Mala tempora currunt et peiora premunt 

A questa espressione ricorrevano gli antichi romani per esprimere difficoltà in tempi presenti, prevedendone in futuro altre peggiori, e cioè nella traduzione: corron cattivi tempi e peggiori incalzano. 

C’è in quel premunt il precipitare di eventi connessi all’ineluttabile e all’indeterminato, ma anche dovuti alla volontà degli uomini ed al loro comportamento nel prevenire e quindi evitare i mali, quando non inclini a darsi ferocemente battaglia per fini utilitaristici. per libidine di potere, il più delle volte con ostentazione di falsi ideali, spinti da risentimenti se non addirittura da vendetta e quindi da propositi criminali. 

C’è in quel detto una malsopportata arrendevolezza al ripetersi di eventi inevitabili, una sorta di rassegnazione per ciò che si teme che accada nell’ora fuggente, in cui tutto si compie col ritmo dei ricorrenti cataclismi nel ciclo dell’eterno divenire. Ma i nostri antenati, quei casci Latini sapevano reagire alle avversità, con fortezza d’animo e, all’occorrenza, con biblico furore: noi, invece, abbiamo perduto l’orgoglio, tralignando dalle loro virtù, e ci siamo lasciati andare per le tortuose strade del malcostume. 

Non è certamente motivo di consolazione il non voler rimediare ai conflitti che travagliano l’umanità, e se le cose non vanno come dovrebbero andare, la non mai morta speranza di poterle in qualche modo renderle accettabili nel migliore dei modi non dovrebbe farci desistere dalle buone azioni e dalla determinazione di opporci, con ogni mezzo, alle forze del male. 

Di queste, in casa nostra e in ogni angolo della terra, se vuol essere di conforto il detto “mal comune mezzo gaudio”, ce ne sono tante e così perniciose da far pensare che non ve ne siano altre peggiori, se non fosse che il peggio, si sa, non è mai morto né morirà, forse perché rientra nella logica di un disegno arcano riservato ai mortali che con i loro strani comportamenti interrompono vecchi equilibri di usi e costumi per ricominciare in seguito un nuovo ciclo che, almeno nelle speranze dei più, agli inizi dovrebbe essere diverso dal precedente. In effetti, però, sin da principio si ripete l’eterno copione di fatti e misfatti che si moltiplicano in un clima di squallida ipocrisia, all’insegna dell’irrazionale e dell’incomprensibile. 

Gli è che l’uomo è uno strano animale, tanto strano che non lo si è ancora potuto definire, sia pure per sommi capi, nei confini del suo complesso mondo di luci ed ombre, di forze oscure, generatore di vita e di morte col mutare le sue forme attraverso cataclismi e indefiniti periodi di stasi, un mondo a tutt’oggi pur esso altrettanto strano, insensibile alle lamentose disperazioni di chi vuole vivere una vita intensamente operosa. Sta di fatto, d’altro canto, ch’egli, se andasse sempre avanti per fede prima che per religione, agirebbe diversamente perché la sua secolare esperienza, accumulata per quanto si voglia con discutibili teoremi, non è sufficiente a dargli assoluta certezza nemmeno del movimento degli astri, se cioè si muovano in maniera uguale e la stessa velocità. Nulla è definito in questo nostro pianeta, nulla è certo nell’esperienza, tutto è mutabile quando meno ce l’aspettiamo nel periodo della nostra esistenza, forse equivalente neppure a un miliardesimo di secondo del tempo universale. Come ci si potrebbe fidare, quindi, dell’esperienza di ciò che accade all’uomo nello spazio infinitesimale di una frazione di tempo e dargli credibilità di esperienza, quasi se la fosse portata dietro da millenni? Solo la fede può sorreggerci, la fede che ci rende credibili e ci eleva a superare altezze, la fede che dentro di noi non è esclusivamente nostra, invisibile leva possente delle nostre azioni, dalle più umili alle più esaltanti. 

Ma la fede, questa potenza vitale e polivalente implica anche una coscienza di sé, una morale che ci guidi nell’incerto andare della vita, ci distingua nelle nostre azioni, anche se a volte ci è causa di tormento, specie nel dubbio di non aver fatto appieno il nostro dovere, o di esaltazione se riteniamo di averlo fatto bene. 

Da questo stato d’incertezza della nostra coscienza, da questo interrogarci nel profondo del nostro io consegue un disagio, un travaglio che condiziona la certezza della nostra dignità. Da questa lotta interiore, da questo anelito di ricerca della verità, da questa incessante aspirazione ad essere soprattutto noi stessi ha origine la moralità e l’umanità, i soli tesori che non hanno prezzo. 

Questi concetti di kantiana memoria ritornano negli scritti di F. Schiller, Grazia e Dignità (1973): la denominazione degli istinti mediante la forza morale è la libertà dello spirito e l’espressione della libertà dello spirito nel fenomeno si chiama dignitàl. 

Sono pensieri e valutazioni che nel mondo di noi moderni hanno un fondamento di non poca incertezza rafforzato dall’irrefrenabile libidine di velleitario protagonismo di uomini che con le loro vuote ideologie. manifeste o implicite. stravolgono il significato primario di questi principi basilari, dimostrandosi rovinosi per sé e per gli altri con l’imporre una conduzione dissennata della cosa pubblica, culminante nella negazione dei diritti e della morale. in barba alla scienza o all’arte del governare. con evidente trascuratezza dei comportamenti intersoggettivi in seno alla comunità. 

Sicché l’onestà che in teoria dovrebbe essere la suprema virtù della sana politica, in pratica finisce per irridere alla rettitudine e ai buoni propositi quando non più in grado di determinare la forma del migliore stato possibile. 

E difatti tutti parlano di doveri da e per ogni dove attraverso i mezzi di divulgazione, accampando diritti che uno Stato che si rispetti dovrebbe riconoscere sì a tutti, purché dietro comprova che ognuno possegga alto il concetto morale di obiettività nel giudicare il proprio e l’altrui operato. 

Invece l’ambizione, l’arrivismo, la spregiudicatezza, l’equilibrismo di intriganti faccendieri offuscano gradatamente il prestigio delle istituzioni senza che la parola “Stato” sia sostituita da nulla di più ragionevole, che potrebbe essere, ad esempio, il risultato di un’azione compiuta non tanto per rispetto della legge, quanto per richiamo spontaneo di una retta coscienza. Altrimenti, che dovere è quello che ci si sforza di addimostrare soltanto perché costretti da condizionamenti legali quasi sempre illegali e da contratti sociali? Laddove il dovere non è spontaneo ivi viene a mancare la nobiltà dell’azione stessa e quindi l’essenza altamente morale in essa implicita. Ne consegue che allorché la dottrina del dovere è collegata a quella di un ordine nazionale necessario, di norme o di leggi, tendente a dirimere il comportamento umano, ponendo la felicità a fondamento etico, ad incremento della vita individuale e collettiva, la nozione di dovere non trova più posto. E maggiormente se consideriamo che l’etica non è un insieme di immotivati desideri o di preferenze senza costrutto, bensì dignitosa coscienza primigenia che distingue – o almeno dovrebbe distinguere – l’uomo da tutti gli altri esseri e lo eleva a quelle altezze dello spirito cui egli incessantemente anela. 

Purtroppo, ai nostri giorni, si è stravolto anche il concetto di Stato che, come ordinamento giuridico dovrebbe avere limiti di azione, non potendo raggiungere particolari fini se non coi soli mezzi di cui dispone, col ricorso, cioè, alla tecnica della coercizione, pur di mantenere in vita un sistema di strutture frananti, anche quando nel limaccioso pelago della corruzione languono i cittadini alla deriva. Ma uno Stato che si prefigge una stabile governabilità con l’impiego della forza aumentata tempo per tempo con sempre nuovi e massicci arruolamenti che ne consolidino l’efficacia repressiva, è già in declino e potrebbe rivelarsi rovinoso e quindi funesto per la società. E c’è di più grave nel nostro mastodontico Paese, non costituisce garanzia d’imparzialità, se è vero che tra loro, della stessa famiglia, non si mordono, specie quando di essa fanno parte corrotti e avallanti dei corruttori. 

Nella storia repubblicana italiana, ad esempio, non è bastato più di mezzo secolo per far capire ai governanti di turno che l’ordine è basato sul rispetto reciproco derivante da una sana cultura che determina il buon andamento delle istituzioni, non già sulla forza di una imposizione perversa, generatrice di gravi lutti e tanto meno su una giustizia che, come nella maggior parte dei casi corrotta e corruttrice, è sempre causa di numerosi mali. 

Non si può parlare di giustizia in uno Stato che mentre da una parte promette imparzialità a tutti i cittadini, dall’altro difende l’autogoverno della Magistratura, conferendo ai magistrati uno strapotere che è fuori della più elementare logica di un governo che si rispetti. Altra regolamentazione dovrebbe avere il Consiglio Superiore della Magistratura, ben altro il suo ruolo nell’applicare o fare applicare la legge che sia emanazione della volontà del popolo sovrano. Uno solo il criterio nel sentenziare uguale per tutti: che anche i giudici siano sottoposti a giudizio collegiale di altrettanti giurati scelti tra cittadini di accertata onorabilità. Meglio ancora che i giudici vengano eletti direttamente dal popolo. 

Tutti i mali di una società – lo dicemmo altre volte dalle pagine di questa rivista – derivano da una democrazia malgovernata particolarmente nella scuola e nella famiglia, basilari istituzioni dell’apparato equilibratore di una politica illuminata, non condizionata da scelte programmatiche di proprio tornaconto. 

Finché si farà politica di mirati e perversi accomodamenti per ingannare il prossimo con spergiurate promesse mai mantenute, l’ansia di non subire più le indiscriminate vessazioni un giorno o l’altro spingerà le folle alla disobbedienza civile: l’arma più micidiale di cui si è a conoscenza ed alla quale si ricorre come ad estrema ragione, se è vero, come è altrettanto sacrosanto, che non è permesso ad alcuno di calpestare i diritti altrui. E finché riterremo indispensabili metodi del genere per risolvere i mali che ci affliggono, senza piuttosto lasciarci guidare dalla tenace volontà di sfatare l’ineluttabilità del male contrapposto al bene, quando è d’obbligo invece rilevarne a gran voce l’abissale differenza del loro significato per farci meglio capire, senza nulla nascondere, il subdolo comportamento di chi trama per proprio tornaconto, le cose dell’umano stato continueranno a peggiorare in quel ciclico alternarsi dell’eterno divenire di cui abbiamo scritto all’inizio, tra poche luci e ombre secolari riproponendo trascorsi nelle spire materialistiche dell’esasperato egoismo che un giorno, non si sa quando, ci spingerà prematuramente nel buio che mai più cederà alla luce. 

Sulla infinita strada dell’ignoto il cammino del progresso subirà allora interruzioni e vuoti di tempo spaventosi e la progenie degli uomini subirà contraccolpi e scompensi per disarmonie dell’ordine universale delle cose. 

Il mondo è in fermento, non sappiamo più che cosa vogliamo né dove andare 

perché abbiamo dimenticato la nostra origine, ci siamo lasciati adescare dal culto dell’effimero, sperperiamo miliardi per fini goderecci: per follia di sterile esibizionismo orgiastico a suon di musica· dopo esserci sfibrati al ritmo forsennato di motivi assordanti e, al colmo dell’indifferenza, nemmeno ci curiamo di aiutare chi muore sotto i nostri occhi, povero e alienato, abbandonato e solo nel grigiore di un gelido mattino, con sul petto il muso di un fido dagli occhi pensosi e pieni di malinconia! Questo è il nostro mondo. Questa è anche una cattiva parte della nostra Italia nel pantano della corruzione e nella farsa di un diritto grottesco. 

