Michele Digrandi, pittore della memoria

Se volessimo racchiudere, nel giro di poche parole, la pittura del ragusano Michele Digrandi, diremmo che la sua è una pittura della memoria, nel senso che, a parte le varie aperture insite nelle sue tele, presenta il mondo isolano di una volta, pur con il rischio di vederlo da qui a poco tempo ancor più modificato e reso irriconoscibile. 

La ricerca pittorica del Digrandi è tesa, di proposito, su questo doppio binario: da una parte, il paesaggio millenario, calcificato e quasi ancestrale, di quella zona orientale della Sicilia che gli ha dato i natali, dall’altra, una sua possibile salvaguardia, che non può essere data se non dalla denuncia di un degrado che non è solo ambientale, ma umano e sociale al tempo stesso. E se è vero che alla base di ogni intento artistico c’è un movente emozionale che spinge l’autore a riversare quanto ha dentro, è pure vero che Digrandi, sotto una ben celata bonomia, esprime la rabbia di chi, pur volendo, è messo nelle condizioni di non poter fare nulla e di subire lo scempio che viene perpetrato ai danni dell’ambiente, nel nome di un progresso inumano e ripugnante. 

Pittura della memoria, dunque! Se il pericolo è nella quotidianità che tende a distruggere ogni cosa. ecco il pittore che, novello Noè, salva ciò che può, cogliendo, con i colori che sono suoi, la natura nello stato primordiale, ai più recondito, ma vero, della sua terra, per fissarla nel tempo e nella memoria degli uomini. E allora le pietre, che di questa natura sono parte integrante, occupano un posto di rilievo, le coltivazioni tendenti al biondooro, i carrubi con il loro verde vivo e la loro ombra ristoratrice. il mare e il cielo risplendono e esplodono di luce e sono la manifesta effusione di quella solarità mediterranea tanto presente e insistente nelle opere del nostro pittore. 

Ma le pietre – si osservi bene Veduta, a cui ci riferivamo sopra – non sono un elemento ornativo. Esse testimoniano lo scorrere dei secoli e la lunga, dura fatica degli uomini, e ci riportano, a parte l’apertura al mare, alla vocazione puramente agricola della Sicilia (nel tempo disboccata e spietrata per guadagnare spazio alle coltivazioni), e ora tradita, nel nome di una falsa industrializzazione che palesa i suoi lati negativi e più deleteri: un consumismo sfrenato che non perdona a nessuno, nemmeno all’ambiente, come in Triste realtà, contaminato da rifiuti e da residui nocivi. 

Il realismo così concepito non è una mera trascrizione del vissuto quotidiano, così come gli ampi paesaggi non distendono solo gli occhi e la mente: esso è presa di cos~ienza, partecipazione attenta, di uomo e di cittadino, a quelli che sono i problemi che travagliano la società odierna e attentano alla sua sopravvivenza. La trota, che vediamo guizzare fuori dall’acqua, in un dipinto del 1987 che ha per titolo Fuga 2, simboleggia proprio questo. Essa, come d’altronde ogni essere vivente, è spinta dallo slancio della disperazione, non volendo sottostare e morire nella morsa dei tentacoli di una piovra che stringe e soffoca il mondo. 

Il simbolismo, qui più che mai, è pregno di un messaggio niente affatto retorico, o comune, bensì portatore di una denuncia che dice tutto lo scontento di chi passivamente non accetta la depravazione in cui l’uomo è andato via via cadendo e, al tempo stesso, è rivelatore di un ottimismo che, seppure latente, spinge a ben sperare. Segno, questo, che l’uomo ha ancora una forte capacità di rivalsa che gli permette di guardare il mondo e di coglierlo nei suoi aspetti più genuini e buoni. Così, in Tentazione, se c’è il serpente che s’incunea tra gli incastri delle pietre, a secco diligentemente sopramesse, c’è pure un mare aperto, e la vita che dirompe, in un colore azzurro chiaro che, di per sé, rasserena e distende: e, anche se un globo, all’orizzonte, è in una non ben definita posizione, tutto lascia presupporre che sia proteso verso l’alto. 

Come può ben notarsi, Digrandi dà grande importanza agli esseri inanimati e non, e fa in modo che essi parlino attraverso il simbolo che rappresentano. L’uomo, a prima vista, sembrerebbe l’escluso di questa pittura, mentre, invece, essa si sviluppa e trova la sua ragion d’essere nell’esistenza umana, resa tanto problematica e travagliata da non riconoscetvisi. Eppure, basta che ci si guardi attorno per affermare ancora una volta che la vita va vissuta nella sua interezza, con occhi bambini o, se vogliamo, con quelli degli animaletti o degli insetti che popolano la natura, per gustarla e amarla. Si veda, a esempio, Inno alla vita, dove rettili, insetti, uccelli, “cantano” effettivamente nella pienezza di un giorno luminoso la vita, mentre un pulcino sta sgusciando e un carrubo secolare, con un fusto nerboruto, affonda le sue radici in un terreno pietroso. 

Michele Digrandi dipinge una natura luminosa, non segnata dallo scandire monotono del tempo, che sembra essersi fermato per sempre, dove il reale sconfina nell’irreale, per riproporsi e fissarsi nella mente con la sua originaria semplicità. Piante comuni della terra isolana (il carrubo predomina anche nei suoi disegni) e fiori traboccanti di colori e di odori e, ancora, api, farfalle e ogni altra manifestazione di vita che, pure nella distensione della luce, dicono il loro risveglio e la loro laboriosità. 

