MEZZOGIORNO ALLA FINESTRA 

Perché solo al mattino 
si affaccia il sole alla mia finestra 
e appena è sera 
le sue scarpine gialle lucidate 
vanno a far mostra nelle più lontane 
vetrine 
d’un altro mondo che non m’appartiene? 
Chen Xiao 

Traduzione dalla lingua cinese di Veronica Ciolli, versione di Patricia Lolli e Renzo Mazzone. 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 39.




CONFUSIONE

 di Chen Xiao 

(n. 1987, Hunan) 
Questo è l’amore, o no?, quando ti trovi 
davanti a un fiore che si sta schiudendo 
e la bellezza o il giro d’un istante 
basta 
a darti il senso dell’appartenenza? 
È dunque amore il fiore che si apre? 
E tu domani tornerai a cercarlo, 
il fiore, ad innaffiarlo, 
se per te è amore quella nuova vita? 
Sono piccole astuzie le sue luci 
ed il tuo piede posa 
su sfumature d’immaginazione . .. 
Ora mi accade 
di ritrovarrni nella mia illusione, 
lunghi i capelli sciolti alla carezza 
del vento, 
e mi sembra che stiano scorrendo 
come acqua le tue dita. 
Se non è amore, allora il desiderio 
di te sarà rinuncia? 
Ho portato i miei passi sino a dove 
tramonta il sole, 
e il suo cammino incerto, 
per sapere la meta. 
Quando il tuo sguardo 
illumina il mio viso 
intento 
io non posso non chiederti se credi 
in noi o vuoi 
solo allevare uccellini in gabbia. 
Se la gabbia è invisibile, io spero 
che gli occhi almeno sentano. 
Al calare del sole, a luci spente, 
ho fatto una scommessa con me stessa 
ed umilmente dico: è tutto falso, 
assurdo, e poi 
la scena che rivedo ad occhi aperti 
cala il sipario sulla mia sconfitta. 
Forse era proprio quello che volevo . .. 
Ma in gioco non avevo messo mai 
il cuore, e onestamente 
ti prego ora di stringermi al tuo petto, 
perché è soltanto ciò che mi rimane. 

Xiao Chen

Traduzione dalla lingua cinese di Veronica Ciolli, versione di Patricia Lolli e Renzo Mazzone. 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 38-39.




 IL TORRENTE 

di Liao Wenjun (n. 1990, Yue Yang, Hunan) 

Capisco 
che ci sia un torrente che riversa 
il suo tormento, mentre tu contempli 
meraviglie che fluttuano nei cieli 
dove noi non siamo .. . 
Capisco che le nuvole là, in alto, 
appese nella luce 
si sciolgano e si lascino cadere, 
perché ogni realtà non dura a lungo. 
Guarda questo torrente come vive, 
guardalo attentamente: 
so che non ti interessa, 
ma ha una sua bellezza nel tormento. 
So che un giorno le nuvole 
non avranno più senso, perché il cielo 
spegnerà le sue luci 
ed il torrente stenterà il cammino. 
Perché il torrente è anch’ esso 
un riflesso del cielo e le sue nuvole. 
Intanto lui è convinto di potere 
sempre correre e scorrere a suo modo 
per la sua strada (sua?) 
e a me non resta che lasciarlo andare … 

Liao Wenjun

Traduzione dalla lingua cinese di Veronica Ciolli, versione di Patricia Lolli e Renzo Mazzone. 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 39-40.




Per una legislazione sociale moderna 

 Politica e sovranità democratica 

Come l’intelletto racchiude il complesso delle facoltà umane che permettono di pensare e comprendere la realtà sociale, così la sovranità della democrazia, che costituisce l’essenza individuale della sua personalità, non dovrebbe divenire uno strumento manipolato dall’opera dei governanti e degli amministratori. 

In uno Stato di diritto, bisogna anche tener conto non soltanto delle situazioni particolari, ma soprattutto dei processi di trasformazione della società ed adeguarne le istituzioni all’ordine sociale e non viceversa. 

È detto nella costituzione che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, e la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione. Si è fatto in modo tuttavia che attraverso le alleanze politiche coni partiti essi finiscano per consolidare il potere. Sicché, «i diritti inviolabili dell’uomo» e la stessa sovranità democratica rimangono soffocati. Infatti, quale libertà ha la società quando in nome del popolo vengono emanate leggi non idonee che deteriorano la sua sovranità, e la mettono in condizioni tali da dover seguire una strada incerta e irta di ostacoli e difficoltà? 

Che forse in tali detestabili deviazioni, le regole del gioco non vanno democraticamente rivedute e corrette con l’adozione di adeguate misure? È dovere indifferibile riformare, restaurare il sistema delle elezioni politiche, specie allorché si avverte noncuranza verso la sovranità democratica. 

Se il voto di fiducia fosse espresso con maggiore consapevolezza e convinzione, il bene dell’inalienabilità della sovranità dell’elettorato non verrebbe compromesso. Purtroppo, quando si raggiunge il potere, non di riforme si vuole più sentire parlare. Ma certe cose, di fronte a risultati opinabili, bisogna pur dirle. Eppure sarebbe opportuno che l’elettore fosse posto in condizioni di dare il proprio suffragio ai partiti, non in base a interessi particolari, ma alla conoscenza di chiari schemi di programmi economici di generale interesse, visto che le ideologie vanno sempre più differenziandosi negli stati democratici di ben poco, come sempre più si va delineando nell’opinione pubblica. 

Se si vuole risanare lo Stato, sembra che sia decisamente tempo di cambiare il sistema. Nulla è più pericoloso del perseverare in opinioni che confondono e appesantiscono sempre più la situazione. 

Lo Stato democratico-repubblicano non ha ancora compiuto la sua opera sociale. Ciò in gran parte dipende dalla democrazia incompiuta. Le parole, i propositi, gli entusiasmi congressuali, stando alla realtà delle cose, lasciano il tempo che trovano. Non basta mantenere il potere, bisogna andare avanti. I bei discorsi, dosati alle circostanze, e lungamente applauditi, non bastano a superare la crisi del sistema. La stanchezza c’è e si vede. Questa è la verità. 

Si sa che chi governa, governa non per il proprio profitto, non per interessi particolari, ma per il pubblico bene. I sistemi obsoleti o astratti, che accrescono il deficit della finanza pubblica, vanno abbandonati. Il rispetto della sovranità democratica è inevitabile per ben governare. La politica non deve eluderla facendo un uso improprio della cosa pubblica. È potere anche l’esperienza che l’opinione pubblica si forma, altrimenti che democrazia sarebbe! È stato detto più di due secoli or sono dal maggiore teorico dello Stato liberale, Montesquieu, e dal grande filosofo Rousseau, definito il padre della democrazia moderna, che «la società è buona o corrotta nella misura in cui il potere politico la rende tale». 

Il male nell’individuo si forma in base ad esempi o al comportamento sociale che tuttora purtroppo manca di largo senso di solidarietà. Lo Stato repubblicano, nonostante i vari decenni trascorsi, non ha ancora completato la sua opera sociale prevista dalle norme costituzionali. 

Molte leggi sono state emanate, ma non ancora una basilare che riguardi il rispetto della sovranità dello Stato democratico. Le leggi e la politica tuttora sono lacunose. Manca lo strumento del tutto adeguato al progresso dei tempi e alla società che crescendo s’illumina e si rinnova. Si fa ben poco o nulla al fine di avere governi stabili. Infatti, nulla viene attuato per ridurre il quadro numerico dei partiti, visto che ognuno di essi non intende trasformare la propria autonomia. Anzi essi vengono sostenuti e forse incoraggiati mediante i finanziamenti erogati dallo Stato. Giustappunto perché inesorabilmente il gioco torna, per così dire, a vantaggio del partito più numeroso! 

Gli accordi di coalizione o di alleanza fra i partiti dovrebbero avvenire prima delle consultazioni elettorali e non dopo, visto che non vi è altro sistema per cambiare le cose. È assai difficile che un tale ordine nuovo venga instaurato. La situazione politica non potrà cambiare anche e soprattutto per quell’ambizione che divide gli animi, e quindi il partito imperante continuerà nell’ipocrisia che diventa socievolezza. E quindi le leggi continueranno a non rappresentare il consenso, l’espressione della vera, diretta democrazia. 

Mentre tali sarebbero se le leggi venissero fatte da un consesso di persone illuminate e capaci, appositamente elette in rappresentanza delle regioni o capoluoghi. Si avrebbero così, in nome della sovranità popolare, atti autentici della volontà democratica. Un organo di legislatori, straordinari sotto tutti gli aspetti, in età matura, indipendenti dai due poteri, parlamentare ed esecutivo, sembra sia il modo più efficace per salvaguardare realmente gli interessi congiunti della maggioranza e della minoranza, evitando ovviamente i cosiddetti «doppioni ripetitivi». 

I tempi ormai sembrano maturi per fare un concreto, positivo passo avanti verso il riconoscimento effettivo della sovranità democratica dello Stato sociale e di diritto. 

Occorre che sia soltanto la democrazia rappresentativa l’unica autrice delle leggi, se l’azione politica vuol riconoscere l’inalienabilità della sua sovranità. 

Umberto Villari 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 35-37.




Giovinezza | Con la stessa fiamma

Due liriche di Pio Vigo

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 36.