Siamo certi che i governi che contano sono quelli impersonati da autorità forgiate nella fucina dell’imparzialità e dell’onestà, capaci di imprimere carattere alla compagine che rappresentano e scongiurare interruzioni e, peggio ancora, disfacimenti. Sappiamo pure che questi governi sono possibili solo a condizione che i componenti siano determinati ad interrompere ogni legame, qualora ci fosse stato, coi loro predecessori implicati in malaffari e ad instaurare un clima di fiducia che affranchi i giusti dalle ingiustizie subite e diano prova di ricercare la strada del vero diritto uguale per tutti libero da vincoli di privilegio, quale l’odiata immunità parlamentare – tuttora prevista anche se condizionata, causa di scontento e motivo di provocazione alla dignità altrui. Compito arduo per realizzare tanto ardite conquiste, ce ne rendiamo conto, specialmente se consideriamo che la giustizia, intesa come severa e imparziale giudicatrice, non è mai esistita, ma almeno la si applichi il più approssimativamente possibile, nei limiti raggiungibili da una retta coscienza. E non ci sfugge nemmeno il pericolo di una giustizia troppo punitiva che escluderebbe persino indulgenze che fanno parte della morale cristiana quando il perdono deve subentrare alla vendetta e l’espiazione diventa balsamo nell’esacerbato cuore dei mortali. Ma se manca la voce della virtù primaria, quale appunto è la coscienza che durante la vita di ciascuno di noi si evolve, si rafforza e ci guida sulla strada dell’amore e della comprensione, non ci potrà essere giustizia né rispetto per i propri simili, né istituzioni volte al bene dei cittadini né iniziative di pace e di salutare progresso tra le nazioni; non ci saranno aneliti religiosi puri e tanto meno consultazioni dal cui esito si possa bene sperare. A noi moderni quel che manca è la luce che viene sempre dall’alto, mitigatrice degli umani affanni, fonte di vita serena e di divine armonie. 

Ma la coscienza non si sviluppa nei parlamenti o nelle fredde aule dei tribunali, va invece protetta sin dall’esordio della persona alla quale integralmente appartiene, coltivata come una pianta che viene affastellata per rinforzarla, alimentata – non ci stancheremo mai di ripeterlo – nelle famiglie e nelle scuole per poi sentirne e goderne i benefici da grandi, una volta al servizio della comunità. A tal fine, per un sereno e soddisfacente insegnamento, è saggio non far mancare mai i mezzi sufficienti per raggiungere traguardi di vita operosa e di sia pur sofferto appagamento. 

Qualcuno di noi o dei nostri posteri, se un giorno gli capiterà di leggere questo scritto, forse scoprirà che coloro i quali furono ritenuti paranoici perché dissenzienti dal pensiero dei più furono invece i veri saggi, se è vero, secondo la logica di Portoreale, che anche qualche pazzo dice a volte la verità e che chiunque dice la verità merita di essere seguito, per cui, in conclusione, meritano di essere seguiti alcuni che non cessano di essere ritenuti pazzi2. E quanti saggi sono stati ritenuti pazzi! 

Donato Accodo

1. Werke, ed. Karpeles, XI, pag. 202.
2. Arnauld, Logique, III, 8

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 11-16.




 L’arte di Filippo Maggiore 

La pittura di Filippo Maggiore, bagherese, si inserisce in un lavoro indirizzato a precisare diversi aspetti della realtà che lo circonda e con la quale conserva un legame stretto, autentico. 

Emerge una indiscutibile capacità di unire, di comporre opere non soltanto con linee e colori, ma anche con idee e rappresentazioni tali che arte, cultura e vita si fondono magistralmente. 

Vedere le tele del Maggiore è come muoversi in un poliedrico stadio dove ogni opera esprime emozioni e stimoli, ricordi e partecipazione. Ove volessimo cercare di identificarlo, connotarlo e non confonderlo con altri, oseremmo definirlo una sorta di “candido metafisico” che. pur partendo sempre da una puntuale osservazione del reale, giunge a valicare i confini quasi che, dinanzi al pennello del pittore, il creato e la vita si spogliassero della loro storia e della loro estemporaneità rendendo universali i suoi schemi compositivi. 

Infatti, nelle composizioni pittoriche sono fissate spiagge e barche, vecchi casolari, viottoli di campagna, i mostri di Villa Palagonia, un carretto, un pupo siciliano, una casa illuminata, scorci di paese, il tutto in modo atemporale, suggerendo la realtà nell’immaterialità delle idee o delle forze che lo costituiscono. 

Le vibrazioni del “vero” appaiono più pregnanti nella tela raffigurante un “vecchio pulitore di fave”. È una raffigurazione dolente e nel contempo viva di luminosità ove il trionfo della luce non sfuma la struttura reale, ma rende all’osservatore la percezione cosmica della solitudine e la sensazione sgomenta della vita. 

Alla luce di una profonda acquisizione del mezzo tecnico, ancorché arricchita di un linguaggio artistico che diviene poesia, si può ammirare un affresco, realizzato nella Chiesa di Porticello, raffigurante Maria S. del Lume. In tale affresco, della grandezza di mt. 8,50 per 4,50, Maggiore ha sintetizzato i motivi fondamentali della iconografia della Madonna del Lume, imprimendo alla sua produzione artistica una carica di inquietudine mistica. 

Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pag. 47.

 




 Inquinamento di coscienza e inquinamento ecologico 

In questi ultimi tempi l’ex Presidente del Consiglio Giovanni Goria, parlando a Genova, è ritornato a proporre la scelta nucleare nell’alternativa energetica. Anche se l’opzione ha suscitato polemiche e non poca indignazione tra coloro che già si sentivano al sicuro per i nuovi propositi di liberazione dal silenzioso killer nucleare che sinistramente minaccia l’intera umanità, la sortita del parlamentare democristiano non ci ha colto del tutto di sorpresa. 

Le multinazionali, le grandi imprese, i grandi industriali datori di lavoro, ma altresì dispensieri di scempi, di rovina e di morte, non possono rassegnarsi a mutamenti radicali, a nuovi corsi, a rimedi o a rinunce che liberino i mortali dall’incubo dell’olocausto; per loro qualsiasi battuta di arresto sulla strada del profitto è fuori della logica di quel consumismo che ha contribuito non poco ad ottenebrare le menti di gran parte dei consumatori col sottile e subdolo inganno di un progresso che tale non è più quando, col passare degli anni, risentiamo dei suoi effetti funesti. E tuttavia si continua imperterriti ad inquinare, a predisporre le strutture di un immenso cimitero per noi e per le generazioni future e ci sottoponiamo al giogo di chi per la vita non ha il minimo rispetto. 

Ovviamente, la significativa sortita dell’On. Goria dovrebbe far meditare a lungo gli sprovveduti elettori, inducendoli a considerare se non sia giunta l’ora di esigere dagli aspiranti reggitori della cosa pubblica il loro programma durante le campagne elettorali, a che se ne discuta ampiamente prima del voto e gli stessi elettori si regolino in tempo nel decidere se accettarlo o non e se, in conseguenza della scelta, accordare o negare loro la fiducia. Un elettore che non abbia venduto il cervello all’ammasso, ha il sacrosanto dovere di guardarsi dagli avventurieri irresponsabili e di non rilasciare una cambiale in bianco della quale, una volta ottenuta l’elezione, si servono a loro piacimento. Quanti arbitri in meno ci sarebbero! 

Da più parti si sente dire che indietro non si può tornare, ed è proprio da questa abusata espressione che si deduce quanto sia ormai vuoto il cervello di quegli uomini dediti ad imporre, in spietata concorrenza, prodotti che congiurano contro il genere umano. Per legge naturale indietro si tornerà, invece: vi si ritornerà, eccome, se consideriamo che la Natura stessa ci spingerà a meditati ripensamenti col rimproverarci temerarie responsabilità allorché la terra, attraverso i suoi prodotti non più genuini, comincerà a restituirci il veleno che le propinammo un tempo. Allora gli uomini si pentiranno del loro disprezzo verso l’alma Mater e forse sarà troppo tardi: a noi, alla nostra generazione resterà pur sempre la patente di criminali, il torto imperdonabile di avere ordito e attuato un’abominevole congiura. Ed accadrà, a voler ragionare e riflettere, che quando con la complicità delle nostre menti insane e del nostro operato perverso non rispettiamo, non tuteliamo nemmeno il bene supremo ch’è la vita, quando questo viene messo a repentaglio dalla spregiudicatezza di incalliti e squallidi speculatori, quando non ci si rende conto che la società dovrebbe finalmente trarre maggior profitto soprattutto dall’agricoltura sana e genuina e non soltanto dall’industria che da sola, senza un razionale sfruttamento della terra, avrebbe assai poco o nulla da dire, quando non ci si avvede, non ci si rende conto di tutto ciò, sarà la stessa natura a decretare la fine e a spingerci nel buio d’un presunto progresso. Nessuno potrà illudersi di andare avanti indefinitamente, continuando a congiurare contro la grande Nutrice, ch’è poi, come dire, contro Dio. 

Non dimentichiamo che in passato tutti i popoli più progrediti, giunti all’apice delle conquiste più avanzate, arrivati al sommo della parabola, hanno poi cominciato a discendere, fino a raggiungere i gradi estremi della loro decadenza e spesso, con essa, l’estinzione totale. Meglio quindi regolarci per tempo, lottare tenacemente per impedire che le conseguenze dell’eccessivo progresso si ripercuotano negativamente su noi, sui nostri figli, sulle future generazioni, se avranno la fortuna di sopravvivere. 

Sappiamo, del resto, che molte di quelle conquiste, sia nel campo della tecnica, sia in ogni altro, non sono sempre state causa di notevoli squilibri, così numerosi che in certi momenti verrebbe voglia di dire che le sole branche della scienza da incoraggiare siano la medicina e la biologia, purché volte al solo scopo di proteggere e di prolungare la vita dell’uomo. Traguardo raggiungibile, questo, se al ricercatore non sfuggirà mai il fascino della sua origine. 

Ogni altro sforzo tendente ad agevolarci nell’espletamento delle nostre attività, che non abbia il fine di preservarci la salute, è ingannevole invito che mira a distoglierci dall’obiettivo più importante della vita, nel tentativo di convincerci che l’unica realtà sia il facile guadagno cui fanno capo i filibustieri, gli speculatori e quanti, insieme a loro, sono abituati a sfruttare, da tempo immemorabile, l’ingenuità altrui. 

Ma in tutta questa faccenda di progresso con fini esclusivamente consumistici il ruolo di protagonista perverso è lo spietato egoismo. Questo spinge a credere che interessante e indispensabile è produrre, smerciare, vendere per trarre utili sempre maggiori, non importa se i mezzi di locomozione ci avvelenano, se le ciminiere delle fabbriche divengono sempre più insidiose a causa della densità delle loro scorie, se dal cielo cadono piogge acide, se le nubi tossiche stringono in una morsa mortifera intere popolazioni private di tutte le sostanze, allontanate dai luoghi di nascita per andare a vivere altrove, con nel cuore la struggente speranza di un lontano quanto improbabile ritorno. Poco importa se non potremo più bere l’acqua per l’alto tasso d’inquinamento, se l’industria dei micidiali detersivi e di altri potenti ritrovati fa strage del patrimonio ittico, se la fauna scompare per la disseminazione di questi nelle campagne, se gli alberi incancreniscono e muoiono per sclerosi delle foglie, se l’insidiosa nevrosi si diffonderà nella misura in cui aumenterà il frastuono, con conseguente alterazione del nostro equilibrio neuro-vegetativo, se i popoli più progrediti conosceranno nel giro di un secolo – poco più poco meno – il tormento della pazzia a causa delle alterazioni o lesioni provocate al cervello bombardato quotidianamente e senza tregua da assordanti rumori, poco importa se il sistema uditivo. a furia di subire le violenze dei fragori della moderna civiltà (!), rimarrà danneggiato fino ad atrofizzarsi del tutto, se la prodiga Natura non interverrà in suo aiuto, modificandone la struttura per rafforzarne le difese. Quel che interessa è produrre, sempre produrre, pur consapevoli di non poter continuare all’infinito nello sfruttamento industriale se non si riconoscerà all’agricoltura il ruolo primario nello sviluppo economico- sociale dei popoli. 

Gli uomini non hanno bisogno di ulteriori progressi che li uccidano. Se il progresso deve apportare miserie, lutti e illusioni di vita migliore, è bene che si arresti, almeno per consentire riflessioni, ripensamenti e nuovi propositi di meglio operare. Potremo, in tal modo, frapporre riparo al gran male che stiamo perpetrando a noi stessi e alla società in genere. 

Ma non tutti sono d’accordo, non tutti ascoltano la voce della ragione. A questo invito odo già le proteste degli industriali colpiti nel vivo dei loro interessi, né mancano le critiche negative dei lavoratori, minacciati nella stabilità della loro occupazione. Eppure una decisione di riparo bisogna in tal senso, se non vogliamo andare incontro al suicidio. 