Questi paesaggi così solari, descritti con una precisione fotografica, e ricchi di particolari, hanno in sé una patina di surreale, come se si trattasse di un mondo chissà quale, frutto veramente di un preciso momento che segna il passaggio dalla realtà al sogno, perché di sogno si tratta, piacevole come in Inno alla vita, o rilassante nella sua solarità, come in Veduta, o, ancora, che scuote e lascia pensosi (Fuga 2 ). L’evasione dalla realtà, per Digrandi, altro non è che aderenza piena. totale, alla vera realtà, quella che il più delle volte sfugge all’osservatore, indifferente o distratto, che così non riesce a cogliere l’essenza vera della vita. 

Questo surrealismo, che è un atteggiamento più o meno presente nella maggior parte delle tele del pittore Digrandi, non è una forzatura, e nemmeno un partito preso (anche nei dipinti più manifestamente impegnati, come in Fuga 2); è qualcosa di insito, dovuto certamente alla sua frequentazione dei maggiori artisti e movimenti avanguardistici della nostra epoca. ma, comunque, connaturato al suo modo di intendere l’arte e la vita. Ciò effettivamente fa pensare ad un legame artistico-spirituale con i surrealisti maggiori. Non a caso, ci viene di ricordare René Magritte, a proposito della minuziosità compositiva. Come in Magritte. c’è in Digrandi (“Genesi n. 3“) una predisposizione naturale a cogliere nel suo insieme ogni tassello, ogni elemento che, a prima vista. potrebbe apparire insignificante e che, invece, costituisce e ci restituisce il tutto. 

Una minuziosità, quella di Michele Digrandi, che fa pensare alla laboriosità meticolosa dell’ape, tante volte oggetto dei suoi quadri, e che parla con il linguaggio semplice di tutti i giorni. Provate a osservare l’incastro delle pietre posate l’una accanto all’altra, degno lavoro di un abile pietrista, oppure il fusto di un carrubo, pieno di rughe nerborute che dicono la sua voglia di vivere o, ancora, la trota. o la piovra con i suoi tentacoli e le ventose: sono di una precisione impressionante! 

Abbiamo parlato di solarità mediterranea in uno spazio atemporale, e questo perché la poesia supera i limiti del tempo e s’impone e dirompe con la forza che le è propria. La poesia dei colori, nella pittura di Digrandi, esercita un fascino che non è facile dimenticare; essa è purificata dall’atmosfera di sogno. a cui ci siamo riferiti. e ha in sé la bellezza e la freschezza di un idillio. A tutto questo egli giunge grazie a una consumata perizia che gli permette di utilizzare le tecniche più diverse, dalle pitture acriliche ai pastelli, o ai semplici disegni. per esternare quell'”io” profondo che è alla base della sua ricerca artistica e umana. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 41-44.




Natura e colore in Luigi Marcucci 

Nel complesso e contraddittorio panorama dell’arte contemporanea una posizione di non secondaria importanza acquista la presenza di Luigi Marcucci, un nome, come tanti, sconosciuto al grosso pubblico, ma noto a quanti apprezzano il tracciato preciso dei suoi paesaggi, ispirati ad un impressionismo tutto soggettivo, lontano dai rigidi schemi d’una logorante, asfittica ed esausta tradizione scolastica. 

Parlare, oggi, d’un artista che coltiva con amore e dedizione la pittura e avanza sicuro nel complesso mondo dell’arte contemporanea, è estremamente arduo e difficile e per i risvolti non sempre chiari e per le antinomie che ogni corrente e manifestazione necessariamente genera e vivifica. Ma parlare di Luigi Marcucci, che non pochi hanno apprezzato in diverse mostre e concorsi di pittura, consente al critico, anche più severo ed esigente, di leggere manifestazioni artistiche non ancora inquinate da esperienze e da ispirazioni pseudoculturali che. in un impasto cromatico non sempre chiaro e lineare, rivelano spesso mancanza di senso artistico e di ispirazione e, soprattutto, di gusto non solo nella scelta, ma anche nella trattazione degli argomenti; permette a quanti amano il paesaggio e la natura morta di immergersi in un’idillica campagna ancora vergine, dove l’uomo ritrova per un attimo se stesso, in stretto contatto con la parte più intima della sua psiche. 

Queste componenti, primarie per l’aggettivazione d’un complesso e, sovente, indecifrabile mondo interiore, da cui prende vita e via ogni movimento esteriore, sottendono un’accurata ricerca. sceverando quanto non è pertinente con i moti propri della psiche colta nella sua diacronica realizzazione. La lettura e scelta dei temi è dettata dal moto interiore, cui sono legate vicende ed esigenze che, non di rado, rimangono oscure allo stesso operatore finché non realizza con il suo linguaggio quanto urge e travaglia il SUO spirito creativo. È, questo, quanto si può leggere nella pittura di Luigi Marcucci, che alterna a periodi di pacata riflessione momenti d’impulsiva e rapida realizzazione, con tratti sicuri e incisivi tendenti a innervare e rendere immediatamente leggibili gli incontrollati moti d’una natura non ancora doma dal razionalismo di schemi precostituiti. 

