Un autentico maestro 

 E. Bonora, Montale e altro novecento, Caltanissetta-Roma, Sciascia ed., 1989, pagg. 267. 

Nel ripiego della copertina di questo nuovo ed atteso volume di Ettore Bonora si legge: «I saggi di questo volume sono in parte inediti – e fra questi c’è anche un’intervista con Montale del 1961 – in parte già noti perché apparsi in riviste, in memorie accademiche, in atti di convegni». Ora, oltre all’opportunità editoriale di raggruppare in volume gli sparsi interventi critici, anche se apparsi in autorevolissime edizioni, ad esigerlo è la omogeneità esegetica che bene li armonizza lungo l’iter delle proposte e delle conclusioni. Peraltro il volume fa seguito, non tanto cronologicamente, quanto ermeneuticamente ai tre precedenti volumi del Bonora su Montale: (Le metafore del vero. Saggi sulle «Occasioni» di Eugenio Montale, Bonacci, Roma 1981 – Poesia di Montale: Ossi di seppia, Liviana, Padova 1982 – Conversando con Montale, Rizzoli, Milano 1983) che insieme a questo, oltre che costituire una armoniosa tetralogia, rappresenta il corpus critico più qualificato ed autorevole sul grande poeta genovese. 

Undici saggi (di cui sei dedicati a Montale), un’avvertenza esplicativa ed un’assai opportuna notizia bibliografica compongono un volume ricco e corposo che già avvince per una tecnica scrittoria narrativa e per una misura stilistica fortemente equilibrata, gradevolmente ‘acidula’ che invita ad una piacevole lettura e ad un amabile conversare. E già solo questo sarebbe non poco, nel clima di revival di «vecchi tromboni» che nella foga di strombazzare obsolete primogeniture e fantomatiche benemerenze, mortificano i più elementari canoni stilistici, che sono parte integrante di una seria ricerca scientifica. 

Certo lo «stile Bonora» (e qui lo intendiamo nella sua più ampia accezione) non si improvvisa; esso è il frutto più vero ed autentico di una onestà e di un rigore intellettuale che, temprati da una rara acribia critica e affinati da robuste dosi di «sciroppo di tavolino», ne fanno uno dei pochi, autentici maestri dell’italianistica e della critica letteraria. 

Uscito ad un anno di distanza dalle sue Interpretazioni dantesche (Mucchi, Modena 1988) di taglio più squisitamente filologico linguistico, quest’ultimo volume montaliano è una ulteriore ed ennesima testimonianza della vastità, della duttilità e della versatilità critica dello studioso milanese. E anche se, nella prefazione alle Interpretazioni con l’umiltà dei valorosi, non osa dichiararsi un dantista per via della sua ‘poca’ produzione, egli, per certo lo è; lo è perché il confessato amore ermeneutico per Dante lo conferma; lo è per l’assoluta qualità dei suoi interventi; lo è per la rigorosissima selezione bibliografica; e lo è infine perché, tralasciando i suoi studi notevoli su Petrarca, Folengo, Bembo, Guarini, Tasso, Parini, Manzoni, ecc., è storico valoroso ed autorevole di tutta la letteratura italiana, come ampiamente testimonia la sua Storia della letteratura italiana (Petrini, Torino 1976). 

Ma ritornando al volume in oggetto, è subito da notare il richiamo pregnante all’attenzione ed alla lucidità di analisi di versi mai sufficientemente ascoltati nel loro carico di rimandi e di richiami intertestuali. Qui a registrarsi è una caparbia fedeltà al testo che induce il critico ad una lettura che non si attardi, o non subisca rallentamenti davanti a scarsa conoscenza delle fonti alle quali invece costantemente volle rifarsi il poeta: e attraverso lo studio delle quali si perviene al recupero di significati che in qualsiasi altro caso andrebbero irrimediabilmente perduti. 

Non meno diligente risulta l’analisi condotta sulle pagine di documentazione critica fiorita, senza soluzione di continuità, sulla figura e l’opera di Eugenio Montale. L’amico Montale viene sottoposto allo scrupoloso esame della sua squisita sensibilità interpretativa, mentre il rigore analitico sottolinea le indubbie difficoltà di decodificazione del verso. Difficoltà acuite dal fatto che il poeta ha sempre dispensato, anche agli amici, con molta parsimonia e con ampie riserve, la verità sugli enigmi dei propri versi, fino a depistare, e con gusto, la critica più invadente e sprovveduta. 