Convinti che nulla è difficile a colui che vuole, sorretti dalla comprensione e dall’aiuto fattivo degli onesti, lavoreremo ugualmente in altri settori, se necessario, ma in ambienti sicuri. Viceversa, avallare l’operato di uomini senza scrupoli, che pur di accrescere le loro ricchezze, tengono in disprezzo la vita degli altri, dando ad intendere necessario ciò che non è, significa congiurare contro se stessi e contro l’umanità. 

Dobbiamo distinguere l’industria utile alla salute dell’uomo, che lo aiuta nei suoi lavori, nello svolgimento delle sue funzioni, che gli cura preventivamente i mali, dall’industria nociva di quei prodotti molto spesso decantati dalla stampa di corrente o da altri mezzi di diffusione. Quanti ambienti acquatici seriamente compromessi, quanti disastri ecologici e quante vittime non ha provocato, difatti, il loro uso sconsiderato! E quanti innocenti, già predestinati a prematura morte negli anni a venire! 

Occorre andare molto cauti, meditare prima di definire utili i benefici di un qualsiasi ritrovato. Nell’innumerevole varietà delle sue possibilità creative, la Natura, se ingannata, può sempre riservarci delle sorprese, può addirittura, in un secondo tempo, respingere ciò che noi, ai primi risultati, riteniamo una grande conquista. Spesso, a distanza di molti anni, ci avvediamo degli effetti sconvolgenti, delle disastrose conseguenze dovute alla leggerezza con la quale abbiamo fatto ricorso all’impiego di sostanze nocive. Nessuna faciloneria, quindi, nessuna improvvisazione, ma molta cautela nel dichiarare utile e di avanzato progresso qualsiasi scoperta scientifica. La suprema Natura opera con le sue leggi severissime, collaudate sin dalla notte dei tempi nella molteplice, inesauribile attività evolutiva. Tutto in essa è armonia e nulla è stato creato e stabilito a caso. 

Invece noi diamo poca importanza a questa armonia. Pur di produrre il dieci per cento in più, permettiamo che la terra continui a ricevere i potenti veleni di una concimazione chimica dissennata e a subire il ricatto delle grandi società produttrici. Il risultato è che veniamo ripagati con frutti vistosamente belli, ma altrettanto pericolosi. Quelli ottenuti con trattamenti chimici, non esclusi i mortiferi pesticidi, sono difatti meno saporiti di altri ottenuti con sostanze organiche. 

Amici lettori, non lasciamoci convincere della propaganda interessata. A quanti intendono persuaderci della genuinità dei loro prodotti ottenuti con sistemi di sia pur dubbia utilità rispondiamo che è nostro intendimento continuare ad affertilire i campi con l’umile e generoso stallatico e con altri concimi naturali organici, sulla scorta di secolari e positive esperienze. Rispondiamo, con tutta franchezza, che vogliamo ancora inneggiare alla salubrità dell’aria, alla limpidezza delle acque, al culto della buona terra, prima che sia troppo tardi. Rispondiamo che c’interessa un’agricoltura sana, genuina, senza forzature che minino la salute della collettività, un’agricoltura come la voleva il sommo Cicerone per il quale nulla è meglio di essa, nulla di più produttivo, di più soddisfacente, di più degno di un uomo libero. Predichiamo l’agricoltura di Federico il Grande: la prima di tutte le arti, senza la quale non esisterebbero più né mercanti, né banchieri, né artigiani, né poeti, né filosofi. E nemmeno, può sembrare un paradosso che incontestabilmente non è, esisterebbe la stessa industria. 

Con Platone concordiamo che quando la terra rimane sterile, tutte le altre attività rimangono paralizzate. E noi, di questo passo, corriamo il grave rischio di renderla improduttiva, di ucciderla. In tal deprecato caso l’umanità andrebbe incontro a sicura estinzione, vittima espiatrice delle sue stesse colpe; i cieli non verrebbero più solcati dai pennuti, i mari resterebbero senza fauna, tutto il nostro mondo cesserebbe di pulsare nel sinistro immobilismo dell’eterna notte alla quale mai più seguirebbe l’alba. 

L’abuso di alcune sostanze chimiche, per quanto controllate con scrupolo, porterà, prima o poi, allo snaturamento e alla scomparsa della genuinità dei prodotti, alla rottura di quel tanto prezioso equilibrio di produzione del mondo dei batteri, senza il quale la fame, le malattie più impensate affliggerebbero uomini e cose. 

Sono prospettive spaventose, che dovrebbero far riflettere con sacro timore coloro che per l’eccessivo progresso restano annebbiati nel cervello, retaggio sì di tanta evoluzione, ma privo della sua antica saggezza che oggi impedirebbe di elevare osanna alle conquiste e agli effetti biologicamente perversi. 

Nel nostro mondo c’è un terribile nemico, c’è lo spettro della fame, perciò, si potrebbe obiettare, occorre produrre sempre di più per sopperire alle esigenze di prima necessità. È questa, si voglia o non, una conclusione di comodo, frutto d’ipocrisia e di egoismo elevati all’ennesima potenza! Ma basterebbe che i popoli più ricchi non sprecassero i loro prodotti e mangiassero di meno sottraendosi, tra l’altro, ai pericoli di un’eccessiva nutrizione, per aiutare i bisognosi. Ne guadagnerebbero, oltretutto, in salute, non più minacciata da squilibri alimentari. 

L’uomo, però, è purtroppo adescato dalle mollezze dello sbandierato progresso; dimentico della sua origine «è l’unico animale al mondo a sfidare il proprio ambiente: egli, in poco più di un secolo ha superato moltissime barriere ambientali, favorendo l’aumento demografico e sfuggendo al controllo di precisi fattori del suo habitat. Ma un giorno, non si sa quando, la resistenza dell’ambiente finirà per ritorcersi contro di lui con imprevisione di contraccolpi che gli tenderanno un’imboscata mortale, culminante in cataclismi naturali e sconvolgimenti sociali». Allora egli pagherà il prezzo del vantato progresso dei suoi predecessori e amaramente li maledirà e li additerà ai posteri, se pur ve ne saranno, come i responsabili della congiura contro l’umanità del ventesimo secolo. 

Ma forse l’uomo, col pensiero ad altri mondi, ad altri pianeti, crede di poter fare a meno della sua impareggiabile Nutrice. Non si illuda: per quanto possa andare in lungo e in largo dappertutto, fino a raggiungere gli abissi siderali, egli resterà comunque sottomesso alla terra, sarà sempre un mammifero che per vivere ha bisogno, nei suoi spostamenti, di un ambiente simile a quello in cui è andato evolvendosi sin dal giorno della sua comparsa, onde non potrà mai fare a meno di essa, essendo parte vitale del suo corpo che non vivrebbe se ne fosse privato. 

Alla base di tutto questo discorso resta pur certo il fatto che non possiamo sanare i mali del nostro ambiente se non prima avremo sanato noi stessi nel cuore e nella mente, se non prima avremo operato con rettitudine, se non prima avremo amato la terra e imparato a consolarci delle quotidiane fatiche, a rinfrancarci lo spirito nel culto secolare che il genere umano ha sempre avuto per essa. 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 8-13.




I sentieri della pace

Vivere in pace significa vivere in libertà tranquilla: «Pax est tranquilla libertas», diceva Cicerone nelle sue filippiche. Ed invero la pace non è soltanto la cessazione di uno stato di guerra, come voleva Hobbes, o più generalmente la fine del conflitto universale tra gli uomini. bensì una situazione instabile di pace. non essendo in essa stessa durata perenne per legge di natura. Da ciò la necessità di istituire lo stato di pace perché «la mancanza di ostilità non significa ancora sicurezza. e se questa non è garantita da un vicino ad un altro (il che può aver luogo solo in uno stato legale) questo può trattare come nemico quello a cui tale garanzia abbia richiesto invano». 

Ma nel suo disquisire metafisica è il Whitehead che ha dato la definizione più completa del concetto di pace. Questa, egli dice, non è altro che l’armonia delle armonie, quella che placa la turbolenza distruttiva e completa la civiltà. Ed in effetti quest’ultima definizione rispecchia ed integra quella ciceroniana, quel vivere in libertà tranquilla, intesa come espressione di maturità dei popoli liberi nel rispetto reciproco, senza tumulti e travagli che ne condizionino lo sviluppo. 

Libero è veramente colui che ha per sé tutta la libertà di azione e di pensiero, che la difende in pace scongiurandone frizioni e tentazioni conflittuali, ma più libero è colui che crede nell’inutilità di questi perniciosi malanni e si adopera per annullarne completamente le cause che li determinano. 

Credere che, deposte le armi e cessato lo sterminio di vite umane in guerra, la pace possa essere più che garantita è un’ingenuità e nel contempo un errore molto grave perché si dimentica che alla guerra ci si prepara proprio in tempi di pace, non è che quella esplode all’improvviso, senza motivi che ne abbiano determinato lo stato di belligeranza. 

Volere quindi bandire le guerre con fatti e non a parole vuol dire, innanzitutto, combattere con tenacia e lungimiranza gli squilibri sociali approntando per tempo rimedi preventivi, significa diagnosticare i mali sociali e combatterli tenacemente con leggi accettate dalle nazioni più evolute, che difendano gl’interessi di tutti gli uomini, che siano veramente imparziali, moralmente accettabili e rispettose dei diritti di ogni singolo cittadino, mai dimenticando nel promulgarle e nell’applicarle, che «la Giustizia è la volontà costante e perpetua di non negare a ciascuno ciò che gli è stato dato o riconosciuto suo e di difenderlo dai ladri, dai briganti o da qualsiasi accozzaglia di gente che si metta in comune a far qualcosa di ingiusto». 

Dopo tanti secoli questa massima di Platone, ripresa poi da Ulpiano e adottata dai giureconsulti romani come principio cardine di ogni rispetto reciproco, è pur sempre valida e fondamentale. Ma, ai tempi nostri, con tanto incontenibile travaglio sociale che per l’eccessivo progresso ha condizionato il corso della nostra civiltà, da sola non è più sufficiente per dare pace e tranquillità agli uomini del ventesimo secolo, stretti nella morsa di tante difficoltà, squilibrati nei loro principi fondamentali, vincolati ad un mondo ben diverso da quello per cui sono nati. Sono indifferenti, rinunciatari, inoperosi, senza slancio necessario per uscire fuori da certi intrighi artificiosi, e intanto aumentano le rapine a qualsiasi livello, gli omicidi, i decessi per AIDS e altre malattie del secolo, gl’inquinamenti del suolo, dei fiumi, dei mari, dei laghi, la distruzione della foresta amazzonica, le violenze sessuali, le violenze mafiose, ma anche, diciamole pure, le violenze legali, le violenze di Stato. Altro che pace! Questa è guerra spietata e cinica più di quella che si combatte in campo tra opposti eserciti. È come dire che possiamo cessare di autodistruggerci coi mezzi tradizionali per continuare ugualmente a morire ricorrendo ad altri sistemi di morte. A nulla vale cambiare il metodo se gli effetti sono uguali o peggiori. 

Se vogliamo una pace duratura dobbiamo fare un’inversione di rotta: rivedere ciò che non va nel nostro sistema di vita e avere la saggezza e la forza di rinunciarvi, di abbandonare senza ripensamenti e rimpianti la strada percorsa sino ad oggi. Innanzi tutto occorre rinunciare alle comodità della maggior parte dell’industria chimica, diffidare dei suoi elementi velenosi che seminano morte e anticipano un futuro ancor più funesto ad opera di responsabili di tante stragi continuate nell’ambiente in cui viviamo ed operiamo. La lotta sarà asperrima per contrapposti interessi in ballo, ma alla fine lo spirito di abnegazione sorretto dall’ansia di vita prevarrà sull’indifferenza e la sconsideratezza di monopolizzatori abietti e inverecondi. La passione per il bello e per il bene comune ci spronerà a superare prove difficili, consapevoli della nostra opera meritoria. Occorre però procedere ad un’accorta selezione per riuscire nei nostri intenti, dobbiamo scegliere collaboratori validi, temprati al sacrificio, guardarci da coloro che non hanno mai sofferto nella vita, che non hanno mai provato la sferza vivificante del dolore, che hanno ottenuto le cose desiderate senza fatica, senza provare il tormento della ricerca, rifuggendo l’impegno che è proprio dell’uomo saggio. Costoro non sono uomini su cui si possa fare affidamento, non capiranno mai il vero significato della vita, tanto meno capiranno che i mali dell’umanità non si cancellano come per incanto, con un colpo di spugna o ad un tocco di bacchetta magica. Essi non daranno mai il benché minimo apporto alla tanto auspicata costituzione di una società migliore, non ne cureranno i mali cronici che la travagliano. 

