Insieme nella pittura La lettura di un quadro 

Il quadro è come un libro da leggere, a qualsiasi epoca o tendenza o movimento artistico appartenga. Occorre anzitutto conoscere bene l’autore pronunciando correttamente il nome, specialmente se straniero – ed il titolo. 

Come ogni libro, il quadro ha una prefazione su cui bisogna indugiare a lungo, soppesandone contenuto e valore di chi l’ha scritta, prima di iniziare a «sfogliarlo». Nella prefazione è indicata la storia dell’autore, quella umana con le vicende della sua vita e quella «critica» con la collocazione nel periodo e nella corrente che gli competono. È inutile visitare una mostra senza essere a conoscenza dei dati essenziali che riguardano gli artisti che espongono le opere. È come voler leggere un libro senza sapere grammatica e sintassi della lingua in cui è scritto. 

Visitare una Pinacoteca o un Museo o una Galleria d’arte, è un fatto impegnativo e drammatico, un episodio importante in cui si misura la propria intelligenza ed il grado d’ansia di conoscenza che ognuno ha dentro di sé. Già «il desiderio» di guardare e capire l’opera d’arte, ci distingue dalla massa, la cui immaturità ed indifferenza – nel campo dell’arte – «è uno dei dati costanti ripetitivi ed ingannevoli dell’umanità». 

Davanti ad un quadro importante che non comprendiamo, occorre dirigere le qualità della mente e dell’animo verso il porto sicuro della consapevolezza obiettiva, incanalandone l’acqua sorgiva dell’intuito e dell’istinto. Guardare in silenzio, evitando la banalità di un «mi piace» o «non mi piace»; riunire gli elementi acquisiti nell’indagine prima espletata, collocando l’opera nel giusto spazio storico e critico appreso in precedenza. Ed infine, cercare di capirne il senso e la validità. 

Vediamo in che modo ci si può arrivare. Da soli, è praticamente impossibile. Purtroppo, le fonti di apprendimento per aiutarci a capire, si sono andate via via deteriorando a causa del tumultoso divenire delle nuove esperienze e correnti espressive, in particolare nella pittura. Alla lunga e meravigliosa «stagione» della prima metà del ‘900, così ricca di felicità inventiva e magistero nei grandi talenti che la espressero, ha fatto seguito una serie di proposte spinte da un mercato interessato ed avventuroso, e però condizionante – le quali hanno prevaricato confondendo nomi ed idee, e producendo guasti notevoli nel processo di avvicinamento della gente comune alla comprensione e fruizione dell’arte moderna. Esamineremo poi le varie correnti che si sono succedute dal Sessanta in poi e che costituirono «la rottura» con il «grande magistero» del primo Novecento, dall’arte gestuale all’arte povera, alla Bodyart fino ai «comportamenti» e all’arte di équipe delle nuove cosiddette avanguardie (condotte e spiegate – tra l’altro – con un nomadismo linguistico intercambiabile di assai dubbia chiarezza). 

L’incontro con un vero pittore 

Mi preme ritornare al concetto dell’apprendimento, in pittura, di un mezzo semplice e chiaro – comunque possibile – per arrivare al senso e alla validità del contenuto di un quadro, come già accennato. È necessario che, prima o poi, una persona di buona sensibilità – anche se di media cultura, a cui queste note sono rivolte – incontri un «vero» pittore e ne conquisti l’amicizia. Per «vero» pittore, si intende un professionista oltre che del pennello, anche della conoscenza della pittura alla quale abbia dedicato tutta la propria attività mentale ed esecutiva. 

Di pittori, in Italia, ce ne sono quanti, ahimè, ne enumerano ed illustrano le varie ed incolte enciclopedie fiorite negli ultimi anni, le quali altro scopo non hanno se non quello di soddisfare la vanità della gente che dipinge, spillando e facendo di tutta l’erba un fascio. In realtà, i nomi dei pittori che contano, quelli «veri», sono, nel nostro Paese, un centinaio, un esiguo gruppo, dunque, per ogni regione (a fronte dei trentamila e più, propinatici dai tanti ingombranti dizionari in giro). 

Ogni artista «che conta» ha il proprio bagaglio di riferimenti storici e critici ed una carriera di attiva militanza e riconoscimenti da parte degli studiosi e critici d’arte più validi e noti (autori cioè di importanti volumi sulla pittura e redattori culturali di famosi giornali e periodici di alta tiratura). 

Incontrare un pittore autentico e diventarne amico, non è facile. Spesso l’artista lascia la grande città e si rifugia lontano dal rumore e dallo smog. Per avvicinarlo, occorre sensibilità e buona cultura, ed anche simpatia, per infrangere la riservatezza e, a volte. il bisogno di solitudine del pittore, sempre alle prese con i propri fantasmi e alla ricerca delle infinite possibilità tecniche per realizzare l’opera. Una volta conquistatane la fiducia e l’amicizia. è bene coltivarle con discrezione e buon senso. 

Così l’artista diventa una fonte inesauribile di apprendimento e discernimento per chi cerca la verità in arte. Ci si rende conto, via via, di cosa sia la positività o la mediocrità o la nullità di un dipinto. come si imposta un quadro, dai primi gesti sulla tela sino alla firma. 

Spesso il pittore è estroverso e generoso e concede perfino la visione della propria alchimia e della propria tecnica a chi lo cerca e frequenta. Il mondo misterioso ed affascinante delle forme e dei colori. che attrae perfino i bambini, si rivela ed abbaglia. 

Entrare nello studio di un vero pittore è come entrare nella stanza della luce dal buio delle cose comuni del mondo. Non tanto perciò che di fisicamente è accertabile (il cavalletto, i barattoli, i pennelli, i colori, le tele, gli stracci), quanto, e soprattutto, per l’atmosfera di creatività e di cultura che vi aleggia. È un’esperienza semplice ed esaltante insieme, che tutti dovrebbero provare. L’artista, già nel descrivere le proprie opere – con la velata insoddisfazione, propria dell’autentica professionalità – nell’ambiente odoroso di vernice ed acqua ragia di misteriosa attrazione, usa parole ed atteggiamenti che convincono molto di più di una prosa accademica di libri o giornali o della stessa televisione. 

Si delinea e si concretizza. nella mente del visitatore, quel «linguaggio» fatto di piccole nozioni grammaticali e sintattiche, che gli consentirà quella «lettura» come di un libro, del quadro prima incomprensibile. È il primo approccio per saper distinguere il bello dal brutto. la pittura autentica da quella del dilettante, per raggiungere, a seconda del grado di intelligenza e duttilità del pensiero, quel momento che definirei «sublime» in cui si intravede il concetto della «qualità» in pittura e nell’arte tutta. Di questa magica ed inquietante parola: «la qualità», nell’arte (e nella vita), nel cui significato sta forse una delle ragioni più alte della nostra coscienza, scriverò nel prossimo articolo. 