Ma se il suo era un gioco, o un ironico riserbo che lo sorreggerà anche quando si accorgerà di essere il più vecchio del «Nobel», il corpus del Bonora lo svela penetrando, con i piedi di piombo, nei meandri delle censure ed incastonando tessere fondamentali nel complesso e celato mosaico della sua poetica. Affondando il bisturi nei recessi più inospitali del ‘suo’ autore il Bonora ne scopre, oltre all’inventiva ed all’ironia, anche l’amarezza finale, la tristezza di chi si vede costretto a demolire quegli ideali di ‘coscienza’ di ‘sensibilita’ e di ‘dignità’ per i quali ha lottato, ponendo in discussione tutto, financo la cultura. 

Come non è difficile arguire, l’impresa di sistemazione critica non è stata certo delle più agevoli, in considerazione anche del ventaglio di linee orientative prospettate e delle difficoltà di selezione; ma questo conferisce maggior lustro ad un volume che, con i tre precedenti, più che utile è fondamentale per gli addetti ai lavori, ma che torna illuminante anche al lettore comune non disattento che vi potrà apprezzare, su un registro interpretativo, metodologicamente ineccepibile, una assai bene articolata indagine che lo rende strumento imprescindibile per una «paideia» montaliana fuori dai canoni libreschi e dal manierismo di schemi canonizzati. 

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 41-43.




 Un amore che si trasfigura 

A. Gamboni Mercenaro, Poesie d’amore e altre, Poggibonsi, Lalli 1989 

“Ho scritto questi versi con una penna-scandaglio riproponendo il tema antico e sempre magico dell’amore”, È questa la frase che apre l’autoprefazione alla raccolta di liriche di Antonio Gamboni Mercenaro. Una frase che, a primo acchito, potrebbe suonare come una disarmata e disarmante banalizzazione dell’eterno tema sentimentale, indagato ancora una volta, con lo scandaglio del rabdomante alla ricerca di un amore totale che non troverà. 

Ma in una poesia di intonazione eccezionalmente leggera, qual è quella di questa silloge, ove oggetti percepiti come frammenti della realtà dispongono ad una specie di idillio vissuto, aleggia un pathos lirico pregno di sensuale tenerezza: «La tua bocca una scialuppa di baci/ … / I tuoi seni due gole di tortora» “(Dormivi, pag. 27). Una tenerezza che illegiadrisce una passione ardente e fuga una malinconia che è fin troppo naturale in un uomo che sente riaccendersi d’amore per “tutte le donne che con il loro affetto hanno dato veste ai [suoi] sentimenti” (Dedica). 

Ed è proprio la contemplazione amorosa, evocata in Le tue dita di vento (pag. 24), ripresa in Sei bella quando ridi (pag. 33) e pur non chiusa in L’ultima volta (pag. 38), che porta il poeta verso simboli e verso metafore che sublimano. in un’unica, superiore sfera gnoseologica, la storia personale e la storia dell’umanità, sola e sofferente, che ha, come il poeta «[…] cuore di spugna seccai e labbra sterili di risa» (Nessuno, pag. 62). 

E benché Gamboni Mercenaro nei suoi riferimenti culturali non sia sempre prevedibile, anche perché montalianamente gli basta poco per ricavarne sostanza di poesia da letture più o meno recenti, non è difficile rilevare un suo debito al platonismo rinascimentale. Un platonismo “mediato” tra Gismondo e Perrottino che ricrea l’immagine di un cuore «vaso/ nel mio petto/ con un pesciolino rosso / Il mio cuore/ sei tu!» (Sei tu, pag. 46), ma che non rifiuta, anzi accoglie di Lavinello l’idea che «il silenzio è la preghiera udibile/ dell’anima che cerca Dio» (Il silenzio, pag. 71). 

Un amore, dunque, a tutto tondo, “nel senso più vasto”, sentito, anzi avvertito come una promessa di liberazione dell’umanità: un amore che si trasfigura per adattarsi ad una esperienza autobiografica, e nel contempo si significa e si alimenta della nota melanconica e solitaria. Proprio con “solitudine” e “notte” si apre la silloge: «La notte è solitudine densa»: «La notte è luna mussulmana»: «La notte è quercia dura» (Luna mussulmana, pag.11): per perpetuare questa”preziosa” melopea con le tre lettere ad una donna dove dai dadi truccati dentro «l’urna della solitudine», si passa all’eco di una rata scaduta, per concludersi nello slontanamento di uno «scoglio franato dal dirupo» che pur non cede alle insidie del mare ostile della vita. 