Se l’uomo moderno non si determinerà a lavorare tenacemente per vincere lo squilibrio profondo ch’è sorto dalle esigenze dei nuovi tempi contrapposte alle abitudini del passato, se non riscoprirà le efficaci e immense disponibilità interiori, la nostra generazione, nel giro di qualche decennio non avrà più storia, questa nostra terra, questo paradiso creato per le delizie del genere umano, che noi stessi, con diabolica caparbietà, abbiamo cominciato a trasformare in uno squallido paesaggio di morte, ci propinerà il veleno che incautamente e sconsideratamente le spargemmo al tempo della nostra follia. Periremo vittime espiatrici delle nostre stesse colpe, impigriti, imprigionati come il baco nel suo bozzolo, disperati perché quando stimeremo improrogabile ricorrere ai ripari, sarà troppo tardi. 

L’opera di bonifica, a tutti i livelli, va quindi iniziata subito, ché la fatica è ardua e passerà molto tempo prima di vederne e goderne i benefici effetti. 

Ma finché non decideremo di farci governare da uomini integri, ligi all’assolvimento del mandato che man mano andiamo loro affidando, finché con vigore non esigiamo amministratori saggi e coraggiosi, pronti a riconoscere diritti e doveri e a combattere ogni forma di corruzione a qualsiasi livello, la speranza in una società di pace rimarrà per sempre un pio desiderio. 

L’epoca in cui viviamo ha molto bisogno di uomini validi, capaci di sviluppare forze possenti cui hanno fatto ricorso i grandi dell’umanità, le stesse che, se ritrovate e bene impiegate, accresceranno il nostro fervore e ci spingeranno lungo i sentieri di una meritata felicità. 

Per raggiungere il traguardo della sua riabilitazione morale l’uomo si deve impegnare nel massimo sforzo di operosità, è necessario che senta entro di lui il richiamo prepotente al senso della giustizia e che qualche volta, dato che in quanto mortale egli è fallace, venga subito assalito dal dubbio di non avere fatto appieno il suo dovere – non fosse altro che per dimostrazione di umiltà -, è necessario che i principi di amore verso il prossimo e di rigore verso ogni forma di sopraffazione non vadano indefinitamente ignorati, altrimenti la giustizia non sarà mai uno strumento di liberazione, ma di costrizione, e la pace continuerà a restare un sogno lungamente vagheggiato e mai raggiunto. 

Un ordinamento giuridico che risponda alle esigenze di tutti, che raggiunga un compromesso tra le opposte convivenze e ne riduca sensibilmente le frizioni su scala internazionale, è il solo che possa contare su un’esistenza relativamente serena. 

«Non c’è altra via d’uscita», sostiene l’illustre economista e sociologo Umberto Villari, «se si vuole rinnovare la società, se la si vuole serena e trasformata, occorre ristabilire il diritto, bisogna risanare lo Stato e quindi, in primo luogo, chi amministra le istituzioni dello Stato, la politica che emana dall’alto. Si può vivere per la politica ma non di politica, specie se essa lascia alle coalizioni compromissorie l’esercizio dei pubblici poteri facendola soggiacere alla continua imposizione di leggi e adempimenti vari, secondo gl’interessi di parte, senza che vi sia un chiaro e puntuale impegno di programma da realizzare nel corso della legislatura». Il che è molto pericoloso: quando la politica è sorda alle esigenze della democrazia, prima o poi si trasformerà in dittatura. 

Obbligare i cittadini a rispettare leggi e leggine, decreti e decretini che risultano chiaramente in contrasto coi dettami della propria coscienza, significa spingerli ai limiti estremi della sopportazione, significa disporli all’insofferenza, alla rivolta, non alla pace. 

Coerenza, quindi, rispetto reciproco, lealtà occorrono per raggiungere traguardi di vita, ma per avere la certezza della felice riuscita non dobbiamo trascurare, soprattutto, la nostra azione educatrice nelle famiglie e nelle scuole, gloriose palestre di libertà, spesso trasformate in luoghi sediziosi. 

Dall’interesse e dal modo con cui i giovani attendono al loro lavoro di formazione educativa, dal modo di vedere le cose da grandi dipenderanno il progresso e il regresso della società, la rovina o la salvezza di essa, l’ignoranza nell’amministrare e l’incapacità a difendere le istituzioni nei basilari principi della civile convivenza. 

Ma la scuola e la famiglia attraversano, purtroppo, una crisi molto profonda. Non è mio proposito indagare analiticamente in questa esposizione sulle cause che spesso sconsacrano il culto di queste due insostituibili istituzioni, sarebbe troppo lungo e correrei il rischio, oltrettutto, di essere frainteso e di stancare chi ha avuto la cortese pazienza di leggermi sin qui. Dirò solo per sommi capi, come in un ritornello svegliarino, che la colpa di tanti sussulti e di tanti travagli è sempre di noi stessi, della mancanza di sani principi che correggano eventuali deviazioni al loro primo insorgere in qualsiasi momento della nostra vita. Non dimentichiamo che la decadenza delle grandi civiltà fu dovuta in gran parte alla morte morale dei popoli. E gli uomini continueranno ad affannarsi nel tentativo di ridurre gli squilibri sociali, ricorreranno a nuove leggi per arrestare il deterioramento di strutture vacillanti, potranno a tal fine adottare sistemi odiosi per indurre alla ragione o per annientare processi degenerativi, ma tutte queste misure non daranno i risultati sperati finché le leggi saranno inefficaci, finché non poggeranno su basi morali, finché saranno permessi la vergogna e lo squallore dell’esasperato profitto. Donato Accodo 

da “Spiragli”, Anno I, n. 1, 1989, pagg 13-17.




 Giovanni Salucci, Mafia dietro la scrivania

Originalità stilistica, chiara esposizione dei fatti con certosina ricognizione dei particolari che animano l’intera vicenda dei luoghi e dei tempi in cui sono accaduti, differenziano quest’opera da altre narrazioni quando mancano di effetti di grande interesse. 

Al di fuori di ogni prospettiva dettata dall’esperienza, l’A. predilige approfondite indagini e riflessioni che si confrontano col presente, insistendo nel denunciare manchevolezze, soprusi e colpe di una burocrazia corrotta e inefficace, alla quale vengono ascritti veri e propri delitti morali nel nome di una giustizia beffarda, infarcita di leggi che offendono la dignità dei cittadini con una confusione di idee, di valutazioni arbitrarie e lesive del buon senso, con tranelli ammantati di lusinghe in un coacervo di legge e di leggine, decreti e decretini vòlti ad eludere la ricerca della verità per motivi di convenienza, non per esigenza di giustizia soggiogata da accomodamenti di “ragion di Stato”, da interessi pubblici per bisogni superiori, ma per nascondere sporchi interessi privati a danno di chi nella Pubblica Amministrazione si sforza di rendersi utile facendo il proprio dovere per guadagnare onestamente il suo pane. 

Opera ponderosa, sintetica, di piena attualità, nella quale il Salucci non gradisce problemi impostati in maniera semplicistica, che non approdano a nulla, convinto che per sanare i mali della burocrazia occorre riformarla alla radice, liberarla dalle pericolose insidie che l’affliggono, se si vuole rinnovare lo Stato. 

Il perverso strapotere burocratico che da secoli immiserisce gran parte dell’umanità con strumenti legislativi oppressivi del suo mastodontico apparato di leviatana memoria ormai deve cedere il passo alle esigenze delle generazioni future. I tempi per aprire a nuovi orizzonti e per instaurare per tutti un sistema di vita, che non offenda la dignità dei propri simili, sono già maturi. 

È impensabile, nemmeno lontanamente, ritenere che la giustizia possa essere esercitata dal capriccio di singoli uomini, alla leggera, essendosi così bene diversificato da escludere qualsiasi legge che non si confaccia, come dovrebbe, a quella della Natura. 

Con argomentazioni di varie discipline acquisite in singoli campi specifici, in questo severo atto di accusa il ruolo funzionale del romanzo-saggio, altrove detto anche a tesi, viene valorizzato, alla maniera del Montesquieu in Lettere persiane, del Voltaire in Candido, con tono esaltante la finzione letteraria, la stessa ricorrente nelle Operette morali di Giacomo Leopardi, attraverso l’indagine conoscitiva della condizione umana e lo sviluppo dell’immaginazione condita di sentore autobiografico con valore civile e nazionale, ricca di peculiarità intellettuali e sempre con aderenza alla realtà espositiva dei fatti, in uno scavo psicologico di arte introspettiva nel rapporto tra chi scrive e il suo universo immaginario. 

Nel teatro delle vicende evidenziate in tutte le loro sfaccettature si susseguono colpi di scena che lasciano il segno di consumati misfatti morali, di intolleranze e stravolgi menti del vero a parte di alcuni uomini di legge moderni, spesso insensibili alle altrui necessità e al richiamo di ogni retto operare. Motivi, questi, che hanno spinto l’autore a lanciare, a tutto campo, la sua filippica contro il dilagare di scandali, angherie, mancanza di trasparenza in commercio, mazzette, corruzione, prevaricazioni e tutta una serqua di azioni disoneste a non finire. 

L’ambiente è sempre il solito, quello burocratico fatto di pratiche, di norme polverose, di rapporti stantii quasi sempre formali e falsi, freddi. Il tutto in un 

verismo che utilizza molto lo stile, oltre agli stati d’animo dei personaggi con i quali rileva la reale atmosfera di un ufficio pubblico in cui si dissacrano i miti del buon senso e della ragione. Da qui gli insegnamenti che possono ricavarsi dal libro: l’esigenza che il pubblico dipendente consideri il suo lavoro soltanto come pubblico servizio, come dedizione assoluta vòlta alla soluzione dei problemi e al soddisfacimento dei bisogni dei cittadini e la necessità che egli reagisca ai soprusi con estrema fermezza, come quella che l’autore definisce ribellione pacifica per una società fondata sul rispetto reciproco. Ribellione a che non vi sia alcuno a credere di potersi mettere al disopra degli altri, anteponendo il proprio utile e la conservazione della propria felicità e della propria vita a quella di tutto il resto dell’ umanità. E ribellione anche contro noi stessi, se necessaria, ogniqualvolta pensassimo di ritenerci al centro di tutto e di tutti per essere d’incomodo ai nostri simili con le armi del tradimento e della disonestà. Per contro, se riuscissimo a convincerci di ciò che è proprio della sana burocrazia amministrata con leggi di comune interesse, potremmo se non altro ovviare a pericoli di ben altra ribellione, la più deprecabile che ci sia: quella che genera la lotta di classe, sempre possibile quando sono negati i sacri diritti umani. 

Alla luce di quanto sin qui esposto, si può dire che sia stato Salucci, con la sua Mafia dietro la scrivania, a spezzare o quanto meno a fiaccare i tenaci gangli di quella parte di burocrazia inefficace, dando avvio, consistenza e nuovo originale svolgimento al romanzo-saggio, inquadrandolo nelle vicende moderne da lui esposte con fervore creativo e diversificate forme dei suoi protagonisti. Non più nobilumi, non più dirigenti e funzionari inquisitori, non più magistrati infallibili, ma la gente del popolo, le donne, i fanciulli e persino i bambini in braccio alle loro madri vi fanno mostra di rivolta contro le pubbliche istituzioni per richiamare attenzione ai loro diritti. 

C’è in tutta la trama del romanzo una impostazione morale dei vari problemi che affliggono la società e una volontà di superare certi schemi espressivi e discorsivi di luoghi comuni nel proporre nuovi temi di ansie concrete al posto dei vecchi, architettati di estemporanee decorazioni evasive. Quindi, partecipazione attiva ai problemi della vita attraverso una narrativa di letteratura viva, intrisa di realtà, di umanità concreta, fatta di sentimenti puri e gentili, di doveri ma anche di diritti. E massimamente di giustizia alla quale si anela al grido di libertà quando ci si vuole sbalzare di dosso il giogo dell’arbitrio e della coercizione. 




