1989-1999

Dieci anni non sono pochi per una rivista che si pubblica senza scopo di lucro, con amore e tanta dedizione. Mario Pomilio, in una lettera dell’8 settembre 1989, poco prima di morire così mi scriveva: <<Caro Salvatore Vecchio, ho ricevuto ed esaminato (con un po’ di ritardo, dato il periodo estivo) il primo numero di “Spiragli”, e mi affretto a ringraziarla per l’omaggio della rivista, sulla quale, si sa, non potrei per il momento che dire poche parole provvisorie, dato che una rivista si definisce sempre cammin facendo, anche se le intenzioni iniziali sono chiare. A lei, ai suoi collaboratori, auguro intanto buon lavoro, e molto coraggio, ché ce ne vuole per far durare simili imprese>>. 

Ci vuole molto coraggio! Ed è quello che ancora mi auguro di avere, perché la rivista “Spiragli” venga pubblicata e diffusa tra quanti la conoscono e l’apprezzano, in Italia e all’estero. 

Con la nuova serie, oltre alla copertina che in parte sarà diversa, “Spiragli” cambierà volto. Si interesserà più da vicino di letteratura italiana e straniera e darà più spazio alle recensioni e alle schede. 

Ringrazio gli amici della redazione (Accodo, Salucci, Contiliano), i collaboratori tutti e quanti ci seguono e vogliono il bene della rivista. 

SalvatoreVecchio




Deleterio fondamentalismo

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Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 4.




Cultura e Società 

 La cultura è parte integrante di ogni società, qualcosa di inscindibile per cui l’una non può fare a meno dell’altra. Questo da sempre. Le varie società non hanno fatto altro che servirsi di una cultura su cui modellare l’esistenza delle collettività e cultura erano non solo le conoscenze in genere, ma il comportamento, gli usi, i costumi che differenziavano un popolo da un altro. 

Nei tempi passati la cultura, intesa come un insieme di conoscenze letterarie, artistiche, scientifiche, era dominio di una élite molto ristretta e spesso vicina, se non addirittura legata, alla classe dominante. Mentre non veniva affatto considerata la cultura propria della povera gente che, pur non sapendo leggere e scrivere, faceva tesoro della sua esperienza e la trasmetteva ai figli. Per essa cultura era educazione, rispetto verso gli anziani, tutela della famiglia, amore, riserbo del sesso, osservare e tramandare, cioè, tutte quelle nozioni e massime di vita capaci di fondere in una comunione di intenti il gruppo entro cui viveva e, quindi, la società. 

Oggi, per cultura, intendiamo il bagaglio di conoscenze che l’uomo si porta dietro per tutto il corso della sua vita. Conoscenze di ogni genere che egli acquisisce nell’ambiente familiare, nel giuoco, a scuola, nel lavoro, oppure, quelle che gli propinano i mezzi d’informazione o, ancora, quelle che apprende tramite i propri interessi di studio, letterari, artistici o scientifici che siano. A differenza del passato, chiunque può farsi una cultura nel senso più ampio del termine e chiunque viene integrato nella vita sociale in rapporto al grado di conoscenze acquisite. Ma la società è discriminatoria, e solo chi è bene preparato può sfuggire ai colpi che gli vengono inferti da ogni dove. Prima questo non si notava tanto. Gli uomini di studio venivano tenuti in grande considerazione, e i dotti si additavano per quelli che veramente erano: uomini di scienza e saggi, perché la cultura implicava saggezza e bontà d’animo. Adesso le cose sono cambiate. Con l’avvento dell’era tecnologica che tutto confeziona, perché tutto possa essere facilmente consumato, persino la cultura viene confezionata, fatta su misura, pronta ad essere utilizzata e messa da parte come un qualsiasi oggetto di consumo che non serve più, mentre altre conoscenze si accavallano e si accumulano, e l’uomo non ha il tempo sufficiente per selezionarle e per assimilarle. 

Siamo in un’era tecnologicamente avanzata che massifica qualsiasi cosa. Non è nemmeno il caso di ricorrere ai grossi nomi della sociologia (Ortega y Gasset, Marcuse, E. Morin) per analizzare sinteticamente questa evoluzione che certamente non ha influssi positivi sulla personalità umana. Ognuno di noi sa bene come vanno le cose. E, in verità, non è la qualità che viene richiesta. 

L’industrializzazione. con i suoi fattori positivi di crescita materiale, ha creato tanti scompensi da considerare l’uomo, costretto a vivere per ragioni di lavoro assieme ad altri con usi e costumi differenti ai suoi. non più come un individuo, ma come una massa, un insieme indeterminato, un numero fra altri numeri. spinto più che altro da una sete insaziabile di produzione e non di creazione. Da ciò deriva che in questo ultimo ventennio l’uomo ha subito un’inversione di tendenza. Non privilegia la creatività, ma valorizza la produzione, sicché egli non si realizza come si deve e si abbrutisce ancora di più, perché quello a cui tende è la quantità, non importa se il prodotto è deludente. Importante è che si smerci. 

Questa è la tendenza delle società odierne. Tranne quei pochi gruppi privilegiati che ne sono tuttora esenti (le piccole comunità, i Paesi del Terzo Mondo), l’industrializzazione ha reso l’uomo sempre più un alienato, non solo perché sradicato dalla terra di origine, ma, sopratutto, perché costretto a fare ciò che altri milioni di uomini fanno in ambienti ristretti e sopraffollati (fabbriche e città) con le conseguenze logiche della precaria vivibilità per gli intasamenti e l’inquinamento. L’uomo ne esce sminuito, non ha una propria personalità, e chi non si adegua, insistendo sulla sua unicità, viene trattato con indifferenza, come un diverso, e non trova spazio, perché, appunto, non si conforma ai modi comportamentali degli altri. 

La società di massa, esclusivo prodotto delle società tecnologiche, fa propria una cultura che non è espressione del libero pensiero, ma è standardizzata e, come un qualsiasi bene di consumo, risponde alle esigenze del mercato. Così, per esempio, accade che in un rotocalco o in una rivista di larga diffusione, accanto alla notizia di un’attrice che si separa dal marito, viene riportato il commento ad un film di prima visione o, se vogliamo, accanto ad una pagina pubblicitaria della Fiat, troviamo una nota di costume o l’apprezzamento su un libro appena edito. Ma, se facciamo caso, sono dei semplici spunti, brevi riflessioni, quasi lapidarie, che non centrano il discorso di fondo, che riferiscono piuttosto che criticare nel senso più positivo del termine. È perché quelle note devono andare bene per tutti, sia per coloro che hanno una cultura più elevata sia per quelli con un’istruzione media. Sicché abbiamo una culturizzazione che tocca ogni strato sociale ma, al tempo stesso, abbiamo un appiattimento che limita la cultura ad una conoscenza superficiale di certe nozioni. 

La cultura vera e propria, quella che si prefigge di elevare moralmente e socialmente l’uomo, ha vita difficile e quasi vive per sé, non perché vuole emarginarsi, ma perché la società post-moderna non le dà lo spazio dovuto, poiché non ne riceve vantaggi, anzi ne viene ostacolata nella corsa verso il denaro. Ecco, quello che conta e che ha il posto d’onore in questo tipo di società è il denaro, e tutto si fa in vista di un preciso tornaconto dove l’umanitarismo è solo di facciata. 

L’uomo, messi da parte tutti quei valori che per secoli lo avevano caratterizzato, è per un verso disorientato perché profondo è il vuoto in cui si viene a trovare, ma per un altro verso corre dietro ad un effimero benessere che non gli dà pace, anche perché i detentori di denaro gli creano tanti di quei bisogni che, pur essendo fittizi, a lungo andare diventano indispensabili. Sicché spesso compra non per bisogno, ma per le continue sollecitazioni che riceve sia dall’esterno che dall’interno del proprio ambiente. Non va trascurata l’emulazione degli altri. In una società così fatta non esiste la legge dell’utile, secondo cui agiamo in un determinato modo perché lo riteniamo interessante e necessario agli scopi che ci prefiggiamo, ma operiamo in un senso perché gli altri operano in quel dato senso. L’omogeneizzazione investe tutto, e con l’utilitarismo l’uomo rincorre uno sfrenato edonismo che gli presenta come lecito ciò che lecito non è affatto. 

Cosa può, allora, prospettare la società odierna, se non il vuoto che si concretizza col sentirsi e mettersi alla pari degli altri, magari, col superarli, ricorrendo a qualsiasi mezzo? Per arrivismo ci si arrampica sugli specchi, e assistiamo all’emergere di tanti mediocri che squalificano ancora di più i luoghi di lavoro o la professione a cui appartengono, a scapito di coloro che operano con competenza e serietà. 

Il degrado delle istituzioni trova qui le sue origini. Ci lamentiamo che le cose non vanno per il verso giusto e intanto ci raccomandiamo a questo o a quello perché certe nostre pratiche vadano avanti. Questa, purtroppo, è la cultura del clientelismo (vecchia anch’essa di secoli), degli arrivati, dei nuovi sapienti che tutto e tutti condiziona. Un tempo le università erano centri di cultura. I professori erano qualificati e qualificanti, ispiravano fiducia, anche se incuotevano timore. Adesso anche le università hanno perso prestigio: accanto a persone veramente preparate ne ruotano altre (le più), vuote e presuntuose, senza un curriculum adeguato, prive di iniziative di ricerca. Cosa devono insegnare ai giovani. cosa dovranno insegnare i futuri docenti se essi stessi non hanno imparato? La società risente di tutto questo e ne subisce le conseguenze. 

Ancora, il timore di guerra che da quarant’anni ad ora, per un motivo o per un altro, 

come uno spettro, incombe sull’umanità, non è forse frutto della cultura del denaro che vuole tutelati gli interessi e rafforzati i domini dei pochi? Che dire della critica situazione del Golfo Persico? Con quale criterio giudichiamo se una guerra è giusta o no? Non perdono prestigio e reputazione tutti coloro (Norberto Bobbio compreso) che si pongono argomentazioni del genere? Una guerra. qualsiasi sia il movente, non è 

mai giusta, per il semplice fatto che a sopportare il peso delle distruzioni e delle morti è la povera gente, chiamata spesso a sostenere interessi economici e di potere di alcuni che non vogliono affatto rinunciare ai loro privilegi. Certo, le motivazioni ideali di una guerra si troveranno sempre, si dovranno pure trovare per tenere buone le popolazioni e ottenerne il consenso, ma sono sempre motivazioni false, che non hanno riscontro nei fatti. E, nel caso nostro, si è parlato di guerra santa da una parte e di guerra per la pace dall’altra. 

La cultura del denaro non ha confini e non s’arresta dinanzi alle stragi e alle conseguenze negative che possono ritorcersi contro il mondo intero. Per essa importante è raggiungere l’obiettivo prefissato, e non conta il mezzo, non contano le opinioni dei più che soffrono le angherie e i soprusi dei pochi. Quello che conta è il guadagno . La guerra del Golfo non era ancora cessata che le multinazionali, come rapaci, si contendevano gli appalti della ricostruzione. 

Che pretendiamo di meglio se è questo tipo di cultura che predomina? 

Prendiamo un altro esempio: i premi letterari. A parte quei pochi che premiano la qualità, continuando la serietà di intenti che vuole evidenziare il migliore, gran parte dei premi viene vinta a tavolino, con tanto compiacimento degli editori che sperano in un incremento delle vendite. Ma quanti altri libri, artisticamente validi e degni di essere letti, non raggiungono il pubblico e rimangono sconosciuti ai molti? 

La quantità ha la parte del leone sulla qualità, e andrà così fino a quando non ci sarà la consapevolezza da parte di tutti di rientrare in noi e valorizzare la nostra umanità. Certo, l’uomo rincorrerà sempre il progresso, ma non deve perdere di vista il suo essere ragionevole: deve ridimensionare se stesso, se vuole vivere dignitosamente, da uomo. Non ha altre scappatoie, l’alternativa è questa: o continuare sulla strada del cieco edonismo che porta a consumi senza criterio, in balìa dei pochi che questo vogliono, perché si arricchiscano ancora di più, o rientrare in sé e rivalutare il mondo che lo circonda e la natura, riscoprendo valori più costruttivi e duraturi per una sua migliore realizzazione di uomo fra altri uomini. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 11-15.




Centocinquant’anni dalla nascita di Federico De Roberto

Centocinquant’anni dalla nascita di Federico De Roberto

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 30.




 Calogero Messina, scrittore delle attitudini umane 

Parlando di Calogero Messina non posso non andare indietro nel tempo, per risalire ad un’amicizia più che ventennale, legata dal comune interesse verso la letteratura e l’arte. 

Sono ormai lontani gli anni caldi del ’60, quando negli androni della sede centrale dell’Ateneo palermitano parlavamo di poesia e di poeti, di progetti e di iniziative che ci avrebbero visti costantemente impegnati. E mentre amici e colleghi, come un gregge di sbandati (nel frattempo la Facoltà di Lettere era stata trasferita nell’attuale cittadella universitaria), vivevano quei giorni del ’68 palermitano, girovagando e discutendo per i corridoi, una volta venute meno le concitate assemblee e le proteste, un gruppo di giovani, tra cui Messina, Cangelosi e altri, di cui poi non ebbi più alcuna notizia, studiava la possibilità di pubblicare un libro (Motivi del nostro tempo), testimonianza dell’impegno non solo socio-politico, ma artistico-letterario che animava quegli anni. 

La laurea e l’insegnamento ci fecero perdere di vista. Ricordo che con Calogero Messina ci rincontrammo una decina d’anni fa nell’ufficio di un editore: era passato tanto tempo, ma l’interesse e l’amore per l’arte rimanevano immutati, anche se l’amico Messina aveva optato per gli studi storici. 

Calogero Messina è nato a S. Stefano Quisquina il 24 novembre 1945. Per continuare i suoi studi, a dieci anni si trasferisce a Palermo con i genitori e la sorellina, ma soffre molto la lontananza del paese natio, come documentano i suoi scritti. Frequenta le scuole della grande città e si distingue per intelligenza e serietà. 

Nel 1966 consegue la maturità classica al Liceo «Meli» con i risultati più alti: la sua versione di greco è giudicata la migliore dell’Istituto. Si iscrive al corso di Lettere Classiche dell’Università di Palermo. I classici greci e latini gli sono congeniali, in primo luogo i poeti; è avvinto dai valori di umanità e di arte che esprimono e ricerca la poesia anche nel mondo che lo circonda. . 