 ARDONO ANCHE NEL BUIO 

Ho riordinato le piccole gioie 
dei miei anni 
dimenticate in un paniere 
appeso fra tanti 
alla parete della cantina. 
Erano fili deboli di allegria 
schegge, pagliuzze, 
frammenti di esultanza 
ritrovati in tante storie vissute: 
ceri accesi 
lungo il sentiero faticoso. 
Con essi ho tessuto le corde 
della mia altalena. 
Mi lascerò ora dondolare 
come quand’ero bambino 
dalla spinta soave dei miei sogni 
che lasciano intravedere 
la bellezza della vita. 

Pio Vigo




Il fascino delle immagini 

 Ho avuto l’occasione di conoscere Nicola Piazza pittore grazie ad una sua personale allestita a Marsala. 

Figura di artista poliedrica per la varietà di tecniche usate, si è formato, giorno dopo giorno, da autodidatta, spinto da un costante coscienzioso lavoro, che ha maturato il suo talento pittorico, e dal bisogno interiore di imprimere su carta o su tela le emozioni e le impressioni quasi per voler fermare il tempo che passa inesorabile. 

La pittura di Nicola Piazza non ha conosciuto soste, e i suoi lavori, esposti in numerose mostre, si trovano un po’ dovunque. Basta considerare tutta la sua produzione artistica per renderci conto e intuire che il bello da sempre costituisce la costante della sua ricerca pittorica. 

Se, quindi, mi chiedessi una motivazione del lavoro del pittore Piazza, non potrei non cercarla in questa sua esigenza, quasi morbosa, di voler catturare la bellezza per renderla immune da ogni genere di deterioramento. Se è questo – come è vero – il motivo, diciamo che il pittore ha colto il giusto significato dell’arte, che non è fine a se stessa. 

Un quadro, un brano musicale, un qualsiasi componimento, rappresentano piccoli punti di partenza, trampolini di lancio, per mezzo dei quali l’uomo recupera il meglio di sé e lo proietta nel futuro. Poiché il presente è incerto, si ha bisogno di queste spinte per uscire dallo stato di crisi in cui facilmente si è portati a cadere. Per questo, conveniamo con lui, quando, parlando della sua pittura che sviluppa un’ampia tematica, dice che non è settoriale. 

Piazza preferisce essere libero da condizionamenti di ogni genere o stereotipi vari, libero di catturare le emozioni, le sensazioni o le impressioni che, avvincenti e seducenti, accendono il fuoco creativo, per cui l’arte si fa vita, movimento e, perché no, anche staticità. 

Chi guarda i suoi quadri rimane colpito dalla varietà dei temi affrontati, che, mettendo in rilievo i motivi ispiratori, ci riportano alla Sicilia autentica, intrisa di storia millenaria. 

La sicilianità è ancora più evidente e forte nei lavori il cui soggetto è il riccio, elemento che lo distingue e lo rende noto al di fuori della Sicilia, poiché esso è assunto a suo simbolo e firma. Egli, dopo averne fatto uno studio attento, lo ripropone mischiato più volte a nature morte, a paesaggi anche surreali, a composizioni. 

Paesaggi ericini, saline, lo Stagnone, nature morte, composizioni varie, e tanti altri temi che non si riferiscono alla Sicilia, come case e strade romane, per citarne uno, costituiscono il variegato mondo pittorico di Nicola Piazza. Su tutti, però, la natura ha la parte del leone e la nostra impressione è che il pittore voglia quasi preservarla, se non altro, nei suoi aspetti più belli, dal tempo e dalle insidie quotidiane che l’uomo di oggi le tende. 

La natura esplode nei colori con luci smaglianti e con contrasti che concorrono, grazie alla forte capacità comunicativa del pittore, a lanciare messaggi mirati e precisi. Cosi, la pittura del Nostro è accessibile a tutti e di facile lettura; è pittura al servizio dell’uomo e, per questo, riesce formativa più di quanto non possa sembrare. Questo spiega il motivo per cui il pittore, pur conoscendo varie tecniche, rifugge dal complicato, non ammette il cervellotico e sua dote peculiare e talento di artista è la semplicità. 

I suoi lavori pittorici spaziano dal reale al surreale e, potremmo dire, dallo statico (fermando sulla tela il tempo che passa con un volto di donna), al dinamico. In “Cavalli in corsa”, ad esempio, le linee e i tratteggi acquistano un’armoniosa eleganza: in “Tramonto – Fuoco sulla città”, una rossa fiamma sembra piombare sulla città, illuminandola e al tempo stesso bruciandola; mentre in “Barche in ormeggio”, le barche, che ondeggiano, sembrano sospese tra l’azzurro chiaro del mare e del cielo e creano un effetto bello di luci e di colori. 

Non ci stancheremo di ammirare “Giovane mediterranea”, eseguita con tecnica ad acquerello: gli occhi fissi nel vuoto, persi nel travaglio esistenziale, esprimono una drammaticità sofferta di donna innamorata, in cui evidente è anche il forte attaccamento alla terra delle sue origini, come testimoniano i limoni e la composizione su cui s’impone. La luminosità dei colori fa cornice a un volto che impersona la dolcezza: e la sua espressività, che simboleggia anche il candore e la purezza, permette al pittore di raggiungere un alto grado di poesia. 

Allo stesso modo, la scelta dei colori, in “Paesaggio ericino”, sottolineando la cura rivolta ai pur piccoli dettagli, rende così minuziosamente riprodotto quel luogo che anche l’occhio più disattento può riconoscerlo e riviverlo; mentre lo straordinario gioco di colori, che domina incontrastato in “Tramonto – Fuoco sulla città”, raggiunge risultati veramente sorprendenti. 

Ma come non restare colpiti dalla statica bellezza di “Vecchio cancello”, antico ingresso con cancello della Villa del Principino, che s’affaccia sullo Stagnone e guarda l’isola di Favignana? Il cancello aperto, che nasconde storie e vicende passate, si lascia ammirare nella sua staticità. L’occhio e la mente sono presi dal fascino che quella vista suscita e, proiettati nel passato, che sa anche di mistero, vorrebbero andare oltre quella soglia per conoscere, per fermare e per meglio imprimere quel luogo e farlo proprio. 

Questi pochi esempi non possono che confermare ciò che abbiamo detto prima e, cioè, quanto sia variegato e ricco il mondo pittorico di Nicola Piazza, che. servendosi di varie tecniche (da quella mista a quella della sedimentazione o al semplice acquerello. in cui è maestro) e utilizzando particolari accorgimenti. ferma immagini che parlano direttamente al cuore e alla sensibilità di ciascuno di noi. E l’uomo rimane toccato, scosso, ammirato, perché quelle immagini gli dicono il suo mondo, lo inducono al ricordo e lo fanno pensare. Chi le vede per la prima volta resta stupito per la loro solarità e luminosità che danno un tocco particolare a tutto ciò che il pittore compone e ricrea. In ogni caso, egli raggiunge il suo scopo, soffermando lo sguardo di tutti per coinvolgerli in quel mondo che gli appartiene. 

“Capo Boeo” ci offre un esempio di sedimentazione (tecnica mista su base fotografica), dove notiamo un mare surreale in cui i colori si alternano, in modo brusco, passando dal bianco-azzurro al nero. Qui i “ricci”, quasi isolandosi dal contesto, ci riportano alla mediterraneità propria di questa terra. 

Il visitatore della mostra, attento o meno, intenditore o profano, viene, comunque, colpito dalla pittura di Nicola Piazza. Anche se, come già abbiamo avuto modo di notare, i paesaggi impressionano più di ogni altra cosa per l’attenzione riservata ai colori e ai dettagli, che rendono il quadro come un blocco di immagini tese a fermare lo scorrere incessante del tempo, al pittore Piazza riconosco la capacità di volere forzatamente imprimere su carta o su tela tutto ciò che gli è caro per la paura di darlo al passato e di perderlo. Così la sua arte assolve ad un compito ben preciso, preservando ed educando al rispetto della vita e delle cose che ce la rendono bella. 

Maria Vigliano

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 27-29.




Rousseau y el surgimiento de la sociedad civil

«El Hombre quiere la concordia; pero la Naturaleza sabe mejor que él que es lo bue-no para la especie: necesita la discordia» KANT

 