Noi ci tramutiamo ed invecchiamo. Capire in tempo il significato e la qualità di un’opera d’arte, e goderne, è forse la nostra possibile terapia per sfuggire alla malattia dell’indifferenza e della tristezza dei nostri giorni. 

Proviamoci insieme.

Carlo Montarsolo 




 Natura come essenza d’arte 

I luoghi della memoria dove aleggiano i ricordi dei nostri padri hanno in sé quell’essenza religiosa che ci invita al raccoglimento e ci ammutolisce in riflessioni profonde. 

L’uomo antico, oltre al sole, ci ha lasciato in eredità i suoi paesaggi simbolici che, in terre perdute e lontane, contengono messaggi misteriosi. Singolari rovine, sconcertanti solchi ed iscrizioni sul terreno, operati da una maxicalligrafia fantasiosa, visibili soltanto da un aereo in volo, sono i luoghi sacri dove egli cercava la comunione con il soprannaturale. Certamente elevava inni suonando rozzi strumenti d’osso e canna e percuotendo pelli distese: il luogo avrà avuto risuonanza particolare perché essa si elevasse senza echi. 

Oggi, le imponenti pietre di Stonehenge o gli immensi disegni del deserto di Nazca in Perù o, ancora, i monoliti scultorei dell’isola di Pasqua, sono i luoghi dove senti vibrare una tensione religiosa a testimonianza di una sacrale vitalità passata. 

Il monolito, in particolare, è una tra le più alte espressioni di preghiera dell’uomo verso un Ente supremo, quale muta richiesta intercedente per attraversare l’Ade. 

Isolato o aggregato in file lunghissime, come nei viali megalitici di Camac resta il segno tangibile delle fatiche immani e del tempo spesi dall’uomo per ingraziarsi l’Altissimo. 

E fatto religioso è sembrato il mio causale ritrovamento di un monolito, quale scoglio perduto, del peso di circa tre tonnellate dai chiari connotati artistici per le sue sembianze antropomorfe che da una discarica al bordo stradale di una via secondaria nel trapanese mi è apparso emergente tra massi informi. Calamitato il mio interesse e provveduto a farlo districare, mediante una potente gru, da quanto gli si sovrapponeva, d’improvviso si è stampato nell’indaco del cielo mentre roteava lentamente su se stesso a mostrarsi come creatura nascente dal grembo della grande madre natura. 

Il richiamo mentale immediato agli «uomini di pietra», tema ricorrente da decenni nella mia pittura e l’emozione di veder materializzata la visione dei miei uomini della fantasia hanno reso indimenticabile quel momento di grande suggestione. 

Tale «opera d’arte della natura» figliata da un terreno su cui si accanisce la speculazione edilizia. porta in sé il martirio delle onde marine che per millenni hanno scavato ed eroso la sua superficie in modo assai singolare. Numerose conchiglie fossili. infatti. lo testimoniano. Le sue cavità, di diversa profondità e larghezza, alcune attraversate dalla luce. appaiono come parti segrete messe in evidenza dalle rifrazioni solari che nel volgere del giorno creano su di esso inattesi volumi. 

Effettuati gli opportuni interventi manuali, come per purificarlo dal liquido amniotico che lo avvolgeva, ho provveduto ad elogiarlo come opera d’arte sistemandolo in un residence Club di Campobello di Mazara, dove ero ospite. 

La natura si esprime con linguaggio muto e sarebbe doveroso saperla leggere. Essa appare solenne a chi ne sa cogliere il senso misterioso oppure umile a chi guarda e non vede. 

È tempo di tralasciare le frenesie cittadine per ritrovarsi in quei luoghi religiosi che la natura e non l’uomo ha creato. È tempo di soffermarsi ad addolcire il proprio spirito immergendosi senza scia nell’abbraccio totale di un paesaggio come nell’osservare un insetto al lavoro. 

Il monolito e il menhir recano in sé i segni decifrabili dell’uomo mentre la pietra che reca naturalmente i segni della lontananza dei millenni ci si mostra come vivido messaggio artistico della natura. 

Mario Tornello

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 43-44.




Specchio dell’animo

Eugenio Bruno, calabrese di nascita e romano di adozione, da qualche anno opera in Sicilia, avendo qui ritrovato la disposizione alla pittura già da tempo accantonata. Attualmente lavora per l’allestimento di una personale che avrà luogo a Madrid nel settembre del ’95, ma al suo attivo ha tantissime altre mostre in Italia e all’estero. 

Quello che incuriosisce di questo pittore è il suo silenzio, la sua riservatezza, lo starsene quasi in disparte, a differenza di altri che espongono ad ogni fatta di luna. 

Ogni artista vero è segnato nel suo profondo da stati d’animo e da situazioni personalissime, e solo a sprazzi, quasi ad intermittenza rallentata, sprigiona prepotente ciò che si porta dentro, rtgenerandolo e facendolo vivere di luce propria, vera, come lo è in casi del genere l’arte. Eugenio Bruno è uno di questi, e più che essere ascoltato, ha forte l’esigenza di ascoltare, di capire il suo travaglio, che è, poi, identico a quello degli altri. 

Potrebbe essere questa una delle motivazioni che diamo al suo riserbo, ma non è certo esaustiva. Per questo abbiamo chiesto a Bruno quale altro motivo stia alla base di questa indifferenza che lo spinge ad isolarsi dal contesto produttivo pittorico di questi ultimi anni. 

«Senza dubbio, è vero quanto dice – risponde l’artista -, e lo confermo appieno; ma il motivo profondo, per cui sembro e sono discostante, è la mercificazione che il più delle volte si fa dell’arte. La vera pittura deve innanzitutto rispondere alle esigenze dell’animo, piuttosto che a quelle del corpo. Come può notare, c’è un abisso tra l’arte come esclusivo profitto e quella come la intendo io». 

Questa dichiarazione è molto utile a chi vuole inoltrarsi nel mondo pittorico di quest’uomo che, a spese sue, sa andare contro corrente, a favore, però, di un’arte che è tutta luce ed è, di riflesso, lo specchio di un animo terso, come tale ci appare l’acqua degli abissi marini o quella, più direttamente toccata dai raggi solari, che è in superficie, oggetto in entrambi i casi di tanti suoi quadri. Si vedano, ad esempio, Gli abissi o Paesaggio, con le diverse gradazioni di luce che danno la somma di tanti colori intensi e vivi, di una luminosità sorprendente, che s’accompagnano alle pennellate ora larghe ora smorzate, in ogni caso, sempre sicure e pronte a cogliere nel segno il bisogno di dire e di comunicare che è nell’artista.. 