Lo studio accurato del vero, esaminato con impressione ed esattezza quasi fotografica, offre all’Artista una tavolozza piena di cromie, che, ora calde, ora tenue, ora violente si fissano sulla tela di getto, filtrate da un’innata sensibilità, avvezza ad avvertire anche le sfumature più impercettibili. Nascono così i meravigliosi paesaggi, che si colgono al primo chiarore d’un frizzante mattino di novembre o nell’impercettibile penombra della sera o nelle assolate giornate agostane. Nel rendere l’esatta volumetria delle case l’Artista si ispira, per lo più, all’Ottocento italiano, senza legarsi ad una corrente o ad un maestro preciso. Tutto è mediato dal contatto continuo con l’ambiente, vissuto sempre con drammatica concentrazione, e quando il paesaggio sfuma nelle tenui nebbie mattutine e quando evoca la selvaggia solitudine di distese inondate di luce. I morbidi contrasti tonali, che inondano l’opera e disvelano, in volumi tendenti verso reali punti focali, costituiti, per lo più, da chiese o cascine con i segni tangibili della laboriosità e presenza umana, rivelano l’intenso travaglio interiore: la luce soffusa di tenui paesaggi tipicamente virgiliani, che, vibranti di intensi e vigorosi contrasti tonali, ammorbiditi da un’equilibrata fuga d’alberi e case, trasmettono viva la sensazione d’una ricerca di un pacato equilibrio sempre teso alla sublimazione di una realtà che, dominata e sconvolta dalla contingenza, si presenta allettante nelle sue periodiche e necessarie evoluzioni. 

Si legge nell’opera pittorica di Luigi Marcucci un equilibrato sviluppo diacronico della tematica propria di un’indole spontaneamente e naturalmente portata alla riflessione sui più autentici valori della vita: non a caso nelle opere espressivamente più mature e più vive per la solita impostazione e rappresentazione figurale e volumetrica, il punto focale è rappresentato dalla chiesa, dalla cascina o dalla sofferta espressione del Cristo flagellato o dallo sguardo perduto nel nulla d’un anziano che attende appoggiato alla balaustra o al balcone ciò che non verrà più: la vita. Proprio in questo punto, in cui convergono e in cui dipartono dense sintesi di travagliata meditazione, le coordinate che sfociano nell’affermazione inconscia del Principio regolatore e dell’esistenza e dell’ispirazione. 

Nell’opera di Luigi Marcucci domina la complessa e sofferta affermazione della dimensione umana, che, sottesa al luminoso colore d’un ricco impasto cromatico, svela un profondo travaglio interiore, non sempre appagato, ma dominata da sentimento e intelligenza. La materia, trasfigurata dall’ispirazione, ricrea effetti propri d’una sensibilità ignota alle elucubrazioni accademiche su problemi pseudoesistenziali, che rendono l’opera pressocché illeggibile e indecifrabile per la sua collocazione fuori dei limiti dianoetici facilmente accessibili. 

Un discorso a parte meritano le nature morte, nelle quali Marcucci riesce a cogliere la straordinaria capacità esecutiva e inventiva, unitamente alla bravura d’interpretare frammenti di natura con una sensibilità e partecipazione pregne d’intenso lirismo. Stilisticamente e coloristicamente ineccepibili, i pezzi di natura morta si impongono per la capacità di svolgere un discorso narratologico mediante una sintassi scarna ed essenziale, basata su linee quasi impercettibili che i diversi volumi, soli o affiancati, emanano con intensità cattivante. Se nei paesaggi e nella struttura iconografica traspare qualche incertezza e durezza. avvertibili immediatamente grazie alla sicurezza del tracciato, nella natura morta Luigi Marcucci realizza con maggior semplicità e con immediatezza un discorso completo. I motivi vengono trattati senza retorica, senza gli orpelli d’un accademismo asfittico, per permettere al fruitore di raccogliere con un colpo d’occhio il complesso mondo interiore dell’uomo e dell’artista. Il discorso, allora, diviene più semplice e stilisticamente più accattivante. Percorrendo questa strada, più che nei paesaggi e nelle rappresentazioni iconografiche. Luigi Marcucci può raggiungere vertici difficilmente eguagliabili per la purezza formale e stilistica con cui esegue quanto l’ispirazione gli detta e impone di realizzare. 

Antonio Orazio Bologna

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 57-59




Recenti considerazioni sul Giovane in tunica 

Poiché è risaputo che tutte le opere d’arte, sia le figurative che le letterarie (architettura, scultura, pittura, arti minori, letteratura, teatro, spettacolo, etc.), fanno parte dell’attività politico-sociale-religiosa di un popolo, vissuto in un delimitato arco di tempo e spazio, è chiaro che l’arte riflette, come in uno specchio, le caratteristiche materiali e spirituali, e quindi anche estetiche, dei componenti etnici di quel popolo stesso in un certo periodo della sua esistenza, mentre è impopolare nei regimi assoluti, dittatoriali. 

Naturalmente ogni popolo (o regime), portatore di un suo ideale politico-sociale-religioso, coerentemente vissuto, resta eternato nelle opere d’arte figurative o letterarie superstiti, in cui esiste – com’è chiaro – una scala di valori: quelle fatte dai geni più grandi, e le altre fatte dagli artisti via via meno eccellenti, ma che riescono a rimanere vivi lungo i secoli. È poi compito della storia universale registrare tutto al punto giusto per i posteri. 