Para todo aquel que pretenda introducirse al estudio de la obra politica de Rousseau no le resultará extraño encontrar que el sentido de ciertas afirmaciones que él establece en poco respondían al espíritu de la época. Para Jean Jacques Rousseau al parecer era imprecindible mostrar una actitud contraria a la corriente con el fin de señalar que la solución a los grandes males que ha arrastrado la humanidad desde su origen, nopodiarecaer exclusivamente en la simple creencia de propagar los resultados de la razón. Rousseau no fue un pensador errante como algunos lo quierenver, ni tampoco fue un anti-ilustrado poseedor de una gran virtud intelectual cultivada sin más recursos que sus propias fuerzas. Por lo contrario, él fue no sólo uno de los más grandes talentos del siglo de las luces sino el que más se llego a comprometer con los principios teóricos e ideo1ógicos que hicieronde toda la llustración unodelos mássignificativos movimentos intelectuales, críticos e impugnadores de toda la historia. La llustración, como todos sabemos, buscaba afanosamente difundir, con una cada vez mayor extensión, los resultados del conocimiento o del entendimiento humano como era el término empleado durante los siglos XVII y XVIII. Resultados que principalmente eran el producto de una constante observación y reflexión de la naturaleza. Esto es, de una concepción específica del universo que al ser concebido con arreglo a un cierto orden, se encuentra que todo lo que en él exista debe responder, por la estructura de su movimiento y funcionamiento, a ciertas leyes. El saber humano de estemodo buscaba indagar tambiénsobre lasleyes que rigenalmovi-miento de la historia. Indagación que conduce a establecer a la naturaleza, o mejor dicho al método de observación y reflexión de la naturaleza, como el modelo a seguir para determinar el origen y las causas de todo el movimiento de la historia humana. De este modo encontramos que al no serposible determinar objetivamente dicho origen lo ideal surge de modo tal que se mezcla con lo real. Mezcla en la cual lo ideal como el factor dominante norma no sólo a la investigación histórica sino que desea establecer a la vez el sentido de los der-roteros sobre el devenir humano. Lo más significativo de esta conducta científica que ocurría tanto en el campo de los ciencias naturales como en el de las ciencias sociales, radicaba en el hecho de haber generado el proceso irrevertible de secularización del conocimiento. Es decir, la observación de la naturaleza tanto física como humana, mostró que el conocimiento obtenido por revelación no podía contener ni un gramo de confiabilidad. El saber o conocimiento obtenido mediante las luces de la razón se resistía a seguir cumpliendo el papel tradicional de encontrar causas divinas, las cuales a la vez de ocultar la naturaleza de las cosas ocultan la naturaleza del hombre. La razón adquiere de este modo una importancia tal que se puede decir que fue para el siglo XVIII el principal instrumento impugnador de un orden social en el cual prevalencián los privilégios e intereses de la aristocrácia sobre el conjunto de toda la sociedad. Queremos señalar que debido a la gran fuerza y peso que llegó a adquirir este método, el desarrollo de las ciencias sociales en su resistencia por no caer en los remolinos de la teología o en explicaciones sobre los origines de las sociedades humanas obtenidas a través de los textos bíblicos pero principalmente por el poder que adquirieron sus principios de autoridad a lo largo de la edad media, se mostrarón como una prolungación de las ciencias físicas; o en otro caso de que estas ciencias dependieran invariablemente de los derroteros de la ciencia natural. Ahora bien, el nuevo papel que asume la razón se reducía al hecho de creer que solamente através de ella, esto es, de la difusión de los resultados del conocimiento, el género humano en su conjunto inevitable e irreversiblemente, solamente tendrá frente de sí el camino hacia su propio autoperfeccionamiento. Se esperaba pues que las luces de la razón-despues de haberse despejado del todo el obscurantismo medieval y las fuerzas sociales que lo perpetuaban – conducirian a los hombres al prometido paraíso. La ciencia era en resumidas cuentas considerada como la llave que debería abrir las puertas de ese esperado y ambicionado reino de felicidad, libertad e igualdad entre los hombres y pueblos. El devenir humano quedaba garantizado de una vez por todas y sólo restaba abordar el tren que conduciría a los hombres hacia el progreso y la civilización más plenas. Necesariamente Rousseau no consideró jamás así el problema. Su forma particular de entender a la razón de hecho se puede decir que se reduce a ese fin. Es decir para él la razón no puede representar más que el factor del cual depende toda posible sociedad igualitaria. Es quizá su famoso Emilio el texto que mejor mues tra lo que queremos dar a entender. Pero debemos advertir que para él la razón sólo puede ser el resultado de un proceso mediante el cual el hombre se llegue a conocer a sí mismo, no esí el punto de partida para su conocimiento. Es decir, para Rousseau lo verdaderamente esencial no radica en querer forzar a los individuos a ser racionales o a que acepten sin más los grandes beneficios que puede contener por sí mismo el progreso; sino en que éstos puedan juzgar a la spotencialidades de la razón a través de juicios o criterios politicos fundamen-tados centralmente en la inquietud de poder incidir en el comportamiento moral de los individuos. De ello se comprende el por que para Rousseau la problemática de la virtud tanto como habilidad personal para de sempeñar este o aquel oficio o profesión, y como instrumento para la obtención de verdades morales, cobra una importancia esencial para la comprensíon de toda su teoría política.El caso particular de la educación de Emilio lo podemos tomar como el modelo de un proyecto educativo que va del sentimiento a la razón; esto es, de la conciencia de sí mismo e la conciencia de la necesidd de vivir en sociedad. Como se puede observar el concepto de razón en Rousseau difiere fundamentalmente del concepto de los filósofos. La razón es para él sólo el producto de la reflexión sobre la naturaleza moral, es decir hístorica y políti-ca, del ser del hombre. Insistimos, pues, la razón es para Rousseau el resultado de una reflexión que al indagar sobre la historta del hombrey que al preguntarse sobre el carácter de su orígen – orígen que lo llega a determinar como negativo – quiere encontrar la mejor vía racional al próximo devenir histórico. Entendiendo de este modo las inquietudes del ginebrino respecto al sentido de lo que hasta hoy ha sido la historia, podemos interpretar que su recházo a toda posible noción del progreso caracterizada por sur tendencias eficientistas y desarrollistas o por su expresión negativa y destructi-va, en poco conducia a superar las grandes contradicciones históricas co-mo lo son la desigualdad y la alienación. Rosseau al husmear el futuro in-tuyó de algún modo que esto no podía depender de esa concepción del progreso. Su rechazó no correspondía a una actitud descabellada y desespe-ranzadora, más bien al producto de una forma particular de interpretar a la história. De asimilar a la historia como una experiencia negativa y alienante. La concepción sonbre el progreso que ha sido más ampliamente aceptada desde el siglo XVIII, en su materialización de acuerdo con Rousseau sólo ha llegado a reproducir nuevas formas de desigual dad y alienación, mi-smas que al extenderse universalmente hacen de su posible superación y supresión la más inalcanzable de todas las posibles utopías. Rousseau mue-stra así desde suprimer Discurso que todo el movimiento de la historia se ha encontrado dominado por la existencia de fuerzas negativas y destru-ctivas, las cuales centralmente podiamos decir que son la alienación y la desigualdad social. Ahora bien, el conjunto de la obra de Rousseau descansa en la problemática sobre el origen de la sociabilidad entre los hombres y de la hi-storia de dicha sociabilidad. Pero debemos anotar, antes de seguir adelante, que esta caracteristica de la obra de Rousseau se vió truncada como lo podemos constatar hacia el final del Contrato social. Cobrando por otro lado una orientación muy significativa sus reflexiones autobiogràficas. las cuales, por cierto conservan una relación de suma importancia en referencia a toda su obra anterior. Pero creemos que posiblemente de habersecontinuado sus reflexiones en el sentido arriba anotado, tendríamos que hablar de otras muchas cosas sobre su filosofia política. Quedando, por tanto, como uno de los puntos fundamentales, el de analizar al pensamiento de Rousseau ya no sólo en relacion con las grandes determinantes del siglo XVIII, sino tambíen en las estrechas relaciones de escritos que van desde el primer Discurso hasta la Nueva Eloisac on sus escritos autobiogràficos. En referencia al devenir histórico para Rousseau el arrivo a ese paraíso tantas veces prometido pero que ahora contenía por principal fuerza motríz a la razón, justamente por contener ese carácter dependiente de una visión estrecha sobre el saber umano, sólo conduciría a crear de nueva cuenta contradicciones mucho más graves que todas las que antecedían a ese esperado devenir. El problema para Rousseau es por tanto considerar la existencia de otros factores que en vez de dibujar a ese futuro como algo que reduciría a las sociedades a una situación aún mucho más vergonzosa que las de todo el pasado, puedan mostrar que es necesario generar todo un proyecto de reforma histórica mediante el cual se reduzcan al máxi-mo las tendecias negativas que se encuentran y a en el presente. Para nosotros esto constituye uno de los puntos medulares del Contrato social y del Emilio o de la educacion. Es decir, el de determinar la sociabilidad entre los hombres a partir de una forma de entender y por tanto de llevar a la práctica social, las relaciones entre sí mismos con las instituciones políticas que para tal fin crean; y de reforzar a éstas quiza no con la idea ingénua que se pueda formar en una lectura ligera del Emilio, sino como él mismo lo llega a plantear en estos dos textos referidos aquí, mediante la necesidad imperiosa de llegar a establecer una plena identidad ético-política de la sociedad entre todos sus miembros. Para Rousseau la prin-cipal fuerza existente capaz de frenar lo que entendemos por la tendencia negativo-destructiva de la historia, consiste en asumir con radicalidad y seriedad el otro de los puntos fuertes del movimiento ilustrado; esto es, para él era fundamental establecer toda una reforma que por su esencia ética que la hace necesaria llegará a mostrar al género humano su posibilidad de perfeccionamento moral. De esta manera la inquietud de los ilu-strados por impulzar una reforma de este tipo (la cual se antojaba como algo bastante alejado de toda realidad, de ahí el abandono del cual ha sido objeto por prácticamente todas las generaciones posteriores a ese siglo), nos muestra hasta que punto el análisis de Adorno y Horkhaimer sobre la Dialectica del Iluminismo es justo. En pocas palabras queremos decir que hasta hoy el Illamado progreso, especialmente por la forma en como se ha venido produciendo lo que hemos venido entendiendo por desarrollo social, se ha determinado como una tendencia contraria a lo esperado y deseado por los filósofos ilustrados del siglo XVIII. La fuerte fe depositada por ellos en un devenir liberador basado en la fuerza de la razón, se puede decir que los cegó a grado tal que llegaban a ver que en parte la tendencia esencial de dicha esperanza era negativa y destructiva; però ¿…qué a caso no fue esto lo que ya de algun modo había intuído Jean-Jacques Rousseau desde su Discorso sobresi el progreso de las ciencas y las artes ha contribuido a corromper o a depurar las costumbres? Hasta aquí hemos querido observar la resistencia de Rousseau por indagar sobre la histaoria desde la perspectiva de determinar a las claves del progreso humano. Como podemos observar el buscaba otro punto de apoyo, otras claves para construir de ahí lo que entenderíamos por ahora su propuesta para señalar el posible camino hacia la perfectibilidad moral de los hombres. A través de su obra encontramos que las claves en sí son varias y que incluso en momentos estas llegan a adquirir matices diferentes. De entre estas «claves» tenemos como ejemplo lo siguiente: el sentimiento, el voler al estado de naturaleza, el contrato social, la voluntad popular, la educación, el ver siempre en símismo, hablar con la verdad, etc. Desde la famosa «iluminación de Vincennes»-sitio al cual cierto se dirigía Rousseau con el fin de visitar a Denis Diderot quien se hayaba prisionero en dicho lugar-nos encontramos frente a un Rousseau que detecta el problema de manera por demás intuitiva; pero que en otro plano se podría decir que quizá tal «iluminación» obedecia a ciertas experiencias propias a su condición de plebeyo. Como sabemos para él las ciencias y las artes más que contribuir a depurar las costumbres las han corrompido. Sintetizando esto que es por cierto el punto de arranque de toda su reflexión sobre la política y la moral, y que es lo que lo define frente al espíritu general de la ilustración, habría que decir que para el ginebríno la posibilidad del perfeccionamiento moral no se puede reducir al hecho de llegar a conocer de forma cada vez más objetiva los procesos que determinan al funcionamiento y movimiento de la naturaleza. Para Rousseau el problema no es colocarse frente a la naturaleza en una posición tal que permita explotar de forma más óptima y funcional sus recursos, sino de encontrar una alternativa histórica que ofrezca a los hombres modificar sustancialmente la tendencia que los caracte-riza como el ser más depredador de la naturaleza, esto por un lado, por otro que en base justamente a esa forma de desarrollar el progreso el hombre se muestre incapaz de poder establecer una formación social en la cual la igualdad, la justicia y la hoy tan discutida democracia sean un hecho histórico y no así una símple ilusión. Alternativa la cual para él sólo sería posible la política. Por ser la política la única fuerza capaz de recuperar, o mejor dicho, de modificar a la trayectoría de la historia hacia fines positivos, hacia fines racional y moralmente positivos. El verdarero significado que llega a adquirir la vuelta al estado de naturaleza radica en esto último. Pero es necesario decir que para Rousseau la realización de este planteamiento sólo puede representar el hecho de volver el