Nella pittura di Eugenio Bruno l’esplosione della luce dà la tonalità ai colori che riflettono un paesaggio per tantissimi aspetti surreale. E l’ascendenza surrealista non manca certo in questo pittore, proteso, com’è, verso l’onirico, il diverso, appunto, per cogliere in modo nuovo l’essenza della vita che è nella luce che si dilata e dilata le cose e l’uomo. Per meglio cogliere questo aspetto, che è l’essenza primaria della pittura di Eugenio Bruno, si potrebbe tenere come preciso riferimento Arborescenze, in cui i colori, dilatandosi, sembrano formare un “unicum”, simbolo di uno stato di cristallina purezza, a cui l’artista tende, volendo in esso rispecchiarsi e ad esso richiamare gli altri che questa purezza hanno (ohimè, per sempre?) perso di mira. In questa prospettiva si colloca la splendida tela dedicata a Don Chisciotte. Bruno, con la sua pittura, come il personaggio di Cervantes, in un contrasto di luce, dai colori forti, esprime la condizione dell’uomo di oggi proteso tra la realtà e il sogno, tra la quotidianità e l’evasione. 

L’artista è travagliato da questo dualismo, per cui è spinto da un’esigenza di ricerca che va al di là dell’aspetto estetico, intento, com’è, a scoprire l’essenza della vita e delle cose. Quello che lo interessa è la zona buia del profondo, l’estrazione di quell’io che fa difficoltà ad emergere proprio perché troppo l’uomo è preso dalla materialità e dai rumori. Sicché, se in un primo momento, Bruno si era dato al paesaggio e al fIgurativo, via via è venuto a sviluppare un’arte tutta propria che, pur awicinandolo alle varie esperienze del Novecento italiano ed europeo (De Chirico, Picasso, Kandinsky, Marc), trova la sua ascendenza nel surrealismo, che così recita, servendoci di una frase di De Chirico, a sua volta mutuata da Bréton: «L’opera d’arte deve abbandonare del tutto i limiti dell’umano, deve rinunciare completamente al buon senso e alla logica». 

Le esigenze dello spirito sono quelle che maggiormente contano nella pittura del Nostro. Così si spiega il suo scandagliare delle profondità marine o certi suoi lavori che chiamerei “aerei”, per quel suo giuoco di luci e di ombre che sa di sacche di nubi e di chiaro intenso, facile a vedersi volando. E si spiega così la luminosità che fa da padrona in ogni suo quadro, sia che si tratti di visioni oniriche o che oggetto della sua attenzione sia il mare o il cielo, perché alla base della sua creatività artistica c’è l’aspirazione alla purezza. Di qui anche il contrasto, su cui abbiamo insistito (luci e ombre, lineare e non lineare), che è caratteristico di quest’arte. 

Le stesse sculture, che si rifanno alla millenaria civiltà di Sicilia (in particolare i sei pannelli in cemento che ripercorrono la storia di Marsala dai Fenici ai giorni nostri), riprendono questi motivi che tendono alla ricerca di una forma che bene non si configura. Come nella tela Resurrezione, o in quella ispirata alla Famiglia, opere ben riuscite sia per la fattura, che sa di una delicata stilizzazione degli elementi, sia per i colori, dove perviene (la luce del Cristo resuscitato che squarcia la tenebre attorno; nell’altra, il senso dell’unione, proprio della famiglia, che s’amalgama con l’unicità-molteplicità del creato) ad una simbiosi di realtà e di sogno. 

L’informale che c’è nella pittura di quest’artista si origina dall’insoddisfazione che è in lui, dal bisogno di ricercare una forma che, magari andando al di là della realtà, sia capace di comunicare con sé e con gli altri. Si veda, per esempio, la tela Sicilia, oppure l’altra, La notte. Nella prima, il contrasto prodotto dalla luce (contrasto che caratterizza l’Isola e i Siciliani) o, meglio, la dilatazione propria della luce proietta cladodi di ficodindia somiglianti a ombre umane, mentre nella Notte, che è sinonimo di buio, e anche di paura, i volti stralunati, toccandosi, fanno pensare a una boscaglia, dove i colori, facendosi breccia, urtano (il rosso e il nero sono di predominio) ed esplodono una luce che meraviglia e suscita stupore. Partendo da una realtà, quindi (la Sicilia, per quello che essa è, e la notte che, di per sé, dovrebbe essere un momento di riposo), l’artista va al di là del visibile per immergersi in un’atmosfera insolita, ma pur sempre radiosa e avvincente. E questo viaggio che lo coinvolge ci rende partecipi e ci avvince. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg.41-43.




Il fascino delle immagini 

 Ho avuto l’occasione di conoscere Nicola Piazza pittore grazie ad una sua personale allestita a Marsala. 

Figura di artista poliedrica per la varietà di tecniche usate, si è formato, giorno dopo giorno, da autodidatta, spinto da un costante coscienzioso lavoro, che ha maturato il suo talento pittorico, e dal bisogno interiore di imprimere su carta o su tela le emozioni e le impressioni quasi per voler fermare il tempo che passa inesorabile. 

La pittura di Nicola Piazza non ha conosciuto soste, e i suoi lavori, esposti in numerose mostre, si trovano un po’ dovunque. Basta considerare tutta la sua produzione artistica per renderci conto e intuire che il bello da sempre costituisce la costante della sua ricerca pittorica. 

Se, quindi, mi chiedessi una motivazione del lavoro del pittore Piazza, non potrei non cercarla in questa sua esigenza, quasi morbosa, di voler catturare la bellezza per renderla immune da ogni genere di deterioramento. Se è questo – come è vero – il motivo, diciamo che il pittore ha colto il giusto significato dell’arte, che non è fine a se stessa. 

Un quadro, un brano musicale, un qualsiasi componimento, rappresentano piccoli punti di partenza, trampolini di lancio, per mezzo dei quali l’uomo recupera il meglio di sé e lo proietta nel futuro. Poiché il presente è incerto, si ha bisogno di queste spinte per uscire dallo stato di crisi in cui facilmente si è portati a cadere. Per questo, conveniamo con lui, quando, parlando della sua pittura che sviluppa un’ampia tematica, dice che non è settoriale. 

Piazza preferisce essere libero da condizionamenti di ogni genere o stereotipi vari, libero di catturare le emozioni, le sensazioni o le impressioni che, avvincenti e seducenti, accendono il fuoco creativo, per cui l’arte si fa vita, movimento e, perché no, anche staticità. 

Chi guarda i suoi quadri rimane colpito dalla varietà dei temi affrontati, che, mettendo in rilievo i motivi ispiratori, ci riportano alla Sicilia autentica, intrisa di storia millenaria. 

