IL DONO 

Vorrei donarti l’anima mia 
perché tu veda sempre dentro di me 
e quando il mondo più non ci sarà 
tu senta risuonare la sua voce. 
Pur spento il mondo 
resta perenne l’ascolto del destino 
che dura 
come onda che ci segue 
nell’attesa infinita; 
pur scomparsa la luce della vita 

Pasqualino Barreca

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 48.




 Grida la rosperìa 

Grida la rosperìa

la sua critica scettica: 

non c’è più poesia 

ma c’è l’arte poetica  

Manuel Bandeira, Os sapos, 1918 

(Trad. di Renzo Mazzone) 

(da Mosaico de Manuel Bandeira. Poemas de Carlos Dmmmond de Andrade, a cura di l(jlio Castaiion Guimaràes, Ediçòes Alumbramento – Instituto Nacional do Livro, Rio de laneiro, 1986)




Haikai

Sanzio Azevedo




Traccia

Un poema 

libero da grammatica e da suoni 

delle parole 

libero 

da tracce. 

Un poema fratello 

d’altri poemi 

che spengano la sete 

ai corsi d’acqua 

e rilucano come pietre al sole. 

Un poema 

che sia senza il sapore 

della mia bocca e sia 

libero 

da segnali di denti sopra il dorso. 

Poema nato 

agli angoli di strade, lungo i muri 

come povere parole 

con parole appassite 

però 

libero tanto 

che da se stesso tragga 

la decisione 

d’essere 

scritto o no. 

IMPEGNO 

Tocca ora al corpo 

morire 

giorno per giorno 

andare 

e disabituarmi 

del volto 

che io 

chiamavo mio. 

INTENTO 

Ho tanto usato 

questo corpo 

tanto. 

È giusto ch’io lo lasci 

e lo metta a giacere. Perché sia 

dimenticato. 

SAZIETÀ BIOGRAFICA 

Ho forse camminato senza piedi 

e volato senz’ ali. 

Sono un sogno svanito. 

Scrivo lettere ai fiumi di frequente 

mentre coltelli 

puntano al mio cuore. 

Che posso dire 

(se smettono gli uccelli di cantare) 

e come amare 

(se amano gli amanti il suicidio)? 

Gli assassini conoscono il mio nome. 

INGANNO 

In fin dei conti 

costruiamo edifici 

case giardini dove 

sono sbocciate rose 

tremule. In fin dei conti siamo sempre 

sottomessi agli impegni d’ogni giorno 

alle stagioni 

dell’anno 

ed alla rotazione della terra. 

La nostra patria pensavamo fosse 

questa. 

da Risco, Nankin Editorial, Sao Paulo, 1998




Nostalgia

Chi abita la mia casa 
mi presta il corpo e sale 
sottili bianche scale. 
Spade 
mi graffiano ed io sanguino. 
Di stanza in stanza 
io palpo culle vuote. 
Giorni ciechi mi spingono 
lungo le notti 
verso altri giorni … 
Ma chi abita in me, questa mia casa? 

Eunice Arruda 

 Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 46.




Dolore

Sto male, sono dolorante, afflitta 
al sereno notturno. 
Attaccano un acuto le cicale. 
Dormo dentro di me profondamente. 
E va la sera 
là fuori, avanza lenta 
come un vecchio carretto cigolante. 
Più niente importa. 
Chi piange se sto male? 
Se io sono ferita, 
chi si dissangua? 
Sono stata sbattuta contro un muro. 
Mi avevano protetto 
le braccia e la mia ombra, 
ma ora 
il sale non si scioglie sulla pietra 
e mi addormento 
come un bambino scosso dai singhiozzi 
o forse 
come uno scarabeo rivoltato 
sul marciapiede. Invano 
il dolore mi assolve da ogni colpa. 

Eunice Arruda

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 46.




Dopo la notte 

di Araujo

Albeggia. È intenso il luccichìo del sole. 

Respirare, vedere 

e nel rimescolìo dei sentimenti 

si risvegliano i dubbi tumultuosi. 

È forse questa l’ora cui si addice 

rimescolare il fondo delle notti 

bianche? 

La nostalgia, se intensa, è dolorosa 

sànguina ed ora 

che la mia età s’è fatta più matura, 

la sensibilità e i desideri 

dell’impossibile 

mi lasciano affogare con un nodo 

di lacrime. 

Forse mi sono immersa in acque fonde 

sin dalle prime luci? 