L’arte di un popolo è quindi espressione di una civiltà storica particolare, di una società particolare, vissuta nel suo tempo particolare. Essa è squisitamente sociale: non può non esserlo! Più importante della patria, della politica, della gloria di azioni eccezionali, del denaro, della scienza, della potenza personale o collettiva, della famiglia, più importante di tutto, è, per la persona singola o per un intero popolo, lo spirito religioso che alimenta il culto dell’eternità di enti divini, superiori al comune destino della morte certa per ogni vivente. 

Nella religione è posta la facoltà di un uomo o di un popolo, che con l’arte esprime l’essenza meravigliosa della sua anima immortale, capace di ben distinguere il sacro dal profano. la facoltà di «captare» la vita oltre l’effimero tempo della permanenza terrena, come era per i Greci nei «misteri» orfici. 

L’arte così diventa espressione del divino, forma non moritura degna della divinità, all’insegna della più sublime bellezza. Così i Greci ebbero i loro Numi immortali, scolpiti in forma antropomorfica ideale adorati in case ideali, i templi, protagonisti nella poesia, di mille miti fantastici. 

L’arte greca ha lasciato nelle sue opere originali (non certo nelle copie) le reliquie di questa fede incrollabile nell’immortalità dell’anima, sfuggendo alla falce fatale del nulla. Reliquie che sono opere sublimi, capaci di nutrire egregiamente i sentimenti di tutti gli spiriti umani di ogni tempo, sia con le opere figurative che con quelle di pensiero. 

Anche i Greci Ionici di Mozia vollero i loro templi policromi, le loro statue di numi torreggianti nel vano semioscuro del megaron (cella del tempio), come in una magica teofania. Alludiamo alla statua marmorea, nota come il Giovane in tunica. che noi crediamo il – nume – tutelare dei Greci di Mozia, scolpita in stile – severo -, nella prima metà del V secolo a.C. 

Vediamo come la statua ionica del Giovane in tunica possa far parte dell’attività politico-sociale-religiosa degli Ioni, di cui una minoranza, certamente marinara, si trovava a Mozia, con le altre minoranze èlime, sicane, puniche, presenti anche a Segesta con i Focei. È noto che i Greci erano divisi in tre stirpi, Dori, Ioni, Eoli. Naturalmente più chiara ne verrà fuori l’indagine se la paragoniamo al diverso modo di vivere e operare dei Dori. I Dori erano montanari, gli Ioni marinari, alle origini della loro apparizione in Grecia. 

I primi erano piuttosto rudi e forti, piantati sulla terra avara del Peloponneso che rendeva ben poco; i secondi erano più evoluti, liberi sui mari sconfinati, dediti al commercio che rendeva fior di quattrini e quindi ricchi anche del superfluo, da Atene fino alle loro 12 città dell’Asia Minore, fiorentissime, e, in occidente, fino alla Magna Grecia, Etruria, Gallia, Spagna. etc. Erano belli, come giovani Apollini, delle cui statue riempivano tutti i luoghi di culto in cui approdavano, essendo Apollo il loro dio, capostipite ionio, l’Apollo padre, nascente dal mare col suo carro del sole, dio della vita e della morte, dio della salute, delle 9 Muse leggiadre, dei coloni di tutte le nuove patrie lontane che sorgevano numerosissime lungo le rive del Mediterraneo, l’Apollo padre, adorato come e più dello stesso Zeus! 

I Dori poveri e malvestiti di ruvide lane, gli Ioni coperti di lini fini ed eleganti. Le donne poi dimostravano maggiormente l’appartenenza alle due stirpi dal modo di abbigliarsi e dal tenore di vita: contadine le prime, ricche borghesi le altre. 

L’arte aveva creato un tempio dorico (dopo l’umile megaron), grave e pesante, e un tempio ionico, svelto, dalle eleganti colonne: aveva creato statue di numi ed eroi dorici, massicci, nudi e violenti nelle metope quadrate staccate l’una dall’altra, e processioni di divinità ioniche nel fregio ininterrotto avvolte in elegantissime e diafane vesti svolazzanti al vento come vele sul mare; pitture doriche (forse molto modeste), e pitture ioniche, celebratissime, alte anche sei metri, al dire dei periegeti che ne parlarono entusiasti. E così ai canti corali dei Dori, gravi e solenni, si alternavano i canti epici dei poemi ionici che raccontavano le gesta degli dei e degli eroi dell’Iliade e dell’Odissea dello ionico Omero, il primo e il più grande poeta dell’umanità. 

Chiaramente, dunque, gli scultori dorici preferirono scolpire gli dei, gli eroi, gli atleti, gli efebi, etc., nudi, o con vestiti sommari molto semplici, mentre gli artisti ionici preferirono coprirli di vesti leggiadre, velate, suggestivamente trasparenti, per ingentilire le asperità dei corpi nudi non sempre impeccabili in certe parti, per renderli più belli, più aerei, più fluttuanti fra cielo e terra, più eterei, lontani dalla caducità dei mortali. 

Dopo il 480 a.C., nel periodo della prima metà del secolo V, detto dello stile severo, si scatenò per tutta la Grecia e le colonie qualcosa che raramente può avvenire nella vita di un popolo. 

