Matteo, Marco, Luca e Giovanni hanno tramandato quattro lettere indirizzate all’apostolo Filippo. “a futura memoria” per spiegare ai posteri le pieghe segrete dei loro racconti, che fanno testo nel Nuovo Testamento. Le lettere giungono, come che sia, a un santone integralista, Armageddo, che a sua volta le affida al protagonista del romanzo. mentre costui, in veste giornalistica, se ne va peregrinando tra guerriglieri e terroristi islamici. Le lettere a Filippo rappresentano la vita di Gesù secondo le testimonianze e i diversi disegni dei quattro evangelisti. E sono quattro modi. utili a ognuno, per intendere il messaggio lasciatoci da nostro Signore. quasi predizione della vocazione ecumenica soprattutto oggi avvertita dalla Chiesa di Giovanni Paolo II. 

Matteo è il più ebreo; accentua l’estrazione ebraica del Nazareno; avvalora la possibilità del cristianesimo di vivere nella legge giudaica, in attesa del Regno. Marco si libera invece dalla ritualità israelitica, distingue il cristianesimo dal giudaismo, e, poiché vive a Roma, tenta di dare alla perseguitata religione di Gesù il supporto del potere romano: il centurione, sotto la Croce, simboleggia il riconoscimento del figlio di Dio da parte dell’Urbe universa; storicamente, è Marco che vince. Luca non ha cure temporali; per lui solo la fede è salvifica, le istituzioni sono il segno terreno della caduta; in Luca è la chiesa del futuro. Giovanni è l’apostolo prediletto, al punto che il Messia gli affida sua madre prima di morire; Giovanni è “l’utopia amore” disegna il Maestro come il vertice della tradizione esoterica degli esseni, della contemplazione ellenica e del simbolismo orientale: Gesù è “il profeta e il compimento”. 

La traduzione di queste quattro arcaiche missive costituisce una documentazione sagace per gli studiosi e una piana, persuasiva informazione per i comuni lettori. Occupando per altro la parte centrale del libro, ne lievita la valenza sotto il profilo saggistico. 

Narrativamente, la comparazione del mondo evangelico con l’odierna esperienza quotidiana scava un distacco abissale. Si potrebbe congetturare una polivalenza di abitudini espressive, un Grisi uno e due, la coesistenza del Grisi immaginifico col Grisi raziocinante, lo sdoppiamento insomma di uno scrittore tra spregiudicatezza e conformismo, modernità e tradizionalismo. Forse però il conflitto da nient’altro discende che dall’antitesi voluta per separare stilisticamente e antropologicamente due linguaggi: l’uno insaziato, spesso sconnesso e morboso del giovane Giovanni, errabondo tra la ragione che non appaga e la fede che non lo redime; l’altro iniziatico, convinto, controllato, dei quattro evangelisti. “Narrare è cosa diversa che scrivere un romanzo”, fa dire Grisi al Giovanni evangelista; e lo convalida col “romanzare” egli stesso i discorsi del protagonista e col “narrare” le lettere a Filippo degli evangelisti. La narrazione, chiarisce, è completamento della storta “in un quadro dove trovano accoglienza i racconti, le allegorie, le meditazioni e le emozioni come simboli della eternità dei tempi e non della cronaca”. 

Data la sacralità del tema in discussione, la trama libresca non coinvolge però solo la storta che ha dimensione umana e terrena, ma anche la teologia che è divina e trascendente. Le tesi con le quali Grisi fa giustificare dagli evangelisti le loro nozioni sulla vita di Gesù rasentano talvolta l’eresia. Quando Marco parla dell’ “ipotesi” del suo vangelo, e di essere stato “costretto”, nonostante le sue “perplessità”, a inserire a motivare a modo suo il pagamento del trtbuto a Cesare, di avere cioè architettato una “messinscena” per accattivarsi la benevolenza di Roma, vulnera un precetto della parlata dei credenti che, quando dicono “è vangelo”, intendono sottolineare l’inconfutabilità di un fatto. Che vangeli sarebbero mai questi se la loro stesura fu forzata dalla necessità di ricorrere a un’ipotesi, o, peggio, a una sceneggiata? 

Però anche questo scoglio, al giorno d’oggi, è superabile. Non si va parlando di “immaginazione teologica” come stampella della fede e perciò a fin di bene? Dunque la questione sarebbe risolta. E Grisi può fare recitare al tormentato 

Marco, magari ovattando la zampata del leone, che pure è il suo simbolo: “Tu mi dirai che ho ingannato i lettori. E posso darti anche ragione. Ma che cosa mi restava da fare? La mia comunità romana dovrà trovare nell’impero romano le strutture per raggiungere tutti i popoli civili e convertirli. E, allora, potevo io impedire questo grande disegno, raccontando, a proposito del tributo quello che veramente Gesù pensava? .. Ho agito nella convinzione di servire nostro Signore… Ho scritto questa mia ipotesi di vangelo per il domani, convinto che solamente dalla collaborazione tra Chiesa e Impero romano potrà nascere qualcosa per il futuro”. 

Sì, è vero, canterà molto più tardi Carducci, recIiminando: “son chiesa e impero una ruina mesta”. Ma nei secoli antichi Marco non poteva conoscere gli esiti esiziali di certe collaborazioni debordate dalla donazione di Pipino il Breve alle pastoie del diritto concordatario, senza citare fra Dolcino e i roghi dell’Inquisizione. 

Grisi ha scritto un libro non solo intelligente, ma coraggioso. Libro che induce a riflettere, sia prima di dargli ragione che di dargli torto. La provocazione è nelle pagine nelle quali l’Autore si cala nell’interpretazione del personaggio fino a tradurne nel lessico le frantumate espressioni del pensiero; e lo è nell’evidente contrasto con il fluido e agevole discorrere degli apostoli. Lo è anche nell’ammettere la contraffazione delle lettere a Filippo, sapendo che ciò accresce l’interesse per il saggio ridivenuto romanzo. Vero o non vero Grisi riprende dal teatro lo spettro della verità: “La vita è la verità che noi crediamo”. Come Pirandello, per la verità: “lo sono colei che non si crede”. Ma Grisi rincara: “I vangeli non sono anche romanzo? E i romanzi non sono frammenti di verità?”. 

Tutto è relativo. Non resta che rompere gli argini della ragione. Ma è il guado ribollente della fantasia che preoccupa, forse più delle acque gelide della ragione. A meno che la fede non venga a salvarci dalle insidie dell’immaginario. 

Nino Tripodi 

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 54-57.

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