Emilio Guaschino

 Nel complesso dell’articolata problematica della sua arte pittorica Emilio Guaschino, lungi da ogni ingannevole mimetismo, predilige temi di marcata espressività che gli derivano dai vari personaggi di umile estrazione, gravi di pensosa tristezza e di profonda malinconia. Il tutto evidenziato dalla plasticità dei loro volti scrupolosamente delineati, con particolare rilievo delle umane passioni femle nei tratti di un sapiente pennello. 

Parlare di questo versatile artista palermitano è di una facilità estrema, avendo egli tolto, con la sua bravura, qualsiasi possibilità di dubbiosa interpretazione che non sia soltanto quella che si ha di primo acchito alla vista dei simboli di un’arte tanto più limpida quanto più larga la misura in cui accogliamo le sue proiezioni. Merito precipuo, questo, di ogni artista che si rispetti, scevro di intrigate e forzate astrazioni che travagliano chi, privo di adeguata coscienza critica, si arrovella ugualmente per scoprire l’arte e, quand’anche non ci fosse o tale non risultasse nel senso più attinente alla parola, studia di scoprirsela, d’inventarsela pur di dare una valenza ad opere che alla vera arte sono d’insulto, come spesso accaduto in tempi non molto lontani, quando, con una martellante propaganda di sostegno, a tutti i costi si è voluto indulgere a correnti artistiche che la storia non ha ancora definitivamente accettato nel novero delle belle arti. Del resto la tecnica della pittura, nel suo significato più esteso, assomma tutte le norme che regolano i comportamenti in tutti gli altri campi. Sicché più agguerrito di molteplici virtù è l’artista, più apprezzato e interessante riuscirà il suo lavoro. Più egli è povero di esperienze comportamentali e speculative, più incompleta risulterà la sua opera per non potersi avvalere del prezioso apporto di queste. 

Evidentemente il Guaschino non è condizionato da certe carenze riduttive, se la sua arte lo qualifica autore di gusti raffinati, impegnato a proporre alla nostra attenzione nuove emozioni attraverso una continua e prevalente ricerca dei valori estetici. 

La sorpresa, l’insofferenza, la pazienza, il dolore, lo sdegno della gente, particolarmente di quella del Sud, hanno trovato in Emilio Guaschino un fedele interprete delle comuni aspettative lungamente frustrate, un propugnatore di sacrosanti diritti mille e più volte rivendicati ed altrettante ignorati, un difensore dei sentimenti più puri e più gentili, filtrati attraverso la sua arte pregna di riscatto e di brucianti accuse. 

Solo chi non vuole non sa leggere sui volti rugosi del Guaschino, nelle pieghe che comprimono lo spirito di chi in esse coglie il dolore, lo smarrimento per i tanti fatti e misfatti, di chi si attarda a riflettere sul fermo e malinconioso sguardo di quanti, temprati dalla sofferenza, sono rimasti integri nei loro propositi, nella vana speranza di giorni migliori, nella composta attesa che forse non avrà mai fine o nella manifesta impazienza per il ripetersi di beffe ipocrite di un potere che ormai non lascia più bene sperare. Da qui la dignitosa disperazione delle donne irpine con evidenze pittoriche altamente espressive nelle figure di chi è provato dal dolore e dalle estenuanti fatiche, di chi ha perduto amici, parenti, i propri cari vittime della mafia, di coloro che dalle tele ci guardano sfiduciati, quasi ad accusarci d’indifferenza, d’ingratitudine, di mancanza di orgoglio, di iniziative che guariscano la piaga di una società sbandata dall’utilitarismo e dallo squilibrante progresso, entrambi forieri di desolazione e di morte. 

Se per gusto s’intende la capacità di giudicare le opere d’arte di un certo stile, che man mano si diffonde per poi divenire uniforme, in tempi determinati, tra 

particolari gruppi di individui, ciò significa che le capacità conoscitive di un’opera non hanno limite e sono relativamente indipendenti dal gusto dominante. Il che vuol dire che non tutti devono vedere in un’opera d’arte gli stessi pregi o difetti e tanto meno goderli o criticarli in ugual maniera. Ma per il Guaschino, pur nella diversità di giudizio sul suo impegno artistico, i pareri non possono essere che i più concordi possibili sulla base di un riconoscimento delle sue rilevanti possibilità espressive, grazie alla tecnica di una consumata esperienza e all’incessante scandaglio nelle profondità comportamentali dei vari personaggi. Del resto, è nella logica delle sue impressioni e ricerche letterarie, come in Pensieri vaganti, significativa raccolta di riflessioni suggeritegli dall’esperienza di artista acuto e coraggioso. 

Epperò questo caparbio palermitano dalle numerose sfaccettature socio- etico-culturali ha una nota dominante di un colore quasi oppressivo, che se da un lato gli consente di raggiungere traguardi di intimo appagamento, dall’altro lo avviluppa nel grigiore di un cupo pessimismo che ha origine dalla sua inguaribile solitudine, propria degli spiriti eletti che non tralignano mai dalle proprie origini né cessano di anelare a quelle altezze dello spirito cui costantemente tendono nel continuo travaglio che la loro arte comporta. Ma, a ben riflettere, il Guaschino non sarebbe tale senza il silenzio della sua solitudine, del suo pessimismo, del suo mondo aperto al respiro dell’amore per i propri simili, per tutto ciò che è sovrano e divino nell’eterno attuarsi di una volontà suprema, nella rassegnata accettazione di accadimenti ai quali l’artista lega spesso le qualità della propria interpretazione e quindi del proprio successo. «Ho amato, amo ed amerò fino al giorno del mio morire. Questa volontà è il frutto della mia riconosciuta solitudine», scrive il Nostro nell’opera dianzi citata. È la certezza di quanto egli di questa non possa fare a meno, a nutrimento di se stesso, a sostegno di nuove ricerche e realizzazioni artistiche, a maggior garanzia, ove ancora ve ne occorresse, della sua fin troppo comprovata serietà, presupposto di più esaltanti conquiste. Del resto senza l’amore e i suoi teneri e travolgenti impulsi, senza questa possente leva dell’universo, non ci sarebbe creatività né alcuna aspirazione né motivo di anelare a future conquiste; la nostra vita ci parrebbe men degna di essere vissuta, sarebbe un deserto. Meglio, quindi, un solitario, un sofferente di solitudine che un distaccato gaudente che nulla di buono e di bello può esprimere né alcunché di edificante potrà mai proporre. Ben vengano i Guaschino e la loro arte, con tutti i travagli che questa comporta. La vita è tutta un travaglio; quando ne è esente è piatta e ci fa perdere lo slancio di viverla intensamente. 




Divagazioni linguistiche 

La storia della lingua non è altro che la storia della mente umana attraverso l’analisi della parola e dei suoi significati nella varietà di ogni aspetto creativo. Concetto, questo, che ci porterebbe a dedurre, andando a ritroso nel tempo, le origini di molte, se non di tutte le lingue, procedendo per gradi nell’analisi strutturale del linguaggio, scomponendolo nei vari passaggi della sua formazione che da principio fu certamente composta di monosillabi, al pari di tutte le lingue primitive, che, altrettanto vero, conobbero inarticolati suoni gutturali. 

Noi stessi, del resto, da bambini, abbiamo cominciato a parlare con sillabe. Pa (per papà), ma (per mamma), ta (per tata), etc., accorciando e contraendo o troncando sillabe più lunghe, per poi sillabare parole di ogni misura con l’imitazione e l’esempio dei più grandi. Il che non era possibile ai primi formatori delle lingue e ancora oggi è impossibile un processo del genere nella lingua cinese, immutata nei propri ideogrammi sin dalla tenebrosa notte dei tempi. 

Il contrario si è verificato, invece, nella lingua greca e conseguentemente in quella latina, le quali, durante le varie tappe del loro perfezionamento, hanno subito continui adattamenti e trasformazioni a mano a mano che il progresso ha consentito adeguamenti alle esigenze dei tempi, sotto la spinta di altre civiltà, rispettando per capriccio o per dolcezza oppure per imposizione dialettale o per pronunzia irregolare e corrotta, il dover comunque cambiare faccia alle parole col successo del tempo, fino a introdursi nelle scritture e dare vita ad esigenze di regole ed eccezioni, come vediamo nella nostra e in quasi tutte le lingue. 

Seguendo un’accurata analisi dell’itinerario filologico dei termini, ci possiamo rendere conto di come, da pochi primitivi monosillabi radicali e successivamente dai nomi che da principio formavano tutto il linguaggio tra diversi allungamenti, differenziazioni e variazioni di significato, inflessioni, composizioni e modificazioni di ogni sorta, riuscissero i latini a cavare infinità di parole nuove e, con esse, minime espressioni di differente variabilità delle cose che in principio si erano andate accumulando in uno stato confusionario, e traessero quel complesso linguistico che doveva racchiudere tutti i pregi del discorso che poi sono anche i nostri. 

Nel seguire questa panoramica dissertazione linguistica è sottinteso che coloro i quali non hanno dimestichezza con le lingue classiche, di qualunque nazione siano, non possono sentire le stesse armonie dei versi latini e greci, se non prima si siano assuefatti a udime la cadenza in ogni circostanza, notandone, con regolarità e, un po’ per volta, tutte le sfumature, le piccole corrispondenze e relazioni, fino a che l’orecchio non ne gusterà le armonie. Ovviamente, simili processi sono indispensabili anche a chi meglio intenda le stesse lingue, latina e greca. 

In altre parole, l’armonia è data soprattutto dall’esercizio e dalle consuetudini invalse nel tempo, educando, in crescendo, l’orecchio fino a raggiungere scelte preferenziali, proprie, ad esempio, del volgo che trova armonia, più che altrove, negli inni sacri e non in qualsiasi eccellente poeta latino. Ciò perché gli inni ecclesiastici, per metro e andamento, rima e struttura somigliano a versi barbari e in metri latini. Lo comprova il fatto che, se ci accade di ascoltare un qualsiasi 

pezzo di un’aria che conosciamo e, ad un certo punto, di notare che il seguito di questo pezzo è diverso da quello conosciuto, proviamo subito un senso di discordanza, perché avvertiamo che questa diversità si contrappone alla sua particolare assuefazione. 

Ciò significa che, in casi del genere, la consuetudine e l’esercizio hanno un ruolo determinante nella distinzione armonica o disarmonica dei suoni. Alla stessa maniera di come parimenti è determinante, nella lunga vita di una lingua, il mantenerla immutata nelle sue radici e quindi nei suoi toponimi, che, in quanto tali, non potranno mai morire (Davide Nardoni, Manuale idiotico, Ed. EILES, 1994). 

In tal senso l’esempio ci viene dato dai Greci, che non hanno mai rinunciato a parlare la loro lingua, nemmeno dopo periodi di decadenza; se ne sono sempre ricordati, diversamente dai Romani che, in determinati periodi storici, permisero l’imbarbarimento e la conseguente decadenza del latino, avendo più volte interrotto, e per lungo tempo, i legami con la propria lingua d’origine. Vale, cioè, lo stesso discorso a proposito dell’armonia della quale si è detto all’inizio: la costanza della tradizione e la ricchezza di una vasta letteratura rafforzano, ingentiliscono, aggraziano, prolungano la vita di una lingua. 

Sia d’esempio la sanscrita che, ricca di pregevoli scritture di ogni genere, secondo il gusto orientale, vive ancora in vastissime contrade dell’India, a distanza di secoli. Vive ancora con l’uso e con la cognizione delle sue ricchezze letterarie, con la venerazione dei suoi sommi scrittori. Diversamente da quanto si verificò a ‘Roma nei secoli di barbarie, quando i Romani non sapevano più nulla persino di Virgilio, di Cicerone e di tante loro glorie letterarie. 

Del resto, vuoti così profondi, nel buio della storia, sono sempre avvenuti e sempre avverranno anche tra popoli di grandi civiltà e cultura, ogni volta che la filologia smette la sua funzione di preziosa interprete e fontinuatrice di eventi che per essa stessa affiorano dalla tenebra del passato, dal cimitero delle morte parole, dai fossili linguistici di un’avversa fatalità, ma, il più delle volte, dalla crassa ignoranza di ricercatori presuntuosi e senza scrupoli nel rimestare le regole linguistiche della storia dei popoli. 