La piena coscienza di avere sbaragliato centinaia di migliaia di uomini che li volevano sterminare aveva acceso nell’anima dell’uomo greco dei fermenti straordinari di potenza, di spiritualità, di socialità, di religiosità. Da qui naturalmente un potente afflato artistico mirante ad eternare quel clima di gloria, in tutti gli aspetti, ma soprattutto in quello religioso, avendo gli dei – così tutti credevano fermamente! – deciso di rendere il popolo greco, il primo, il più degno, il più forte, eterno nella storia del mondo. 

Templi e simulacri di divinità diventarono le cose più importanti da erigere in onore degli dei. Poeti e artisti ne decantavano, pieni di gratitudine, le lodi, per tanto magnifico dono. 

Ogni città, anche piccola, nella madre patria o nelle colonie, sentì così il bisogno di mettersi sotto la protezione eterna degli dei, così buoni, così apertamente protettori invincibili della stirpe ellenica! Tutti, quindi, si davano da fare per accaparrarsi gli artisti più universalmente noti per erigere statue che volevano collocare nei loro templi, fondati nelle città a dozzine. 

Ma chi erano gli artisti preferiti, più inequivocabilmente grandi? Non potevano essere altri se non quelli che, animati da fervore religioso, riuscivano a far emergere dalle pietre e dai bronzi i sentimenti più nobili, degni degli dei e degli uomini che li adoravano. Così coloro che ci tenevano veramente ricorrevano ad artisti ben noti, rifuggendo dalle opere degli artigiani, dozzinali e spesso insignificanti. 

Nel periodo dell’arte «severa» l’artista cercava di dare il meglio di sé, in maniera egregia e originale. Ma possiamo veramente dire che nelle opere «severe» non ci fosse qualcosa di comune come stava accadendo via via nel campo politico-sociale e religioso del «dopoguerra antipersiano, antibarbarico in genere» in tutte le città della Grecia? 

La guerra aveva unificato, la vittoria aveva glorificato, l’arte ora puntava all’esaltazione degli dei, protettori e salvatori di tutti i Greci della madrepatria e di quelli che vivevano in terre lontane, in Asia e in Italia! Gli artisti, i poeti, i filosofi viaggiavano in un clima di euforia universale, si ritrovavano poi alle olimpiadi, nei santuari panellenici, alle corti dei principi. Tutto ciò doveva sfociare via via nella grandezza del «secolo d’oro», degnamente rappresentato e reso universale da una sola città greca, Atene, capitale e guida della grande nazione ellenica in patria e nelle terre d’oltremare. Le «scuole d’arte» pullulavano, dirette da insigni maestri per rispondere alle richieste dei committenti. Prima fra tutte la scuola di Fidia. 

In genere si parla, da parte degli studiosi, della scuola di Fidia, operante solo nella seconda metà del V secolo a.C., periodo dello stile classico e della creazione del Partenone in Atene, eretto da una quantità di scultori, diretti da Fidia. Ma è lungo la prima metà del secolo che il grande Maestro crea il colosso crisoelefantino dello Zeus di Olimpia, 454/448 a.C., mentre è nella seconda metà che crea l’Athena Parthenos, 447/438 a. C., sull’Acropoli di Atene. 

È chiaro che l’acme di Fidia, 448/438 a.C., e dei suoi discepoli-collaboratori, venne raggiunta a seguito di tutta un’attività artistica svolta nella prima metà del secolo, in cui era in voga lo stile severo. In particolare, se fissiamo la data di nascita di Fidia nel primo decennio del secolo (495 a.C.), e quella dei suoi discepoli-collaboratori nel secondo decennio (490/485 a.C.), si ricava che il Maestro e i discepoli Alcamene, Peonio, Agoracrito, Colote, etc., si siano formati nella prima parte del secolo. I maestri di Fidia, Hegias e Hageladas, scultori, Polignoto, pittore, dovettero nascere nell’ultimo ventennio del VI sec. a.C., sicché, a metà del V, dovevano avere un’età fra i 60-70 anni. Potremmo allora fissare l’epoca degli studi di Fidia fino al 470, (a 25 anni d’età), anno in cui, tenendo conto dell’innata genialità, il grande artista dovette formare la propria scuola di stile severo, dal 470 al 450. 

L’affiatamento fra il Maestro e i suoi discepoli, presto passati al rango di collaboratori ad altissimo livello, diventa così elevato che le opere in marmo, in bronzo, in tecnica crisoelefantina, in toreutica, negli avori, nelle oreficerie, etc., acquistano un alto grado di perfezione e di eccellenza, tanto che potevano essere firmate indifferentemente da tutti, maestro e collaboratori, senza far torto a nessuno. 

Il Tempio di Zeus di Olimpia (Prima metà del V sec. a.C.) 

Essendo quello d’Olimpia il primo di tutti i santuari panellenici, sede delle Olimpiadi, non poteva essere trascurato da Pericle, che aveva in mente idee imperialistiche da realizzare con prudenza, però. Nel 454, volendo trasformare la Lega marittima Delio-Attica in impero, egli fece trasportare i tesori della Lega da Delo in Atene, che, secondo lui, doveva diventare la capitale. A questo punto diamo spazio a una nostra idea. 

Riteniamo che intorno al 454 a.C. Pericle dovette proporre al suo coetaneo e amico Fidia – il Maestro doveva essere quarantenne, mentre i suoi collaboratori fra i 35/30 anni d’età – di adornare il tempio di Zeus d’Olimpia, costruito dal 471 al 455 dall’architetto Libone oltre che delle opere marmoree, anche di una statua crisoelefantina colossale, mai vista al mondo, che doveva essere il simbolo imperiale della Grecia. 