Calogero Messina è apprezzato per la sua formazione e solida cultura umanistica. Ancora studente universitario, comincia a tenere conferenze nella capitale e in diversi paesi della Sicilia, e a pubblicare. Ricordiamo il suo discorso sull’.Elegia lirica nel mondo classico», tenuto al Club Magistrale di Palermo il 19 maggio 1969; la pubblicazione del suo epigramma epitimbico, in greco classico, negli «Annali del Liceo Classico «G. Garibaldi» di Palermo (1968-1969) per la tragica morte del suo professore di greco, al quale dedicherà poi un libro: il Messina, infatti, si distingue anche per la sua eccezionale sensibilità, per la sua umanità e nobiltà d’animo. Pubblica altre poesie in diversi giornali e riviste e nell’antologia da lui stesso curata con la collaborazione di C. Cangelosi, Motivi del nostro tempo (Palermo, 1968). Nel 1970 si laurea in Lettere con la lode, con una tesi sulla poesia bucolica, e col massimo dei voti consegue, nel 1971, il perfezionamento in letteratura latina; nello stesso 1971 può addirittura pubblicare un suo scritto nella prestigiosa rivista specializzata Athenaeum: la cosa sorprende per la giovane età dell’autore. Comincia a insegnare latino e greco nei licei. 

Vive a Palermo, ma la sua mente torna spesso al paese natio; comincia a ricercarne la storia; nel 1972 pubblica S. Stefano Quisquina. Studio storico-critico (Palermo, Manfredi Editore), un’opera che ha un grande successo, considerata un fondamentale, esemplare contributo alla storia comunale, apprezzata dai più esigenti rappresentanti del mondo accademico (da Virgilio Titone a Francesco Brancato). E grazie a quell’opera, di S. Stefano Quisquina, un paese prima dimenticato o di cui nel dopoguerra si era parlato per certi episodi di criminalità (tutti ricordano il sequestro del Barone Agnello), ora si comincia a parlare in positivo nei giornali; per merito del Messina, il paese entra nel circuito culturale. E con quell’opera il Messina entra nell’Università di Palermo, presentatosi ad un concorso per titoli ed esami, e comincia a svolgere la sua preziosa attività nell’Istituto di Storia Moderna della Facoltà di Lettere e Filosofia, dove insegna tuttora. Continua a pubblicare: Lu Recitu di S. Stefano Quisquina (Agrigento-Palermo, 1973), che presto diventa un classico, imitato e citato dai cultori di tradizioni popolari; La Quisquina (Palermo, 1973), che ebbe il grande merito di richiamare l’attenzione verso quel luogo, che andava «protetto, restaurato, e soprattutto valorizzato», come ebbe a scrivere nella sua recensione al libro don Biagio Alessi nell’«Amico del Popolo» del 9 settembre 1973, ricordando il furto delle tele di quella chiesa, avvenuto qualche tempo prima. 

Il discorso sulla tradizione popolare porta il Messina ad affrontare il tema più ampio della poesia in generale e nel 1973 pubblica l’originale e coraggioso scritto Poesia e critica e l’antologia Voci di Sicilia: di qualche anno dopo, del 1976, il manifesto letterario da lui fondato, «L’Orma». Così Tommaso Romano ricorda quell’evento: «Il 28 marzo 1976 un noto e apprezzato scrittore, Calogero Messina, dell’Università di Palermo, al Jolly Hotel di Palermo, affollato da un pubblico qualificato, presentava il suo Manifesto Letterario «L’Orma», edito dalle Edizioni Thule. L’interesse da esso suscitato fu immediato: venne accolto con inconsueta speranza, come un segno di luce in una notte d’incertezza e d’avvilimento, per la confusione diffusa del gusto. Artisti e scrittori giovani, ma anche di altre generazioni, non ancora soddisfatti delle esperienze da loro vissute, sottoscrissero il Manifesto… «L’Orma» s’impose all’attenzione soprattutto per l’esaltazione della libertà, della poesia e per l’affermazione del poeta come uomo totale; favorevoli furono i giudizi della stampa, nelle riviste culturali, filosofiche, politiche; interesse espresse anche l’Ordine Nazionale Autori e Scrittori. E per primo il Messina, raro esempio di poeta nato e di studioso profondo, ha continuato la sua opera intensa, altamente culturale, con la massima coerenza ai suoi principi. E a questi si sono ispirati non pochi critici dei nostri giorni, anche se non hanno sottoscritto ufficialmente il «Manifesto» (Sintaxis, gennaio-febbraio 1983). 

Ma proprio perché la sua libertà non fosse minimamente scalfita o insidiata, il Messina ha continuato a sottrarsi per lunghi periodi alla pubblica attenzione per condurre altri studi; le sue apparizioni sono sempre molto attese. 

Nel 1974 il nostro Autore pubblica Domenico Scinà e la letteratura greca di Sicilia: nel 1975 il commento al De senectute di Cicerone e l’originale monografia T. Calpurnio Siculo (Padova, Liviana Editrice), sulla quale il celebre filologo Raoul Verdière, in una lettera da Bruxelles del 10 dicembre 1975, gli scrisse di trovarvi «une finesse et une sensibilité que, d’habitude, on ne rencontre pas dans nos études». 

In quegli anni il Messina già dirige la collana di letteratura «I Dioscuri» del Centro Culturale «L. Pirandello» di Agrigento. Negli anni successivi pubblica il commento al De otio di Seneca (Palermo, 1976), Voltaire e il mondo classico (Palermo, 1976), molto apprezzato dal celeberrimo Pierre Grimal; Ritratto di Eugenio il Poeta (Roma, 1976), che il latinista Luigi Alfonsi trovò «scritto con simpatica penetrazione dell’animo di Eugenio» (Lettera del 1° gennaio 1976); Montesquieu e l’antichità greco-romana, negli «Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo», 1977. 

Pure nel 1977 del Messina esce la classica opera Il caso Panepinto (Palermo, Herbita); alla distanza di otto anni pubblicherà In giro per la Sicilia con «La Plebe» (1902-1905). Un giornale dell’Agrigentino introvabile (Palermo, Herbita, 1985): due libri molto apprezzati dalla critica per il rigore scientifico, fondamentali per ricostruire la figura del Panepinto, ignorato o frainteso prima che se ne occupasse il Messina, che dunque ancora una volta apriva una strada nuova; non sarebbero mancati, al solito, gli approfittatori. 

Nel 1978 il Messina pubblica una sua Lettura del Villabianca, nell’«Archivio Storico Siciliano»: presenta un altro saggio all’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo nel gennaio del 1979 e viene pubblicato negli «Atti» del 1980, La Mettrie e Diderot. Il Messina ormai, oltre che per i suoi libri, la sua collaborazione a giornali e riviste nazionali e internazionali, per la sua fama di storico e la sua attività di docente universitario, per le sue conferenze, è conosciuto per le sue trasmissioni televisive di storia e letteratura. Nel 1980 pubblica Settecento italiano classicista e illuminista e Giordano Ansalone in Sicilia, nel quale si possono leggere per la prima volta i documenti fondamentali relativi alla presenza del Santo agrigentino in Sicilia, scoperti dallo stesso Messina; al libro è dato ampio spazio in riviste e giornali di grande prestigio, quale «L’Osservatore Romano». 

Ma Calogero Messina è anche un appassionato e curioso viaggiatore; ha viaggiato per tutta l’Europa; ultimamente è stato a NewYork e in Messico, dove ha tenuto delle conferenze. Il suo primo viaggio fuori dall’Italia risale al 1969, quando il grande grecista Bruno Lavagnini lo mandò in premio in Grecia e qui il Messina ama tornare. Nel 1979 si è recato in Spagna e Portogallo e nel 1981 ha pubblicato il libro Viaggio in Spagna e Portogallo dalla Sicilia. 

Nei suoi viaggi il Messina ricerca soprattutto la società, l’uomo; non dimentica mai la sua Sicilia, che non ritrova solo negli archivi, ma soprattutto nella nostalgia, dal confronto con altre terre. Alla Spagna ha dedicato ancora i due saggi su Umanesimo nella Spagna «ilustrada», pubblicati nel prestigioso «Boletìn de la Biblioteca de Menendez Pelayo» (1981-1982), e il volume Sicilia e Spagna nel Settecento, pubblicato nella collana «Documenti per servire alla storia di Sicilia della Società Siciliana per la Storia Patria, nel 1986; il suo tema, ha scritto al Messina Helmut Koenigsberger, Professor del King’s College di Londra, non era stato mai trattato prima – certamente non con la ricchezza del materiale che il nostro Autore ha trovato proprio in Spagna (Lettera del 28 febbraio 1986); Giovanni Allegra ha sottolineato la capacità del Messina di documentare le attitudini «mentali» («Il Giornale», 7 settembre 1986). 

Nel 1981 lo scrittore pubblica Giuseppe Ganci Battaglia Poeta delle Madonie, la prima monografia su quel rappresentante della letteratura siciliana; nel 1982 Il contributo di Ignazio Scaturro alla storiografia municipale: oltre l’erudizione, in .Archivio Storico Siciliano» e Figure siciliane (Herbita), a proposito delle quali Virgilio Titone ha scritto che l’anima del Messina «vive della memoria, nella fedeltà alla sua terra, ai suoi figli più umili» («La Sicilia», 6 gennaio 1988). Ha così inizio la prestigiosa collana «Sicilia ieri Sicilia oggi» dell’Editrice Herbita, ideata dallo stesso Messina, e nel 1983 il nostro Autore pubblica l’opera, anch’essa ormai classica, Immagine della Sicilia. 

Così ha scritto Provvidenza Bonura Ferrante: «Il volume che, pur senza averne il titolo, è in realtà una vera e propria piccola enciclopedia, è dovuto all’ esperta penna di un valoroso studioso, Calogero Messina, che con quest’opera apporta un deciso, coraggioso mutamento nell’indagine metodologica, facendo brillantemente convergere le informazioni di carattere etnografico, filologico, artistico, letterario e storico alla realizzazione della corposa struttura del testo» (Archivio Storico Siciliano, 1984). Nello stesso 1983 lo storico cura la riedizione, con suo saggio introduttivo e aggiornamento, della classica opera di Luigi Tirrito, Sulla Città e Comarca di Castronuovo di Sicilia, dando un nuovo, decisivo impulso alla migliore storiografia municipale, della quale il Messina è considerato uno dei più autorevoli rappresentanti. Nel 1984 cura la pubblicazione di un inedito di Giuseppe Ganci Battaglia, La vita di Gesù in versi siciliani e nel 1985 pubblica Sicilia 1943-1985 (Palermo, Ed. Grifo), in cui, come ha scritto Bent Parodi, il Messina «ha carpito l’anima segreta, il sogno del vecchio reporter e ha significativamente prestato la sua mano di scrittore alle foto di Martinez, per un modello raro di simbiosi» («Giornale di Sicilia», 30 dicembre 1985). 

Negli Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo del 1985 è apparso il saggio Il viceregno di Spagna in Sicilia e Messico, la relazione del Messina al Seminario Internazionale «Sicilia-Messico-Lombardia» (6-8 giugno 1985). Nel 1985 la Società Siciliana per la Storia Patria ha pubblicato l’antologia Scritti editi e inediti di Virgilio Titone con una Nota di Calogero Messina, molto apprezzata dalla critica. 

Nel 1987 lo scrittore pubblica il suo settimo libro su S. Stefano Quisquina, Una chiesa nel cuore, nella cui presentazione scrive fra l’altro il Vescovo di Agrigento: «Auguro al volume non solo ampia diffusione ma che possa essere di stimolo e incoraggiamento perché altri figli delle nostre comunità cittadine seguano l’esempio del Prof. Messina che ama la sua terra e la canta da maestro e da figlio». E Domenico De Gregorio, che ha presentato l’opera nella gremita Matrice di S. Stefano, nel quadro delle manifestazioni in onore di S. Giordano Ansalone, la considera esemplare e «un monumento che sarà veramente aere perennius» («L’Amico del Popolo», 21 giugno 1987). È ancora fresco d’inchiostro il libro di Ignazio Gattuso, Le comunìe di sacerdoti in Mezzojuso, curato dallo stesso Messina. Il nostro Autore continua a dialogare con le persone con cui ha fatto un tratto del suo cammino; ritrova la loro anima nel ricordo e negli scritti che hanno lasciato. Così, dopo avere pubblicato opere degli scomparsi Giuseppe Ganci Battaglia e Ignazio Gattuso, si sta occupando dell’opera inedita di Virgilio Titone, per espressa volontà del grande storico. 

Calogero Messina è raro esempio di scrittore, anticonformista e intransigente, che aborre il compromesso, libero da condizionamenti, come ha scritto Bent Parodi nel «Giornale di Sicilia» del 17 febbraio 1983. È uno storico onesto e un autentico scrittore che fa onore alla cultura siciliana e italiana. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 35-40.




Calogero Messina, Giordano Ansalone in Sicilia, Comune di S. Stefano Quisquina, Palermo, 1987, pagg. 129, s.p.

Un libro nitido, come il Beato che ne costituisce l’oggetto, questo di Calogero Messina, appassionato studioso di storia patria e cultore attento e scrupoloso. 

Attraverso una puntigliosa analisi di documenti, noti o poco noti e rari, e di registri parrocchiali, non sempre tenuti nella debita considerazione, il Messina non solo delinea con tratti salienti la figura, ma risale – col rigore di storico che gli è proprio – alle origini, alla famiglia, alle condizioni socio-economiche di questo grande missionario e Martire in terra d’Oriente. 

Ma non è tutto qui. Dalla narrazione si evidenzia la Sicilia tra ‘500 e ‘600, quella Sicilia ricca di chiese e conventi attorno ‘ai quali si svolgeva la vita delle popolazioni. 

Documento di fede popolare e di storia, Giordano Ansalone in Sicilia. 

Suddiviso in 6 capitoli, che si leggono come un romanzo, ricco di fotografie e documenti, il libro viene arricchito da una testimonianza dell’abate Estournet e da un’Appendice tratta da uno scritto di M. A. Coniglione che riferisce della vita e del martirio del Beato Giordano. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pag. 67.




 Arte e vita nelle opere di Romano Cammarata 

Francesco Boneschi, parlando di Cardarelli – poco prima che il Maestro morisse – così scriveva: «Non si diventa grandi poeti nella felicità (felicità in senso comune, perché l’artista, disperato fin che si voglia, gode pur sempre una sua altissima felicità). Tutto ciò che è bene per la vita è male per la poesia. Non si nasce artisti, ma solo sensibili. Artisti ci si mantiene alimentandoci continuamente e coraggiosamente di dolore»(1). 