La sicilianità è ancora più evidente e forte nei lavori il cui soggetto è il riccio, elemento che lo distingue e lo rende noto al di fuori della Sicilia, poiché esso è assunto a suo simbolo e firma. Egli, dopo averne fatto uno studio attento, lo ripropone mischiato più volte a nature morte, a paesaggi anche surreali, a composizioni. 

Paesaggi ericini, saline, lo Stagnone, nature morte, composizioni varie, e tanti altri temi che non si riferiscono alla Sicilia, come case e strade romane, per citarne uno, costituiscono il variegato mondo pittorico di Nicola Piazza. Su tutti, però, la natura ha la parte del leone e la nostra impressione è che il pittore voglia quasi preservarla, se non altro, nei suoi aspetti più belli, dal tempo e dalle insidie quotidiane che l’uomo di oggi le tende. 

La natura esplode nei colori con luci smaglianti e con contrasti che concorrono, grazie alla forte capacità comunicativa del pittore, a lanciare messaggi mirati e precisi. Cosi, la pittura del Nostro è accessibile a tutti e di facile lettura; è pittura al servizio dell’uomo e, per questo, riesce formativa più di quanto non possa sembrare. Questo spiega il motivo per cui il pittore, pur conoscendo varie tecniche, rifugge dal complicato, non ammette il cervellotico e sua dote peculiare e talento di artista è la semplicità. 

I suoi lavori pittorici spaziano dal reale al surreale e, potremmo dire, dallo statico (fermando sulla tela il tempo che passa con un volto di donna), al dinamico. In “Cavalli in corsa”, ad esempio, le linee e i tratteggi acquistano un’armoniosa eleganza: in “Tramonto – Fuoco sulla città”, una rossa fiamma sembra piombare sulla città, illuminandola e al tempo stesso bruciandola; mentre in “Barche in ormeggio”, le barche, che ondeggiano, sembrano sospese tra l’azzurro chiaro del mare e del cielo e creano un effetto bello di luci e di colori. 

Non ci stancheremo di ammirare “Giovane mediterranea”, eseguita con tecnica ad acquerello: gli occhi fissi nel vuoto, persi nel travaglio esistenziale, esprimono una drammaticità sofferta di donna innamorata, in cui evidente è anche il forte attaccamento alla terra delle sue origini, come testimoniano i limoni e la composizione su cui s’impone. La luminosità dei colori fa cornice a un volto che impersona la dolcezza: e la sua espressività, che simboleggia anche il candore e la purezza, permette al pittore di raggiungere un alto grado di poesia. 

Allo stesso modo, la scelta dei colori, in “Paesaggio ericino”, sottolineando la cura rivolta ai pur piccoli dettagli, rende così minuziosamente riprodotto quel luogo che anche l’occhio più disattento può riconoscerlo e riviverlo; mentre lo straordinario gioco di colori, che domina incontrastato in “Tramonto – Fuoco sulla città”, raggiunge risultati veramente sorprendenti. 

Ma come non restare colpiti dalla statica bellezza di “Vecchio cancello”, antico ingresso con cancello della Villa del Principino, che s’affaccia sullo Stagnone e guarda l’isola di Favignana? Il cancello aperto, che nasconde storie e vicende passate, si lascia ammirare nella sua staticità. L’occhio e la mente sono presi dal fascino che quella vista suscita e, proiettati nel passato, che sa anche di mistero, vorrebbero andare oltre quella soglia per conoscere, per fermare e per meglio imprimere quel luogo e farlo proprio. 

Questi pochi esempi non possono che confermare ciò che abbiamo detto prima e, cioè, quanto sia variegato e ricco il mondo pittorico di Nicola Piazza, che. servendosi di varie tecniche (da quella mista a quella della sedimentazione o al semplice acquerello. in cui è maestro) e utilizzando particolari accorgimenti. ferma immagini che parlano direttamente al cuore e alla sensibilità di ciascuno di noi. E l’uomo rimane toccato, scosso, ammirato, perché quelle immagini gli dicono il suo mondo, lo inducono al ricordo e lo fanno pensare. Chi le vede per la prima volta resta stupito per la loro solarità e luminosità che danno un tocco particolare a tutto ciò che il pittore compone e ricrea. In ogni caso, egli raggiunge il suo scopo, soffermando lo sguardo di tutti per coinvolgerli in quel mondo che gli appartiene. 

“Capo Boeo” ci offre un esempio di sedimentazione (tecnica mista su base fotografica), dove notiamo un mare surreale in cui i colori si alternano, in modo brusco, passando dal bianco-azzurro al nero. Qui i “ricci”, quasi isolandosi dal contesto, ci riportano alla mediterraneità propria di questa terra. 

Il visitatore della mostra, attento o meno, intenditore o profano, viene, comunque, colpito dalla pittura di Nicola Piazza. Anche se, come già abbiamo avuto modo di notare, i paesaggi impressionano più di ogni altra cosa per l’attenzione riservata ai colori e ai dettagli, che rendono il quadro come un blocco di immagini tese a fermare lo scorrere incessante del tempo, al pittore Piazza riconosco la capacità di volere forzatamente imprimere su carta o su tela tutto ciò che gli è caro per la paura di darlo al passato e di perderlo. Così la sua arte assolve ad un compito ben preciso, preservando ed educando al rispetto della vita e delle cose che ce la rendono bella. 

Maria Vigliano

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 27-29.




Terzo Mondo e oltre.  Intervista a Carmelo Strano.

 Dopo la grande e ben riuscita mostra dei Figurini ritrovati di Sironi, Marsala, ad un anno di distanza, lancia un’altra sfida artistico-culturale al mondo intero e si fa portatrice di un messaggio che, a ben pensarci, potrebbe risolvere tanti mali delle società post-moderne. 

Ma se proprio a Marsala questo e altro, in campo artistico, si è fatto, il merito è – e va detto, perché bisogna riconoscerlo – dell’Ente Mostra di Pittura “Città di Marsala” che, grazie alla lungimiranza del suo presidente, dotto Francesco Perrone, e ad un Consiglio di amministrazione efficiente e sensibile non solo al problema dell’arte in sé, ma a quello che essa ha rappresentato per l’uomo di ogni tempo, si è rivelato un punto di richiamo fermo per gli artisti e un centro propulsore di arte di levatura internazionale. Basti dire che nell’arco di un trentennio ha dato vita ad una pinacoteca d’arte contemporanea tra le più ricche e certamente una delle più belle d’Italia. 

La mostra di quest’anno ha per titolo: «Terzo Mondo e oltre» e, a prima vista, potrebbe sembrare ambiziosa, ma non lo è, per il messaggio, di cui accennavamo, che se non ha niente di particolare, ha il pregio di scuotere sensibilmente la nostra suscettibilità di uomini del Duemila. 