Il tutto senza badare a spese: marmi, oro, avorio, pietre preziose, etc., e soprattutto con l’opera eccelsa dei più grandi artisti dell’epoca, scelti da Fidia, e solo da lui, scultori, toreuti, cesellatori, pittori, bronzisti, etc. Il lavoro doveva essere portato a termine nel più breve tempo possibile, ma egregiamente, in modo da ingrandire il suo prestigio e dare la massima soddisfazione a tutti i Greci della madrepatria e delle colonie. 

Fidia dovette accettare il lavoro delle opere d’arte per il tempio di Zeus di Olimpia, e ne studiò la divisione fra i suoi aiuti così: la grande statua crisoelefantina di Zeus l’avrebbe fatta lui stesso con gli artisti competenti nella tecnica specifica; i marmi del frontone orientale li avrebbe affidati a Peonio; quelli del frontone occidentale ad Alcamene; le mètope agli altri; ma il tutto sempre sui propri «cartoni», in stile severo, o meglio in uno stile severo-fidiaco, che possiamo chiamare di transizione. Anche per la Nike di Peonio. 

A conforto di questa nostra impostazione ci sono le fonti storiche di Pausania che citano Peonio e Alcamene espressamente come autori delle statue dei rispettivi frontoni. Ma i critici moderni non sono d’accordo con Pausania e attribuiscono queste opere ad un ignoto maestro di Olimpia. Come si può ribattere a queste affermazioni? 

È risaputo che certi critici si divertano un mondo a denigrare gli storici, per imporre se stessi, magari basandosi su cervellotiche attribuzioni di copie romane, che naturalmente lasciano il tempo che trovano dal punto di vista stilistico, estraneo al copista. Si potrebbe rispondere che l’unificazione dello stile severo-fidiaco, dovuto ai «cartoni» di Fidia di quel primo periodo della prima metà del V secolo, potrebbe superare facilmente le critiche degli studiosi. 

Alcamene e Peonio scolpiscono come comandano i «cartoni» di Fidia, ma con accenti personali lirici, che non possono essere paragonati alle copie romane di presunti originali dei due artisti, mai trovati! Non resta allora che ribaltare il metodo delle indagini, e veramente attribuire a Peonio ed Alcamene le statue dei due frontoni. 

Pausania (IX, 11, 6) riporta che dopo il 403 a.C. – la data è ricavata dal fatto storico – Trasibulo consacrò un .gruppo scultoreo di Athena ed Eracle nel tempio dell’eroe tebano, in Tebe, gruppo attribuito sempre da Pausania ad Alcamene. Questo è impossibile perché Alcamene non poteva esistere, o creare, alla fine del secolo! Forse era un omonimo. Ma un’opera destinata al culto non è né poteva essere stata fatta molti anni prima della sua consacrazione, specialmente se c’era stata nel mezzo una guerra, per esempio, come quella del Peloponneso (durata circa 28 anni, 431-404). 

L’argomento si presta a tanti ricordi storici. Migliaia di statue bronzee, rapite, come bottino di guerra, dagli eserciti invasori, collocate nei propri templi come trofei, venivano restituite ai legittimi proprietari dai nuovi conquistatori, come avvenne nel 146 a.C., dopo la presa di Cartagine, i cui templi furono spogliati dei trofei rubati nei secoli passati ai Sicelioti, i quali neanche a dirlo, li riconsacrarono, ringraziando i Romani di tanto prestigioso evento. C’erano statue di Fidia nel tempio della «Fortuna huiusce diei» del Palatino, in Roma, al dire di Plinio (34, 54), fra cui un’Athena, riconsacrata dal console Paolo Emilio Lucio Macedonico, dopo il trionfo della fine del 167 a.C. 

La «cerchia fidiaca» e il Giovane in tunica di Mozia del periodo severo 

Il Giovane in tunica di Mozia è ispirato all’Apollo del frontone occidentale del tempio di Zeus in Olimpia, opera, come abbiamo visto, di Alcamene, su «cartone» di Fidia, liberamente interpretato dall’Autore. 

La posa, con un braccio al fianco e la lancia nell’altro braccio, si riscontra nella figura del frontone orientale, riconosciuta come il personaggio di Enomao, frontone scolpito da Peonio. Ambedue artisti della «cerchia fidiaca» del «severo» e del «classico». A questo punto diventa suggestiva l’idea di accostare il Giovane in tunica all’Apollo di Alcamene, i cui volti, ambedue nobilissimi, si richiamano fra loro nei tratti fisionomici e artistici, mentre le vesti aderenti sono trattate in modo raffinato, le fluttuanti più scioltamente. Infatti sarebbe grave negare ad Alcamene, o ad altro artista di pari merito, la perizia di avvolgere la statua con una tunica aderente e trasparente (secondo ben noti schemi fidiaci), la capacità di creare un’opera d’arte di gran classe, dietro espressa richiesta dei committenti, ché forse pretesero, per il loro dio, un «cartone fidiaco». 

