La realtà del labirinto irreale nella pittura di Emilio Guaschino

Emilio Guaschino è un pittore tutto figurativo: nel senso di rappresentare volti umani, cieli visibili, muri e finestre controllabili nella realtà, mari navigabili, sentimenti persino aperti all’immediata comunicazione. 

Così delineata, la lettura di Emilio Guaschino, pur se aperta su correnti d’arte che già fanno storia, potrebbe spingerci verso una illustrazione della realtà, anche se somatizzata, cioè trasferita sui volti delle donne e degli uomini, tutti e sempre lavoratori, e resa sentimento dolorante nelle angosce dei calli sulle mani e delle rughe. Ma resterebbe sempre un artista del realismo, sublimato da passioni e compassioni. 

Invece in Guaschino, accanto e dentro questi suoi aspetti, che restano qualità, va individuato quel dosaggio di astrazione mentale per cui il suo realismo si innalza e fa innalzare l’occhio di chi guarda il suo quadro o il suo disegno (perché è gran disegnatore, cosa rara) verso sensazioni e significati multipli, astratti e concreti simultaneamente. Sta in questo la pittura come poesia, e quindi la pittura come ricerca di Bellezza equiparata alla Verità. 

Un carro siciliano (talmente carro che potrebbe essere letto in tal senso sotto qualsiasi cultura e latitudine), volti, braccia, bocche aperte al grido, seni tesi alla provocazione e alla vita, usci chiusi come i nodi sulle mani dei personaggi, tutti gli insistiti ma cangianti problemi e temi di questo artista hanno sostegno mentale e poetico di tanta carica realistica da universalizzarli. 

Si verifica, quindi, il fenomeno di confluenza tra intenzione realistico-figurativa e la sotterranea spinta a costruire un romanzo, cioè una «fantasia». Mi spiego: Guaschino è narratore di ceppo veristico con innesti sociali, la cosiddetta «realtà sociale», che però stabilisce un rapporto fantastico tra le due verità. La grande narrativa siciliana, tra le più ardite ed alte della cultura mediterranea, trova in Guaschino non una replica pittorica, ma un’autonoma e riuscita resa. Una antologia delle opere di Guaschino potrebbe arrivare, se guidata dallo stesso autore con le stesse sensibilità evidenti di ogni singola opera-pagina, a possibilità narranti unitarie, da romanzo. Del resto, la sua tendenza a cicli di temi e di volti è chiara vocazione narrante. 

Guaschino sa concludere opposte spinte verso saldature che firmano l’opera con una evidente sigla tutta propria, pur se con le ascendenze lealmente dichiarate. Quello che conta è questa sigla che gli dà il diritto di avanzare sulla linea dello sparuto gruppo di artisti nostri , riconoscibili, leggibili, godibili sul doppio binario della poesia-verità. 

Si tratta di un saggista della pittura. Cioè un artista che sviluppa spinte di apostolato. Anche tali qualità sono preminenti in questa misteriosa Grande Madre ch’è la sua Sicilia. 

Pertanto l’ analisi di questo artista andrebbe eseguita su interi cicli di produzione del pittore, per ricavarne i significati e gli allarmi multipli della passione d’ arte e di poesia portata avanti sulla tela o sulla carta. Basterebbe la constatazione di questo desiderio del critico, e del lettore del quadro, a prolungare la sosta e 1’analisi davanti e dentro l’opera di Guaschino per verificarne la forza di rappresentazione e di possesso su chi gode l’opera.

Giuseppe Selvaggi

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 41.

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