hombre hacía sí mismo, hacia su propia naturaleza; naturaleza que se vió trastocada al momento mismo en que se produjo la socialización o sociabilidad a partir de una forma negativa de realizar el contrato social. La historia se ha caracterizado por la presencia de esa fuerza negativa. Por ello es de que Rousseau considera que si el origen de la sociedad fue un hecho histórico cuyo resultado ha sido negativo para toda la especie humana hasta hoy día, la solución a este mal sólo puede surgir de la historia misma. En re-sumen y en correspondencia a su deísmo para él el hombre no puede ser otra cosa más que un ser histórico. La supuesta naturaleza humana en lo esencial consiste en concebir de este modo al hombre, es decir, en verlo como un ser libre, como un ser que se define a partir de su voluntad. Uno de los rasgos más representativos de la filosofia social de los siglos XVII y XVIII fue el de la necesidad de romper con las pesadas cadenas que ataban a la investigación y explicación sobre el origen y desarrollo de las sociedades humanas, a una causa teológico-religiosa. De esta manera la explicación sobre el origen de las sociedades humanas basado en el presupuesto de un existente estado de naturaleza, de hecho adquirió una doble importancia: En primer lugar esta importancia recayó en la necesidad de establecer una reconstrucción genealógica sobre el origen de la sociedad, de sus instituciones así como de toda su historia, y: en segundo lugar, el de la necesidad de establecer una alternativa teórico y metodológica que a la vez deser el punto de partida de dicha reconstruccion, permita establecer el fundamento para la ruptura definitiva con toda explicación sobre ese orígen en razonamientos teológicos o religiosos. Es así como el pensamiento social de estos siglos se erigió de hecho en un conocimiento crítico e impugnador. Es decir, fue crítico en tanto que desnudaba a un orden social en sus fundamentos teóricos e ideológicos, y fue impugnador en el sentido de actuar como una fuerza que al sostenerse por sí misma negaba la validez universal y racional de dicho orden social: intuyendo por otro lado la necesidad de replantear a ese orden a partir del desarrollo de profundos cambios en torno a sus instituciones fundamentales así como al espíritu de éstas. En resumen se puede decir que el concepto de naturaleza para esos siglos contenía no sólo una significativa carga de «cientificidad» al ser extendido al campo de la investigación y reflexión social, sino que también contenía relevantes «intenciones políticas». Es importante señalar que para el pensamiento politico-social de los siglos XVII y XVIII en general la forma en como planteó la idea sobre el esta do de naturaleza para explicar el punto de partida comun de todas las sociedades, no debe ser tomada como la simple expresión de un pensamiento ingénuo como tal vez muchos lo quieren ver. Es cierto que el llamado «estado de la naturaleza» es en si una problemática ficticia y quizá fueron los propios ilustrados los primeros que cobraron conciencia d etal hecho. Pero independientemente de esto pensamos que es necesario establecer que la importancia que adquirió esta problemática radica en lo siguiente: al moverse el pensamiento ilustrado en un ambiente en el cual era aún la especulación teo1ógico-religioso un fuerte corsé, de hecho la idea sobre el estado de naturaleza no podría representar más que una alternativa viable para liberarse de la presión de esa tradición dominante. Es así que se debe considerar al llamado estado de naturaleza como un recurso de carácter hipotético. Recurso al cual tiene que hechar mano un pensamiento que, como ya lo señalabamos, quiere liberarse de una tradición teórico-metodo1ógica anquilosada en especulaciónes de corte teo1ógico. Por su parte Rousseau fue consciente del caracter ficticio que encerraba esta problemática; él en repetidas ocasiones se vió acosado e imposibilitado para elevar a grado de evidencia sus argumentos sobre el origen de la sociabilidad entre los hombres. Y es importante mencionar que a pesar de sentir esa presión no se atrevió a tomar un camino ya recorrido, el de la teología y todo su cuerpo hipotético basado en el recurso infinito de deducciones lógicas; por ofrecer este camino una serie de argumentos aún mucho más débiles de los que se han desprendido de ese su puesto estado de naturaleza. De ahí que para él este recurso, el cual marco todo un periódo de la historia del pensamiento social, adquiere una concatenación específica en referencía al del empleo que le imprimieron sus contemporáneos. En el siglo XVIII generalmente se aceptaba como necesario a todo orden socialel de la existencia del hombre en una situación pre-social. El denominado estado de naturaleza llenaba de este modo une spacio bastante significativo en las investigaciones sobre el origen de lassociedades humanas. De este modo se llegaba a sostener que en dicho estado pre-social el hombre indudablemente debería poseer una determinada naturaleza a partir de la cual era posible definir su estructura moral ya sea esta calificada positiva o negativamente. Rousseau niega esto. Niega que en ese posible estado de naturaleza el hombre se haya encontrado ya determinado como un ser moral. Para él dicha situación en sí misma no sería en modo alguno una condición pre-social marcada ya por un signo que defina al hombre comoun ser negativo o positivo. Aceptar así el problema implicaba que toda posible genealogía que intente reconstruir el origen y desarrollo de la sociedad, se construya como un intento no por pretender reformar al hombre sino por quererlo modificar sustancialmente. Modificación en la cual fuerza y coerción llegariana desempeñar un papel esencial. La idea de Rousseau en torno al estado de naturaleza es por su intención bastante diferente. Como todos sabemos, para él hombre en estado de naturaleza des conoce la moral por vivir en un ambiente natural en el cual no necesita del otro. El hombre en estado de naturaleza se basta, pues, así mismo y como característica de esta muestra de autosuficiencia el, hombre, que habitaba en dicho estado, no era el productor de la historia. Sus determinantes eran por lo tanto el ser un ser a-histórico, a-social y por ende a-moral. Pero sobre todo su principal determinante de acuerdo con el ginebrino era la de vivir bajo un ambiente de libertad y de felicidad. Pe-ro entonces si esto ocurría así porqué los hombres buscaron relacionarse entre sí, qué factores influyeron para pasar de ese estado de libertad y felicidad a la creación de la historia, la sociabilidad y por tanto también a la creacion de la moralidad. Para Rousseau el supuesto tránsito del hombre en estado de naturaleza al hombre de la sociedad civil, fue el producto de diversas circunstan-cias de entre las cuales las naturales fueron las que mayormente llegaron a desempeñar un papel esencial, a grado tal que prefiguraron diversas formas de asociación entre los hombres asi como de sus instituciones políticas. El ejemplo más significativo de esto lo encontramos en el surgimiento del «habla». Independientemente de la diversidad de lenguas que podamos encontrar, Rousseau llegó a considerar al «habla» como la primera de las instituciones sociales. Señalandonos también a la vez que la forma en como se produce y desarrolla cada lengua particular depende de las condiciones naturales de cada región. En su trabajo sobre EL origen de las lenguas, trabajo que ha cobrado entre los lingüistas una importante atención, pero que fue un trabajo de cual el mismo se sintió poco satisfecho, nos muestra solamente como ejemplo de esa determinante la diferencia que media entre las lenguas del mediodía y las lenguas del norte «…1os hombres septentrionales – dice Rousseau-no carecen de pasiones, pero las tienen de otra especie. Las de los países cálidos son pasiones voluptuosas que atañen al amor y la mocie. La naturaleza hace tanto por los habitantes que ellos no tienen nada que hacer. Con tal que un asiatico tenga mujeres y reposo está contento. Pero en el norte, donde los habitantes consumen mucho sobre un suelo ingrato, los hombres sometidos a tantas necesidades son faciles de irritar; todo lo que se hace a su alrededor los inquieta; como no subsisten más que a duras penas, cuanto más pobres son más se aferran a lo poco que tienen; acercarseles es atentar contra su vida. De ahí viene ese temperamento irascible tan pronto a volverse en fiera contra todo lo que les hiere. Así, sus voces se acompañan siempre de articulaciones fuertes que las hacen duras y ruidosas»1. En ese mismo trabajo del ginebrino escrito aproximadamente en 1761, es donde encontramos afirmaciones lo bastante significativas respecto a su concepción sobre el origen de la sociabilidad entre los hombres. Para Rousseau el tránsito del estado de naturaleza a la formación de la sociedad civil se encuentra determinado por el trabajo humano. Esto es, por un desarrollo productivo en el cual los hombres reclamaban ya de la relación necesaria con otros hombres. De este modo estas formas mínimas de relacionarse los hombres ya marcan el surgimiento de una determinada sociabilidad y moralidad, y por tanto también da una situación histórica determinada. Pero cabe decir en este caso las formas de trabajo se reducian a la pesca, caceria, recolección de frutos y en gran parte a la ganadería, actividad humana, estan última, a la que Rousseau consideraba que fue de hecho una verdadera revolución productiva que permitió a los hombres volverse sedentarios y ociosos. Hasta aquí podríamos decir que los hombres vivián bajo una situación en la cual ya no eran del todo «naturales» pero que tampoco vivián en condiciones sociales tal y como corresponde a su existencia en societad civil. Para ello era necesario que ocurriese una nueva revolución productiva. Esa nueva revolución productiva fue la agricultura en conjunto con la metalurgia; formas de producción que alteraron radicalmente el modo de vida de los hombres. El surgimiento de la sociedad civil se produce pues en relación a estas nuevas revoluciones productivas. La agricultura marca por tanto el origen de la sociedad civil, es decir, marca el momento en que dá nacimiento la propiedad privada y el medio de asegurarla que es el contrato o pacto social. La agricultura así «introduce la propiedad – anota Rousseau -, el gobierno, las leyes y, gradualmente, la miseria y los crímenes, inseparables para nuestra especie de la ciencia del bien y del mal»2. Como podemos observar en esto último el problema del mal, como ya de algún modo lo indicabamos anteriomlente, es sacado de sus ataduras metafisicas y teo1ógicas para ser colocado en una visión ético-política en la cual se plantea que si bien el origen del mal es histórico, su solución de igual modo debe ser histórica. Esto es, Rousseau al asumirse como deísta que si bien cree en los dogmas eternos de una religión natural, cosa que nos muestra en un extenso pasaje del Emilio dedicado al tema sobre la Profesion de fe de un presbiterio saboyano, piensa que el problema del mal no puede recaer en causas divinas. Hasta cierto punto esto nos recuerda a la solución cartesiana sobre el problema del error. Así como para Descartes el error redica en el hombre, para Rousseau el mal sólo puede estar en el hombre, específicamente en la forma en como se originó y desarrollo su sociabilidad. Rousseau pensó que el único medio para superar el mal es a travées de un proyecto de reforma en el cual el contrato social y la educación conduscan a los hombres a la necesidad de recuperar la dimensión de su libertad. La forma de contrato que ha predominato desde el surgimiento de la sociedad civil, al marcar el punto de ruptura definitivo con las expresiones de la libertad natural, punto de ruptura que condujó a su vez a la creación de todo orden social y moral, se ha caracterizado por ser el principal instrumento de institucionalización de la desigualdad social. La forma en como Rousseau establece que se debe producir la superación histórica de la desigualdad social es mediante el establecimiento de un nuevo pacto o contrato social. De un nuevo contrato social en el cual la ley como la voluntad popular llegarían a garantizar las condiciones óptimas para el desarrollo de una forma de asociación entre los hombres fundada en la igualdad. Queremos decir con ello que de lo que se trata es de suprimir la tendencia negativa de la historia y transformarla por medio de la politica y por medio de una reforma moral en un proceso positivo. Proceso en el cual el «yo» se llegue a identificar ética y politicamente con el «yo común». De esta forma la desigualdad de talentos, que es producto de toda la historia de la sociabilidad, se armonice con el conjunto de la sociedad a partir de sus necesidades reales. En resumen, la sociabilidad – que ha devenido del ocio al trabajo y del trabajo al ocio – debe dejar de ser una lucha entre los individuos por la riqueza excedente. Y para decirlo de un modo más justo, el proyecto de Rousseau significa que este abandono debe ser en sí la renuncia el enriquecimiento como el símbolo más representativo del progreso social o individual. De ahí que él como un filósofo obsesivo por determinar a la virtud y de vivir de acuerdo a ella, se haya visto presionado a definir no sólo lo que para él sería la virtud individual sino también la que sería la propia a una sociedad virtuosa. Son el Contrato social y el Emilio así como sus Conjesiones los textos de Rousseau en donde se encuentra con más detalle su concepcíon sobre la virtud individual y social. Pero en suma se debe anotar que para él la Republica es la forma de organización social y política que mejor podría contribuír al fortalecimiento de la virtud. Definiendo por Republica la síntesis de los aspectos positivos de estado de naturaleza con los de la sociedad civil. Hasta cierto punto se puede que esa forma de organización socio-políti-ca podría ser la solución al proceso negativo de la historia. Pero más que indagar sobre las características organización, debemos mejor preguntar cuelas serían los aspectos positivos a rescatar del estado de naturaleza. El primer aspecto es el de la conservación de lo que son para Rousseau las notas esenciales del hombre: la bondad natural y su carácter de ser libre. Notas que de acuerdo con Rousseau se encuentran en cada hombre de forma innata. El segundo aspecto positivo a rescatar del estado de naturaleza consiste en preservar tanto a la pasión como a la necesidad. Seña-lando que para Rousseau la pasión y la necesidad constituyen de hecho las causas verdaderas de la sociabilidad entre los hombres.