I repentini capovolgimenti politico-sociali dei Paesi dell’Est. la crisi esistenziale della vecchia Europa che non vive di altro se non di uno sfrenato edonistico consumismo, l’esodo da un continente ad un altro di gente in cerca di migliori condizioni di vita, lasciano pensare a imprevedibili risvolti che negli anni a venire potrebbero mettere in forse l’esistenza stessa del nostro pianeta. 

L’uomo dei Paesi ricchi sa bene questo, e molto potrebbe fare per scongiurare ciò, se alla sua oculata esperienza di millenni abbinasse quella di altri popoli più giovani – nessuno escluso – meno assodata, ma non per questo meno interessante. Nei Paesi emarginati, del Terzo Mondo, si vive in modo genuino, spiritualmente meglio di quanto si pensi, e si sente la natura con i rumori, i palpiti, i colori che il mondo industrializzato ormai disconosce. Proprio dai Paesi poveri ci giunge questo messaggio che non è retorico – come spesso siamo abituati a sentire («ritorno all’Umanesimo», «Nuovo Umanesimo»), e poi si specula anche in questo – , ma insegnamento di vita, comportamento degno dell’essere uomini. 

La mostra di Marsala ha una grande importanza che non è soltanto artistica, perché l’arte è un mezzo e non il fine; l’obiettivo che si prefigge è additare la strada del vero recupero culturale e riportare, così facendo, l’uomo alle sue radici, alla terra, di cui non può fare a meno, perché ad essa porta il suo cordone ombelicale. L’evento artistico acquista, allora, una valenza altamente culturale e non ha altri interessi se non quello di riportare alla vita da cui stiamo sempre più allontanandoci. 

I Paesi del Terzo Mondo, da questo punto di vista, hanno molto da insegnare ai Paesi ricchi e, in un periodo di apertura politica e di crollo delle ideologie come il nostro, sono nelle condizioni di farlo, perché, rivitalizzando quanto negli ultimi c’é di buono, pongono un rimedio al vuoto profondo causato dall’assenza di valori fermi e duraturi. 

La semplicità del modo di dire, la genuinità, di cui questi popoli del Terzo Mondo si fanno portatori (il materiale e le tecniche usate dagli artisti che li rappresentano ne sono larga testimonianza), lontane anni luci dal Primo, esercitano un fascino inesprimibile e fanno riflettere. L’umile legno, la semplice pietra, tutto ciò, insomma, che la provvida natura dispensa da sempre agli uomini, sanno in modo mirabile ricondurre a quel senso di umanità che diversamente sembra impossibile recuperare. 

A conforto di queste brevi considerazioni, abbiamo voluto intervistare il curatore della mostra, il prof. Carmelo Strano, che altre volte si è interessato dell’argomento. 

Professore, qual è il movente della mostra? 
«La mostra ha come obiettivo la ricerca artistica dei Paesi del Terzo Mondo. Non ci sono motivi politici, e la molla che ci spinge è prettamente culturale, in quanto vuole, al di là del colore e di ogni condizionamento economico, avvicinare veramente i popoli. La mostra, anzi, ha l’ambizione di andare oltre i limiti geografici del Terzo Mondo, nel senso che vuole anche chiamare in causa Paesi che non sono economicamente del Terzo Mondo,bensì lontani geograficamente da quei Paesi considerati “centri”. Paesi lontani come l’Australia, l’Oceania, la Nuova Zelanda, ad esempio. Terzo Mondo e oltre, quindi! La motivazione è ideologica, non politica. La mostra tende a creare un’osmosi fra tutti i Paesi del mondo». 

Quali messaggi e quali insegnamenti potranno venirci da artisti del Terzo Mondo? Quali sono i vantaggi per la cultura e l’arte? 
«Tantissimi. E sono proprio questi possibili vantaggi che in un certo senso hanno fatto nascere !’idea della mostra. Una volta che sono caduti i grandi blocchi, l’umanità cammina su processi comunicativi sempre più aperti al dialogo, indipendentemente dalla condizione economico-geografica. I Paesi ricchi, presi come sono dall’industrializzazione e dai processi produttivi, hanno messo da parte la natura. Ecco, dal Terzo Mondo può arrivare questo contributo di rivitalizzazione, che innanzitutto dovrà ripristinare il rapporto tra natura e cultura, uno scambio che avvantaggerà molto l’arte, la quale ritornerà ad essere genuina espressione dell’umàna sensibilità. Sicché l’arte e la natura tenderanno a valorizzare l’uomo e si faranno portatrici di nuovi valori che niente hanno di effimero e di passeggero». 

In un suo articolo sulla rivista «D’Ars», Lei parla della fine della divisione del mondo culturale tra centro e periferia. Marsala e la Sicilia con la mostra che Lei sta preparando, per conto dell’Ente Mostra, restano periferie oppure, sia pure per un momento, assurgono al ruolo di centro di cultura mondiale? 
«Il cosiddetto centro languisce in un circuito microelettrico senza via d’uscita, perché ha perso quello slancio da cui veniva caratterizzato. Marsala ha avuto sempre l’ambizione di farsi indicare come porta del Mediterraneo. D’altronde, dai tempi più remoti, ha avuto rapporti economico-culturali, di scambio, con civiltà molto evolute. Adesso, vuole riprendersi questo ruolo e, dal momento che abbiamo coinvolto ambasciate, artisti, giornali, televisioni, Marsala si pone come simbolo al mondo intero, anche per l’attenzione che sta suscitando nei vari ambienti, da quelli politici a quelli artistico-culturali. Può sembrare un paradosso, ma non lo è; Marsala, o la Sicilia, di cui Marsala è simbolo, comunemente considerata periferia, in realtà è centro. Non commercialmente, intendiamoci, perché Parigi, Milano, Londra, o New York, ad esempio, detengono sempre l’egemonia in fatto di denaro. Ma fa cambiare aspetto il problema culturale. La periferia ha dimostrato di avere più sensibilità, più apertura; è più dinamica ed è portatrice di nuove idee». A dir la verità, queste ultime frasi del professor Strano ci fanno piacere. Abituati come siamo ad essere tacciati di provincialismo, a questo punto, vorremmo che provinciali lo fossimo veramente, anche se temo che i mass-media abbiano fatto opera di omogeneizzazione tale da far perdere la spontaneità e la genuinità proprie della gente che vive lontano dalle grandi città. Comunque, fondamentalmente vero è che la città è amorfa e che manca di calore umano. Non così è nei piccoli centri di periferia, dove la gente si conosce e si stima non per l’utile che se ne può ricavare, ma per il rapporto di amicizia che si è con essa instaurato. La spinta di vitalità che viene dal Terzo Mondo deve indurre i Paesi occidentali ad accettare il confronto, se vogliono recuperare la loro umanità. La mostra di Marsala vuole segnare il punto di inizio di questa apertura alla disponibilità, indispensabile per costruire le basi di un mondo migliore dove l’uomo, abolita ogni differenziazione culturale e in sintonia con l’ambiente che lo circonda, coopererà con gli altri, vivendo degnamente la sua vita. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 42.