E non può essere diversamente. Solo chi ha provato a sue spese le amarezze della vita e il dolore, può capire e comprendere, e da artista parlare al cuore, a caldo, senza bisogno di cercare altri modi e parole, perché le sue parole e i suoi modi, realmente sperimentati, sono fatti propri dagli altri, e assurgono ad una forma d’arte elevata, divenendo canto spiegato, dove tutto sa di musica e di spontaneità, non essendoci il freddo lavoro di calcolo da laboratorio. 

Romano Cammarata è uno di questi artisti (pochi, in verità) che «ha preso il fuoco/con mani di gelo» e trova la sua linfa nel dolore: e la sua opera nasce dal bisogno di estrinsecare la propria esperienza, perché sia di giovamento a tutti lungo la strada comune. Ma se questo è il motivo che lo spinge a calarsi col ricordo nel dolore che è, poi, un riviverlo con sofferenza, l’Autore fa di tutto perché la sua sia anche una denuncia, volendo così contribuire al miglioramento delle condizioni di vita di quanti soffrono, dovunque essi si trovino, negli ospedali, per esempio, o nelle carceri. Sicché, parafrasando Boneschi, il dolore alimenta l’arte, è vero, ma è anche vero che apre alla vita, facendo scoprire quelle dimensioni che spesso, pur essendo in superficie, non vengono considerate e apprezzate, e così noi riacquistiamo fiducia nel mondo e nella vita che, tutto sommato, vale veramente la pena di vivere. 

Questo ottimismo è frutto dell’apertura verso gli altri. Cammarata crede nella bontà dell’uomo, perché crede nel dialogo, nella forza della parola che, come la pioggia insistente o il vento, scava in profondità, e concilia e accomuna nei sentimenti più nobili. 

Romano Cammarata è autore di una sola opera: il suo stile, ora asciutto, ma disteso e pacato, ora sferzante e mai indulgente; e la sua scuola è la vita, l’aperto scenario dove si susseguono come in una moviola le alterne vicende dell’uomo e delle cose illuminate da un sole che non sempre riscalda e non per questo è meno desiderato. 

La vita, passata al setaccio dal dolore, e purificata, assurge ad arte e parla all’uomo, facendolo fremere di commozione e di gioia per la riacquistata serenità che lo porta a considerare la sua condizione identica a quella di tanti altri uomini che, però, perché non sono stati direttamente travolti dal vortice impetuoso della sofferenza, spesso non si rendono conto di niente. 

«Tra la folla ignara della nostra pena, camminiamo 
nell’aria trasparente del crepuscolo, ancora una volta 
insieme, consapevoli che ci stiamo inoltrando nel buio»(2). 

Nel nostro autore, la vita perviene a dignità d’arte per un dono che è della vera poesia, e nella sua opera non c’è mai il compiacimento solipsistico che, a lungo andare, anche nelle sue forme più alte, stanca. Ed è veramente lontano D’Annunzio con la sua concezione della vita come arte! Ci troviamo dinanzi ad uno scrittore e poeta che, preso dal suo lavoro, tutto avrebbe pensato che darsi alla scrittura e all’arte figurativa per comunicare! La molla, invece, la farà scattare la malattia che, ad un certo punto, lo spingerà a scrivere la sua avventura da un ospedale all’altro, ora in momenti di abbandono che farebbero pensare subito al peggio, se non fossero sostenuti dalla presenza di spirito che lo attacca alla vita, ora in altri più pacati, dove il miraggio della guarigione è vivi1ìcato dagli affetti puri che solo in circostanze del genere vengono nobilmente rinsaldati e messi in risalto nella loro luce più vera. 

“Dal buio della notte”, metaforicamente parlando, non è facile venire al giorno pieno: non è di tutti guarire dal cancro. Ebbene, quasi per un evento inspiegabile, ma anche per l’accanirsi dell’uomo dinanzi al male, a cui non vuole soggiacere, in una lotta impari contro il tempo minaccioso, l’Autore ne esce vittorioso, rapendo, alla maniera del Foscolo, ma per illuminare il giorno, una “favilla al sole”: 

«Un giorno, nuvolo e grigio, mi trovo solo in quel 
cortile. A un tratto il cielo si apre a un raggio di sole, 
che viene a scaldare la mia solitudine. Gli offro il volto 
ferito, deturpato, quasi felice di quella inattesa carezza. 
Per quanto tempo non so. Dopo, passato lo stordimento, 
provo la sensazione di aver rubato quel raggio di sole 
caduto distratto dal cielo fin giù nel cortile, perché con 
geloso egoismo l’ho tenuto nascosto, non l’ho diviso con gli 
altri compagni tenuti come me nel chiuso dolore. 
Per questo sento di dover chiedere loro scusa, 
raccontando del raggio di sole. 
Mi guardano con aria attonita, non capiscono questa mia 
preoccupazione, non intuiscono questo sentimento che 
invece a me dà la misura dell’umanità nuova che la 
sofferenza sta facendo crescere dentro di me»(3). 

Una prosa concisa e densa al tempo stesso di significati profondi. Non sembra proprio vero di avere sotto gli occhi una prima opera. Eppure, a leggerla, sin dall’inizio, si ha la sensazione, e subito dopo la conferma di un dettato squisitamente padrone di sé, che non si fa prendere la mano da compiacimenti di ogni sorta. La parola ubbidisce senza alcuna forzatura e si costruisce le immagini con una sobrietà invidiabile, raggiungendo l’effetto desiderato. Intendiamoci, Romano Cammarata non fa letteratura, narra con la sua voce di sempre il vissuto. Ed è proprio dalla sua esperienza di dolore (l’Autore altruisticamente non lo augura a nessuno) che la parola acquista il tono giusto e, a tratti, si eleva, e diviene musica, fortificando, col suo straordinario potere catartico, l’animo stanco del poeta, e di quanti si accostano al libro, e consola. 

L’effetto consolatore della poesia! A dirsi, l’accostamento al Foscolo viene da sé, ma è puramente casuale. Se nel poeta ottocentesco è facile rilevare il compiacimento letterario, nel Nostro questo non c’è, perché la sua è una poesia sbocciata, giorno dopo giorno, lungo la strada d’un calvario doloroso. 

«La morte di un compagno è sempre qualcosa che ti 
sconvolge. Sai dell’attesa, dell’arrivo della Signora, lo 
presagisci lo senti con l’istinto delle bestie e poi vedi 
circondare uno dei letti con un paravento: è calato un 
altro sipario sulla vita di un uomo»(4). 

C’è in queste parole una partecipazione silenziosa, sofferta, dello scrittore che non richiede alcun commento, ma c’è anche il senso ritrovato di una umanità profonda che non conosce limiti. Il compagno morto, la foglia che cade, gli alberi agonizzanti, il pianto per la sua e altrui sventura, sono semplici immagini di un uomo che nella sofferenza scopre la poesia e la pietà fraterna, il mondo, in poche parole, degli uomini, quale dovrebbe essere: un lavoro onesto, l’amore verso il prossimo, il rispetto della natura che, come l’uomo, vive una sua vita. 

Se il dolore rende l’uomo molto sensibile, è pure vero che non sempre lo abbatte e lo fa scivolare troppo in basso. Ci sono risorse tali che anche sull’orlo del precipizio danno una forza e un coraggio che da soli bastano per risollevarlo. L’attaccamento agli altri (Leopardi scarta l’idea del suicidio perché, diversamente, arrecherebbe danno a coloro che gli vogliono bene, e il papà di Andrea, così si chiama il protagonista di Dal buio della notte, dirà:«Nessuno di noi appartiene completamente a se stesso…»), l’amore coniugale, l’affetto patema, sono l’ancora della salvezza e il supporto psicologico che lo fanno insistere e lottare. D’altronde, cosa varrebbe la vita se non ci fosse questa altalena così variegata che la rende accettabile e desiderata? 

Il dolore, in un’opera come questa, prende la parte del leone: esso viene contemplato nelle varie sfaccettature, e nel suo vortice non c’è solo il protagonista, ma tanti che – come lui – per un verso o per un altro soffrono nel silenzio le proprie pene: i compagni di stanza, il vecchio padre venuto dalla Sicilia, e poi Francesca, la moglie, che non lo lascerà un istante. Anche il figlioletto ne subirà le conseguenze e si sentirà insicuro. Causa di altro dolore per Andrea che vorrebbe aiutarlo e non può, poiché lui stesso ha bisogno “di qualcuno che [lo] tenga per mano”. 

Ma questa sofferenza, visibile e no, è sopportata con virilità, senza ripiegamento né abbassamento di armi. Anzi, Andrea, con coraggio, denuncia ora le disfunzioni ospedaliere (ritardi negli accertamenti, pessime condizioni di ricovero in corsia, e gli ammalati trattati in malo modo) ora le persone, incapaci di svolgere i ruoli di loro competenza (professori che prendono lucciole per lanterne, sofi senza scrupoli né un minimo di psicologia che non hanno rispetto per i degenti, certe suore e portantini che tutt’altro dovrebbero fare invece che lavorare negli ospedali). È una denuncia che non usa toni forti. perché schiva della passionalità che in occasioni del genere si manifesta. Andrea, nella sua umanità, prova pena per quanti agiscono disonestamente ed anela ad un mondo di serena fraternità. 

Dante dovette ricorrere al sogno per calarsi nell’aldilà; Cammarata, più realisticamente, ad occhi aperti e quando meno se l’aspettava, ha provato su questa nostra terra l’inferno e ne ha espiato anche le pene. Senza bisogno di ricorrere alla fantasia, ha riscoperto l’uomo nell’umanità più vera e il mondo più bello che mai. Da qui il suo inno alla vita, l’attaccamento alla natura e alle cose, il senso dell’amicizia, e l’amore coniugale corroborato “dal buio della notte”. 

«Quante notti è rimasta accanto a me su una sedia, 
pronta ad ogni mia necessità, quante volte alla incerta 
luce dell’alba l’ho trovata a dormire col capo reclinato 
sul mio petto, stringendomi la mano nell’attesa di un 
altro giorno. 
Povera Francesca, quante preoccupazioni, quanto 
dolore nella tua giovane esistenza, e io egoista che ho 
desiderato di andarmene, di lasciarti»(5). 
E qualche pagina dopo, continua: 
«Subisco dopo tanta inattività e immobilità una 
esaltazione lirica che mi fa amare tutto ciò che è 
vivo, che si muove, che scorre: i fiumi d’acqua, i 
fiumi di pensieri, il sangue delle vene, il vento tra 
le foglie, le immagini entro gli occhi, il sole tra le 
dita, il ricordo che scorre nella memoria, la vita nei 
nostri corpi, e il tempo che scorre su tutto»(6). 

Dal buio della notte è un’opera densa, straziante, scritta con sincerità da uno dei poeti più veri e originali di questo fine secolo. Essa sta a dimostrare come siano incerti e provvisori i confini tra la prosa e la poesia. E ciò si nota tutte le volte che ci troviamo dinanzi a poeti autentici. 

La materia bene posseduta circola nella pagina e scorre con la fluidità propria degli stati d’animo che trovano la loro assuefazione nella parola sapientemente dosata e messa al posto giusto. Sicché basta un suo lieve spostamento o una diversa impostazione della frase per innalzare di tono il discorso o, per meglio dire, la poesia, perché Romano Cammarata, pur nei momenti più brutti, sarà sempre vigile a se stesso e non perderà mai di vista la calma interiore. 

Rileggiamo il passo sopra riportato. Bastano un dosaggio più attento e il ricorso alla versificazione, perché il discorso acquisti maggiore respiro e si faccia canto che, dopo l’adagio dell’inizio, piano piano s’innalza e si diffonde, esercitando nell’animo travagliato un influsso rasserenante e liberatorio. 

Amo tutto ciò che scorre 
i fiumi d’acqua 
i fiumi di pensieri 
il sangue nelle vene 
la lava entro la terra […] 
Scorre il ricordo nella memoria 
scorre l’azione sulla pigrizia 
scorre la vita sui nostri corpi 
scorre la guerra sui campi di pace 
scorre la pace su inutili stragi 
scorre l’amore sul ghiaccio dell’odio 
Amo il tempo che scorre su tutto (7) 
È bastato che il poeta utilizzasse certi accorgimenti, di cui spesso la poesia moderna si serve (l’anafora, il climax, l’accumulazione) per elevare di tono la parola poetica, raggiungendo risultati veramente sorprendenti. Allora la musica acquista la cadenza d’un canto che invade il corpo e l’anima, e noi respiriamo appieno un’aria salutare. 

Ma ciò che il poeta maggiormente canta è la ritrovata fiducia in quella vita che ha sempre amato e che ora descrive coi colori più propri. L’uomo che ha sofferto l’apprezza ancora di più e trasmette questo suo attaccamento agli altri. Per dare colore al tempo nasce da questo stato d’animo e da questa esigenza, ed è la speranza che si alligna in chi ama la vita, la fiduciosa attesa del meglio, la forza che ci vuole, perché ognuno si faccia coraggio e l’accetti (la vita) così com’è. 

Romano Cammarata si è dato alla poesia (poi, magari, si darà anche ai suoi lavori a sbalzo) “per dare colore al tempo”. Ma a quale tempo? Evidentemente, al tempo di sempre, anche se in particolare al tempo dell’inoperosità forzata, attanagliato dalla malattia e dal dolore, o “assediato”, come scrive M. Petrucciani nella Prefazione e, ancor prima di lui, lo stesso poeta nella lirica Piove. 

Ma -dicevamo- il poeta crede nella vita e la ama. Perciò la canta, pizzicando le corde della sua chitarra che, nonostante tutto, è sensibile ad ogni sollecitazione. 