Lo studio del linguaggio è sempre rifiorito dopo più o meno lunghe parentesi di oblio, anche nel Settecento, quando si cercavano nuovi impulsi che poi ebbero sbocco definitivo nella metà dell’Ottocento, con la nascita di una nuova linguistica scientifica e, alla fine del Novecento, con l’apertura alla rivoluzionaria filologia sperimentale di Davide Nardoni, che, con diacroniche dimostrazioni del suo crivello, rivisita tutte le fonti letterarie e storico-filologiche per scoprire verità mai dette e con queste rilevare le fallaci interpretazioni di vanagloriosi ricercatori ancorati ad una non sempre illuminante filologia classica, morta nella sua gretta staticità. Costoro poco o quasi nulla dicono della tendenza di adattamento al quale il linguaggio è soggetto nel divenire dei secoli. Motivo, questo, per il quale molte volte alcuni linguisti hanno falsato, senza peraltro accorgersi, le loro ricerche, dando così vita arbitraria a nuove radici tutt’altro che originarie, addirittura inesistenti e quindi non in grado di dare inconfutabile certezza di originalità. 

Nelle lingue c’è una continua interazione, nel senso che non possono esserci immobilismo e compartimenti stagni, dal momento che studiarle vuol dire studiare origini, usi, costumi di popoli confinanti, in un’ alternanza di periodi ricorrenti, con sempre nuovi impulsi da coloro che li hanno raggiunti o dominati, trasmettendo influenze di ogni genere, ma con ciò, nella ricerca di remote origini nessuno può arrogarsi il diritto di cancellarle con l’arma impietosa della devastazione linguistica. 

Ben vengano le fusioni tra i popoli e, oggi più che mai nel fervore di iniziative comunitarie, siano però difese le loro originarie strutture di appartenenza, distintivo delle proprie radici, inconfutabile contrassegno della propria identità, libere da tecnicistiche elaborazioni, da impetuosa e caotica produzione di neologismi nell’ incalzare dello sviluppo della scienza e della tecnologia, foriera, nel nostro paese, per l’indifferente legge del lasciar correre, di vocaboli e sigle straniere, specie anglosassoni, senza che gli amministratori della nostra vita culturale si premurino di tutelare la lingua che ha dato e dà voce unica e costante alla tradizione nazionale, tenuto anche conto che l’integrità dell’italiano, studiato da un numero sempre crescente di stranieri, non può abbondare di babeli terminologiche e tanto meno essere svilita da eccessivi quanto inutili sinonimi per i quali la lingua diviene più acconcia a nascondere che a manifestare il pensiero (*). Come pure dubbia può rivelarsi l’esattezza di quanto detto e scritto intorno all’ etimo delle varie scoperte filologiche, se condite di esorbitanti divagazioni di compiacimento edonistico, peggio ancora da infelici velleità innovative. 

Lasciarsi inquinare il proprio linguaggio da infiltrazioni di altre lingue o di barbarismi che dir si vogliano, in una commistione di ibridi connubi filologici, significa, a lungo andare, perdere le proprie origini, la propria “identità, dare allo straniero licenza di devastare i propri tesori linguistici, affidare se stessi all’ arbitrio di quelle nazioni che, per vantati meriti di trapassate egemonie, pretendono di avere predominio nell’interscambio lessi cale del commercio, che di certo non fa onore al nostro idioma, erede indiscusso della nobilissima lingua latina dalla quale Dante trasse «lo bello stilo» del suo capolavoro. 

Paolo Monelli, attivo difensore della nostra purezza linguistica, ci attribuiva mancanza di orgoglio, la disponibilità a raccattare ogni foresteria con balorda premura e a farci inquinare il linguaggio con fare tipico degli ignoranti, degli schiavi; e precisava: «il che non è indizio di spirito moderno, è al contrario tabaccosa mania». 

Lapidario e veritiero il pensiero di Lorenzo Valla: «Tramontano gli imperi, tramontano le imprese dei popoli e dei re, ma non la lingua quando largamente diffusa non tanto e soltanto in forza di meriti espansionistici, quanto perché, come la latina, più preziosa della propagazione dell’impero romano, da conservare gelosamente come un Dio disceso dal cielo.» E difatti, ovunque si è espanso il dominio romano, anche se ormai cessato da secoli, ivi la stirpe dei casci latini, la loro progenie, la romana gens, continuano a vivere e a regnare poiché l’impero romano è restato dovunque ha imperato la lingua di Roma. «Imperio populos, Romane, memento», esortava il Vate: «o Romano, ricordati di guidare i popoli al Parime, alla parificazione ». 

Senza dubbio i popoli vanno guidati soprattutto dalla lingua, istituzione voluta dal nostro consenso, a seconda che permettiamo che sia, in un modo o nell’altro, in diretta dipendenza dalla nostra volontà. Se non la curiamo, se non la difendiamo dagli assalti nemici, se la lasciamo contagiare dai germi infettivi d’infiltrazioni egemoniche, prima o dopo finirà per ammalarsi e perdere la sua vetusta potenza espressiva, pervasa da fiaccanti contraccolpi stranieri. Adagio, quindi, a indulgere con l’uso di forestierismi e neologismi a indiscriminate aperture alla moda. Piuttosto è quanto mai necessario istituire un’autorità in grado di adattare la terminologia straniera alla nostra, seguendo l’esempio di quegli stessi paesi che ambiscono a posizioni di assoluta preminenza. E occorre, peraltro, sottrarla agli assalti deformanti di coloro che, facendone continuo uso, si ritengono professionalmente autorizzati a farne scempio. 

Donato Accodo

* Cfr. «Repubblica», sabato, 26 febbraio 2005, «Bonsai italiano», di Sebastiano Messina. In poche righe e con fine satira, l’autore focalizza il problema che non va preso alla leggera, bensì affrontato con fermezza e determinazione. (n.d.r.)

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 5-8.




Per una rigenerazione della politica. Cultura e valori umanistici 

 La progressiva perdita di idealità nel panorama socio-politica-culturale dell’Italia ha comportato la ricerca dell’interesse dei singoli a danno della collettività. I mali che hanno corroso dall’interno il rapporto fiduciario tra nomenclatura e popolo evidenziano l’indifferibile esigenza di una ricostruzione dello Stato. Se non si ha più rispetto per la democrazia, non se ne ha neppure per la difesa della dignità individuale. Nessuna meraviglia, del resto, visto che alcuni nostri «eletti» sono ben lungi dall’ essere i missionari della politica. Quel che urge è impedire di ridurre l’Italia in uno stato di ingovernabilità col continuo ricorso alla strategia partitocratica delle coalizioni. 

Verità incontrovertibile è che senza contenuti etici una nazione è destinata a ripiegarsi in se stessa nella corsa al proprio particulare, mentre rotoliamo in un vortice di egoismi, dai quali, alla lunga, tutti saremo travolti. Di qui, la necessità di dare alla politica un supplemento d’anima che la riporti alla sua peculiarità di servizio in favore della comunità, sorretti da convinzioni che maturano in un senso civilmente spirituale. Ma accade che la politica non sempre si fonda su ragioni valide, ovvero su obiettivi raggiungibili senza esporsi a rischi di varia natura. 

D’altronde, è risaputo che passioni che si smorzano rendono squallida la vita reale, specie se priva di requisiti morali e spirituali; di sentimenti, senza i quali non esisterebbe socialità né amor proprio e civile sopravvivenza. Ma in Italia scarseggiano sentimenti, fonti di civile progresso; per quanto è dato capire, vi è più culturalismo che cultura. 

Cultura e politica dovrebbero sempre impegnarsi a rendere l’uomo più libero e autonomo. Con questi intendimenti la società civile sarà veramente libera, sempre che il sistema politico riesca a marciare con i tempi per rinnovarsi, cercando anzitutto di uscire dalle incrostazioni burocratiche che offuscano ai giovani una nitida visione del futuro. Perciò occorre una politica altruistica, senza machiavellismi che consentano prevaricazioni di stampo nepotistico o settario a mestieranti senza scrupoli, che congiurano contro tutte le libertà. 

La società civile è stanca di essere sfruttata senza ritegno. I tempi cambiano e deve cambiare anche la politica in tutte le sue espressioni. Cambiamento più che mai necessario per chi si fa interprete della vita politica in un’ottica ben diversa da quella passata, dopo il ravvedimento ideologico del novembre 1989, il che, con l’abbattimento del muro di Berlino, segna il fallimento della filosofia politica a ideologie contrapposte. Epperò questa contrapposizione non va vista a priori col sospetto della costrizione a combattere l’eterogeneo consociativismo partitico, ma nella consapevolezza di un’inderogabile modifica della legge elettorale, in forza della quale per ben governare non si può più ricorrere all’ arma consociativa, ignorando che la censura politica va fatta attraverso il voto elettorale alla scadenza regolare del mandato, e non con equilibrismi e stratagemmi volti a difendere interessi di cordate variamente ispirate. 

Occorre rafforzare la volontà politica di un riml0vamento radicale delle istituzioni democratiche, ora che i tempi sono maturi per aprire a nuovi scenari di convivenza, col prioritario riconoscimento dell’ appartenenza delle risorse naturali a tutti i popoli della terra. 

Siamo convinti che soltanto chi propugna l’osservanza dei diritti umani rispetta la giustizia sociale e civile. Però, per raggiungere lo scopo, è indispensabile incentivare la buona cultura, quella libera, mai succube di una mutevole volontà politica e del predominio plutocratico, inquinata da lobby di profittatori e di sfruttatori, i quali col sistema consociativo, a cominciare dai sofisticati trucchi elettorali, hanno trasformato l’attività politica in uno stato di perverso benessere. Evidentemente, da esempi così, la cultura non può che uscirne sconfitta, svilita. Inutile, parlare di intellezione culturale; ammesso che se ne conosca il significato, ci si guarderebbe bene dal riconoscere che scienza ed esperienza fanno parte della cultura più viva,essendo i supporti della vita indispensabili ad una missione civile ispirata all’interesse dell’ amministrazione pubblica. 

Occorre leggere di più (se si vuole responsabilmente acculturare il popolo), consapevoli che dai libri provengono conoscenze ed esperienze, indispensabili fonti di cultura, di apertura mentale. La cultura sociologica, nell’interesse della ragion pratica, dovrebbe meglio contribuire, alla politica del governo. Non per nulla l’arguto Papa Wojtyla ebbe ad osservare che la crisi del nostro tempo non è di bombe, ma di cultura, come dire che il pensiero umanistico dovrebbe aleggiare al di sopra della faziosità dei singoli come dei gruppi, perché i soliti arrampicatori, per assicurarsi il potere, escogitano espedienti che non lasciano spazio agli uomini di buona volontà. Non bastano le riforme istituzionali … 

Ben venga, comunque, il federalismo, se esso significa effettivo decentramento di poteri con snellimento burocratico, riduzione dell’ autoritarismo governativo, accompagnato da congrua riduzione numerica dei parlamentari e dei partiti. Ben venga, se esso significa maggior controllo sulla spesa pubblica, riforme istituzionali per il bene comune, adeguate alle nuove esigenze sociali. (Il libro-diario della pubblica amministrazione dovrebbe. essere aperto alla pubblica opinione, non coperto da segreto d’ufficio (n.d.r.). Tutto ciò si può attuare purché guidati da un illuminismo teorico e da un empirismo conoscitivo, capaci di annullare ogni distinzione categoriale e ideologico-politica. In un’epoca come questa, di imperialismo capitalistico vegeta una democrazia incompiuta che va a scapito dei deboli con conseguenze fallimentari che producono disoccupazione e «riduzione contributiva» con relativi disservizi pubblici, a scapito dei cittadini che spesso non vedono tutelata neppure la loro salute. Ai mali che affliggono la società un rimedio ci sarebbe, se ognuno di noi, ancor prima di agire, interrogasse la propria coscienza per conoscere se quello che ci accingiamo a fare risponda al detto: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te! 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 3-4.




 Cultura e Ostracismo 

Alcuni mesi fa l’estensore di un articolo su un noto mensile d’informazione libraria, stampato a Milano, si occupava della crisi che travaglia la nostra editoria. E in realtà più il tempo passa e più ci si accorge che l’interesse dei lettori per le nuove opere continua a scemare nella misura in cui le loro aspettative vengono disattese per mancanza o povertà di contenuti, di obiettività da parte di chi scrive, d’incisività, di viva partecipazione e quindi per carenza di quegli accorgimenti tecnico-linguistici che sono alla base di ogni buona riuscita di un’opera e di ogni buona lettura. 