 Natura come essenza d’arte 

I luoghi della memoria dove aleggiano i ricordi dei nostri padri hanno in sé quell’essenza religiosa che ci invita al raccoglimento e ci ammutolisce in riflessioni profonde. 

L’uomo antico, oltre al sole, ci ha lasciato in eredità i suoi paesaggi simbolici che, in terre perdute e lontane, contengono messaggi misteriosi. Singolari rovine, sconcertanti solchi ed iscrizioni sul terreno, operati da una maxicalligrafia fantasiosa, visibili soltanto da un aereo in volo, sono i luoghi sacri dove egli cercava la comunione con il soprannaturale. Certamente elevava inni suonando rozzi strumenti d’osso e canna e percuotendo pelli distese: il luogo avrà avuto risuonanza particolare perché essa si elevasse senza echi. 

Oggi, le imponenti pietre di Stonehenge o gli immensi disegni del deserto di Nazca in Perù o, ancora, i monoliti scultorei dell’isola di Pasqua, sono i luoghi dove senti vibrare una tensione religiosa a testimonianza di una sacrale vitalità passata. 

Il monolito, in particolare, è una tra le più alte espressioni di preghiera dell’uomo verso un Ente supremo, quale muta richiesta intercedente per attraversare l’Ade. 

Isolato o aggregato in file lunghissime, come nei viali megalitici di Camac resta il segno tangibile delle fatiche immani e del tempo spesi dall’uomo per ingraziarsi l’Altissimo. 

E fatto religioso è sembrato il mio causale ritrovamento di un monolito, quale scoglio perduto, del peso di circa tre tonnellate dai chiari connotati artistici per le sue sembianze antropomorfe che da una discarica al bordo stradale di una via secondaria nel trapanese mi è apparso emergente tra massi informi. Calamitato il mio interesse e provveduto a farlo districare, mediante una potente gru, da quanto gli si sovrapponeva, d’improvviso si è stampato nell’indaco del cielo mentre roteava lentamente su se stesso a mostrarsi come creatura nascente dal grembo della grande madre natura. 

Il richiamo mentale immediato agli «uomini di pietra», tema ricorrente da decenni nella mia pittura e l’emozione di veder materializzata la visione dei miei uomini della fantasia hanno reso indimenticabile quel momento di grande suggestione. 

Tale «opera d’arte della natura» figliata da un terreno su cui si accanisce la speculazione edilizia. porta in sé il martirio delle onde marine che per millenni hanno scavato ed eroso la sua superficie in modo assai singolare. Numerose conchiglie fossili. infatti. lo testimoniano. Le sue cavità, di diversa profondità e larghezza, alcune attraversate dalla luce. appaiono come parti segrete messe in evidenza dalle rifrazioni solari che nel volgere del giorno creano su di esso inattesi volumi. 

Effettuati gli opportuni interventi manuali, come per purificarlo dal liquido amniotico che lo avvolgeva, ho provveduto ad elogiarlo come opera d’arte sistemandolo in un residence Club di Campobello di Mazara, dove ero ospite. 

La natura si esprime con linguaggio muto e sarebbe doveroso saperla leggere. Essa appare solenne a chi ne sa cogliere il senso misterioso oppure umile a chi guarda e non vede. 

È tempo di tralasciare le frenesie cittadine per ritrovarsi in quei luoghi religiosi che la natura e non l’uomo ha creato. È tempo di soffermarsi ad addolcire il proprio spirito immergendosi senza scia nell’abbraccio totale di un paesaggio come nell’osservare un insetto al lavoro. 

Il monolito e il menhir recano in sé i segni decifrabili dell’uomo mentre la pietra che reca naturalmente i segni della lontananza dei millenni ci si mostra come vivido messaggio artistico della natura. 

Mario Tornello

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 43-44.




 Il Sud del mondo

Un primo consuntivo 

Volendo trarre un consuntivo della mostra di Marsala. Il Sud del mondo – L’altra arte contemporanea, a più di un mese dalla sua inaugurazione, devo dire che la prima valutazione che mi piace fare riguarda l’aspetto umano del problema, ossia la grande partecipazione di visitatori che francamente non mi aspettavo. non perché la mostra non lo meritasse, ma pensavo che, in una zona decentrata rispetto al cuore dell’Italia, tutto questo non potesse accadere. Invece, con mia grande sorpresa, flotte di studenti marsalesi e visitatori da ogni parte, a ripetizione, vengono a vedere e rivedere. Questa è la mia prima soddisfazione e, penso, anche dell’Ente Mostra Nazionale di Pittura «Città di Marsala» perché non sempre si è abituati a vedere un coinvolgimento intenso. continuo. che non sembra cessare. 

La stampa, devo dire, è stata oltremodo attenta, anche la televisione. Credo che la felicità dell’iniziativa consista, oltre che nell’imponenza o nel suo primato, in quanto questa di Marsala è anche la prima mostra in assoluto che si tiene sul tema, nel fatto che è un’iniziativa che può essere letta a tanti livelli, ossia da quello specialistico, critico, storico a quello sociologico, etnologico e, soprattutto. a diversi livelli di cultura. C’è occasione di fascino, di coinvolgimento sia per il grosso pubblico che per gli specialisti e gli uomini di cultura dalle più differenti aree. 

Questa mostra riscuote grande attenzione da ogni parte del mondo e suscita interesse tra gli operatori artistici. Lo testimonia la fitta corrispondenza che tutti i giorni intessiamo. C’è effettivamente la voglia di approfittare, da parte anche dei musei, di questa circostanza, nella quale si possono vedere a confronto culture iconografiche tra loro, e c’è anche il fatto che ormai tutti, con diverso grado di coscienza, sappiamo che il Sud del mondo ci aspetta. 

Il fatto impressionante di questa mostra è che, per la prima volta, vengono rappresentate le nazioni del Sud del mondo in modo così massiccio che non si era mai verificato in nessuna altra parte. Questo era uno scopo che mi prefiggevo e lo avevo sottolineato giorni prima dell’apertura. Ma la cosa simpatica è che a parlarne sono gli altri. Lo ha bene evidenziato, per prima, questa rivista per cui scrivo, e lo ha confermato durante la sua visita un estraneo alla mostra, Vittorio Sgarbi, che ha detto press’a poco le stesse cose. 