Sono l’anima di una chitarra 
i suoi sonori accordi 
sono le mie vesti 
vivo nell’intimo del legno 
concavo e vibrante […] 
Sono l’anima di uno strumento 
che è l’anima di un uomo 
e il mio canto 
è il canto dell’uomo… (8) 

C’è in questa, come in altre liriche, un contrasto fra la morte, rappresentata dal dolore che spesso annebbia lo spirito, e l’amore, sempre ritornante e diverso, ora per la vita con i suoi alti e bassi che ci riserva, ora per la donna, necessaria e indispensabile compagna del nostro “viaggio”. Ma la poesia di Cammarata, in ogni caso, è caratterizzata da una pensosità raccolta (“E sarò con me stesso/a discutere ancora/che vivere/vale sempre la pena/anche se c’è/un dolore che stanca”; “Noi non sappiamo/cosa sa il bambino”) che non ammette tentennamenti, ed è un atteggiamento, questo, che non gli farà perdere di vista la realtà che lo circonda. Vedi, ad esempio, Nel circo di notte: la pista del mondo, di notte, è deserta, ma ciò non esclude che non sia vegliata da qualcuno, dai “tanti pagliacci” che siamo noi, che è il poeta stesso, preso dalle ansie e dalle preoccupazioni del giorno. 

La vita va vissuta, nonostante tutto. Ed allora, ecco che accanto alle note di soffusa pensosità, mai pessimistiche, al contrario di tanta lacrimevole poesia nostrana (Nel buio della notte, il Nostro farà dire ancora al papà di Andrea: « Non disperare mai: il mondo è degli ottimisti, i pessimisti non sono che spettatori »l. si fa strada la speranza (“Mattino / ho respirato il sereno / Se ti potessi fermare / sarei un fanciullo … “), con la richiesta di “un attimo in più” e l’amore. avvolto, quasi, da un senso di sacro che invita al silenzio per paura che venga profanato. 

Mi sono fermato 
sul tuo volto puro 
ho poggiato la mano 
sulla tua fronte 
non turbata dagli anni […] 
Vorrei 
pronunciare un nome 
ma le tue labbra 
accennano di no 
Che importa il nome? 
È solo giovinezza (9) 

A volte, il poeta è più disteso, e la parola, allora, acquista più scioltezza, perché essa, come una creatura, è partecipe del suo stato d’animo. Onda marina è una lirica gioiosa, direi solare per la luce che irradia e si fa nostra. Le immagini sono quelle di sempre, vive, tra la realtà e la metafora, e rese più agili dai versi brevi dei quinari e dei senari, ad eccezione di un binario e di un settenario. 

Onda marina 
onda d’amore 
il tuo corpo il mare 
il tuo· amore il vento 
ed io lo scoglio 
che attende l’abbraccio… (10) 

L’insistenza dell’anafora ubbidisce ad un crescendo interiore, prima che si materializzi nella parola e nelle immagini, che solo nel “sonno d’amore” raggiunge il suo culmine. 

Altrove c’è anche la consapevolezza che quest’onda possa sfuggire all’abbraccio. Come in Ferma il tuo sguardo, dove il tempo ha operato mutamenti e solchi profondi, e al poeta non resta che prendere atto della realtà, senza recriminazione alcuna. 

Il punto più alto di questa lirica va visto, a parer mio, nell’attacco che segue i primi versi: 

Che vale il desiderio 
se esso è tormento 
è angoscia 
se richiama solo fantasmi 
se ti mostra 
crudo violento e spoglio 
un reale che non è tuo 
che ti raggela dentro 
che strappa allo spirito 
urla ribelli … (11) 

L’uomo è troppo provato per cedere alle lusinghe delle illusioni, e se è vero, com’è, che il dolore tempra gli animi, la poesia li sublima. E il lettore si sentirà come trasportato e spinto nel vortice di un tumultuare che sembra dover esplodere da un momento all’altro. 

Il procedere, apparentemente prosastico, sempre ricco di accorgimenti tecnici, ma sempre tendente all’essenziale, si ascrive nell’ambito di una scrittura poetica tra le più riuscite del Novecento europeo. Un influsso? A parte la lezione dei classici rivisitati con un’ottica tutta moderna, un posto di rilievo occupa quella di Verlaine delle Poesie saturnine e, più propriamente, dell’Arte poetica. E tanti altri potrebbero essere citati (nella lirica sopra riportata, ad esempio, scorgiamo un’affinità col Cernuda dei Piaceri proibiti de “La realtà e il sogno”, per non parlare dei nostri (Ungaretti, Quasimodo, Cardarelli, Montale). Ma, a che vale? Ogni grande poeta deve necessariamente qualcosa agli altri, riprendendone, anche senza cercarli, i motivi, e li amplia e li sviluppa, facendoli propri, cantandoli con voce sicura e modulata. D’altronde, cosa han fatto gli antichi poeti? Eppure, ognuno di essi ha una fisionomia che lo distingue e lo connota; in poche parole, ha uno stile suo, personalissimo. Com’è questo di Romano Cammarata che impronta di sé ogni pagina, perché la parola è levigata dal caldo del suo sentire. 

La sua tematica è quella della poesia di tutti i tempi e, anche se nasce dal dolore, si colora di vita e si scalda d’amore. Vita e amore, però, entrambi condizionati dal tempo, vigile impassibile delle cose e dell’uomo, inteso ora come contrasto’ fra il giorno e la notte. tra la luce e il buio, ora tra presente e passato. 

Riprendiamo la già citata Mattino: 
Mattino 
ho respirato il sereno 
Se ti potessi fermare 
sarei un fanciullo 
Mattino 
ieri fiaccola 
a fugare atroci sogni 
oggi speranza 
di un altro giorno 
da aggiungere alla vita (12) 

Ma il tempo passa inesorabile (“Mi fermo a guardare/il giorno che muore/come sempre come tanti/eppure io trovo/nel sole che cade/qualcosa di umano/qualcosa che è mio”). Allora la morte acquista contorni precisi e si delinea in tutta la sua realtà. Il poeta l’osserva soltanto. anzi l’aspetta e, rivolgendosi alla sera, dice: 

Sei ora una scadenza: 
ad ogni tuo apparire 
cancello un giorno amaro 
del mio diario (13) 

E, con una bella immagine. antica e sempre nuova, perché rivisitata con sensibilità moderna, il Nostro si paragona alle foglie e agli alberi “molli di pioggia”: 

Ho visto gli alberi 
molli di pioggia 
piangere soli 
Ho pianto con essi 
anch’io 
solo come la foglia che il tempo 
con mano crudele 
stacca dal ramo 
solo come l’albero 
avvolto dall’umida nebbia (14). 

Bisogna provare per credere, si dice comunemente! E, in verità, Romano Cammarata, sull’orlo del percipizio, si è trovato nelle condizioni di constatare com’è triste per l’uomo dire al mondo addio. Ma – vogliamo sottolineare un concetto che riteniamo fondamentale per la comprensione dell’opera cammaratiana – il poeta non piange perché il giorno gli è “amaro”, nel senso comune del termine. No, non si lamenta per questo, cosa che farà dire ad Ungaretti:«La morte si sconta vivendo»; è perché sente di dover lasciare questo mondo che, tutto sommato, ama intensamente. E se, per Ungaretti, la morte diviene quasi una liberazione, non così è per Cammarata, attaccato com’è alla vita, anche se c’è un sentimento di soffusa malinconia, dovuto, molto spesso, all’impossibilità di viverla come vorrebbe. 

Così la stessa notte, nei momenti migliori, perdendo la connotazione di cui parlavamo sopra, diviene il tempo dell’amore. Si veda, ad esempio, La notte, bellissima lirica, dove un alone di mistero e di sogno avvolge il corpo della donna “cercato frugato/illuminato appena/da riflessi di stelle”. Il poeta è pervaso da una gioia interiore che non è godimento dei sensi, ma l’aprirsi di un’anima innamorata “alla ricerca di ombre/che non sono/quelle della notte”. 

Notate come il climax e gli enjambements, ricorrenti in tutto il testo, danno una vivacità inconsueta, propria del canto che niente concede alle stonature e, tanto meno, alla provvisorietà. 

Dopo 
sarà bella la strada 
ancora avvolta 
nel buio 
riempirla di noi 
strapparla dal sonno 
come ho fatto con te 
raccontare alle strade 
ai lampioni, ai gatti randagi 
una storia d’amore 
e dire che è bello il tuo corpo… (15) 

E così, in qualche altra lirica, dove la notte è uno scenario aperto alla vita, forse, più disteso, ma è sempre la vita che pulsa, magari, con i suoi dolori e con i soprusi che la caratterizzano. Si veda ancora Nel circo di notte o, meglio, Notte siciliana, dove gli uomini ipotizzano, andando dietro alle loro aspettative represse, un mondo migliore. 

Il presente è visto nella sua realtà contingente. A volte, intriso di dolore (“Presente/ponte ai giorni/pilastri crudeli/piantati nella carne/ogni lastra/ogni bullone/è grido di uomo/sacrificato/alla memoria”), ma la speranza vi raffiora sempre, come lo scoglio dall’acqua (“Mattino/ieri fiaccola/a fugare atroci sogni/oggi speranza/di un altro giorno/da aggiungere alla vita”). 

Il futuro è una terra lontana e inconoscibile. Ma il poeta non sembra interessarsi tanto del futuro. Egli vive nel presente e, perciò, l’accetta, così com’ è, perché non può essere diversamente, ma criticamente lo passa al setaccio della sua esperienza e può anche non condividerlo. 

Cammarata non ama i colori forti, anche se in lui c’è una vera propensione per la luce: 
Luccichio di mondi lontani 
l’impossibile che non si compie 
se non al tramonto. 
Ho sete di luce 
attendo l’estate e non so 
mi smarrisco 
in un gioco ostinato (16). 

Preferisce, piuttosto, la mezza tinta, sia perché vuole soffermarsi meglio a guardare la realtà che lo circonda, sia perché il non definito corrisponde ad una sua particolare intima attrazione. Sicché alle stagioni dense predilige la primavera e l’autunno: la vita al suo sbocciare e l’inizio della fine. 

La natura vive, come l’uomo, il suo giorno, ora nei colori più vivi, ora nel grigio che ingiallisce le foglie. 
È aprile! 
intorno 
la vita si arrampica 
su per la luce 
si scalda di sole 
Un grido 
mi lacera dentro 
mentre scendo 
scale d’angoscia (17) 

Ma il poeta soffre; sente che la vita gli pulsa dentro, con i sensi disposti a darsi e che, intanto, niente può fare, se non gridare il proprio dolore. A chi? E allora lo reprime, lo tiene per sé, mentre tutt’intorno sa di nuova luce. A questo punto, comincia a propendere per l’autunno. Vedi Foglie sparse, Mi sei passata accanto, Ho visto le foglie cadere, dove il Nostro, pur consapevole di ciò che ci aspetta, è colto da una malinconia dovuta piuttosto alla vita che se ne va e non alla morte che s’avvicina. 

Mi sei passata 
accanto 
senza guardarmi… 
Ho sentito 
lo stesso vento 
che stacca le foglie 
dal ramo 
nell’autunno (18) 

L’immagine dell’albero che diviene spoglio e delle foglie che cadono è tanto cara al Nostro che la ripropone con insistenza. Nella sua umanità, li sente non dissimili a noi, come creature accomunate dallo stesso destino. Un’immagine, questa, a cui tanti poeti, nel tempo, sono ricorsi (basti ricordare Dante, Arnault e Leopardi, suo insigne traduttore, Verlaine, Cardarelli, entrambi molto vicini per sensibilità e canto a Cammarata), e in ognuno di essi acquista connotazioni diverse, sempre nuove, che le distinguono e le fanno apprezzare per la loro aderenza alla realtà delle cose e della vita. 

In Mi sei passata accanto la sillabazione rigorosa ubbidisce ad una musicalità sciolta che assorbe e fa proprio il realismo umanissimo del poeta, perché la poesia nasce e si alimenta del vissuto quotidiano, per il dono che è suo di renderlo liricamente, grazie alla parola che – come abbiamo detto prima – fedelmente esterna e traduce i suoi stati d’animo. 

Cammarata, comunque, non indugia sul reale; esso è solo un punto di partenza, l’angolo di osservazione che gli permette di esprimere l’essenziale che gli urge dentro. Anche nelle liriche più palesemente realistiche, il dato di fatto è solo un pretesto che richiama il noumeno. Si veda la più volte citata Nel circo di notte, dove il poeta non è attratto dal circo in sé, ma dalla vita che vi è racchiusa. 

Lo spettacolo è da poco terminato, e il poeta s’aggira per la pista ormai deserta che ancora sa di urla e di giochi, un pagliaccio che col suo fare disinvolto e distaccato sino a poco prima aveva divertito il pubblico, ora non può più contenere la sua malinconia. E se ne sta lontano dagli altri “con in mano il violino/che più non ha note”. 

Suona un violino 
un pagliaccio innamorato 
leva il suo pianto 
tra corde e tamburi […] 
Dagli occhi che ridono 
lacrime nere di cera 
cadono giù a bagnare 
la pista del circo 
È il mondo 
racchiuso in un circo di notte (19) 

La parola, nella sua levità, acquista un valore simbolico e vuole si legga sotto aspetti diversi, nonostante sia fruibile e aperta a tutti. Conferma che, questa di Cammarata, è una poesia pervasa dalla sensibilità propria della migliore lirica contemporanea. 

Il verso libero, poi, ha un suo rigore logico, e il ricorso alle figure retoriche mira sempre a suscitare sensazioni nuove e imprevedibili in ciascuno di noi. E il pregio di una poesia siffatta è che non solo si dà all’ascolto, ma vuole che si senta e si faccia propria. 

Ritornando ora al motivo del tempo, il passato acquista una sua luce nel ricordo. A volte, il poeta è invaso da un senso di malinconica tristezza, di vuoto che lo lascia disorientato (“e quando un uomo/non ha più ricordi/né idee né il caldo di un abbraccio/quest’uomo è niente”), altre volte, rievoca con pacata dolcezza una visita. Qui le parole, ridotte all’essenziale, disegnano immagini di squisita freschezza: 

Il sapore struggente 
di quell’abbraccio di sposa 
e di quello festoso e leggero del bimbo! 
Sapeva di primavera quell’abbraccio 
come le margherite raccolte nei campi 
a riempirmi il cuore e le mani (20). 

Più spesso il ricordo lo riporta alle sue origini, all’infanzia, alla sua terra di Sicilia. Come ne I ricordi, ove tutto sa di sfumato e, quasi, di antico. 

I ricordi 
uccelli migratori 
tornano sempre 
all’origine 
attraverso l’oceano 
della vita passata […] 
torno all’isola 
circondata di ignoto 
cerco un tempo 
uno spazio 
vecchie dimensioni… (21) 

Ma il tempo opera irreparabilmente e non sempre il desiderio di approdo viene appagato (“Non trovo i margini/i nomi delle cose…), sicché il poeta deve scavare nella sua memoria per trovare agganci con un passato ormai lontano. Così, in Vecchia strada, si paragona ad uno “stanco viandante”, a cui solo i ricordi fanno compagnia, spinto dall’intimo bisogno di ritrovarsi nei luoghi che gli appartennero. 