Ma l’articolista non si soffermava ad approfondire il perché di queste carenze né analizzava quali e quante le cause che le hanno determinate, quali siano state le prime insorgenze che hanno limitato se non privato la nostra cultura di quei meriti che sono stati per secoli la gloria delle nostre tradizioni artistico- letterarie. 

Forse per motivi di spazio non si è potuto soffermare su argomenti tanto importanti e si è limitato soltanto ad affrontare il problema delle diminuzioni delle vendite che turba i sogni degli editori; o forse, più probabilmente, perché egli sa che non si può continuare a proporre ai lettori opere di poco interesse, senza qualità avvincenti, mancando di virtù esaltanti, di estro, di originalità, di tutti quegli accorgimenti che un tempo li rapivano e li rendevano vivamente partecipi della vita, delle speranze, delle ansie, degli slanci, dei rischi, delle sconfitte e delle vittorie dei protagonisti, sicché, a lettura ultimata li facevano esclamare di contentezza: bene, questo scrittore mi convince, il suo lavoro mi è piaciuto, leggerò tutti gli altri, se ne ha scritti, se ne scriverà ancora. 

Oggi, purtroppo, questo entusiasmo tende sempre più a diminuire, e del resto non ha motivo di esserci, se vengono a mancare validi presupposti per dare a chi legge il desiderato appagamento. 

Da molti anni in qua i lettori si sono accorti di non essere più rispettati dalla maggior parte degli scrittori, è subentrato in loro un senso di sfiducia, di delusione, la stessa di colui che si reca spesso dal fruttivendolo per comprare patate, sicuro di averle buone come le precedenti e invece se le trova dure di cottura e di difficile impasto, non rispondenti ai suoi gusti e alle sue esigenze. Il cliente rifiuterà, vita natural durante, altre patate e, probabilmente, altri prodotti della stessa ditta fornitrice. Così per i libri. 

Opere di poco conto, deludenti, che irridono i lettori, che nemmeno meriterebbero di essere sfiorate – tanta è la loro superficialità -, giacciono a «pile» nelle librerie, con tanto di strisce policrome per meglio attirare l’attenzione dei visitatori e indurli agli acquisti. Ma quelli, ormai, non si lasciano più abbindolare: un’occhiata fugace, spesso con le labbra atteggiate ad una beffarda smorfia di noncuranza, passano oltre e continuano, tutt’altro che convinti, la loro rassegna lungo i banchi di vendita. Non credono più ai premi e ne hanno ben donde. Sanno che cosa si agita dietro le quinte di questi, quali e quanti siano gli interessi di prevaricazione ad opera di sensali e di galoppini che si spostano in lungo e in largo per il territorio nazionale ed anche internazionale allo scopo di ordire trame e d’interferire, a volte con sordida e delinquenziale determinazione, nell’altrui operato. E a tal proposito è proprio di non molto tempo fa l’intervento della Squadra Mobile della Questura di Bologna contro un cinquantenne «Rettore» recidivo, denunciato a piede libero, millantatore che ha sempre intrallazzato per anni, adergendosi ad unico coordinatore di un’infinità di premi letterari, sbandierando di essere il solo autorizzato da Enti, Istituti internazionali e Università, a rilasciare diplomi, riconoscimenti e attestati validi, oltre ad avere licenza di nominare e pontificare con spregiudicata padronanza. Il tutto per motivi concorrenziali e di lucro, probabilmente di concerto con qualche stampatore o editore (sic) locale da lunghi anni amico e collaboratore, con l’intento di screditare altrove l’operato e l’incalzante avanzare di altri concorrenti, sorretto e invogliato da settoriali spinte di satrapi politicastri. E così avanzano allegramente e s’impreziosiscono le glorie letterarie italiane ad opera di lungimiranti lavoratori indefessi ai quali non dovrebbe mancare la gratitudine di tanti geni assurti ai fastigi della celebrità con l’inganno dei venditori di vento e di «patacche». 

È ovvio che con questi sistemi di redditizia adulazione, peraltro furbescamente pilotati, restano fuori gli autori migliori, cosicché la sana cultura risentirà sempre dei contraccolpi devianti di chi non può far cultura, di coloro che, inclini a perfidia in appoggio a deliberate scelte di comodo in disprezzo delle altrui capacità, perseguono la loro azione inquinante con una condotta perversa e mistificante. 

Da qui la povertà culturale di molti uomini politici, di tanti papaveri che scrivono perché fa loro comodo e possono farlo impunemente, trattandosi di un vandalismo consentito, protetto e incoraggiato dalla Carta suprema dello Stato. E uno Stato incolto non può dare che miseria e morte, povertà mentale, decadenza, distruzione e i frutti di una sempre più raffinata delinquenza a qualsiasi livello. 

Gli è che quell’art. 21 della Costituzione varata nel 1947, che recita: «tutti hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero, con le parole, lo scritto e ogni altro mezzo di espressione», va completato con un’aggiunta assai eloquente che scoraggerebbe tanti incolti rampanti che infestano luoghi vitali di questa nostra sventurata Italia. Si aggiunga: …tranne che coi piedi. 

«Già cinquant’anni prima di Cristo, Terenzio Varrone, stabilendo in un suo famoso trattato un’analogia tra il cattivo uso della lingua e ogni altro delitto, si chiedeva come mai non esistesse alcuna pena per questo reato. Ce lo chiederemmo anche noi se l’art. 21 non fosse lì a darcene risposta. I pupilli di questo articolo, anche se rozzi, incivili e guitti, anche se distruttori d’un patrimonio nazionale, non si toccano». Però sia ben chiaro: se non si porrà riparo ad una cultura di diseredati mentali, se non si farà ritorno alla fonte vivificante del sapere, bandendo il superfluo, l’inconcludente e il deleterio, non si avanzerà di un micron sulla strada del vero progresso, non ci sarà più storia nè istituzioni che tengano, ma solo anarchia che un’imbelle società di fedifraghi e di allegri governanti hanno alimentato con la loro deplorevole acquiescenza. 

Ma abbiamo divagato, trasportati dall’onda irruenta dell’orgoglio, di preservare la nostra lingua dallo scempio di squallidi cacasenno, ed è il caso di ritornare, sia pur per poco, alla farsa dei premi letterari. 

Se prima di assegnarli si facesse ricorso a giurie popolari con vasta partecipazione di lettori disinteressati e insensibili a sollecitazioni di pietosi caldeggiamenti che disonorano la tradizionale severità di scelta delle figure più rappresentative del genio italico, la cultura avrebbe molto da guadagnare e nulla da perdere, venendo a mancare la pressione monopolistica di frange ristrette di alcuni squallidi figuri che operano in mala fede e pretendono di farsela giustificare con forzature tipiche della perversa miopia letteraria che non bada a proprietà di linguaggio e all’osservanza di regole sintattico grammaticale. 

Allora sì che col predetto sistema delle giurie popolari – alle quali, del resto, si fa già ricorso in qualche attribuzione di scelta letteraria – i riconoscimenti avrebbero ben altro significato e molti scrittori illustri, da decenni ignorati dalla volontaria inquisitoria esclusione di scuderia, otterrebbero il meritato riconoscimento sulla base di giudizi spontanei e la verità, lungamente soffocata da interessi di parte di oziosi mestieranti, verrebbe ad esplodere in tutta la genuinità di libera scelta, apportando un effetto disinquinante e benefico nel ginepraio dei premi letterari. 

Non sono i premi assegnati che qualificano i concorrenti, e tanto meno le solite case editrici che li ipotecano, bensì il valore dei giudicanti, di coloro che per raggiungere livelli di probità e competenza hanno vissuto una vita di tormento e di non pochi preclusi raggiungimenti, assai spesso proprio ad opera di aridi intrallazzatori che hanno loro sbarrato la strada di un meritato successo. Costoro hanno avuto più fortuna, hanno saputo strisciare meglio e via via si sono accontentati della loro megalomania, misero vanto di pecorina sudditanza al primo padrone che li ingaggi. Ed appunto da detta megalomania discende la logica della faciloneria, della superbia e della irrazionalità, dell’incompetenza ad esprimere giudizi obiettivi e quindi la dimostrazione pratica dell’incultura con tutte le dolorose anomalie che ci regalano coloro che si attentano a scrivere e a dire, ritenendo, a torto, che è come dare di zappa, che non ci vuole eccessivo sforzo per riuscire ad esprimersi bene; oggi, poi, è più che mai una passeggiata: per ciascuno c’è una parola di lode, un premio, non ci sono problemi, e se non è uno è l’altro, tanto, sempre premi sono. 

Di questo passo, di adulazione in adulazione, la vera cultura corre il rischio di diventare totale appannaggio degli illetterati, dei furbastri traffichini che ben si prestano a svilirla, specie se remunerata lautamente per il loro impegno di devastazione letteraria in questo scorcio di secolo ventesimo. 

Scrivere bene equivale a saper soffrire altrettanto bene, non significa alzarsi la mattina, dopo aver dormito col posteriore scoperto, mettersi davanti allo specchio e incoronarsi poeta eccellente o sagace scrittore. 

Occorre rigore e trasparenza linguistica, non megalomania, libidine di prevaricazione, tradimenti, raggiri e calunnie per sminuire il valore di autentici talenti avversati dalla mafia letteraria dei perversi monopolizzatori che prediligono una cultura spicciola e di cassetta. Ma per fortuna ci sono ancora scrittori che non sono in vendita, che non accetteranno mai di rassegnarsi allo squallore di una cultura dissacrante che può far comodo soltanto a molte frange di intellettualoidi ai quali dobbiamo lo sfascio socio-politico della nostra sventurata Italia. 

Se potesse parlare dalla tomba il grande Vincenzo Cardarelli, ci rimprovererebbe di certo la faciloneria con cui crediamo di esprimerci nel buon uso della lingua italiana e ci ricorderebbe la lotta titanica da lui combattuta per difenderla e salvarla dagli attacchi dei trasformisti di comodo della sua epoca. Ma, ai nostri giorni, il richiamo al rigore e alla trasparenza linguistica del Vate di Tarquinia sortisce il solo scopo di fare impallidire tanti boriosi che non hanno né arte né parte, ma spocchiosa megalomania, libidine di prevaricazione con tutte le armi a loro disposizione, comprese quelle del tradimento e della calunnia. 

Nel 1985, all’inizio di una introduzione ad una mia modesta ma fortunata opera dal titolo «Profili critici di scrittori contemporanei per la storia della letteratura italiana» già tracciavo alcune note frammentarie e un po’ dispersive che volevano essere un timido tentativo di esegesi critica di un piccolo cenacolo di scrittori, ad integrazione, entro certi limiti, appunto della nostra storia letteraria che di norma non tiene in debito conto autori nuovi, talora di qualche rilievo e comunque suscettibili, se adeguatamente apprezzati, di successivi sviluppi in quel mondo dell’intelletto e dell’anima che è il mondo dell’arte letteraria. 

Già nel suddetto saggio mettevo in risalto l’inutilità della verbosità che tanto opprimente si espande con la radio e la televisione, con i discorsi degli uomini politici quasi sempre impolitici, con i tanto ciarlatani che ci ottundono il cervello e impoveriscono lo spirito con le loro pietose inconcludenze, evasive e a volte ridicole nel tentativo di non prendere posizione su problemi di scottante interesse, con le loro miserabili ricerche di alchimie che nulla edificano e molto cancellano, con le loro stupidaggini che distolgono l’attenzione e ostacolano la serenità della nostra mente. Tanta deleteria verbosità che a lungo andare condizionerà ogni possibilità di libera scelta, non deve penetrare anche nel sacello dello scritto che, immiserito da prezzolati impostori di mezza tacca al servizio di una politica di dissennati e di rinnegati, è ostacolato nel riprendere la sua posizione di predominio nel mondo del pensiero e dell’apprendimento. Se il silenzio è d’oro, è conseguente che l’oltraggioso bombardamento televisivo al servizio di una esasperante produttività industriale che minaccia di snaturare l’uomo e l’ambiente in cui egli vive ed opera, altro non è che un costante insulto alla dignità di coloro che sdegnosamente respingono la perversa illusione di un illimitato progresso, il bieco mostro che decimerà, se non addirittura distruggerà se stesso e l’umanità per libidine di ricchezza e di vergognoso utilitarismo. 