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 15-26.




 Virgilio Titone narratore 

Ci sono scrittori la cui fama dura si e no il tempo di una vita, altri la consolidano di più da morti, come se si dovessero prendere una rivincita per continuare a sfidare il passare inosservato del tempo e far parlare di sé. Di questi è Virgilio Titone scrittore. È noto e si ricorda lo storico, trascurando che fu un eclettico versatile e molto geniale, di vasta cultura che s’interessòdi tutto, lasciando una traccia indelebile. 

Al di là d’ogni tornaconto, guardò esclusivamente all’uomo e all’umanità che è in lui. Per questo continueremo a ricordarlo, mettendo in risalto lo studioso attento, il sociologo, il letterato, lo storico che dà importanza alle piccole cose, perché- diceva – sono la chiave di comprensione dei grandi fatti, e lo scrittore, capace di calarsi nella realtà per farla vedere nella sua luce migliore. 

Virgilio Titone, sia che trattasse di storia o di letteratura, sia che esprimesse, com’è nei Diari1, sue riflessioni, aveva il senso del giusto mezzo del vero scrittore, e tale è da ritenersi: uno scrittore che sa bene dosare la parola per andare subito al nòcciolo del discorso ed esprimere tutto quel mondo visibile o sotterraneo che l’uomo si porta dentro. 

Come narratore, nel senso proprio del termine, si rivelò nel 1971, quando pubblicò presso Mondadori la raccolta Storie della vecchia Sicilia. Nel 1987 la ristampò con alcune varianti presso la casa editrice palermitana Herbita con il titolo Vecchie e nuove storie siciliane. Già nel titolo “storia” sta per narrazione, com’è nella parlata del popolo siciliano, e lo scrittore Titone narra fatti con gli usi e costumi propri di una Sicilia che stava tramontando per sempre, sul finire degli anni Cinquanta, con l’avvento del boom economico; narra alla maniera diodorea ma con puntuali cognizioni di causa la Sicilia che lo aveva visto fanciullo e, nell’avanzare degli anni, con la nostalgia delle cose che furono ma non con rimpianto, perché c’è in lui la consapevolezza che la vita abbisogna di questo lento passare per rinnovarsi e continuare il suo moto, e insieme con quella delle cose, c’è la nostalgia degli uomini che passano, come un fiume in piena, lasciando un ricordo destinato anch’esso ad essere cancellato per sempre. 

Ad aprire Storie della vecchia Sicilia2 è “La zolfara”, seguita da “La pensione” e da “L’odio”. Le prime due nell’edizione palermitana prenderanno rispettivamente titolo “La fuga” e “Gli anni di Mazara”, mentre non verrà riproposta “L’odio” e così anche “L’annunciatore del traghetto” e “Il pranzo di Natale”. In cambio, a corredo della sezione «Nuove storie siciliane», verranno aggiunte “L’AIDS in Sicilia: storia di una colonna infame senza la colonna”, “Andrea” e “L’onorevole trombato”. Pare che l’Autore abbia voluto snellirla nella tematica e, al tempo stesso, rinnovarla per avvicinarsi all’attualità degli anni Ottanta. 