I ricordi come sassi 
sparsi alla rinfusa 
seguono la strada. 
Li ritrovo nella notte 
questi ricordi 
sulla strada illuminata 
di polvere di luna 
quando la solitudine 
mi spinge stanco viandante 
a ricercare ancora 
luoghi che sono lontani 
perduti forse laggiù 
lungo la strada 
illuminata di polvere di luna (22). 

L’inizio è quasi una supplica. Ma, perché, cosa cerca il poeta? Forse, se stesso bambino fra tanti altri suoi coetanei; forse, quel mondo isolano che s’era lasciato dietro, coi volti scavati dalle fatiche, con le cantilene che vorrebbero essere canti e sono voci strozzate dai secolari soprusi. 

Notte siciliana è una sintesi delle “vane coordinate” che il poeta tira sul filo della memoria per ritrovare sé e quel mondo lontani per sempre. 

Notte siciliana 
accordi di chitarra 
echi di canti lenti 
che nel buio vanno 
a cercare la vita… (23) 

E non rievoca soltanto; la sua è anche una denuncia che nasce da un bisogno di giustizia che vorrebbe ridare all’uomo (“ritornate all’uomo/e allo strumento”) la sua dignità. 

La lirica di Romano Cammarata, oltre a segnare un momento particolare della sua condizione umana ed esistenziale, diviene anche mezzo di riscatto e impegno contro ogni [orma di stortura che tanto condiziona la società. Sempre col suo timbro di voce originalissimo e familiare, che dà il senso e la misura di una poesia dotata di un solido equilibrio umano ed estetico. 

Il tema della denuncia, presente in Dal buio della notte e Per dare colore al tempo, diviene protesta e sfida in Violenza, oh cara, pubblicato da Sciascia nel 1986. 

Il titolo è provocatorio, ma il libro è tutta una provocazione contro le ingiustizie e i mali che travagliano la società. L’Autore non risparmia nessuno, nemmeno lo Stato che, come detentore di potere, spesso usa violenza, piuttosto che tutelare il diritto dei cittadini a vivere la loro vita. 

La storia che narra è un fatto di cronaca giudiziaria come tanti, e sarebbe passato inosservato, se Agostino Bertoni, il protagonista, non avesse voluto andare sino in fondo. È accusato di sequestro e la prova sono le banconote da centomila che la posta gli ha dato al momento di riscuotere la pensione, e che spendeva per le sue esigenze quotidiane. 

Una vita normale, da uomo-pensionato qualunque, vedovo, senza pretese, con le solite passeggiate giornaliere (più che altro per portare a spasso Eva, la cagnetta bastarda che gli era stata affidata da un bambino e a cui s’era particolarmente attaccato) e la solita lettura del giornale. E le giornate sarebbero passate così, sempre uguali, se due poliziotti non l’avessero prelevato e portato al vicino commissariato, e subito dopo in carcere. 

Bertoni protesta, ma dinanzi all’ottusità gretta e meschina del commissario, preferisce non insistere. Quello che più lo preoccupa è la cagnetta Eva che costituisce il suo unico problema; per il resto, non deve rendere conto a nessuno. 

«Un uomo decide della sorte di due altri esseri 
avviandoli a luoghi diversi: uno al carcere, l’altro al 
canile; luoghi che forse si differenziano nel nome, ma 
che hanno in comune lo stesso fine: di rinchiudere 
esseri che per mala sorte sono divenuti chi randagio, e 
chi si è fatto ladro, chi ha azzannato per fame o per 
odio o per rabbia, e tutti con lo stesso destino: quello di 
venirne fuori quando, e se sarà, cani rabbiosi»(24). 

È una riflessione amara che, per un verso, dà la misura della profondità di sentire del protagonista, per l’altro, intacca il modo di far giustizia, il sistema che non funziona con tutti i mali che ne derivano. 

Risolto il problema della cagnetta (che sarà affidata, dietro sua richiesta, ad un agente), Agostino Bertoni si rasserena, ed è allora che, contrariamente al Meursault di Camus, nel silenzio della cella decide la sfida allo Stato, alla Giustizia, perché adoperi le leggi nel rispetto del cittadino. Da qui scatta la molla della protesta ad oltranza, visto che lo si incrimina di un fatto non commesso: che sia lo Stato a provare la sua colpevolezza. Lui, Agostino, farà da spettatore a questo dramma che, per certi aspetti, potrebbe dirsi assurdo, ma non lo è. Ed è inutile fare degli accostamenti ad autori che hanno affrontato questo tema, perché è la vita con le sue sfaccettature che, ad un certo punto, acquista connotazioni diverse e che solo un ossevatore attento mette in risalto.  

Romano Cammarata è uno di questi, e la sua interlocutrice è la vita, che va vissuta, giorno dopo giorno, con serietà di intenti, se si vuole un’esistenza migliore. Per questo, Agostino non differisce per forma mentis dal personaggio di Andrea, anzi ne continua l’azione, tutta improntata del suo ritrovarsi fra gli uomini e di impegno nel sociale. E se Andrea aveva lottato per uscire dal buio, e partecipare alla vita, Agostino si dà alla lotta perché non vuole essere un passivo, e desidera che sia fatta giustizia alla libertà del vivere. Il chiudersi in sé, il riflettere, che vedono Andrea intento al recupero di sé, e alla comprensione della vita e del mondo che lo circonda, per Agostino. sono la valvola di sfogo di un uomo che a stenti si riconosce nella società in cui vive. Sicché. entrambi i protagonisti formano un tutt’uno positivo. entrambi seguono lo stesso percorso che li vede impegnati contro ogni sorta di stortura che condiziona e reprime. 

Agostino è un uomo solo, non ha altri rapporti se non quelli occasionali, Carmela, la donna che periodicamente gli riassetta la casa, e con lui ha vissuto momenti intensi e felici, non è più che una cara amica che finisce per soddisfare soltanto le intime esigenze del corpo. Ma, per il resto, non gli dice niente e, forse, versa più alletto su Eva che sugli altri suoi simili. 

Questa di Agostino è la solitudine dell’uomo moderno, che fa chiudere agli altri. Perciò parla col suo io, discute tra sé e affronta certi discorsi esistenziali che hanno una loro logica e che è quella di chi, non assorbendo passivamente ciò che gli si presenta, rielabora ora constatando ora criticando. Sicché, letto con superficialità, a qualcuno potrebbe sembrare che il romanzo sia un mosaico di tesi ben costruite e saldate; e invece non è così, perché, di riflesso, è la vita – come dicevamo -, anzi il travaglio d’un uomo che, ad un certo punto, reagisce al negativo che la quotidianità presenta. Si veda, a proposito, la pagina dedicata ai “randagi”, o quella in cui parla di democrazia o, ancora, l’altra dove discute di violenza. È una profondità di pensiero di uomo “qualunque”, ma consapevole, di chi, insomma, tenendo saldi i piedi a terra, non si serve di spicciola retorica, ma del vissuto individuale che, come tale, per la sua realtà, spesso, assurda, coinvolge tutto il tessuto sociale. 

Violenza, oh cara è un libro di ampio respiro, e si sviluppa con un movimento a spirale che ha dell’imprevisto. L’uomo solo Bertoni, uscendo allo scoperto, crea rapporti tali che ci ripropongono valori che sembra siano scomparsi. E la positività di questo personaggio sta soprattutto qui, non solo nel rifiutare la violenza che gli viene propinata. Bertoni ispira fiducia, perché è spontaneo; perciò, chiunque gli si avvicina, attinge il meglio che può e lo fa suo. 

L’incontro con l’avvocato d’ufficio, che poi sarà il suo legale di fiducia, fa instaurare un rapporto di amicizia e di ammirazione reciproca che attenua, se non dissolve del tutto. nel più giovane, il contrasto, antico e sempre nuovo, tra padri e figli. Nel giro di poco più di due pagine, (autori come Turgenev, ad esempio, vi hanno dedicato interi libri), il Nostro, in una prosa ricca di tanta umanità, perviene a risultati sorprendenti. 

«Noi figli, per la generazione che ci separa, per il tipo 
di rapporto che esiste, difficilmente riusciamo a 
comprenderli, e poi, come mi sta accadendo ora, un 
estraneo mi parla mi dice le stesse cose e subito lo 
capisco, ne accetto le idee. 
Credo che stasera farà felice mio padre, perché lo 
saluterò con più rispetto e credo che sarò più in grado di 
comprenderlo, di ascoltarlo. Grazie per questa lezione» (29) 

Altro incontro importante, decisivo, che lascerà un’impronta duratura nell’uno e nell’altro, è quello con Carlo, un giovane recluso, divenuto “randagio rabbioso” per violenza subita, con cui Agostino discute e parla con tutta sincerità, cercando di chiarire – prima di tutto a se stesso – i lati oscuri della loro vicenda di uomini. E nessuno si sarebbe immaginato che i due siano legati tra loro più di quanto non sembri: la loro condizione, o meglio, la loro salvezza dipende da un gesto di dedizione e di amore verso il prossimo: Carlo, venendo a conoscenza del reato, di cui è accusato l’amico, per lui, padre più che confidente, si dichiara colpevole e complice del sequestro Gerlandi, scagionandolo dall’accusa. 

Il romanzo è tutto scatti imprevisti, come questo del “gesto sublime” di Carlo, movimento di ritorno che disorienta e commuove, perché il lettore tutto avrebbe previsto, ma non che l’amicizia potesse dare una così nobile prova. E questo avviene perché Agostino ha posto resistenza alla violenza sopraffattrice; ora vince, perché ha operato con dignità nel bene. 

Il male si può sconfiggere, questo è il messaggio umano dell’Autore: occorre scavare nelle coscienze, perché è lì che si alligna molto spesso, quasi inavvertitamente, senza che ce ne rendiamo conto. D’altronde, lo stesso giudice Perri non è colto dall’imbarazzo e dal dubbio, non ha momenti di perplessità e di rimorso (“E se fosse realmente innocente? Se fosse, come sembra e ne ha tutta l’aria, uno di quei poveri diavoli…”), mettendo anche lui le dita sulla piaga d’un sistema che non funziona? 

Questo di Romano Cammarata è un mondo che non conosce pessimismo, perché diversamente sarebbe la resa, il chiudersi in sé, la disfatta; e, invece, è apertura, confronto e darsi disinteressatamente. Un mondo in cui l’essere coerenti viene premiato, e fiduciosi, quindi, bisogna guardare avanti senza titubare. Sotto questo aspetto, il Nostro si pone tra quegli scrittori (Ionesco vi tenderà con le sue ultime opere, pur partendo da altre premesse) impegnati al recupero di un umanesimo nuovo, mirando, ciascuno a suo modo, ad elevare moralmente e socialmente la nostra travagliata esistenza. Ne deriva che Violenza, oh cara, è basato tutto sul contrasto fra la violenza e l’amore, ma è l’amore, nel senso più ampio, che predomina incondizionato. 

Bertoni avrebbe dovuto da lì a poco riprendere la sua vita abituale, e gli si presenta dinanzi un’altra donna, vittima, stavolta, di una ben più atroce violenza: Sofia, la moglie dell’agente di polizia che aveva preso con sé Eva, la cagnetta, ed ora vedova e sola, con una bambina da mantenere e da allevare, perché il marito è stato ucciso in un conflitto a fuoco con alcuni delinquenti. 

L’incontro di Agostino Bertoni con la donna è di una straordinaria delicatezza e di grande sensibilità umana e artistica insieme. 

«La porta si socchiude, poi si apre, e Agostino si 
trova di fronte una giovane donna, pallida nella cornice 
dei capelli neri e dell’abito nero che mette in risalto una 
contenuta bellezza»(26). 

Ed è anche una pagina di singolare bellezza. La donna ci ricorda la madre di Cecilia, di manzoniana memoria: bella nell’aspetto, dignitosa nel portamento, ben tagliata nella sua figura provata dalla sofferenza. 

Cammarata è un artista a cui bastano pochi tocchi di cesello, perché un’immagine s’imprima bene nella nostra mente e non Si dimentichi mai. E come si può dimenticare la tragedia eli cui Sofia è rimasta vittima indifesa? Agostino, l’alter ego dell’Autore, uscito da poco dalla pesante prova che conosciamo, adesso non ha più pace, non si spiega e non vorrebbe ammettere come mai la società cada così in basso; ne soffre, perché anche lui ha toccato con mano una violenza di altro tipo, ma sempre violenza che intacca profondamente l’anima e rende partecipi dell’altrui disgrazia. 

Agostino, indirettamente coinvolto in questo dolore, non si riconosce e non accetta più la sua filosofia eli vivere; la solitudine, sinonimo di egoismo, che finora ha caratterizzato la sua vita, non ha modo di esistere, perché sa che potrà essere utile agli altri. E l’idea che già gli ritorna spesso nella mente, di prendere con sé madre e figlia, non lo lascia un istante. Eppure vuole esserne certo: ne parla con Carlo durante un colloquio e ne parla anche con Carmela che, nonostante si profili la possibilità di perderlo, lo incita, come Carlo, a compiere “un gesto bello”. 

«“Ma che aspetti, Agostino, vuoi che te lo dica io, quando 
lo sai benissimo”. Interviene Carlo, interrompendo le 
ultime battute onnai intuiie, che l’amico stava per fare, 
“Perché non compi anche tu un gesto bello, meraviglioso, e 
offri loro la tua casa, la tua compagnia, la tua presenza e 
sicurezza di uomo?! Lo credi possibile? Realizzabile? Se sì fallo subito»(27). 

Il dettato è appropriato, sicuro, come se la fluidità del discorso avesse trovato l’alveo proprio. È la foga di dire di chi, uscendo da una situazione dolorosa, si compenetra nel dolore altrui e vuole che le cose vadano per il verso giusto, per eliminare dal vivere quotidiano tutte quelle violenze, piccole o grandi, che a lungo andare mortificano e disorientano. 