Rita de Cássia Fernandes Araújo* 

(vers. it. di Renzo Mazzone) 

da Por detrá das gavetas (2008) 

* Rita de Cássia Fernandes Araújo, poetessa brasiliana del Ceará del secondo Novecento, è autrice delle raccolte liriche: Cores (1984), Essêcia (1987), Sementes (1990), Unguentos (1991), Cartas ao Anjo da Guarda (1997), Mulher e terra (2000), Manga Madura (2004), Por detrá das gavetas (2008). 

da “Spiragli”, 2010, n. 1 – Antologia 




Pervigilium Veneris

Scritto presumibilmente tra il II e il III sec. d. C. da un Anonimo siciliano, pubblichiamo il «Pervigilium Veneris» nella versione di Mauro Pisini, gentilmente concessaci. Il poemetto in versi tetrametri trocaici è uno splendido esempio di poesia novella in cui, pur confluendo diversi apporti (Lucrezio, Virgilio, Catullo), l’autore dimostra di possedere una non comune personalità poetica e una nobiltà di sentire difficili da riscontrare in altri poeti di quel periodo. C’è nel poemetto un forte senso della vita e della natura, e il bisogno di partecipare e non essere esclusi da Amore che tutto prende e a cui nessuno può restare indifferente. E questo bisogno è bellamente reso dalla capacità che l’Anonimo poeta ha di creare le immagini e di metterle in risalto attraverso gli abili giochi verbali e lo stesso ritornello che imprimono musicalità e leggerezza a tutto il componimento. 

LA VEGLIA DI VENERE 

È l’inizio di primavera, è già primavera di canto: a primavera è nato il mondo, a primavera concordano gli amori, a primavera si accoppiano gli uccelli e il bosco scioglie la sua chioma grazie alle piogge che lo fecondano. Domani, colei che tesse gli amori intreccerà, tra le ombre degli alberi, verdi capanne con ramoscelli di mirto; domani, Dione, assisa in trono, pronuncerà le sue leggi. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 
In quel tempo, il mare, con il sangue caduto dal cielo, creò da un pugno di spuma, tra le schiere azzurre degli dei e dei cavalli a due zampe, Dione nata dalle acque marine. 
Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

È lei che veste la stagione più luminosa di gemme scintillanti e preme perché diventino nodi turgidi, i bocci aperti al soffio del Favonio, è lei che sparge acque vive di lucida rugiada, lasciate cadere dall’aria della notte. Quelle lacrime brillano e tremano per il peso che le spinge a terra: ogni goccia, con la sua perla, tende in basso, ma trattiene la caduta. Ecco, la porpora dei fiori ha svelato il suo pudore: quell’umore che le stelle disperdono nelle notti serene, all’ alba, ha scoperto i seni virginei da sotto il peplo, umido di brina. È lei che ha ordinato alle rose, ancora vergini, di andare, al mattino, incontro al loro sposo, lei creata dal sangue di Cipride e dai baci di Amore, dalle gemme, dalle fiamme, dalle porpore del sole, non si vergognerà, domani, di sciogliere il suo rossore, nascosto sotto la veste di fuoco, sposa in virtù di un’unica promessa. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

La dea, in persona, ha comandato alle Ninfe di andare nel bosco di mirto, il fanciullo accompagna le vergini, tuttavia, non si può credere che Amore resti in ozio, se avrà portato con sé le frecce. Comunque, andate, o Ninfe, Amore ha deposto le armi, ora, non può colpire. Ha l’ordine di andare inerme, ha l’ordine di andare nudo, per non recare danno né con l’arco né con le frecce e neppure con il fuoco. Però attente, o Ninfe, perché Cupido è bello: Amore è tutto in armi, proprio quando è nudo. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

«Venere, con uguale rispetto, manda a te noi vergini. Di una sola cosa ti preghiamo: concedi, o vergine Delia, che il bosco sacro non sia macchiato dal sangue delle fiere uccise. Lei stessa vorrebbe chiederti questo, se potesse piegare il tuo pudore, e vorrebbe che tu venissi, se ciò fosse permesso a una vergine. Allora, per tre notti di festa, vedresti danzare nelle tue valli, tra corone di fiori e capanne di mirti, i loro cori uniti ai capi di un unico gregge. Non mancherà né Cerere né Bacco né il dio dei poeti. La notte non deve essere sprecata, ma vissuta come una lunga veglia di canti: nel bosco regni Dione, tu, Delia, ritìrati.» 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

La dea ha dato ordine di innalzare un palco con i fiori di Ibla: da lì, detterà le sue leggi, intorno siederanno le Grazie. Tu, Ibla, mostra tutti i fiori e ciò che la primavera ha donato, tu, Ibla, indossa il tuo abito di gemme, tanto grande, quanto la pianura dell’Etna. Saranno qui le vergini dei campi, le vergini dei monti e quelle che abitano i boschi, le sacre radure, le sorgenti. A tutte la madre del fanciullo alato ha ordinato di prendere il proprio posto e diffidare di Amore, ora che è nudo. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 
«… Conceda le ombre più verdi ai fiori appena nati … » 

Domani, sarà il giorno in cui Etere celebrò per primo le sue nozze e, affinché Giove potesse creare i raccolti con le piogge di primavera, l’acqua della vita penetrò il seno della nobile sposa, perché, unita al suo corpo potente, nutrisse ogni seme. Così, con il respiro che tutto penetra e con la forza che nasconde in sé, ella governa, poiché è madre, il sangue e il cuore delle cose tanto da infondere la sua potenza in ogni luogo, attraverso i canali per cui passano i semi. Questo ordinò, perché il mondo conoscesse la via della vita. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