“La zolfara”, poi “La fuga”, e “L’odio” propongono l’immagine della Sicilia, con i suoi pro e i contro, con la mafia e con la povera gente che doveva farsi giustizia da sé rifacendosi del torto ricevuto, essendo lo Stato assente o forte con i deboli. Nella storia “L’odio” un poveraccio che s’era fatto tutto da sé Nicola Rizzo, che aveva conosciuto la vita di emigrato, il carcere, una posizione di agio, perché ci sapeva fare con gli uomini e con le cose, lui, ora don Nicola, non può godersi per una malattia i frutti del suo lavoro, non è ri- cambiato dalla moglie e, per giunta, deve subire le angherie del giovane avvocaticchio, suo cognato. Era questa la ricompensa di tutta una vita, che gli altri, irriverenti e ingrati, avrebbero goduto della sua roba? 

«La sera l’incendio aveva compiuto la sua opera. Pietro eseguì fedelmente gli ordini del padrone. […] Di là tutt’e due guardavano le fiamme che si levavano alte sul paese, mentre i pompieri, accorsi da Mazara, cercavano inutilmente di spegnerle. Nicola guardava il suo regno distrutto e ora si sentiva meglio. Sarebbe restato là Tutto ormai era dietro di lui, mentre la luna illuminava i campi tranquilli e in lontananza il mare di Mazara3». 

La luna è la testimone silenziosa, come lo è stata sempre, degli accadimenti umani e niente può se non alleviare con la sua luminosità il dolore che tutto avvolge, la solitudine che è nelle cose e negli uomini. 

Ne “La fuga” la malvagità spinge un bravo giovane a lasciare tutto, la senia e la madre con cui viveva, per andare alla macchia, dopo aver vendicato il torto subito, rinunciando ad una vita normale a cui aveva aspirato. Non gli mancheranno alcune vecchie amicizie, ma sarà forte in lui la lontananza dalla madre bisognosa di lui. 

Vi troviamo anche, oltre il motivo della vendetta, quello dell’omosessualità diffuso nella vecchia Sicilia, le cui origini affossano molto lontano nel tempo. Titone ricorda i pueri catinensis, ma era un uso normale e consolidato anche nella Sicilia greca e in quella delle miniere. La promiscuità e la solidarietà che si instauravano tra carusi e pirriatura, gli zolfatai, ne favorivano l’uso. È un aspetto poco conosciuto e, per questo, lo scrittore lo inserisce abilmente nella sua “storia”, perché si sappia. Lo storico non prevale sul narratore, ma tutte le occasioni sono buone per dare notizie e conoscenze attinenti alla Sicilia. Perciò non manca di inserire usi e costumi del tempo a cui si riferisce. Ecco un esempio tratto da “La fuga”: 

«Tra l’altro i contadini non vanno all’osteria, né bevono vino se non a casa loro, quando ne hanno, e sempre dopo i pasti. Una volta, come parte del salario di una giornata di lavoro, si usava darne una certa misura, che generalmente era il quartuccio, circa tre quarti di litro, e lo bevevano nei campi. Ora non si usa più Gli zolfatai invece, benché pagati meglio, spendevano tutto quello che guadagnavano ed erano frequentatori abituali delle osterie4». 

Il narratore è un osservatore attento a cui non sfugge niente ed è sempre pronto a cogliere quelle sfumature che concorrono a fissare e a far conoscere quel mondo che stava scomparendo. 

Il tema della vendetta offre lo spunto per scrivere quelle belle pagine che costituiscono la storia “L’esattoria”. Un arrogante, arrivato esattore, un certo Giacalone che aveva comprato anche il titolo di cavaliere, si accanisce contro l’impiegato Bertuglia, assiduo lavoratore che non scende a compromessi, e non manca occasione per riprenderlo e rimproverarlo. Bertuglia non cede ai ricatti e, da buon siciliano qual è ma senza voler spargere sangue, medita la vendetta, facendogliela pagare con la stessa moneta e con fredda impassibile determinazione. 

“Il pranzo di Natale” è ancora l’amara constatazione che la solitudine pesa come macigno sulla testa di ognuno e suona come una condanna con cui l’uomo è chiamato a fare i conti, ma deve trovare la forza per reagire, se non vuole soccombere. È questo, un motivo ricorrente e abbastanza presente nella narrativa del Nostro che così apre a tutto un filone proprio della letteratura europea di quegli anni. 

Col passaggio dalla vecchia alla nuova Sicilia, l’uomo si è scoperto più solo, perché se la modernizzazione ha migliorato materialmente il tenore di vita, nel contempo lo ha isolato ancora di più Allontanandolo dalla campagna, lo ha relegato apparentemente ad una vita più associata ma asociale e deprimente, fatta di apparenze e carente nei rapporti interpersonali che da soli danno senso alla vita. 

Con “L’annunciatore del traghetto” c’imbattiamo in Gaspare Riccobono, un deviatore addetto alla cabina di controllo di mezzi e persone diretti a Villa San Giovanni che vive la sua solitudine nel disagio, così come altri personaggi. Come Nicola Rizzo de “L’odio”, non è amato dalla moglie, non ricambiato nell’amore dall’unica figlia insensibile e, senza darlo a vedere, ritardata mentale e, tanto per non cambiare, un lavoro monotono che lo rendeva automa. 

«Perciò aveva dovuto abituarsi anche a questo: a considerare la famiglia come si considera un male che non si possa né curare né evitare e per il quale non ci sia nulla di meglio da fare che pensarci il meno possibile. […] Aveva cominciato a lavorare nelle ferrovie da ragazzo. Poi si era sposato. Da anni si alzava ogni mattina, sempre alla stessa ora, per fare le stesse cose che aveva fatto e che avrebbe continuato a fare, fino a quando non fosse divenuto tanto vecchio da andarsene in pensione. […] Che senso c’era in tutto questo?5» 

Se la solitudine, come ne “Il pranzo di Natale”, che tratta dell’anziano pensionato cavalier Cataldi, può essere accettata e virilmente vissuta, non così è l’estraniamento che esaspera e rende impossibile il vivere. Riccobono, a lungo andare, diventa un estraniato e medita la vendetta per riscattarsi una volta per sempre. 

“La caccia” e “La visita” ci riferiscono alcuni aspetti della vecchia Sicilia, qualcuno dei quali resiste ancora, specie nell’entroterra o in certi paesi a spiccata vocazione agricola: le lunghe strette di mano di amici e parenti ai congiunti di un morto dopo l’accompagnamento e le visite a casa, il “consolo”, cioè le cibarie che vi si portavano, a consolare il lutto. Ne “La caccia” sono le consuetudini tarde a morire di grossi proprietari terrieri, come don Ciccio Saporito e il barone Merlo, dediti alla caccia che ormai per loro cominciava ad essere un ricordo di altri tempi; e ricordo lontano era ormai per don Ciccio la giovane Concetta, giovane che aveva amato e che ora rivedeva vecchia e appesantita dagli anni «curva sotto un sacco, troppo pesante per le sue povere spalle». 

«- Voscenza benedica! – Anch’essa veniva da quel tempo. Don Ciccio la guardò incerto. Sembrava lei, Concetta, quella che era stata Concetta. Ma era possibile? La vecchia veniva avanti, curva sotto un sacco, troppo pesante per le sue povere spalle. […] Concetta non era stata come le altre. Aveva gli occhi lucidi e le carni calde e bianche. Ed era accaduta una cosa strana, che lui non avrebbe mai confessata. A poco a poco aveva preso a volerle bene. E anche lei gli si era affezionata. […] A un nuovo scroscio di pioggia, la salutò – Addio, Concetta! – Lei non seppe rispondere subito al saluto. E, mentre lui si affrettava a tornare indietro, rimase lì col suo sacco ai piedi. Due lacrime le scendevano sulle guance scarne, mentre continuava a guardarlo sotto la pioggia6». 

A leggerlo (ma bisognerebbe leggere tutta la “storia”), è un passo di struggente tenerezza per il poco che dice e per il molto che fa intuire. Titone è un abile lettore e descrittore dell’animo umano. Come un bravo pittore, gli bastano poche pennellate per rappresentare quella vita che è in noi e che ai molti sfugge. Dire in poche parole qualcosa di complesso non è di tutti gli scrittori; lui punta all’essenziale e al vero che è quello che conta e il tempo non scalfisce. 

“Gli anni di Mazara”, intitolata prima “La pensione”, come “Il sogno” e “La strada” della sezione «Ricordi castelvetranesi», sono scritti che rivelano lo strato più intimo dell’uomo Titone, sensibile, umano, vicino ai più umili. Sono gli scritti più propriamente autobiografici che ricordano amici compagni di scuola (“Il sogno”), e uomini affermati che vivevano di ridenti lavori o benestanti nella strada principale del paese (“La strada”) che, ripercorsa dopo lungo tempo, non riconosce più spopolata, com’è da quella gente scomparsa per sempre insieme con le sue cose. 