Ma anche questo libro, come gli altri di Romano Cammarata, è tutto da leggere. Le parole e i commenti dicono poco, quando si ha da fare con un vero libro. È preferibile ascoltare, leggere con grande umiltà, pagina dopo pagina, per gustarne la bellezza e meditarlo. Allora ti prende un tumultuare interno che è l’immedesimarti in ciò che i personaggi dicono e fanno, il ricrearteli dinanzi con la loro dignità cii uomini provati ma non vinti, sicuri di sé, fruitori di valori che. nonostante i rumori effimeri della nostra età, ‘godono pur sempre cii una luce di cui la nostra misera umanità ha bisogno. E così, con Agostino, sei porlato a constatare come la violenza sia portatrice di una sua felicità, e sia ‘·cara”. Certo, perché apre alla realtà che ci circonda, perché fa scoprire con gli occhi del cuore e della mente verità che non stanno in superficie, perché. insomma, pernlette di acquistare piena consapevolezza della vita e avvicina agli altri con più disponibilità e dedizione, come è capitato ad Agostino che, fra l’altro, ha riscoperto l’amore. 

Dicevamo all’inizio di questa lettura che Romano Cammarata è artefice di una sola opera: il suo stile. La prosa di Violenza, oh cara ubbidisce agli impulsi interni del suo autore e di essi. lontana da ogni artificiosità, vive e si sviluppa. Sicché, ora è misurata, quando più è meditativa, ora è disinvolta e agile, quando più è discorsiva e colloquiale. In ogni caso, sempre in tono alto, nel rispetto della tradizione, che qui – come altrove – viene nobilitata dal tocco proprio della modernità di sentire del Nostro. Riprova, questa, di una raggiunta maturità umana e artistica non indifferente che certamente segna un punto di richiamo obbligato a quanti vogliono avventurarsi nel mondo dell’arte, senza, per questo, perdere di vista la realtà nel suo eterno f1uire. 

Salvatore Vecchio

(1) F. Boneschi, L’ultimo Cardarelli, in “Italia che scrive”, febbraio 1959, pag. 47. 
(2) R. Cammarata, Dal buio della notte, Roma, Armando ed., 1983, pag. 36. 
(3) Ivi pagg. 76-77. 
(4) Ivi, pag. 47. 
(5) Ivi, pag. 75. 
(6) Ivi, pag. 79. 
(7) R. Cammarata, Per dare colore al tempo. Caltanissetta-Roma, Sciascia ed.,1985, pag.94. 
(8) lvi, pag. 24. 
(9) Ivi, pag. 32. 
(10) Ivi, pag. 83. 
(11) lvi, pag. 90. 
(12) lvi, pag. 30. 
(13) lvi, pag. 48. 
(14) Ivi, pag. 99. 
(15) lvi, pag. 50. 
(16) lvi, pag. 36. 
(17) lvi, pag. 75. 
(18) lvi, pag. 92. 
(19) lvi, pag. 52.
(20) lvi, pag. 93. 
(21) lvi, pag. 51. 
(22) Ivi, pag. 92.
(23) Ivi, pag. 27. 
(24) R. Cammarata, Violenza, oh cara, cit., pagg.30-31.
(26) Ivi, pag. 153. 
(27) Ivi, pag. 164. 
(29) Ivi, pag. 57.

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 13-35.




Addio a Mario Tornello 

Lo scorso febbraio è morto nella sua casa di Roma Mario Tornello. Vi si era stabilito ancora giovane, come tanti siciliani in cerca di affermazione, e qui s’era accasato, pur non avendo mai perso i contatti con la sua Sicilia. Era di Bagheria, la generosa terra di tanti uomini illustri, come lui. A darci la triste notizia è stata la signora Erina, a cui esterniamo il nostro sentito cordoglio. 

Noi della redazione di “Spiragli” avevamo conosciuto Mario intorno ai primi anni Novanta e da allora siamo stati in contatto, sentendoci per telefono o scambiandoci, nell’ultimo periodo, messaggi per via internet. Ci siamo visti diverse volte, a casa sua in mezzo ai dipinti, in via Rosa Raimondi Garibaldi, dove abitava, o al caffè Greco. 

Sempre cordiale, era amico affettuoso e pronto, da siciliano, alla battuta, tesa a manifestare la gioia dell’incontro. 

Mario Tornello era un artista che manifestò il suo estro nella pittura e nella scrittura, riversando amore per la Sicilia che dipinse nei suoi paesaggi e cantò nei suoi versi, facendosi apprezzare nel mondo artistico e letterario con premi e tanti riconoscimenti. 

Scriveva in una sua nota che abbiamo pubblicato: «È tempo di tralasciare le frenesie cittadine per ritrovarsi in quei luoghi religiosi che la natura e non l’uomo ha creato. È tempo di soffermarsi ad addolcire il proprio spirito immergendosi senza scia nell’abbraccio totale di un paesaggio come nell’osservare un insetto al lavoro». Ed era quello che faceva; la natura e la Sicilia erano al centro dei suoi interessi, dipingendole nei colori vivi della terra, ora arrossata dal sole, ora immersa nel verde della vegetazione. 

Egli non trascurò le tracce della presenza umana (ridenti coltivazioni o case addossate), cui guardava con tenerezza e con tanta comprensione. Apprezzava il lavoro dell’uomo e sapeva commuoversi dinanzi ai fossili che sapevano di vita passata e ai monoliti che per lui testimoniavano «le più alte espressioni di preghiera dell’uomo verso un Ente supremo, quale muta richiesta intercedente per attraversare l’Ade». Così cercava e salvava le sculture naturali, perchériteneva che la madre terra fosse essenza d’arte. 

Mario Tornello era un artista versatile. Nella prosa lasciò pagine di estrema bellezza. Ricordiamo, tra tutte: “Un cherubino a Parigi” o “Il signor Piazza”, racconti ricchi di molto sentire e umani, spesso di un’umanità dolente ma vivi per la speranza che mai non manca nei personaggi. Scrive, a proposito, Carruba: «Questi racconti sono legati tra loro dal filo sottile che porta alla nostra misera umanità Ed è quanto di più vero e di più nobile l’Autore ci possa dire, quasi a conforto e ad indicarci che, in fondo, sta a noi condurre il mondo verso una vita migliore». 

Così è in poesia, in lingua e in dialetto, dove il sentire del poeta si fa sentimento puro e parla la lingua di tutti, quella del cuore; la pubblicò in diverse sillogi, come: A braccia aperte (1994) e Comu petra supra ‘u cori (1995). 

Mario Tornello fu molto prolifico e scrisse di tutto, collaborando con giornali e riviste, e perciò tanti lettori ora noteranno la sua assenza. Ma lui rimarrà vivo per quelli che lo conobbero e lo ebbero amico, per quello che ha lasciato in dipinti sparsi un po’ dovunque nel mondo e per la poesia che ha saputo regalarci. Ora ci guarda di lassù e noi lo ricorderemo con l’affetto e la stima di sempre. 

Addio, Mario, sei con noi. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pag. 26.




AA. VV., La storia proibita (Quando i Piemontesi invasero il Sud), Napoli, Controcorrente, 2001.

AA. VV., La storia proibita (Quando i Piemontesi invasero il Sud)

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 64.




 Alessio Di Giovanni poeta del popolo* 

Non esagera chi afferma che Alessio Di Giovanni è un grande poeta, sia pure dialettale, certamente uno dei maggiori del ‘900, e non solo siciliano. La sua è una poesia che esprime le variegate sfaccettature dell’ uomo nella quotidianità e nel contesto della terra in cui vive, facendola palpitare di vita negli usi, nei costumi, nella parlata della gente che quella terra popola. È una poesia che parla all’uomo, qualunque sia la sua appartenenza geografica, perché è a lui connaturata e, per questo, è universale. 

Il poeta, dopo le sue prime esperienze di scrittura che sono vere sperimentazioni di poetica e di una ricerca tutta sua, auspica un ritorno alla natura con i richiami che sono suoi: la campagna sterminata (‘a campìa), ove si sente la voce del vento e quella degli animali che pare dicano: ci siamo, e si tocca con mano il lavoro dell’uomo, sia quello all’aria aperta che nelle cavità del sottosuolo. Con la differenza, rispetto agli altri poeti siciliani (in dialetto e no, e il riferimento è al Veneziano, al Meli, allo stesso Verga, al Martoglio), che in Di Giovanni ci sono un’aderenza e una fedeltà al vero effettivo, cioè, non sono letterarie e di moda. La scelta del dialetto o, meglio, della parlata, ne è conferma, come lo confermano la sua adesione al felibrismo di Mistral e degli altri poeti di Provenza e le simpatie e le attrazioni per il Santo d’Assisi che esternò in diverse occasioni e con altrettante opere. 

L’intento di Alessio Di Giovanni fu quello di fare uscire dal solco tradizionale la poesia dialettale siciliana e di rinnovarla sotto il segno della semplicità e della verità delle cose. Scrive in una nota che pospone a Lu fattu di Bbissana: «Bisogna ritornare alla natura: all’osservazione amorosa, sincera ed ingenua del vero.» Ed è quello che farà in tutta la sua produzione, sia in versi che in prosa, nella lingua della gente. Perché, per lui come per noi, quelli che noi chiamiamo dialetti, vedi il siciliano, sono lingue che per ragioni storiche sono state asservite o, se vogliamo, soggiogate da altre, anche se continuano ad esserne linfa. 

Scrive ancora Di Giovanni: «La lingua è il gran fiume regale che può rispecchiare nitidamente il roseo e continuo trasformarsi delle nuvole vaganti per il cielo, e la massa verde degli alberi fluviali, e persino l’ombra d’un branco d’uccelli migratori, e può attraversare e fecondare pianure e città, senza correre il pericolo d’anneghittirsi in limacciose paludi e perdersi in selvatiche lande acquitrinose, solo fin quando gli ignoti fiumicelli montani non si dimenticheranno d’apportargli con inconsueta vena, le pure acque fresche, limpidissime acque che loro concede l’alta montagna inviolata. Fate che codesti fiumicelli inaridiscano e il gran fiume perderà tutta la sua maestosa travolgente bellezza, per diventare un polveroso sentiero, irto di ciottoli e di inutili erbacce1». 

Il dialetto, la cui importanza è fuori di dubbio, per Di Giovanni, è il mezzo migliore con cui non solo si comunica, ma permette di aderire meglio alla verità delle cose, perché rappresenta la parlata genuina della gente, spontanea e non mediata. E per soddisfare questa sua esigenza in lui non mancò mai né lo studio, né il bisogno continuo di confrontarsi con il patrimonio linguistico delle diverse parlate, né tanto meno l’esigenza di dare ascolto ai cunta della tradizione orale. 

Maju sicilianu è la sua prima opera, pubblicata nel 1896, divisa in tre parti: la prima, Amuri rusticanu, dedicata a «Garibaldu Cepparelli, pitturi a Firenzi »; la seconda, Vuci di li cosi, a «Ciccu Lujacunu, paesista»; e la terza, Tipi e sceni paisani, a «Luici Di Giovanni, pitturi». Sulla scia della poesia classica, il poeta apre la silloge con una invocazione alla Poesia, perché gli stia vicino e lo ispiri, e con essa motiva il titolo: «Ora ca, a maju, spuntanu li rosi / E li gigli s’adornanu pumpusi; /.../ Jetta supra di mia li to grann’ali / Eccu … t’aspettu cu affannu murtali2.» 

Il tema che caratterizza la prima parte è quello dell’amore, contornato qua e là da spunti che richiamano la vita della natura nel tempo che incede. Per lo più si tratta di ottave siciliane, ma anche ottave e quarti ne abbinate, con rima alternata (ABABABAB, sulla scìa delle canzonette popolari e delle ottave classiche di Antonio Veneziano), come questa: «E cantanu li gaddi a lu matinu / Ji mi susu pi jiri a cacciari. / M’accumpagna pi via lu me vicinu: / Cu iddu ti vegnu, bedda, a salutari. / Sùsiti di ssu lettu beddu finu, / Sùsiti di ssu lettu e nun tardari. / Ca c’è l’amanti to, ccà, a tia vicinu, / Ca ti voli, o bidduzza, salutari3.» 

Il sentimento d’amore è qui espresso in modo rozzo, da contadini e da gente di paese quali sono. Essi non conoscevano altri modi, né giri di parole, eppure il loro è un amore sentito, espressione di uno stato d’animo che dice il bene che si vuole alla donna amata, un bene che spesso fa smaniare e non prendere sonno o, non potendolo godere nella realtà, sognare, come è nell’ottava IX (ottava toscana, rima alternata e negli ultimi due versi baciata, ABABABCC). 

Di Giovanni si rivela già abile conoscitore dell ‘uomo inserito nel contesto in cui vive; perciò ritrae strade e case di paese e campagne aperte, ricche di odori e di colori, come un bravo pittore sa fare. E si rivela anche abile dosatore della parola, capace di cogliere nel suo piccolo tanto sentire, com’era il parlare della gente umile, scarno nel suo insieme, di poche parole, ma ricco e aperto nel suo significante. Ma è pure un buon conoscitore di metrica, mai forzata nel glorioso endecasillabo e nella rima. Sicché la sua poesia è come un canto che ci è tramandato, perché possa dire la vita intimo è sempre lo stesso. 

La seconda parte della silloge, Vuci di li cosi, cambia registro dal punto di vista tematico, che è più variegato e ricco. C’è pure il tema dell’ amore, ma gareggia con le voci e i rumori propri della campagna. Leggiamo: «Passi ntra li lavura tu cantannu, / C’un fazzulettu russu a la to testa. / Ni la vuccuzza to perli ci stannu, Di ddà la vuci nesci duci e mesta. / Li lavura ti vannu curtiggiannu, / Comu tu passi abbàscianu la testa. / Li paparini dicinu lampiannu: / – Binvinuta, bidduzza! Oh chi gran festa!4» 

Ormai il poeta dà ascolto a tutto ciò che lo circonda. E sono i prodotti della terra, le semine, i lavori ciclici dei campi, e gli uomini che s’apprestano ad accudirvi, a dare voce ad una poesia che comincia a cambiare tonalità e ad essere più attenta alle cose degli uomini e della natura. Perciò, ora è la voce del padrone che chiama alla pausa le ciurme lavoratrici, ora è una considerazione che il poeta fa al termine della mietitura, ora sono il vento e il caldo afoso, che s’impongono e si fanno sentire, oppure è la solitudine della campagna, ove si sentono solo le stancanti serenate dei grilli. Ecco: «Ch’è occupusu lu cantu di li griddi / Nì la tacita notti rimitusa! / A du’, a tri, a quattru, a vinti, a centu, / a middi… / Ah! Cumincia l’urchestra piatusa. / E comu lu curaggiu a mia spiddi! / Comu si fussi arrè all’età scantusa: / Ca mi pari ci fussi ji sulu ed iddi / Ni sta gran sulitudini scurusa5». 