È Venere che ha portato i discendenti dei Troiani tra i Latini, è Venere che ha dato in sposa al figlio la vergine di Laurento e, ora, dà a Marte la vergine pudica sottratta all’ ara. È Venere che ha propiziato le nozze tra Romulei e Sabini, da cui generò Ramni e Quiriti e, per la prole dei posteri di Romolo, Cesare, padre e nipote. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

Il piacere feconda la campagna, la campagna sente Venere: Amore stesso, figlio di Dione, si dice sia nato in campagna. Mentre la terra lo dava alla luce, lei lo strinse al seno e lo fece crescere tra i baci delicati dei fiori. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

Ecco, sotto le ginestre, i tori già adagiano il fianco, tutti sono protetti dai loro patti d’amore. Ecco capri e pecore insieme, ecco gli uccelli canori, cui la dea ha imposto di non tacere. Anche i cigni loquaci mormorano negli stagni, con canto rauco, cui fa eco, all’ombra di un pioppo, la fanciulla di Tereo, tanto che i sentimenti d’amore sembrano essere cantati da un suono dolce, melodioso e diresti che perfino sua sorella non si debba lamentare del marito barbaro. Quella canta, noi restiamo in silenzio. Quando verrà la mia primavera? Quando farò come la rondine e potrò smettere di tacere? A causa del silenzio ho perso la mia Musa e Febo non mi guarda più. Così, anche Amicla, poiché taceva, fu uccisa dal silenzio. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

Mauro Pisini

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 27-29.




MADRE, MADRE

La tristeza u hoyo en la tierra,
dulcemente cavado a fuerza de palabra,
a fuerza de pensar en el mar,
donde a merced de las ondas bogan lanchas ligeras.

Ligeras como pájaros núbiles,
amorosas como guarismos,
como ese afán postrero de besar a la orilla,
o estampa dolorida de uno solo, o pie errado.

La tristeza como un pozo en el agua,
pozo seco que ahonda el respiro de arena,
pozo. – Madre, ¿me escuchas?: eres un du1ce espejo
donde una gaviota siente calor o pluma.

Madre, madre, te llamo:
espejo mío silente,
dulce sonrisa abierta como un vidrio cortado.
Madre, madre, esta herida, esta mano tocada,
madre, en un pozo abierto en el pecho o extravío.

La tristeza no siempre acaba en una flor,
ni esta puede crecer hasta a1canzar el aire,
surtir. – Madre, ¿me escuchas? Soy yo que como alambre
tengo mi corazón amoroso aquí fuera.

Vicente Aleixandre Da Espadas como labios. Vicente Aleixandre (Siviglia 1898 – Madrid 1984), premio Nobel per la letteratura 1977, surrealista, è considerato uno dei maggiori poeti contemporanei spagnoli. Tra le sue opere: Ámbi-to, Pasión de la tierra, La destrucción o el amor, Poemas de la consumación, Dialogos de conocimiento.

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pag. 48.




LA PALABRA

Esas risas, esos otros cuchillos. esa delicadísima penumbra…
Abe las puertas todas.
Aquí al oído voy a decir.
(Mi boca suelta humo.)
Voy a decir.
(Metales sin saliva.)
Voy a hablarte muy bajo.
Pero estas dulces bolas de cristal,
estas cabecitas de niño que trituro,
pero esta pena chica que me impregna
hasta hacerme tan negro como un ala.
Me arrastro sin sonido.
Escúchame muy pronto.
En este dulce hoyo no me duermo.
Mi brazo, qué espesura.
Este monte que aduzco en esta mano,
este diente olvidado que tiene su último brillo
bajo la piedra caliente,
bajo el pecho que duerme.
Este calor que aún queda, mira lo ¿ves?, allá más lejos,
en el primer pulgar de un pie perdido,
adonde no llegarán nunca tus besos.
Escúchame. Más, más.
Aquí en el fondo hecho un caracol pequenisimo,
convertido en una sonrisa arrollada,
todavía soy capaz de pronunciar el nombre,
de dar sangre.
Y…
Silencio
Esta música nace de tus senos.
No me engañas,
aunque tomes la forma de un delantal ondulado,
aunque tu cabellera grite el nombre de todos los horizontes.
Pese a este sol que pesa sobre mis coyunturas más graves.
Pero tápame pronto;
echa tierra en el hoyo:
que no te olvides de mi número,
que sepas que mi madera es carne,
que mi voz no es la tuya
y que cuando solleces tu garganta
sepa distinguir todavía
mi beso de tu esfuerzo
por pronunciar los nombres con mi lengua.
Porque yo voy a decirte todavía,
porque tu pisas caracoles
que aguardaban oyendo mis dos labios.

Vicente Aleixandre

Da Espadas como labios. Vicente Aleixandre (Siviglia 1898 – Madrid 1984), premio Nobel per la letteratura

1977, surrealista, è considerato uno dei maggiori poeti contemporanei spagnoli. Tra le sue opere: Ámbito,

Pasión de la tierra, La destrucción o el amor, Poemas de la consumación, Dialogos de conocimiento.

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 47-48.