Sono “storie” che ripercorrono la vita di un uomo, con i suoi incontri, le sue cose care; ricordi che s’intrecciano e che offrono uno spaccato tra il nostalgico e il comprensivo, l’accettazione consapevole ma anche il chiedersi perché viviamo e dove andiamo che in Titone trova ferma risposta nella vitae, quindi, nel viverla con dignità nel rispetto degli umili e dei diseredati, com’è ne “Gli anni di Mazara”. Qui fa le sue prime esperienze lontano dal suo paese e nuove amicizie (quella con il falegname e con il maestro, o col sordomuto suo coetaneo che rivedrà poi in età adulta), e scoprirà un mondo che si porterà dietro per sempre. 

«Quando vediamo in campagna i lunghi filari degli alberi e calpestiamo le zolle che ci danno il nostro pane e ce l’hanno dato da secoli, non pensiamo alle generazioni di contadini che sono vissuti in silenzio, gli uni dopo gli altri, su queste stesse zolle, per andarsene poi e altri li avrebbero seguiti. Il loro silenzio era simile a quello degli alberi e alla voce del vento. Non aspettavano nulla dagli uomini, ma sapevano che la terra poteva qualche volta ripagare le loro fatiche. Ora nessuno più li ricorda, né può ricordarli7». 

Titone scrive le “storie” col cuore in mano, e queste pagine di “Gli anni di Mazara”, che sono tra le più belle della sua produzione, sono tutto un poema in prosa, poesia vera, perché sentita, oltre che vissuta. Si può mai dimenticare l’incontro del piccolo Titone con don Vito il falegname, o la figura generosa e buona del mezzadro di Seggio, Peppe Balsamo, e l’approccio e poi l’amicizia col sordomuto? Sono figure difficili da dimenticare, perché hanno un’anima e una vita loro, lontane da quelle di di un certo realismo che non va oltre il proprio orto. 

Le “Nuove storie siciliane” trattano temi di attualità che sono ripresi più avanti nel romanzo. Solo “L’onorevole trombato” affronta il tema dell’estraniamento e dell’ineluttabilità della vita che sono anch’essi ampiamente presenti nell’opera di Titone. In tutte queste “storie” la Sicilia è di sfondo. Eppure ci appare nella sua luce più vera, popolata di un’umanità spesso dolente, ma aperta e ricca di suggestioni. 

Titone detestava l’accademismo, così come l’arroganza dei colti senza cultura (il Nostro parlava di incultura, propria di quelli che non credono in quello che scrivono) e dei boriosi; e una satira abbastanza pungente la si trova in “L’AIDS in Sicilia: storia di una colonna infame senza la colonna”. 

Egli non ammetteva giocare sull’uomo-persona, qualcosa di sacro che va rispettato, al di là delle convinzioni o delle tare di ognuno. Al centro di tutto c’è infatti, l’uomo, con le sue aspirazioni, i sogni, i problemi che lo attanagliano e che cerca di risolvere, le contrarietà della vita che, imprevedibili, lo sbattono da una parte all’altra senza rendersi conto di niente, e quando tutto sembra giocargli a favore, ecco un’altra contrarietà ancora maggiore lo stringe quasi come in una morsa e, addirittura, lo porta alla morte. 

* 

Altra opera di Virgilio Titone scrittore, a parte gli inediti, è il romanzo Le notti della Kalsa di Palermo, pubblicato da Herbita nel 1987 e riedito postumo, dopo un laborioso lavoro di lima dello stesso autore, nel 1998 dalle Edizioni Novecento in cooperazione con il Comune di Castelvetrano. Ma già molti anni prima, aveva scritto un altro romanzo (La morte del Vescovo), smarrito e poi riscritto, come si legge nei Diari, e tuttora inedito, come scrive in una nota Calogero Messina8. 

Le notti della Kalsa di Palermo, scritto tra la fine degli anni Settanta e i primi dell’Ottanta del secolo scorso, è come avvisa lo stesso scrittore nell’”Avvertenza” premessa all’edizione del 1987, datata Selinunte – Triscina, 20 agosto 1981, un romanzo storico, ambientato in Sicilia proprio in quegli anni, anzi è anche un documento sociologico, storico e psicologico insieme, di una psicologia che non sa di manuali, bensì di vissuto umano e sociale. 

L’edizione del 1998 ha subito molti tagli e varianti. L’Autore vi lavorò con tanta solerzia; si era reso conto che il romanzo così non andava bene e bisognava sfoltirlo dei tanti riferimenti e personaggi che offuscavano le figure centrali e il finale. Ne parlava con Calogero Messina e lo scriveva agli amici Montanelli, Koenigsberger, Caruso. Allo storico Helmut Koenigsberger così scriveva: «La Kalsa è un romanzo sbagliato, sotto tutti i punti di vista: anche per i molti personaggi lontani dalla conclusione finale dell’azione. Infatti se ne sta pubblicando un’edizione ridotta a metà delle pagine», e ad Indro Montanelli: «La pietà per il protagonista, quel ragazzo sepolto senza un nome e cui ho tentato di dare un nome, si è risolta in un romanzo sbagliato: sbagliato come romanzo. Ho perciò tentato di rimediare mostrando nella premessa che protagonista è tutta la Kalsa – e lo è veramente – negli antichi e strani costumi di quell’isola nell’isola, dai poveri pescatori al principe di Lampedusa, anch’egli un quasi kalsitano, né solo per la via in cui abitava9». 

Titone si faceva scrupoli, ma anche nella sua prima stesura il romanzo si legge con piacere. Pur nella densità di contenuti, non è prolisso; è la vita di questo popoloso rione che viene alla ribalta e sembra esplodere, con le strade piene di gente e il vocìo che arriva lontano, a Mazara e pure a Torino o a Malta e Amsterdam, perché fin là s’allarga e si svolge l’azione dei personaggi. 

Certo, snellito com’è nella nuova stesura si fa accostare meglio dal lettore, ma non ha perso niente nella sua sostanza, che è diventata più fluida e coinvolgente. 

Le notti della Kalsa di Palermo è un insieme di fatti ben amalgamati come tessere di un mosaico che nella sua singolarità contribuisce a dare un quadro d’insieme abbastanza convincente e armonico. Sono ripresi e approfonditi i motivi già espressi nelle Storie, e nel movimento sembra che essi vengano fuori per caso, fatti propri dai singoli personaggi che popolano quest’opera, degna, al pari di altre (e forse meglio) di essere letta nelle scuole e studiata, perché oltretutto, ne viene fuori un’immagine della Sicilia a cui non siamo stati abituati dai tanti altri scrittori che invece si servono di essa per fare cassa, una Sicilia auspicante un riscatto che le potesse ridare la dignità di cui solo nel passato poté godere. Titone auspicava un Risorgimento umano e sociale della Sicilia che la facesse risollevare dalla condizione di disagio e di abbandono in cui si trova dall’unità d’Italia ad oggi, perché niente è cambiato in questi ultimi decenni e il romanzo avanza ancora quelle aspettative che non vuole deluse. Per questo fu inascoltato da quanti politici avevano interesse perché tutto rimanesse invariato. 

Dal I capitolo leggiamo: 

«La strada, come tutti avevano capito, era sicuramente inutile. L’avevano progettata per farsi pagare le tangenti sugli appalti. Di strade la zona non mancava. Dopo la costruzione dell’aeroporto di Punta Raisi, era stata aggiunta un’autostrada. Tuttavia anche per essa s’invocava una sacralità che non si doveva negare: il Mezzogiorno, sempre sfruttato, sempre calunniato dall’avido Nord, che mai nulla aveva fatto per i poveri meridionali. Tutto questo si continuava a ripetere, anche se quell’autostrada da un giornalista straniero era stata dichiarata “un’opera faraonica”10». 

Come cambiare se, così com’è è fonte di profitto? Quella di Titone è un’analisi puntuale, obiettiva, fatta sempre con cognizioni di causa, che copre un arco di tempo abbastanza ampio, riferibile a quasi tutto il Novecento, se consideriamo che tanti problemi sono tuttora aperti e non c’è ancora la volontà di volerli una volta per tutte risolvere. Il Nostro non tralascia niente, perché tutto fa parte integrante dell’uomo, viva egli alla Kalsa di Palermo o altrove. Perciò argomenta di scuola, omosessualità emigrazione, devianza giovanile e, quindi, di droga, e denuncia le anomalie sociali che condizionano e rendono difficile la vita: il burocratismo diffuso, la furbizia dei falsi invalidi, l’arroganza dei politici. E c’è anche il decadere delle cose e degli uomini che, non dando il giusto peso al passato, non riescono a cogliere il presente. Di qui il senso dell’abbandono e la solitudine che relega l’uomo a chiudersi in se stesso e a subirne anche le conseguenti ripercussioni sociali. 

Il riferimento alla mafia gioca nell’insieme un ruolo di rilievo. Titone distingue tra quella che era la vecchia mafia, ben rappresentata dal personaggio don Peppino Novacco, e la nuova, aggressiva e delinquente. Ad essa connessi sono la corruzione, il latrocinio, la richiesta di tangenti, la collusione tra mafia e politica, in un momento in cui di tutto questo non si parlava. 

E c’è il ricco tema degli affetti che dalle prime pagine alla fine è svolto con maestria e tanta delicatezza. Pietro, attaccato morbosamente alla famiglia, Nino alla sorella Lia, e don Peppino, e poi Gianni che per amore muore! È un libro che non vuole intermediari, va letto e per questo ad esso rimandiamo. 