Nella terza parte, Tipi e sceni paisani, abbiamo un insieme di sonetti, in tutto venti nove, alcuni dei quali raggruppati sotto un unico titolo ma numerati, come «Priludiu», che si compone di due sonetti, i quali, a mo’ di monologo rivolto all’amico della dedica, introducono una nota di nostalgia, da parte del poeta, per i trascorsi giovanili comuni, per essere lontano dai luoghi cari, e per il senso del passato che non torna più. 

I sonetti sono tutti di buona fattura; risentono qua e là dell’influenza di Nino Martoglio, ma non più di tanto, come ben sottolinea anche Salvatore Di Marco6, perché in Di Giovanni c’è già l’esigenza di riprendere, attraverso l’arte di cui comincia ad essere padrone, nei pregi e nei difetti, la gente di Sicilia nella quotidianità della vita, che spesso nel suo lato comico nasconde il tragico dell’esistenza. 

In Centona di Martoglio il dialetto è più contaminato dalla lingua; volutamente è storpiato (tanto per citare un sonetto, «Il telefrico senza fili»: ci troviamo dinanzi al popolano che, abitando in un grosso centro, è più evoluto, rispetto a quello di un paese contadino) e, inoltre, nel poeta di Belpasso c’è una fine vena comico-burlesca che caratterizza la sua poesia. Cosa che in Di Giovanni non troviamo; nei suoi versi trapelano, e via via divengono più forti, il disagio e la miseria di una vita di stenti, e c’è anche un forte senso religioso che spinge all’accettazione e alla speranza. 

Pregi e difetti di gente paesana e campagnola, dicevamo. E Di Giovanni sa bene coglierli, come in «La carità di la genti» o i sonetti del «Jòvidi Santu», e in tutti gli altri, nei quali ci sono usi e consuetudini assodati nel tempo, registrati dimenticati. Anche perché ci troviamo dinanzi a un dialetto che è la lingua di questi popolani, siano essi i garzoni di bottega che i contadini. Essi parlano la loro lingua, e sono veri e ci si stagliano davanti, e s’impongono all’attenzione dei lettori per quelli che sono; con gli assensi e le battute asciutte che nella loro essenzialità dicono tutto. Perciò, quando ci si crede come abbia fatto il Nostro a passare dalla poesia al teatro, la risposta si trova proprio là, in quel modo di fare poesia che è la sintesi di tante voci raccolte, a cui il poeta ha posto l’orecchio e il cuore. Ancora non è nella sua piena maturità (si nota sia nei temi, che saranno diversi, sia in certe ricadute nella lingua), ma già conosce bene il suo mestiere e riesce a fare proprio un sentimento di tutti, come in «La Batti Matri», che dice tutta la religiosità che è nella gente nel giro di quattordici versi che sembrano cesellati a misura. 

«Ch’ è bellu, ad ata notti, l’ascutari / La Batti Matri, ddu piatusu cantu! / O chi durmiti o chi stati a vigliari / Sempri è pi vu’ un suavi, duci, ‘ncantu. / […] Tu sula, Matri pia, m’arricupari, / Tu sula m’à salvari nni ssu mantu. / […] Acchiànanu li vuci a lu rimpiantu. / Ni la quieti vasta a risunari: / – Tu, Matri, stàvatu a la cruci accantu7». 

Il poeta fa degli altri quello che è un suo stato d’animo, un sentire religioso che lo prende tutto e gli fa respirare un desiderio di pace, solo a sentirsi tutelato dalla Madonna, che conosce il dolore e il perdono e, perciò, a lei si rivolge e da lei vuole essere tutelato («Tu sul a m’à salvari nni ssu mantu») e, nel canto che s’innalza e si diffonde nel silenzio della notte, la sua diviene una preghiera composta e riverente che tutti accomuna nel ricordo dell’atroce sofferenza di Cristo e al pensiero della pia Madre che, desolata, non lo lasciò un istante. 

L’anno 1900 fu un anno proficuo per Alessio Di Giovanni, sia dal punto di vista della produzione, che lo vide impegnato nell’ode Cristu, pubblicata poi nel 1905, nel saggio Contadini di Valdensa e Villani di Realmonte, in Lu fattu di Bbissana e in Fatuzzi razziusi, sia da quello di una elaborazione di poetica che caratterizzerà le sue opere successive. Fino a questa data, dietro l’influenza di amici, quali Garibaldo Cepparelli e Giuseppe Tumbarello, aveva sperimentato, aderendovi, il fonografismo in piena stagione veristica, e lo scopo era quello di voler riportare sulla carta la parlata viva della gente, riproducendo con la grafia anche i suoni (Bissana: Bbissana; ziti: zziti; bonu: bbonu; ecc.). Dopo quell’anno, Di Giovanni accantonerà la fonografia per scrivere in un dialetto fedele alle varie aree linguistiche isolane. Già anni prima aveva scritto: «Ma certamente nella poesia non si può trovare la vera arte che non è posseduta dal contadino e dal popolano. Il poeta dialettale, quindi, deve ricorrere alla grazia del dialetto nativo ma non può dimenticare la sua arte e i suoi studi. La poesia dialettale possiede una spontaneità riflessa, cioè una spontaneità popolare, unita all’ Arte. Il poeta deve dare a quella poesia la forza immaginosa e fantastica della sua mente8.» 

Più semplicemente, egli anticipava quanto, a proposito dello scontro-incontro che Di Giovanni ebbe con Verga (il Ciancianese non accettava che I Malavoglia fossero stati scritti in lingua dialettale), ebbe a scrivere P. P. Pasolini: «Il dialetto è materiale che riceve forma da una poetica che la trascende, che appartiene alla cultura in lingua, i cui centri non sono solo nel continente italiano, ma in Europa. Di Giovanni appartiene a questa cultura come ci appartiene il Verga. In realtà, tra I Malavoglia, scritti in lingua dialettale ma non ancora in dialetto, e Lu fattu di Bbissana, scritto nel più chiuso dei dialetti, la differenza è solo apparente. Ambedue sono scritti in un linguaggio che non è in realtà né lingua né dialetto, ma è contaminazione, non solo fisica, non solo grammaticale o sintattica, ma di cultura e cultura. La cultura superiore dello scrivente e la cultura inferiore del parlante9.» Che significa che è il poeta, con gli strumenti di cui dispone, qualunque essi siano, il manipolatore della materia grezza della sua poesia, l’artefice capace di elevarla, perché di venti patrimonio e documento, e canto indelebile e vero, capace di sfidare le intemperie del tempo e le miserie degli uomini. 

In quegli anni c’erano tutte le condizioni perché poeti e letterati cominciassero realisticamente a interessarsi di ciò che stava loro attorno. Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, in Europa come in Italia, sulle ceneri del romanticismo andava covando il naturalismo-verismo con tutta una serie di problematiche che aprivano a nuovi scenari sociali mai prima di allora evidenziati: lo sfruttamento e le condizioni di miseria dei lavoratori, sia nel Nord che nel Sud, sfruttato, questo, dai grossi proprietari di terra e di miniere. Ad appesantire il disagio delle popolazioni c’era la disastrosa politica economica di Crispi, in attrito con la Francia, e tesa a concretare e potenziare l’idea di rendere grande l’Italietta con possedimenti oltremare. 

Forte era il malcontento della povera gente, ora sostenuto dal movimento operaio che stava organizzandosi (il «Partito dei lavoratori italiani», fondato nel 1892, diventerà «Partito socialista italiano» nel 1895) ora dalla Chiesa che aveva fatto sentire la sua voce di protesta con l’enciclica Rerum Novarum (1891). Ci fu così nell’aria un bisogno di giustizia e di solidarietà che si traduceva in richieste di terra, di aumenti salariali e di un’adeguata legislazione che mettesse fine ad ogni forma di sfruttamento e di ingiustizie, anche da parte dello Stato. Proprio in questo periodo i contadini e minatori dell’agrigentino si organizzavano nei «Fasci dei lavoratori » (1892-1894) che in poco tempo si estesero in quasi tutta la Sicilia. Ed era tutto da sperare, se Crispi, ridivenuto capo del governo nel dicembre 1893, non avesse stroncato tutto sul sorgere, proclamando lo stato d’assedio. 

L’amarezza in tutto il paese fu grande, e alle reazioni di piazza subentrarono quelle degli animi più eletti che cominciarono a fare proprie le altrui sofferenze e aspettative per riproporle nelle varie forme artistiche. Alessio Di Giovanni fu uno di questi e sentì, ancor giovane, l’esigenza di un rinnovamento della poesia che desse voce ai fatti per evidenziare l’umanità che è in essi, o denunciasse, per dare inizio ad un riscatto, la miseria e i lavori disumani in cui la povera gente era stata da sempre relegata. 

Lu fattu di Bbissana (Bbotta di sangu) è il poemetto, composto di sei sonetti, che dà inizio alla grande poesia di Alessio Di Giovanni. L’argomento già faceva parte della tradizione orale. Attratto dal cuntu di un contadino, il poeta lo elabora e poeticamente lo ricrea, dando risalto al sentire degli uomini e al dramma che essi consumano, a cui sembra partecipare anche la natura con i suoi odori, i colori e i rumori che la animano, pur nell’afa d’un meriggio assolato. Non spargimenti di sangue, non risse; è un dolore forte, cupo, tutto interiore che prende Caluzza tradita nell’amore e la stramazza a terra come folgorata. È uccisa da una «botta di sangue», mentre nessuno sa niente e tutt’attorno continua la vita di sempre, allorché il canto dei mieti tori invita al lavoro usato. 

I sonetti di Fatuzzi razziusi riprendono nel dialetto di Noto il tema dell’ amore e della bellezza femminea. Solo a chiusura della silloge un sonetto affronta il tema del lavoro nella zolfara e della sofferenza dei carusi («Iu la sientu ssa vuci ri tirruri / c’acciana, acciana sempri cciù ccunfusa / comu timpesta ri milli furturi»), che fanno venire i brividi a sentirli nel loro lamento angoscioso, indistinto, come tempesta combattuta da mille altri fortunali. Ancora poca cosa, ma già il poeta comincia a calarsi nell’«osservazione amorosa, sincera ed ingenua del vero». 

L’ode a Cristu, composta in quegli anni e pubblicata nel 1905, segna il definitivo trapasso dalla poesia tradizionale a quella nuova, fatta di sussulti e di richiami che spingono a guardare in faccia una realtà di stenti e di miseria, sia che si tratti della vita dei campi, sia che riprenda il lavoro duro, faticoso e inumano della zolfara, lavoro fatto di lamenti («ddi lamenti / ca pàrinu suspira, e ‘na prijera / Scura di morti») imprecanti l’essere nati e lo stesso Dio che li tiene in quelle condizioni di vita, «misi comu li cani a li catini». 

L’andante è discorsivo, e chi parla è il poeta, mentre Cristo non fa alcun cenno. Perché tanto silenzio? «Chinu di scantu, / Cu la vuci ca trema puru idda, / Cu lu pettu affannatu di lu chiantu, / Ti gridu e dicu: / – Chi è ca penzi? Puru tu, tu puru / Vo’ abbannunari stu munnazzu anticu?10». E in quel silenzio il poeta riscopre l’umanità del Cristo, impotente dinanzi alla malvagità del male, implorante serenità, gioia di vivere, auspicante maggiore giustizia e un mondo di liberi e uguali. 

L’ode è intrisa di una forte spiritualità, ed è un’ode bella, ricca di armonia, ma drammatica, forte. Alessio Di Giovanni qui ha recuperato il senso del divino, che è nelle cose e negli uomini, ma perché ritorni ad essere palese e vivo, perché Cristo non continui a guardare triste («Ma di lu muru, / ora cu l’occhiu ‘nfuscu mi talii» ), è bene che quelle ingiustizie vengano denunciate: l’uomo deve tornare libero e non deve essere più crocifisso. Per questo il poeta chiede un lampo di quello sguardo, perché la sua sia voce di fuoco, e di sentenze: «Dammi, o Signuri, un lampu di ssu sguardu, / Dammi vuci di focu e di sintènzii»!) 

È la stessa spiritualità che riscontriamo in A lu passu di Girgenti del 1902. Fra’ Matteo, animato di buona volontà, è travagliato dalle contraddizioni, ma non vuole venir meno al suo credo e alla sua missione, e niente può se non dare un esempio di dedizione e di coraggio, andando incontro alla morte. Ma è anche la stessa spiritualità che troviamo in Lu puvireddu amurusu (poema francescano), pubblicato nel 1907. Sono diciotto componimenti in siciliano con traduzione italiana a fronte, costituiti di quartine di settenari ed endecasillabi a rima baciata, andante, carica di una musicalità che dice la gioia di vivere nell’armonia e nella pace tra le creature, figlie tutte di un Dio, a cui devono essere riconoscenti. «Pirchì in ogni armaluzzu / Sempri vidi vi tu lu Signiruzzu! / Nni tia tutti l’armali, / Puru li vermi, puru li cicali, / Truvavanu la mamma / Cu lu sò amuri ardenti comu ciammall.» 

L’anelito alla fratellanza e all’amore reciproco è il tema portante del poema, in cui il poeta riprende i momenti salienti della vita del Santo d’Assisi, calandoli nella campìa della sua Valplàtani, nella zona della Difisa, e rivivendoli col desiderio di vedere attuato ovunque quel disegno evangelico che tutto riporti nella luce gioiosa del Creatore. È l’anelito ad un socialismo umanitario, cristiano, un socialismo di cui i cattolici più spinti, come Miglioli e Murri, si facevano portatori. Ma in Alessio Di Giovanni non c’è alcuna spinta alla lotta sociale, non c’è nemmeno una rivendicazione, c’è una ferma fiducia negli uomini, nel loro buon senso e nella capacità che hanno di compenetrarsi nei bisogni altrui. 

Il poeta di Cianciana è come se stesse al di sopra delle parti, speranzoso di concordia («Pòviri cci nni su’, / Ma ‘un stannu cu li ricchi a tu pir tu … / Invidia, no, nun n’hannu / E pàssanu la vita travagghiannu12», fiducioso che prima o poi potrà realizzarsi una pace sociale capace di annullare ogni contrasto e di vivere in una amorosa cooperazione. È l’aspirazione di Francesco e, ancor prima, di Gesù, di Pascoli e di tanti altri che esularono dalla realtà, dimenticando che l’uomo rimane sempre abbarbicato nel suo egoismo che fa rivendicare a sé quello che dovrebbe essere degli altri. 