Tutti questi consensi, a dir la verità, mi danno un gran sollievo, a premio e ricompensa di tutta la fatica che c’è dietro questa mostra veramente grande. Significa – senza volere niente esagerare – che ho impostato bene il mio lavoro. Quando curo una mostra la mia attenzione è rivolta anche. e in modo particolare, alla sua presentazione. E presentare bene una mostra non significa spettacolarità fine a se stessa, ma una sottolineatura dei valori anche in senso speltacolare, finché è possibile, senza per questo alterare i contenuti intrinseci. L’altro aspetto su cui pongo la mia attenzione è la qualità stessa delle opere che in sé spesso sono spettacolari. Basti considerare l’arte della scultura africana, ad esempio. L’altro elemento è certamente l’allestimento in senso tecnico e, non a caso, in questa mostra, è stato affidato all’architetto Fabrizio Crisafulli e alla scenografa Silvana D’Amaro. 

Al di là di tutto questo, la presenza massiccia dei rappresentanti del Sud del mondo attribuisce alla mostra di Marsala una grande carica comunicativa, e il 

visitatore riceve una miriade di messaggi che non possono non scuotere la sua umanità. In diversi di questi Paesi coinvolti la vita pubblica individuale e sociale non sempre è facile e agevole. Per questo c’è in tantissime opere l’anelito verso l’alto. Un esempio potrebbe essere l’opera artistica di Gustavo Lopez Armentia oppure la scultura di Mario Irrazabal, in cui il popolo cileno è rappresentato attraverso una corona di personaggi sofferenti che portano su di sé un immenso carico, una grande scultura. Evidentemente l’anelito alla libertà è molto chiaramente manifestato, ed è sintomatico non solo del Cile, ma anche di tutta una serie di Paesi. Comunque sono anche rappresentati Paesi, come la Nuova Zelanda e l’Australia, che dal punto di vista sociale e del regime politico sono democraticamente avanzati e che pure non sono insensibili a questi aneliti di libertà. Difatti, la vera importanza di questa mostra è l’avere instaurato un dialogo non solo tra il Nord e il Sud, ma fra tutti i Paesi del mondo. Se consideriamo che questo Sud, di cui ho trattato, parte, per dare un senso verso Oriente, dall’America Latina, poi dall’Africa, Medio Oriente, Sud-Est asiatico, per arrivare all’Oceania, evidentemente parlo di Sud, ma ho dinanzi a me il mondo a 3600. 

Se oggi si parla con larghezza di vedute di questo dialogo tra Nord e Sud, dobbiamo essere grati a Marsala che, a buon titolo, potrebbe essere sede di un’Accademia di Belle Arti, purché mantenga lo spirito vitale che ha manifestato e dimostrato in occasione di questa mostra, imponendosi all’attenzione del mondo. 

Carmelo Strano

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 37-39




 L’arte di Serena La Scola dall’informale alla forma(*)

Solitudine, tormento, ma anche luce e speranza investono il diario pittorico di Serena La Scola. Una forza espressiva e un carattere misterioso sono i segni di un’urgenza comunicativa che obbedisce a sollecitazioni profonde. L’ inquieta visione dell’uomo e del mondo inducono l’ artista a intraprendere i sentieri dell’informale e del ritorno alla forma. La ricerca dell’ identità, la riflessione e la contemplazione di spazi interiori si traducono in immagini provenienti da mondi sconosciuti materializzatisi sulla tela. 

II suo racconto non è di facile interpretazione. La prima produzione è debitrice di soluzioni provenienti dallo studio di Kandiskij, di Klein, dell ‘ espressionismo astratto, approfondite dalla conoscenza delle dottrine alchemiche e mistico-filosofiche. Sfumature infinite, e simboli arcani fanno percepire in segreto una perenne conflittualità. Tonalità aggressive ed esasperate rivelano una capacità introspettiva affidata a violenti colpi di spatola e di pennello. Cromie intense e atmosfere surreali esprimono una energia percorsa da un sottile onirismo evocativo che si espande oltre lo spazio fisico della tela. 

Opere come L’abbraccio di Selene, Il sonno di Artemide, o Immersione, percorse dalla forte intersezione di zone di colore contrastanti, lievitano in luci trasfigurate, sebbene il legame con la realtà sia espresso dal segno rivelatore di sensazioni, ricordi, dolori. Spesso tale segno è immerso in profondità subacquee come Nilo Bianco, nei rossi di Mabulag, o nelle zone oscure de Lalbero, unite a un profondo sentimento religioso. Fermentazione n. 1 e Fermentazione n. 2, o Axis Mundi sono paesaggi interiori dilatati in un continuum senza confini. Sono visioni astratte che racchiudono una nostalgia ed uno stato individuale tra emozione ed espressione. Le opere in genere, intrise di macchie e di segni graffianti, si svelano in un lessico poco comprensibile, ma sicuramente sensuale e affascinante. 

Serena La Scola fa emergere la voce dell’ anima attraverso una libertà formale che si esprime in un abbandono dello spirito. La pittura diventa realtà parallela in cui rifugiarsi e i colori si fanno strumenti di comunicazione in grado di sostituire qualsiasi verbo. 

Sebbene con l’adesione a poetiche informai i abbia raggiunto una propria maturità stilistica, avverte l’urgenza di mettersi in discussione. Sente il bisogno di rinnovare il proprio linguaggio muovendo da una necessità interiore. 

I dipinti a carattere religioso vivono di intense pulsioni cromatiche tra il dilatarsi delle masse e l’impulsività del gesto: la Pietà e l’Albero descrivono lo strazio, la desolazione di un’umanità dimenticata da Dio. Il linguaggio di simboli attinti dall’universo alchemico della qàbbala, illumina e oscura, proiettando se stessa in una scrittura ermetica, in cui atmosfere laceranti aumentano un’implicita solitudine non confessata ma rivelata da tonalità buie e gesti sofferti. 

Serena La Scola conferisce un senso di assoluto, attraverso un ritmo fatto di scatti, pause, divagazioni. Così In altro luogo, Oltre ogni tempo e L’amor che move sono il canto di un’anima, sentimento lirico che tende all’infinito. Dal 2004 l’itinerario creati vo dell’artista prosegue il suo viaggio nell’intimo dell’essere, apre lo scrigno segreto delle sue emozioni e svela una nuova carica, creando inediti luoghi pittorici, specie quando si concentra sull’universo femminile: donne come Ottavia e Lucia sono figure di un universo emarginato, ricoperto da cupe atmosfere. 

Numerosi volti sembrano provenire da lontananze misteriose e gli occhi scrutatori, come animati da uno spirito profetico, cercano oltre il limite fisico della tela o del foglio. L’occhio, strumento della vista, ma allo stesso tempo simbolo di capacità spirituale, è il legame con la realtà umana. I ritratti sono spesso icone malinconiche chiuse tra invisibili pareti di solitudine e di smarrimento. Sono figure eteree, la cui bellezza immersa nel silenzio è come sospesa in una dimensione onirica, tra tormento ed estasi. 