L’accostamento estetico fra l’Apollo d’Olimpia e il Giovane in tunica ci suggerisce l’idea della decisione, presa dai Greci lonici di Mozia, di affidare a una scuola famosa ellenica la realizzazione della statua del loro «dio» tutelare. Secondo lo scrivente, ad una di esse, a quella di Fidia, attiva in Olimpia, proprio dentro il recinto del Tempio di Zeus, dove sorgeva l’officina del Maestro, un giorno vennero i Moziesi per risolvere il problema che li assillava. Volevano un simulacro del loro dio protettore, per un tempio della loro terra, Mozia, in cui costituivano una minoranza di Greci lonici, entro i domini dell’eparchia cartaginese della Sicilia occidentale. Volevano un’opera d’arte, di prim’ordine, dalla migliore scuola del tempo, da artisti ionici, come loro, una statua di Apollo Patroo. 

Ai Moziesi, espressamente venuti a trovarlo nella sua officina, Fidia dovette additare l’Apollo di Alcamene sul frontone dirimpetto l’officina stessa, alla presenza dello stesso Autore, finendo per accordarsi su tutti i particolari. 

Così diciamo che potrebbe essere stato Alcamene l’artista a cui Fidia affidò l’incarico di esaudire la richiesta dei Moziesi (greco-ionici, come erano appunto Fidia e i suoi seguaci), dell’Apollo Patroo di Mozia, dio capostipite della stirpe ionica, venerato anche in un tempio dell’agorà di Atene. I committenti vollero il dio completamente vestito dato che dovevano trasportarlo in un paese di «barbari», ostili al nudo figurativo. 

Ci fu nella statua del Giovane in tunica qualche intervento di mano dello stesso Fidia? A volte il Maestro interveniva, altre volte no. Non resta che ammirarla in tutta la sua bellezza. 

Analisi estetica della statua del Giovane in tunica 

C’è molto di «severo fidiaco» nel Giovane in tunica di Mozia, da noi proposto come simulacro di Apollo Patroo. Che cosa in particolare? Il volto, i capelli a chioccioline, la forte ossatura del volto, mostrano ancora l’aspetto severo della composizione. Ma il movimento dinamico del corpo insieme alle vesti trasparenti, «bagnate», increspate, sottili ed elegantissime, non sono ignote allo stile velificato fidiaco che esploderà nelle opere classiche del periodo seguente, della seconda metà del V secolo a. C. 

D’altro canto, se paragoniamo la staticità degli Apollini (Pamopios, del Tevere) di Fidia, e la cattura degli spazi somatici vibranti e profondi da parte dello scultore del Giovane in tunica, ci accorgiamo della formidabile personalità di quest’ultimo che mette al servizio della «teofania» del suo personaggio la nobiltà dell’espressione, la potenza fisica calma e sicura, invincibile, l’eleganza delle vesti, la bellezza straordinaria delle forme, le proporzioni ideali delle masse muscolari avvolte flessuosamente dai lini che fasciano un floridissimo campione umano-divino della stirpe ionica, fattori tutti di rara perfezione, che si possono scoprire soltanto negli originali purissimi dei grandi artisti. 

Nel Giovane in tunica lo scultore è riuscito a rendere palpitante perfino il respiro del torace, gonfio per un’inspirazione profonda, la quale «svela», pur sotto la tunica, l’anatomia fino al basso ventre infossato, traendone spunti estetici raffinatissimi. A tal fine l’artista usa le piegoline sottili, fluenti, spezzandole ogni momento in corrispondenza d’ogni minimo avvallamento del corpo, di cui egli si serve per mettere in evidenza l’anatomia del bellissimo modello, non permettendo mai alla luce di oscurare, con macchie nere e profonde, la fluidità della composizione, resa diafana, sfumata, dolcissima, per raggiungere la teofania nel simulacro, sentita come mediata da una luce interna, d’origine soprannaturale, nullificatrice della materia. Meraviglioso artifizio di membra umane chiamate alla vita dal marmo luminoso, che, in questo caso, si prestava meglio del bronzo al fantasma poetico dell’artista, per il più bello e giovane iddio dell’Olimpo greco! 

Questo spiega anche il «motivo alto della fascia pettorale», che avrebbe annientato, se fissato alla vita, l’armoniosa fluidità e imponenza «dell’apparizione». E spiega anche il «motivo» della tunica talare, che rendeva superfluo qualsiasi puntello alla base delle gambe, necessario invece nelle statue marmoree. Le statue degli atleti erano in bronzo e bastavano di solito due tenoni sotto i talloni per ancorarli alla base (come i bronzi di Riace), per svettare liberi nello spazio. Portata in patria dai Greci di Mozia, la bellissima statua dovette adornare un tempio della città per oltre mezzo secolo (450-397 a.C.). Durante l’assedio famoso, abbattuta, rimase sepolta fino al 1979, data della scoperta. 

Noi diciamo che il simulacro di Mozia è uno dei tanti simulacri degli dei del periodo «severo» (480-448 a.C.), nobilissimo, come lo furono tutti gli altri di quel tempo felice. Un tempo veramente felice e straordinario che venne completato con la più bella immagine del «dio» per eccellenza. Zeus olimpico, di Fidia, l’opera più viva della stirpe ellenica. 

«Ciascuno di voi consideri una infelicità la morte, senza aver 

visto lo Zeus di Fidia»; tali sono le parole di Epitteto, filosofo 

(Arriano, Epitteto, 1, 6, 23). 

Certamente la più eccelsa delle sette meraviglie del mondo! 

Così si chiuse il periodo «severo» dell’arte greca, il Periodo degli Dei, e degli uomini vittoriosi contro le più immani avversità che la storia ricordi, uno dei periodi più belli di tutti i tempi, presente anche nell’isoletta di Mozia, col suo bellissimo Giovane in tunica, il più splendido «dio» della mitologia greca! 