Per concludere queste brevi note non ci resta che rilevare le non poche reminiscenze da lettore colto che sono sparse per tutta la raccolta: essa non è corposa, dimostra tuttavia non poca familiarità con la lirica neosperimentalistica 

dell’ultimo Novecento: e non è azzardato dire che qui si tenta l’apertura di un frammentismo di maniera che, nel toccare le varie corde dell’amore, testimonia di una fine sensibilità “pudicamente” manifestata con navigato mestiere. 

Vito Titone

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 58-59




 Artifex additus artifici

Nel dicembre del 1984, in un’aula della Facoltà di Magistero di Torino, con una sobria ed assai significativa cerimonia, in perfetta armonia con il carattere e lo stile di Ettore Bonora, amici, colleghi e scolari hanno voluto degnamente onorare il settantesimo compleanno dell’illustre studioso, presentando in volume alcuni suoi scritti sulla critica letteraria del Novecento: Protagonisti e problemi, Torino, Loescher, 1984. 

A primo acchito sembrerebbe che a tenere legata la raccolta di saggi e di note sia il dato cronologico (il Novecento), ma a ben guardare vi è una unità interna, una disciplina strutturale ed una metodologia essenziale che li stringe e li annoda in un corpus organico. 

Il volume che si avvale di una deferente presentazione e di una completa bibliografia degli scritti di Ettore Bonora apparsi in varie riviste fra il 1939 ed il 1984, è costituito da nove organici ed omogenei interventi: Benedetto Croce e la letteratura del Rinascimento, La drammaturgia settecentesca nella storiograjia italiana da De Sanctis a Croce, Il dibattito sulla letteratura dialettale dall’età veristica a oggi, Il Seicento “protagonista vero e immanente” dei “Promessi Sposi” nella interpretazione di Luigi Russo. Appunti per un ritratto critico di Mario Fubini, Fubini direttore del “Giomale storico”. Breve discorso sul metodo di Gianfranco Contini, Dalla storia della letteratura alla scienza della letteratura. 

Il lettore attento sa accorgersi dell’improba e meritoria fatica di rendere lucido, anzi traslucido e sintetico, il pensiero critico di un Benedetto Croce, di un Luigi Russo, di un Mario Fubini, di un Gianfranco Contini o di un Hans Robert Jauss; lo studioso esperto riconosce non meno velocemente l’attenzione impeccabile del lavoro, la cura scientifica nell’organizzare e conseguentemente esprimere, con sicura evidenza, in una scrittura controllatissima, un organico panorama di idee di tutta una attività critica che, dai nomi summenzionati, passa alle generazioni future alcuni principi motori della nostra indagine letteraria. Ciò avviene perché lo studioso, con la sagacia e l’acribìa che gli sono pressoché unanimemente riconosciute, non si limita a rendere conto doviziosamente del pensiero del critico che è oggetto della sua riflessione, ma avanza sovente nuove e sostanziali ipotesi, propone e indica delle soluzioni, per cui i saggi di un Croce o di un Russo acquistano in intelligibilità. 

Arte del chiarire e dell’integrare ai fini di una corretta interpretazione è da dirsi quella del Sonora storico della critica letteraria. Ed è un “maieutico” aiutare non solo a capire. ma anche ed essenzialmente ad avvicinarsi al critico di turno (ma sarebbe più giusto ai critici per la vastità del respiro esegetico dato all’argomento) con ben altri strumenti interpretativi, con ben altre cognizioni. In questo individuato ambito è legittimo affermare che l’autore sia andato oltre il proposito di essere il semplice storico della critica, perché la rara esperienza e gli approfonditi studi, uniti, oseremmo dire, ad una “naturale” vocazione critica, gli hanno consentito di compiere quanto maggiormente è auspicabile: nel chiarire il pensiero del critico, costruire sulla critica nuova critica (ci si perdoni la voluta iterazione del termine), non solo illuminando. ma altresì prospettando chiavi di lettura, e probabili soluzioni senza mai influenzame l’oggettività critica. 