L’artista adesso libera l’azione pittorica, e si inoltra nelle sfere intime dell’anima, da cui emergono presenze che si frappongono fra il momento dell’ispirazione e la trasposizione in immagini. Essa, attraverso i viaggi nell’astratto e il ritorno alla forma, racchiude la propria condizione esistenziale in una sintesi di esperienza creativa ed umana. Scrive la sua storia per mezzo di una pittura che sa rinnovarsi nel tempo, divenendo metafora della propria esistenza. Notevole la sua sensibilità creativa nel design di manifesti artistici. 

Serena La Scola, presente nel panorama artistico da vent’anni, ha partecipato ad importanti rassegne d’arte. Nel 1999 si è aggiudicata il primo premio di pittura della Galleria Civica di Monreale. 

Sue opere sono esposte in permanenza alla Biennale d’Arte Sacra contemporanea di San Gabriele – Teramo. 

Silvia Scarpulla 

(*)ROSARIA SERENA LA SCOLA, pittrice e ceramista, nata a Palermo nel 1954, diplomata in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo, insegna Arte e Immagine nelle scuole medie statali. Artista apprezzata dalla critica, tiene corsi di aggiornamento in pittura e ceramica e partecipa, come docente, a corsi di perfezionamento in Arte per la liturgia, a cura della Fondazione Stauròs Italiana, San Gabriele (Teramo).

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 42-43.




FRAMMENTI

 “L’arte è l’altra cosa dalla natura, altra cosa dalla vita, anche se dalla natura viene e alla vita fa riferimento.” 

“Le opere sono testimonianza di stupore innoverabile, esempio di una perennità che non tramonta alle sirene false del divenire. Quasi un richiamo concreto ai valori forti e autorevoli dell’essere che si materializzano in umile e sapiente umanità, in lucente richiamo spirituale alla non transitorietà dell’avventura che ogni uomo compie innanzi al tempo.” 

(da Non bruciate le carte, Catania, Prova d’autore, 2009) 

da “Spiragli”, 2010, n. 1 – Antologia 




La Chiesa della Madonna dell’Alto di Marsala 

Fu padre Nicolò Palazzotto, dei conventuali, a fare edificare la Chiesa della Madonna dell’Alto in un luogo distante tre miglia dalla città di Marsala, come si legge in un atto del notaio M. Antonio Zizzo del 22 maggio 10 indiz. 1537: «Motus et reductus ac inspiratus Spiritu Sancto. decrevit Domino concedente, extra civitatem relicto conventu, in eremo habitare et commorari». A questa chiesa i coniugi Grignano donarono delle terre incolte con alcune latomie e grotte contigue, in contrada Colombaio. 

I padri conventuali abitarono in questo luogo di solitudine fino all’anno 1609, quando l’abbandonarono, come è riportato dal Pirri: «Sanctae Mariae de Alto duo milia passuum ab urbe, incoeptum 1535 et perfectum 1537 divitiis loannis Grignano nobilis Marsalensis anno 1609 pro derelicto habuerunt Fratres isti, et cum proventibus eius in illud Sancti Francisci commigrarunt. » 

Nel maggio del 1787 la chiesa fu rifatta sotto il guardiano M.o Gaspare Artale, ed ivi i padri vi ripristinarono il soggiorno nei mesi estivi, conducendovi i giovani chierici dedicati allo studio. Quando tutti i beni ecclesiastici passarono allo Stato, questa chiesa divenne bene demaniale e più tardi passò nelle mani dei privati. 

Da qui il processo di degrado che gradualmente trasformerà la Chiesa della Madonna dell’Alto in un rudere adibito ad ovile. Certamente difficile immaginare l’antico splendore di questa costruzione originaria. quali lo splendido arco a sesto acuto decorato con motivi platereschi tipici dell’architettura siciliana del ‘500. 

La cupola ancora esistente e la copertura della navata a volte estradossata sono, invece. chiari richiami al gusto arabo-normanno. Inimmaginabile il resto della costruzione, completamente crollato, forse il convento adiacente alla Chiesa. 

La Chiesa della Madonna dell’Alto costituisce un tipico esempio dell’incuria degli uomini poco sensibili al recupero del proprio passato e di tutto ciò che è a questo annesso. Rispettare, conservare, impedire il degrado urbano e ambientale è sintomo di cultura, e una città ricca di storia come Marsala non può ignorare il proprio passato, se vuole continuare a crescere e a migliorarsi. 

Ciò per evitare che la nostra memoria storica venga cancellata, e che diventi un semplice ricordo legato alle vecchie fotografie in bianco e nero, destinate a sbiadirsi con il tempo. 

Da sempre terra ricchissima di opere d’arte e di tradizioni lasciate in eredità dai popoli succedutesi al suo dominio, la Sicilia conosce oggi un momento particolarmente propizio per la conservazione e la rivalutazione del suo territorio: Marsala, certamente, con le sue bellezze storico-ambientali, può costituire, se opportunamente rivalutata, una componente fontamentale del processo di ‘ricostruzione’ del patrimonio storico-artistico siciliano. 

Già molto è stato fatto in questo senso negli ultimi anni con accurate operazioni di restauro che hanno fatto rinascere edifici monumentali quali il complesso del Convento del Carmine, la Chiesa della Madonna della Cava, l’Oratorio di S. Pietro, ora annessavi la biblioteca comunale, e così di seguito: luoghi che, un tempo dimenticati, sono divenuti sede di interessanti iniziative culturali, quali mostre e dibattiti, che non solo hanno accresciuto il livello culturale dei cittadini, ma anche la loro coscienza civica. 

Essere orgogliosi di appartenere ad una città significa, anche, potere espletare in essa tutte quelle attività culturali che, in mancanza di opportune sedi, sarebbe difficile realizzare e Marsala possiede certamente un patrimonio storico-culturale che, se pur in parte rivalutato, necessita ancora di maggiore attenzione per essere completamente riportato all’antico splendore. 

Esistono, nel centro storico di Marsala, delle chiese che sono state dimenticate, come la Chiesa dell’Itriella, tipico esempio dell’architettura quattro-cinquecentesca in Sicilia. Oppure la Chiesa di S. Maria della Grotta che. da molti anni in restauro, attende ancora di riacquistare la sua notevole importanza storica, che rivaluterebbe anche un luogo della città da tutti abbandonato. E si potrebbe andare avanti così, in un interminabile elenco di beni architettonici, che attendono di essere restaurati prima che il tempo ne cancelli ogni traccia. 

Ci si auspica che, nel futuro, ci sia una maggiore attenzione al recupero dei beni culturali e che tutto quello che sinora è stato fatto non rimanga un fenomeno isolato di un’amministrazione comunale che si è mostrata sensibile alla salvaguardia della propria memoria storica. 

Eleonora Romano

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pagg. 37-39.