Quante altre statue fidiache sono nascoste fra le rovine di Mozia? 

Giuseppe Agosta 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 41-50.




 Paola Saltarelli 

Paola Saltarelli è approdata alla pittura sin da tenera età, quando ai sogni fiabeschi seguono i primi impulsi di esprimersi popolando di immagini preferite il proprio mondo, fatto di semplicità e di emozioni. 

La spontaneità e l’immediatezza di questa ormai affermata pittrice ci dicono quanto ella ben conosca le peculiari tecniche e i mezzi d’impiego della difficile pittura ad acqua o di quella ad olio, se riesce a farci gioire con opere soavi e dall’originalità inconfondibile. 

Alla scioltezza del tracciato grafico la Nostra assomma una vivificante luminosità suffragata da una delicatezza cromatica a tratti quasi fuggente, come nel delineare scene di mare, a tratti con più accentuate tinte, col preciso intento di indurre a maggior riflessione suggerita da accurate trasparenze da ben resi chiaroscuri come in genere nella prospettiva e nei profili di bimbi ingenui e festosi o nel ritrarre altre scene di vita quotidiana sotto un cielo che apre al respiro dell’anima. Segno della padronanza dei suddetti mezzi tecnici che permettono all’Artista di dissertare con disinvoltura sia nel campo della figura che nel paesaggio. 

Chi nella pittura della Saltarelli cerca suggestioni cerebrali non le troverà mai, come del resto in nessun’altra di qualsiasi autore nel sortire l’effetto di parlarci in chiave romantica con i temi di limpida e fresca genuinità in un felice rapporto linea-colore, specie poi se la spiccata personalità dell’artista è insensibile alle mode degli «ismi» e ai sortilegi dell’astratto e dell’effimero. 

Tradizionalista, quindi, la Saltarelli ha una produzione che difficilmente finirà per varcare i confini della realtà nell’estrinsecarsi in forme di accorto verismo, ma resta il più possibile fedele alle sue aspirazioni di interprete innamorata della sua opera e della sua serietà, in un certo senso anche solitaria, che non rivolge attenzione alle cosiddette pitture innovanti, a volte gelide esaltazioni prive di larghi interessi estetici. Per lei essenziale è rendere il colore addolcito da singolare levità con tocco sicuro e convincente. ancor più se delinea litografie con oculato senso volumetrico. 

Nell’insieme una pittura piacevole, salda all’ancoraggio di un’arte pura, costantemente tonale, che esercita fascino immediato e che non ha bisogno di elucubrazioni per essere assimilata. Pittura soprattutto basata su salda linea e su oculato dosaggio dei colori. Pittura giovane, infine, non in contrasto coi desideri di tutte le età perché permeate da una sensibilità che, a volerla mantenere sempre presente, non è poi tanto facile, specie se nell’impegno di produrre in prevalenza opere di appagamento spirituale, mere composizioni macchiaiole in cui cielo, mare, rustici prospetti, bozze di fiori, squarci di natura viva e morta concorrono a determinare validità e personalità nell’estrinsecarsi di molteplici doti. 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pagg. 45-46.




 L’arte di Filippo Maggiore 

La pittura di Filippo Maggiore, bagherese, si inserisce in un lavoro indirizzato a precisare diversi aspetti della realtà che lo circonda e con la quale conserva un legame stretto, autentico. 

Emerge una indiscutibile capacità di unire, di comporre opere non soltanto con linee e colori, ma anche con idee e rappresentazioni tali che arte, cultura e vita si fondono magistralmente. 

Vedere le tele del Maggiore è come muoversi in un poliedrico stadio dove ogni opera esprime emozioni e stimoli, ricordi e partecipazione. Ove volessimo cercare di identificarlo, connotarlo e non confonderlo con altri, oseremmo definirlo una sorta di “candido metafisico” che. pur partendo sempre da una puntuale osservazione del reale, giunge a valicare i confini quasi che, dinanzi al pennello del pittore, il creato e la vita si spogliassero della loro storia e della loro estemporaneità rendendo universali i suoi schemi compositivi. 

Infatti, nelle composizioni pittoriche sono fissate spiagge e barche, vecchi casolari, viottoli di campagna, i mostri di Villa Palagonia, un carretto, un pupo siciliano, una casa illuminata, scorci di paese, il tutto in modo atemporale, suggerendo la realtà nell’immaterialità delle idee o delle forze che lo costituiscono. 

Le vibrazioni del “vero” appaiono più pregnanti nella tela raffigurante un “vecchio pulitore di fave”. È una raffigurazione dolente e nel contempo viva di luminosità ove il trionfo della luce non sfuma la struttura reale, ma rende all’osservatore la percezione cosmica della solitudine e la sensazione sgomenta della vita. 

Alla luce di una profonda acquisizione del mezzo tecnico, ancorché arricchita di un linguaggio artistico che diviene poesia, si può ammirare un affresco, realizzato nella Chiesa di Porticello, raffigurante Maria S. del Lume. In tale affresco, della grandezza di mt. 8,50 per 4,50, Maggiore ha sintetizzato i motivi fondamentali della iconografia della Madonna del Lume, imprimendo alla sua produzione artistica una carica di inquietudine mistica. 

Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pag. 47.