A distanza di più di vent’anni dalla pubblicazione, il romanzo è molto attuale. L’Autore, da storico qual è ha saputo leggere il passato, scorgendovi i pregi e anche le storture che continuano a condizionare il presente, dando una chiave di lettura che è andata oltre la semplice registrazione degli eventi; sicché quelle che erano soltanto le sue intuizioni ora sono di dominio pubblico e ancora valide, se si volesse porre rimedio a certi malanni che affliggono la nostra società. 

Virgilio Titone è uno tra i realisti più veri del XX secolo, nel senso che ha trascritto nella pagina il suo modo di sentire e di vedere il mondo con nobiltà di sentimenti, aderenza e partecipazione alla realtà e con una capacità espressiva che bene si coniuga con uno stile sempre controllato, curato anche nei particolari e mai artefatto né artificiale. I più tendono a fare arte, la fanno o vi si avvicinano. Il Nostro ha avuto solo a cuore di esternare il suo mondo, che è poi il mondo in cui viviamo e ci confrontiamo, anche se si è disorientati da ciò che si vede e si sente e spesso disincantati. 

C’è tra gli studiosi e i critici la brutta consuetudine di incasellare un autore secondo parametri precostituiti, collocandolo prima, dopo o sullo stesso piano di un altro autore; si potrebbero addurre tanti esempi attinenti al verismo o al realismo. Ma è cosa che poco interessa, perché ogni scrittore ha una sua personalità e si differenzia, se vero scrittore, dagli altri. Con Titone ci troviamo dinanzi ad uno che, conoscendo la letteratura italiana e straniera, sa bene il fatto suo e opera nella piena libertà e senza condizionamenti, seguendo solo il suo nume ispiratore e facendosi trascinare dal magma che gli esplode dentro. 

A differenza di tanti altri e dello stesso Verga, lui, conoscitore di storia, non fa arte avulsa dalla realtà ma vi arriva, utilizzandola con molta onestà intellettuale. Sicché il suo realismo, dando voce ai tanti popolani, tende a riscattarli in senso sociale e morale, raggiungendo gli obiettivi che si prefigge e vi rimane coerentemente legato con i suoi principi umani e sociali. Perciò chi voglia cogliere nel vivo la Sicilia, e senza preamboli leggere nelle sfumature il presente che è anche il nostro tempo, non ha che accostarsi alle opere di Titone, questo solitario che, disdegnando i compromessi, cercò di avvicinarsi, per capirli, a tutti, da amico tra amici, come lui stesso scrive, a proposito di padre Giacinto da Favara, guidato da «un singolare intuito dell’animo umano e una conoscenza profonda della società in cui viveva11». 

Salvatore Vecchio

* Virgilio Titone, nato a Castelvetrano (Tp) nel 1905, insegnò Storia moderna presso l’Università di Palermo. Ebbe molti interessi e fu uno studioso attento di letteratura italiana ed europea. Fondò e diresse tre riviste: “La nuova critica”, “L’osservatore” e “Quaderni reazionari”. Tra le sue opere, ricordiamo: Espansione e contrazione (1934), Cultura e vita morale (1943), La poesia del Pascoli e la critica italiana (s. d.), La Sicilia dalla dominazione spagnola all’unità d’Italia (1955), Origini della questione meridionale. I. Riveli e platee del regno di Sicilia (1961), Storia, mafia, costume in Sicilia (1964), Machado e Garcia Lorca (1967), Introduzione alla Rivoluzione francese (1966), La storiografia dell’Illuminismo in Italia (1969), Il pensiero politico italiano nell’età barocca (1975). Morì a Palermo nel 1989. 

Note 

1 V. Titone, Diari (a cura di C. Messina), III t., Palermo, Novecento / Comune di Castelvetrano – Selinunte, 1996 / 1997. Un mio saggio, “ I Diari di Virgilio Titone”, si trova in “Spiragli”, XIV, 1999-2002, pagg. 4-12, dove, tra l’altro, scrivo: «I Diari di Virgilio Titone aprono il lettore a tutto un caleidoscopio di idee e di pensieri che costituiscono il fondo della sua vasta produzione. E il lettore, o lo studioso, che si accinge ad esplorarla, non può non tenerli in considerazione, se vuole davvero comprenderla». E ancora, a proposito delle sue opere: «in tutte c’è il rispetto della parola, ponderata e messa al posto giusto, indice di padronanza del lessico che s’accompagna alle idee, di cui l’autore si fa portatore, ma c’è anche il rispetto del limite, cioè la capacità di dire molto nella stringatezza, senza che ciò pesi nell’economia della pagina, anzi la rende agile e piacevole.» 
2 Storie della vecchia Sicilia, nell’edizione del 1971, è così composto: “La zolfara”, “La pensione”, “L’odio”, “La caccia”, “La visita”, “L’annunciatore del traghetto”, “Una notte inquieta”, “Il pranzo di Natale”, “Il terremoto”, “L’esattoria”. Citeremo l’edizione postuma (introd. di L. Zinna) Racconti, Novecento / Comune di Castelvetrano, 1999. Il titolo non è condivisibile per la ragione sopra esposta e nemmeno Titone l’avrebbe accettato, visto che nelle sue edizioni ha usato il termine “storie”. 
3 V. Titone, Racconti, cit., pag. 30. 
4 Ivi, pag. 55. 
5 Ivi, pag. 32. 
6 Ivi, pag, 112. 
7 Ivi, pag, 81. 
8 V. Titone, Le notti della Kalsa (Introduzione di L. Zinna), Novecento/Comune di Castelvetrano), 1998, pag. 22. Vedi Diari (1977-1989), III t., cit. pag. 212: «Ore 3 del mattino. Mi sono svegliato all’ora solita. Sto finendo il Vescovo1». La nota è di Messina. Il nostro auspicio è che quanto prima il romanzo si pubblichi per aggiungere qualche altro tassello alla conoscenza del nostro autore. 
9 V. Titone, Diari (1977-1989), III t., cit., pagg. 271 e 274-275. A pag. 276, nella lettera a Vincenzo Caruso, scrive: «… spero di fare una nuova edizione corretta. È un libro troppo affollato di persone e cose che allontanano dalla conclusione. L’ho ridotto di 70 pagine». 
10 V. Titone, Le notti della Kalsa , cit., pagg. 38-39. 
11 Ivi, pag. 90. 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 19- 26.




 Editoriale: Verso il trentennio 

“Spiragli” ha compiuto 20 anni, essendo stata fondata nel 1989, – come recita l’editoriale pubblicato nel n. XXI, 2009. A ricordarne l’attività sono state due manifestazioni: a Marsala il 9 novembre 2009 e a Palermo l’11 dicembre 2009. 

Nella prima, che ha avuto luogo nella Sala delle Rappresentanze dell’ex Convento del Carmine, hanno relazionato Donato Accodo, responsabile della redazione romana della Rivista, e Salvatore Valenti, presidente dell’Associazione per la tutela delle tradizioni popolari del trapanese; nella seconda, che si è svolta nel salone di palazzo Isnello, gentilmente concesso da Jean Paul de Nola che ha coordinato i lavori, ha relazionato lo scrittore-poeta Tommaso Romano ed ha presenziato l’editore Renzo Mazzone. In entrambe le manifestazioni ha preso la parola Salvatore 

Vecchio, fondatore e responsabile della Rivista. 

In quell’editoriale scrivevamo che «la rivista continua, pur nelle difficoltà dei tempi, le pubblicazioni, con dignità e con orgoglio: con dignità poiché non abbiamo chiesto elemosina a nessuno, e con orgoglio, se l’abbiamo vista crescere portando avanti la sua linea editoriale in libertà di scelta» Con libertà di scelta continueremo ad operare in campo culturale, artistico e letterario, augurandoci tempi migliori e maggiori disponibilità al fine di incrementare la periodicità della rivista e diffonderla per l’utilità di tutti. 

In un momento così problematico per la vita comunitaria, c’è l’esigenza di affermare con forza la nostra libertà di espressione che è quanto di più bello e buono l’omo possa avere. E questo diritto lo dobbiamo esercitare con vigore contro ogni condizionamento, senza per questo ledere le idee degli altri e senza scadere nel chiacchiericcio a cui, non volendo, siamo costretti ad assistere e a sentire. Questa è stata la nostra forza, come i relatori sopracitati hanno evidenziato, e su di essa puntiamo ancora per meglio realizzarci come uomini e come appartenenti alla società globale. È l’obiettivo a cui l’omo deve tendere, se veramente vuole affermare con consapevolezza il proprio io, capace di raggiungere vette inaudite o abissi profondi. 

Pubblichiamo, nell’ordine sopradetto delle manifestazioni, le relative relazioni e cogliamo l’occasione per ringraziare quanti hanno contribuito all’affermazione della Rivista, ai relatori tutti (Accodo, Valenti, Romano) che hanno evidenziato le positività del nostro lavoro, mettendo anche in controluce quello che ancora dovremo fare per renderlo migliore. 

Ci auguriamo, pertanto, quanto prima, di dotarci di un sito per dare a tutti la possibilità di seguire i nostri lavori e consultare la rivista con i moderni mezzi di cui la tecnologia dispone. D’altronde è assurdo non adeguarsi ai tempi. Noi lo stiamo facendo, anche con ritardo. Ma se consideriamo che il materiale accumulato nel corso del ventennio è abbastanza vasto, questo giustifica in parte il ritardo. 

La volontà è di mettere a disposizione di tutti la serie completa di “Spiragli” una realtà ormai radicata negli ambienti culturali e quelli letterari, italiani e stranieri. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pag. 2.