Altrove dissi che è quanto mai necessaria e urgente un’inversione di rotta, che occorre riflettere sugli errori del passato e, soprattutto bonificare la cultura a lungo inquinata, renderla sana, cardine e principio informatore di ogni effettivo progresso che non congiuri contro l’uomo e gli preservi il dono della vita e ne allunghi la durata. 

Ma oggi la cultura non svolge più il ruolo primario che dovrebbe avere! Servili sparvieri, operando al servizio di prezzolati e protervi opportunisti che pretendono di asserragliare il pensiero degli uomini liberi, protesi a difendere le glorie di un patrimonio culturale di elevato valore, che nepoti immemori da trent’anni in qua si sforzano con ogni mezzo di lottizzare e ostacolarne la continuità; oggi, dicevamo, la cultura è piatta e soggiace alla volontà di avventurieri che nulla hanno a vedere coi principi edificanti, con una volontà di rifondare una società più equa e maggiormente interessata alla risurrezione dei buoni costumi. 

Non illudiamoci di raddrizzare le sorti nazionali senza una cultura sana, mettendone al bando le strutture basilari sino a compromettere, a vanificare i risultati di secolari ammaestramenti. Tutti i mali e le mostruosità della moderna società sono dovuti all’insegnamento e alla pratica di una cultura deviante, disumana, aggressiva e dissacrante, sacrificata al Molock di un’industria incontrollata, selvaggia e devastante. 

Finché non sarà data via libera alla collaborazione di pensatori validi, forti di una preparazione umanistica, finché in ogni programma, in ogni azione, in ogni intento, presente e futuro, saranno trascurati e, peggio, ignorati i grandi autori del passato e la loro morale, gli uomini diverranno sempre più miseri e la possibilità della loro completa disumanizzazione diverrà realtà. Per evitarla c’è un solo rimedio: mettere al bando tutte le opere che non abbiano un fine educativo, almeno nelle scuole. 

Ma per attuare ciò bisogna fare opera di prevenzione, occorre smascherare quanto accade in ambienti e circoli culturali, legati agli estensori delle terze pagine di alcuni giornali di massa. 

Per qualche anno fui eletto a rivestire una carica di una certa responsabilità in una nota Associazione culturale. Quel che mi fu dato di vedere e di constatare va oltre i limiti dell’indecenza. Fu allora che, da vicino, mi resi conto dello sfruttamento disinvolto di uomini fedifraghi, in nome di una cultura farraginosa, da cui hanno attinto immense risorse figure che disonorano la nostra letteratura per la loro povertà cerebrale. Costoro, però, quando operano per il loro tornaconto trovano sempre il sistema migliore per inserirsi negli spazi auriferi di una millantata professionalità. Ma la meraviglia delle meraviglie, la punta di diamante delle trovate è data dalle varie congreghe di esponenti politici di spicco, di autorità religiose, di scienziati che tutti insieme, con la loro presenza, concorrono a solennizzare le tante cerimonie di premiazione quando vengono invitati a ritirare patacche dalle mani di organizzatori che non fanno certamente onore al prestigio e al buon nome dei partecipanti. E ogni anno sempre con la stessa apertura mnemonica di un discorso stantìo, scarno quando non è addirittura inconcludente, che finisce tra applausi, baci, e abbracci e osanna in una esilarante cornice di volti radiosi per gli «ambìti» riconoscimenti ricevuti. 

E così, in questo scorcio di secolo ventesimo, retaggio di glorie letterarie immortali, nel ginepraio di una lingua offesa e vilipesa e devastata, la farsa della celebrazione del genio italico continua, ad integrazione di altre glorie maturate all’ombra del sei politico e di riforme volute da dissennati politicastri che hanno regalato alle nostre scuole una folta schiera di docenti tuttora congiurati, avversi alla tradizione culturale del nostro paese. Ben fece l’illustre Prof. Giacomo Devoto a dimettersi quando non ebbe più dubbi che la sua Università era ormai una fabbrica di somari. «Mi rifiuto» disse, «di continuare ad essere il rettore di una facoltà di asini». 

Il vero è, comunque, che molti hanno perduto il senso della misura in tutti i campi, non si rassegnano a restare nel senno di ieri, preferiscono oggi una società schizofrenica, che non sa più dove andare perché alla deriva dell’infido andazzo di una cultura immiserita, non più turgida di principi informatori, non più veicolo equilibratore tra una millenaria esperienza di esaltanti conquiste dello spirito e un’arida fatica per il raggiungimento di lontanissimi orizzonti che non sottraggano all’umanità bisognosa immense risorse vitali e non la condannino alla vergogna di una sempre più spaventosa miseria, alla morte per fame di milioni di nostri simili. E la chiamano cultura del progresso! Se così fosse, parafrasando la storica frase di Madame Roland, potremmo esclamare «O progresso, quante ingiustizie, quante miserie e quante e quali barbarie per colpa tua, quando congiuri contro l’umanità!». 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 8-14.




Bontà loro

In un mondo fatto di egoismi e di egotismi, di gelosie e di ricatti, d’indifferenza e di furberie, di ipocrisie verniciate o trasparenti, di brutalità e di rancori, di demagogia sordida, di vanità e di arrivismo, di falsità morali materiali e ideologiche ad ogni livello, di declamata falsa fratellanza, di malcelate invidie, in cui viviamo, sembrava che la Bontà, virtù spirituale che è un segno di nobiltà dell’animo umano, fosse stata relegata in soffitta, fosse diventata oggetto di derisione e di scherno come tanti altri valori etici in disuso, in una parola, sembrava fosse introvabile … un’araba fenice! 

Invece no: c’è stato chi ha avuto tanta costanza da riuscire a trovare qualcuno che, bontà sua, si presta ad apparire sugli schermi televisivi, per essere intervistato fino all’ultimo confronto, come si fa con i detersivi. 

Qualcuno potrebbe insinuare che non si tratta di vera bontà, ma piuttosto di esibizionismo, giacchè vediamo ad ogni piè sospinto, quanto grande sia l’ansia di vedersi … televisionato, in individui di ogni estrazione sociale e culturale: ti vedono familiari e amici, nonché nemici che si rodono dentro per non esserci arrivati. 

È come entrare – e officiare – in un tempio magico, precluso alla maggioranza dei comuni mortali, essere oggetto dell’attenzione altrui, cosa che solletica la vanità, sentendosi parte della schiera degli eletti, degli iniziati alle segrete cose: talchè, dal grave ed ermetico uomo politico, all’asso dello sport, all’attore più o meno di grido (anche se già altre volte televisionati) all’ultimo popolano o ragazzino i quali, quando una telecamera distrattamente o volutamente li inquadra, esultanti, non sanno resistere alla voglia di dimenarsi e agitare la manina, tutti, godono un inesprimibile fasullo gaudio, che ne solletica le varie papille. 

È perciò una semplice frase stereotipata di grammatica – senza valore perché trita e ritrita quel “grazie per avere aderito all’invito” che spesso si sente, invito la cui accettazione era largamente scontata. Piccole ipocrisie, del resto veniali, che sono l’immancabile corredo della socievolezza. 

Costanzo, dal fare sornione, è un abile intervistatore che cerca di sondare nei recessi, e talvolta vi riesce, un po’ molcendo, un po’ mordendo, a volte dolce, a volte graffiante. 

Tempo fa, la triade che aveva aderito all’invito era composta da un magistrato, del quale sfugge il nome, da un’attempata ex attrice dall’eloquio fluente, spumeggiante e talvolta straripante, e da un terzo che vorrà scusare se, per labilità di memoria non viene citato, ricercato per formare la terna ed occupare la terza poltrona: una persona intelligente e spiritosa che, profittando dell’occasione, pensava solo a rimirare certe residue grazie femminili, invero non molto eclatanti, perché costituite solo dalle lunghe gambe, generosamente e variamente esibite, quali ruderi di una passata altezza. 

Il paziente Costanzo durava fatica a strappare di bocca la parola a colei che anche in quella occasione si rivelava brava attrice, ma riuscendo inutili i freni a disco e quelli idraulici tentati, doveva arrendersi alla foga impetuosa. 

Però, il personaggio chiave della seduta era il magistrato, un alto magistrato, sembra, altamente qualificato, tanto che, se la memoria non falla, era stato eletto a far parte del C.S.M. 

Una delle domande rivoltegli da Costanzo, e sulla quale vogliamo soffermarci – considerata la risposta – era: che cosa provava, lui, giudice, entrando in aula erestando da una parte della barricata, nel guardare l’uomo che doveva giudicare, seduto sulla panca degli imputati, e cioè, dall’altra parte della barricata. 

L’inattesa, inaudita, aberrante risposta: “un senso di vergogna”! 

Pur facendo credito alla sensibilità, alla sincerità, al senso intimo della risposta, spiegato con accenti di umiltà e comprensione dal giudice interrogato, non si può non osservare che la risposta è da considerarsi abnorme, come contenuto, per cui sarebbe apparso più logico ed opportuno dire: “un senso di disagio.” 

La risposta sarebbe sembrata, così, meno demagogica e più credibile, nonché più valida e più apprezzabile dal lato umano, quel lato, cioè, che il giudice ha inteso accreditare: e sarebbe valsa anche a tener lontano ogni eventuale dubbio, come, ad esempio, quello, da respingere, di aver cercato di ingraziarsi certi franchi tiratori. Il fatto di aver avuto la fortuna di appartenere a famiglia che ha potuto dargli una istruzione e una educazione, mentre l’altro, l’antagonista, può non aver avuto tali provvidenze, non è sufficiente a giustificare “il senso di vergogna”. Non tutti i delinquenti sono nati e cresciuti nei ghetti, e viceversa, tanti, cresciuti nei ghetti, diventano onesti lavoratori. Non tutti i nati da famiglie patrizie o doviziose sono uomini esemplari, ma molti di essi delinquono. Né mi si venga, a questo punto, a parlare della “società”, perché in essa vegetano sia le piante buone che la gramigna. Solo un superuomo mancato (con buona pace dei Nietzsche) di tipo radicaleggiante, potrebbe appigliarsi a certe motivazioni neoplatoniche e capziose, con ben precisi scopi. 

Il fare il giudice è un servizio sociale, forse il più nobile, è il più difficile, e non c’è da vergognarsi a farlo quando si è scelta quella strada, altrimenti dovrebbero vergognarsi tutti quei funzionari dello Stato che hanno una funzione, spesso sgradita agli altri, ed a volte a se stessi, a cominciare dal questore al generale dei carabinieri, dai funzionari del fisco fino all’ultimo degli agenti appartenenti a tali categorie: sarebbe curioso, anzi interessante, invitare tutti costoro a vergognarsi (… su, vergognatevi un po’ . . .) per sentire le loro reazioni. Al contrario, se qualsiasi funzione è esercitata con zelo, con onestà, con comprensione, con senso di misura, in una parola, con equità ed umanità, può essere fonte delle migliori soddisfazioni morali. Con senso di equità e con umanità: nessuno, più di un giudice, nell’assolvere il suo mandato, può esplicare pienamente tali virtù, che tramutano la durezza del compito, non in vergogna ma in intima gioia, per avere contribuito, con la propria discrezionalità e con animo puro, all’affermazione di princìpi della più affinata etica sociale. 

Infine, nessuno toglie a un magistrato, quando il “senso di vergogna” prevalga su quello del retto dovere, la facoltà di dimettersi dalla sua funzione ed abbracciare la professione dell’avvocato, venendo, così, a trovarsi dall’altra parte della barricata, e potendo così tutelare la difesa dei derelitti che le solite insufficienze della società hanno costretto a intraprendere la via del delitto. 

Il potere e la Magistratura è un potere – è deplorevole e nefasto quando è volto ad opprimere: quando, invece, è spinto dal nobile intento di amministrare saggiamente e onestamente la Giustizia, esplica la funzione più nobile in una società evoluta, ed è perciò altamente apprezzabile. 

Non resta che augurarsi che la risposta data sia da attribuirsi ad un semplice lapsus, nel dover rispondere con immediatezza a una domanda forse inattesa, cosa che avviene non di raro in tivù, dove la suggestione esercitata dall’ambiente può provocare momentanei smarrimenti anche in chi, in altra sede, è agguerrito, distaccato e disinvolto. Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 13-16