Lo studioso appare quindi come il sempre più auspicabile artifex additus artljìci che nell’utilizzo delle forme agili evita la pedanteria e rifugge dall’accademia “pura”. E non è certo solo un caso se il volume si chiude con 

l’osservazione del Thibaudet: “Un libro di critica è vivo solo se suscita la critica, se tiene la sua parte in un dialogo, se comunica la sua vibrazione a un movimento che lo supera – vale a dire, insomma, se è incompleto, se porta il lettore a rettificarlo”. 

Una verità essenziale che il Sonora ha da tempo tesaurizzato nella sua integralità aprendo sempre un autentico e chiarificatore dibattito di idee ove è facilmente rilevabile l’avvertito bisogno di inverare con proprie convinzioni posizioni critiche che pur mantengono sovente inalterate le loro prerogative di validità. Ciò senza nulla togliere alla messa a fuoco delle posizioni e delle ragioni critiche da cui gli interventi erano scaturiti. Pertanto il senso del dibattito lievita nella ri11essione che si rivolge al testo problematizzandolo. 

Una capacità di lettura, quindi, aderente al testo e all’autore, ma nel contempo sostanzialmente dialettica: un saper leggere che il Sonora ha attinto dalla sua lunga esperienza di solerte studioso e di fine e sensibile interprete. Un leggere con volontà di collaborazione che rivendica alla critica il suo ruolo legittimo di crescita sociale e culturale additandone i caratteri peculiari su cui si regge e prospera: il confronto, l’integrazione e lo scontro di idee che ne garantiscono il progresso e ne legittimano la essenzialità. 

Rigorosamente calati in un preciso diagramma storico-critico questi studi tengono sempre in debita considerazione l’intero arco critico degli studiosi esaminandone l’opera specifica in una visione radiale e globale di insieme, rifuggendo da arbitrari e spesso fuorvianti estrapolamenti. Anche per ciò, a nostro avviso, i saggi sono altamente esemplativi di quanto l’intelligenza critica, messa a disposizione della serietà di lettura, pur se in un settore così complesso e vario come l’ermeneutica, diventi una proposta destinata ad inl1uenzare tutto un modo di fare storia della critica. Singolarmente esemplativi a tal proposito sono i saggi su Benedetto Croce, su Mario Fubini, su Gianfranco Contini e su Hans Robert Jassus, per non parlare della “querelle” fra il Garlanda ed il Pirandello sulla struttura dell’endecasillabo dantesco che appare quasi come un pretesto per una più ampia ed articolata discussione. Che dire poi della esemplificazione magistrale che il Bonora ci fornisce del pensiero di Luigi Russo a proposito del “Seicento protagonista vero e immanente” dei “Promessi Sposi”: “Il Seicento è il protagonista del romanzo non già per gli elementi storici, chè questo poteva essere ingrediente esteriore, impalcatura, scenografia del così detto romanzo storico, ma in quanto spirito, logica, gusto, vita morale”? Non minor pregio per sintesi e precisione ha il discorso sul metodo del “postcrociano” Contini, ove lapalissianamente si evidenzia che alla base della metodologia di uno dei maggiori rappresentanti della critica stilistica sta l’analisi della tecnica di uno scrittore e dell’organizzazione di un’opera, intesa come prodotto linguistico: analisi che si fonda su un attento esame delle varianti per individuare le direzioni di lavoro dello scrittore ed il processo formativo del testo. 

Sobrietà, chiarezza ed una singolare accuratezza informativa ne fanno un volume fondamentale sia per gli specialisti che per i lettori comuni di buona cultura che anche dal Sonora storico della critica riceveranno la conferma della sua onestà critica ed intellettuale (una dote che si va vieppiù rarefacendo nella larga schiera degli studiosi), sia nelle note dedicate al “maestro degno di essere ascoltato” (Fubini) sia nei saggi sul Croce, di chi proprio crociano il cento per cento non è, ma che certo sarebbe pronto (e noi con lui) a “bollare” di “imbecillità” chi pretende di ignorare l’entità notevole della sua opera di critico e i filosofo, e misconoscere financo “il gusto sicuro di lettore” e la essenzialità di non poche sue pagine. 

Anche questa, ormai assodata, onestà concorre a qualificare il Bonora come uno degli ultimi veri grandi maestri, accanto a quelli che sono stati oggetto della sua riflessione, da cui le giovani generazioni di studiosi possono copiosamente attingere sicuri di trovarvi gli stimoli necessari al loro non comune e faticoso impegno. 

Vito Titone 

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 41-44