Al 1904 risale un opuscoletto, Nella Valplàtani. Versi siciliani, pubblicato per il matrimonio dell’amico Giuseppe Tumbarello di Realmonte, comprendente tre componimenti («La fava», «Morti scunzulata» e «Ni la massaria di lu Màvaru», con traduzione francese a fronte di Tommaso Cannizzaro), che successivamente Di Giovanni inserirà in Voci del feudo. Sono tre gioielli di vivo realismo nei quali il poeta infonde un senso di virile accettazione. La miseria, il freddo, le privazioni sono come se fossero un dato di fatto naturale che solo l’avanzare della bella stagione porta via. 

L’immagine delle fave che cuociono e l’attesa gioiosa di chi aspetta per mangiare sono indimenticabili; così pure non è da dimenticare la morte a cui va incontro la zz’Annuzza, che dopo una vita di stenti e di fame muore nell’abbandono e nella solitudine come era vissuta («Pari ca dormi, ‘n’arma nun si senti … / Comu si ‘un asistissi cchiù lu munnu»). Come se il mondo non esistesse! È quello che capita a questa povera donna, ma tanti nel mondo vivono ai margini, sconsolati e soli! 

Non così è nel terzo componimento. «Codda lentu lu suli […] Mancu ‘n’arma si vidi nni lu feu, / ‘Mmenzu li terri gerbi e li ristucci, / ‘Ntra poja e ‘ ntra vaddati, e la campana / Di li vacchi ca pàscinu, arrispunni, / Cu ‘na mota ca pari ca chiancissi, / A ‘na vava di ventu ca trasporta / Pi ddi timpi lu sciàvuru di l’ervi13.» 

Qui è la natura, con le sue voci, i rumori e il gesticolare delle creature che la popolano ed animano, ed essa s’impone offrendo un idillio di vita campestre che distende e riposa. Non c’è il tema teocriteo dell’amore, anzi il poeta fa trapelare un certo malessere (il boiaro è vecchio, stecchito e pallido), eppure la descrizione è tutta un palpitare di vita fino a tramonto inoltrato, quando i grilli fanno ancora sentire il loro canto. E l’attaccamento alla terra, alla propria terra, che, spinge il poeta ad allargare lo sguardo e a cogliere tutto in un insieme che piace. 

La silloge Nni la dispensa di la surfara, pubblicata a Palermo nel 1910, si compone di quarantaquattro sonetti e, a dire di Alessio Di Giovanni, dovevano far parte di ‘Nfernu veru, rimasto incompiuto. Qui il poeta riprende usi e costumi della sua gente e, in particolare, degli zolfatai. II tutto è affidato al cunta-cunta, ad un affabulatore assoldato dai padroni per abbonire con racconti, che si tramandavano oralmente, i lavoratori stressati e smunti dall’inumano lavoro delle miniere. Unico diversivo sono il vino e il gioco delle carte, poi poche altre ore di riposo per riprendere a lavorare con le prime luci dell’ alba. L’intento del poeta è, sì, letterario, perché realisticamente descrive la vita fuori delle miniere, nell’unico ritrovo di dopolavoro, ma il suo vero scopo è far conoscere la miseria e gli stenti degli zolfatai, e il loro disagio esistenziale che fa preferire loro il non vivere piuttosto che soffrire ed essere sfruttati. 

Voci del feudo è del 1938. II poeta vi include alcuni componimenti già pubblicati e i Sunetti di la surfàra, anch’essi destinati a far parte di ‘Nfernu veru. In Voci del feudo c’è tutto il mondo poetico di Alessio Di Giovanni, consistente nella poesia che canta la vita nel feudo, accostata a quella che tanta altra povera gente vive nelle miniere di zolfo della zona. È un mondo accomunato da enormi sacrifici e da miseria, da cui non sembra esserci scampo. Il poeta lo ritrae nelle voci, nelle cose, nella gente che lo vive, ma non va oltre. Solo in qualche tratto assume un tono di protesta, di una denuncia silenziosa, come se tutto dipendesse da una mano misteriosa che da un momento all’ altro potrebbe alleviare ogni ingiustizia e ridare dignità all’uomo. 

Il poeta dà voce alle cose e agli uomini: il lamento dei mieti tori, una giornata al pascolo nelle terre del Màvaro, un ritorno nella casa natìa, reso amaro dai ricordi e dal tempo passato che non torna più. 

«Lu vidi ca turnavi? / Cchiù vecchiu, è veru, e stancu: ma chi ‘mporta? / Lu me’ cori nun cancia: ‘un ti scurdavi14.» E il poeta enumera oggetti familiari, rievoca una persona cara, e la sente vicina, intenta a lavorare, mentre la consapevolezza che s’impossessa di lui gli fa dire che è inutile «ripensare a quel tempo felice che non torna più». Bellissimo componimento, in cui Di Giovanni ricrea un momento di pathos indimenticabile e lo partecipa al lettore che con lui condivide la nostalgia degli anni che furono vissuti nella casa che lo vide crescere e gioire. 

Il feudo era anche luogo di insidie e di morte. In La minnitta il poeta riprende un agguato, ritraendolo nei particolari, tra la malvagità dell’uomo e lo stupore della natura che assiste inorridita e senza parole: «Niscìu di lu pagghiaru / E s’appustò ddassutta la trazzera: / Eccu du’ cani … doppu un picuraru. / Po’ mancu ‘n’arma … / … ‘Na lustrura, / ‘Na botta … un sgriddu: ahjai! ‘na vuci: mori! / E lu punenti / Chiuji … Spunta la luna e talìa tutta / Scantata unu ca scappa, e poi… cchiù nenti15.» 

C’è uno sbalordimento generale, un rimanere di stucco proprio di chi assiste, quasi inconsapevolmente, ad una malvagità, e qui a rimanere stordita è la natura che non concepisce la vendetta, perché non sta scritta in nessuna parte. 

Troviamo inseriti in Voci del feudo alcuni sonetti dedicati ai minatori di zolfo16, sfruttati in modo inumano e senza ritegno da padroni privi di scrupoli. Le zolfare, veri e propri «carnai, non di morti ma di vivi», sono il terrore degli zolfatai che invidiano gli animali i quali, se non altro, vivono a cielo aperto e godono del sole. In «Scìnninu a la pirrera», ecco come il poeta esprime la loro amarezza: «Oh, putìssiru, allura, abbannunari / Dda vita ‘nfami, dda vita assassina, / Comu l’armali, ‘nfunnu a li vadduna!» 

I Sunetti di la surfàra sono componimenti nei quali dominano la desolazione e lo sconforto dei minatori, costretti a lavorare dalle prime luci dell’alba al tramonto, chiusi nella profondità della terra e soli. Sembra siano stati abbandonati da tutti, persino dal vento, che nelle poesie del feudo fa sentire viva la sua voce, scuotendo le cime degli alberi o carezzando le biade, facendole ondeggiare, mentre qui, nella zolfara, esso tace o, se dapprima sibila qua e là, sentendo il lamento dei minatori, simile ad un pianto, esso va subito a rintanarsi, facendo perdere le sue tracce. 

Leggiamo da «Lu cantu di li surfàri»: «E sempri di ddassutta veni un cantu / Ca pari di ddu scuru lu lamentu. / Si ferma un pocu … ddoppu, ad ogni tantu, / S’jsa cchiù malancònicu, cchiù lentu. / Ogni acidduzzu, pigghiatu di scantu, / Fùji ddu locu scuru, ddu spaventu: / Li timpi, muti, ascùtanu ddu chiantu / E si va ‘ntanari macari lu ventu17.» È un lamento che si diffonde ovunque e nessuno vorrebbe sentire, perché è innaturale, oltre che struggente. Lo si può ben notare: al poeta non sfugge niente, ma tutto è intriso di questo dolore che attanaglia e strugge. 

Poco sopra è stato citato «Scìnninu a la pirrera»: agli zolfatai è negato persino il sole («Cà no pi iddi, pi l’ervi di lu chianu, / Luci lu sul i biunnu a la campìa», che splende per le erbe dei campi, e non per gli uomini. È uno splendido sonetto nel quale il poeta delinea con tratti da pittore conoscitore dell’animo umano, l’intimo sentire degli zolfatai e dei carusi, il loro interiore contrasto, la ribellione che non porta a niente, se non all’accettazione di quello stato di cose. 

Alessio Di Giovanni è il cantore della sua terra e della sua gente, sia che lavori nei campi, che si cali nel fondo di una miniera, ed egli ne rimane il custode depositario della storia, che spesso non viene scritta, degli usi atavici, come lo furono il padre Gaetano e l’amico Corrado Avolio. La sua importanza è certamente destinata a crescere, perché con la sua opera, che andrebbe divulgata anche nelle scuole, rappresenta una pietra miliare nel contesto letterario del primo quarantennio del Novecento. Egli, da grande poeta qual è, ha saputo fare verismo nel senso vero del termine, senza fronzoli, senza sguainare coltelli, con una parola sempre pesata, lavorata, scavata come pietra dall’acqua, martellata dall’uso secolare che ne avevano fatto i padri; una parola ricca di significati che sa di cantilena e, anche, di cristiana speranza. 

Salvatore Vecchio 

NOTE 

* Cianciana (Ag.), 1872 – Palermo, 1946. Poeta, romanziere, drammaturgo, demopsicologo, scrisse le 
sue opere in siciliano, in versi e in prosa, alcune delle quali con la traduzione italiana a fronte. In lingua pubblicò saggi di demopsicologia, di arte e letteratura: Canti popolari agrigentini, 1894; Saru Platania e la scuola popolare siciliana, 1896; Federico Mistral, 1915; Larte di Giovanni Verga, 1920; Il dialetto e la lingua, 1924 e La vita e l’opera di Giovanni Meli. 
1 A. Di Giovanni, L’arte di Giovanni Verga, Palermo, Sandron, 1920, pago 20. 
2 Id., Maju sicilianu (a cura di S. Di Marco), Comune di Cianciana, 2003, pag. 30: «Ora che a maggio sbocciano le rose / E i gigli s’adornano pomposi; / / Getta su di
me le tue grandi ali / Ecco … t’aspetto con affanno mortale.» 
3 Ivi, pag. 34: «AI cantare dei galli, al mattino, / Mi alzo per andare a cacciare. / M’accompagna per via il mio vicino: / Con lui ti vengo a salutare. / Alzati da un letto così comodo, / Alzati dal letto e non tardare. / C’è l’amante tuo, qui, vicino, / Che ti vuole, belluccia, salutare.» 
4 Ivi, pag. 55: «Passi tra le biade cantando / Con un fazzoletto rosso in testa. / Nella boccuccia tua perle ci stanno, / Di là la voce esce dolce e mesta. / Le biade ti vanno corteggiando, / Al tuo passare abbassano la testa. / I papaveri dicono lampeggiando: / Belluccia, benvenuta! Che gran festa!» 
5 Ivi, pag. 55: «Vero soffocante è il canto dei grilli / Nella tacita notte solitaria! / A due, a tre, a quattro, a venti, a mille … / Ah! Comincia l’orchestra pietosa. / Sembra che il coraggio venga meno! / Come se fossi ancora nell’età delle paure. / Sembra esserci solo io e loro / In questa gran solitudine tutta scura.» 
6 A. Di Giovanni, Maju sicilianu (a cura di S. Di Marco), cit., pag. 16. 
7 Ivi, pag. 72: «Ch’è bello, a notte fonda, ascoltare / Lo Stabat Mater, quel pietoso canto! / Sia che dormiate sia che siate svegli / Per voi è sempre soave, dolce incanto. / ... / Tu sola, Madre pia, devi accogliermi / Tu sola devi salvarmi sotto il tuo manto. / ... / S’innalza il canto al rimpianto. / Nella quiete immensa senti risuonare: / – Tu stavi, Madre, alla croce accanto!» 
8 A. Di Giovanni, Saru Platania e la scuola popolare siciliana, Napoli, Chiurazzi, 1896, pag. 61. 
9 P. P. Pasolini, Noterella su una polemica Verga-Di Giovanni, in “Galleria”, a. VI, nn. 5-6, sett.-dic. 1956, pagg. 330-332. 
10 «Preso di paura, / Con la voce tremante anch’essa, / Col petto ansante di pianto, / Grido e dico: / Che pensi? Pure tu, tu pure / Vuoi abbandonare questo mondaccio antico?» 
11 «Perché in ogni bestiola / Tu vedevi sempre il Signore! / In te, tutti gli animali, anche i vermi, anche le cicale / Trovavano la madre / Con il suo amore ardente come fiamma.» 
12 «Poveri ce ne sono; / Ma non stanno in contrasto con i ricchi … / Non hanno invidie / E passano la vita lavorando…» 
13 «Tramonta lento il sole […] Non c’è anima viva nel feudo, / Tra terre incolte e stoppie, / Tra poggi e vallate, e la campana / Delle mucche che pascolano risponde, / Con un tocco simile ad un pianto, / Al lieve venticello che trasporta / Per i dirupi il profumo delle erbe.» 
14 «Lo vedi che sono tornato? Più vecchio, vero, e stanco: che importa? / Il mio cuore non cambia: non ti ho scordato.» 
15 «Uscì dal pagliaio / E s’appostò sotto la trazzera: / Ecco due cani … poi un pecoraio. / Dopo neanche un’anima … / … Un lampo, / Un botto … un grido: ahjai! Una voce: muori! / E il ponente / Chiuse … Spunta la luna e guarda tutta impaurita uno che scappa, e poi … niente. 
16 Salvatore Di Marco ha dedicato un interessante studio all’argomento dal titolo: Sopra fioriva la ginestra. Alessio Di Giovanni e la Sicilia delle zolfare, Palermo, Nuova Ipsa, 2006, che si consiglia, perché, nel contesto dell’opera digiovannea, dà un ampio quadro di questa realtà isolana che dava ricchezza, in cambio di lavoro sfruttato e disumano. 
17 «E sempre da lì sotto sale un canto / Che sembra il lamento del buio. / S’arresta un poco … dopo, di tanto in tanto, / S’alza più malinconico, più fioco. / Ogni uccellino, impaurito, / Fugge quel luogo buio, quello spavento: / I poggi, muti, ascoltano quel pianto / E lo stesso vento va a rintanarsi.» 
Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 7-15.