Torno all’isola 

I ricordi 
uccelli migratori 
tornano sempre 
all’origine 
attraverso l’oceano 
della vita passata 
correnti invisibili 
tessono lo spazio 
rotte segnate dal destino 
tomo all’isola 
circondata di ignoto 
cerco un tempo 
uno spazio 
vecchie dimensioni 
Illuso 
il tempo rotolando 
beffardo sulla mia vita 
ha dato a me 
nuova dimensione. 
Non trovo i margini 
i nomi delle cose 
non trovo i simboli 
miti realtà 
e disperato cerco 
vane coordinate 
(Per dare colore al tempo’, pag. 51) 

Romno Cammarata

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pag. 41




 Sin nombre 

Sobre la cama aun caliente 
desparrama los pétalos mustios 
enrieda las sabanas entre manos dolientes. 
Suenan campanas en un aire templado, llaman al mistico encuentro 
de sabanas blancas, 
enrieda su cuerpo con piernas dobladas, 
gesto tras gesto el corazón se inflama, 
juega la carne con carne sagrada, 
envuelve los cuerpos la prontitud, 
sigue la busqueda entre llamas, 
juega la carne con carne marcada, 
muerde, sangra 
la lengua que pasa en la cara sofiada, 
la mano que busca la mano amada, 
sigue la masa humana 
encarnando 
savia verde. 
Suenan campanas en un aire templado, 
llaman al mistico encuentro 
de sabanas blancas, 
verde, verde que asoma a su frente, 
fluye el calor en su cuerpo vencido, 
asoma el cansancio 
mientras la brisa enfria 
la savia verde. 
Isabella Mazzei

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pag. 41.




Marsala-Mallorca. Diario di un giorno 

 4 aprile 1998 

Parto per uno dei miei viaggi di lavoro, come si dice in gergo commerciale. Dovrò incontrare degli amici scrittori per consolidare scambi culturali con la Spagna. Sono in compagnia di Tonino Contiliano, collaboratore di “Spiragli”, poeta. 

Arriviamo all’aeroporto Florio, avendo sciroppato, tra il serio e il faceto, le raccomandazioni delle mogli. Manca una buona mezz’ora alla partenza. Mi accorgo di avere dimenticato a casa gli occhiali e, per questo, salta il caffè che avremmo dovuto prendere assieme. 

In questi casi si dice che la giornata inizia “bene”! Ci salutiamo con le donne, nell’ipotesi che non facessero in tempo a farmi avere i miei occhiali, ma ci imbarchiamo per ultimi, nell’attesa di vederle ricomparire. Solo dopo che mi vengono a consegnare gli occhiali, guardando attraverso l’oblò, intravediamo due figure di donne che salutano sventolando le braccia. Ricambiamo amorevolmente i loro saluti. 

Voliamo, lasciandoci dietro la plastica luccicante delle serre di Birgi. A destra, abbiamo Favignana e le isole vicine, a sinistra, Erice, a strapiombo sul mare di Trapani. 

La primavera anche qui, in alto nel cielo, spande la sua luce e la dilata dappertutto, sui cirri sparsi, sull’oblò che abbaglia. Nella luce smorzata e distesa di un giorno a finire, su questo cielo, non molto lontano, si consumò una tragedia che il mare raccolse. Nonostante il relitto parli chiaro, la verità stenta a venire a galla. E i morti innocenti ancora fissano sgomenti, i parenti gridano la loro rabbia, i responsabili tacciono e si nascondono nella meschinità del loro essere. L’Uomo, mi viene da dire! 

*** 

A Roma ci attende una giornata piena fino a stancarci. Incontro (come sempre, appuntamento sotto la finestra del Duce a piazza Venezia) Donato Accodo, l’editore della E.I.L.E.S. Parliamo di pubblicazioni, di lavori in fase di attuazione, del mio Pirandello e Ionesco, di cui apprendo che ha venduto molte copie all’estero e che, seppure a rilento, va bene ed è richiesto da più parti. Parliamo anche di questo viaggio in Spagna, degli amici che ci aspettano e della possibilità di allacciare rapporti di scambio che vedrebbero un po’ tutti coinvolti. Fa piacere rivedere persone che hanno gli stessi interessi, confrontarci e chiarirci le idee. Idee che non mancano a nessuno, specie se si possono concretare. 

Sorseggiamo il nostro caffè, seduti nella terrazza di un bar che guarda il Milite Ignoto. Maree di gente passano incessantemente dinanzi ai nostri occhi; gente dall’aria incerta e disarmata, gente stupita che guarda e si sofferma, giovani amanti che si tengono per mano, uomini e donne soli con se stessi, che vanno dove un affetto li chiama o il dolore preme, politici e portaborse, tutti spinti dalla vita che non s’arresta. Vanno… 

La vita è in tutto questo andare, in questo essere altri, nel proliferare senza sosta, nella forza che è in noi e che ci spinge ad agire. Il contrario è la morte, l’apatica, indifferente morte. 

Eppure, chi non è abituato ad essere nel vortice continuo dell’umano fluire delle grandi città non può non stancarsi ed invocare la calma. Per questo, quando ci siamo congedati da Donato, abbiamo preferito percorrere luoghi meno noti e viuzze a zig-zag che dal fiume vanno verso il centro, avvolti nel silenzio della solitudine e dell’abbandono. A ben pensarci, però, quelle strade e quei luoghi deserti chissà di quali segreti sono depositari e quante trame han visto ordire! 

Tonino ed io andiamo a zonzo, anonimi tra gente anonima, visitando luoghi e osservando uomini che di Roma sono teatro e personaggi. L’Uomo, grandezza e miseria, diceva Pascal! E i luoghi che andiamo visitando sono grandezza dell’uomo che fu e miseria passata e presente di chi ha condizionato e condiziona, a scapito di quanti non hanno mai avuto la possibilità di gestire in proprio e in meglio la vita. 

Pranziamo nelle vicinanze di piazza Argentina. Seduti, ci accorgiamo di essere stanchi. Abbiamo camminato abbastanza per meritarci un bicchiere di birra e il piatto del giorno che una giovane polacca viene a servirei. Riferisce di essere arrivata da poco a Roma, spinta dal bisogno di aiutare i suoi, malati con una nidiata di bambini da allevare. I capelli d’oro le incorniciano il volto di una bellezza indicibile, anche se gli occhi azzurro-chiari gli infondono una posatezza che la rende più grande dei suoi vent’anni. È una bellezza rara provata, più che dal tempo, dalle privazioni. Il dolore lascia solchi profondi. 

Uscendo dal locale, facciamo un gesto di saluto, non diciamo niente. Solo quando ci allontaniamo, guardandoci, quasi a conferma, diciamo che la giovane polacca è di rara bellezza. 

*** 

All’aeroporto arriviamo in ritardo. Ci dicono che abbiamo pochi minuti e, anche se hanno già comunicato il nostro arrivo, non possono garantirci l’imbarco. Dobbiamo affrettarci. Corriamo a più non posso, sudati e col fiatone da cani accaldati. 

Responsabile di questo inconveniente il poeta. Ricordava l’imbarco alle 19.00 anziché alle 18.00 ed io, cedendogli i biglietti, mi ero affidato a lui! 

Ora, seduti sull’aereo che ci porterà a Mallorca, ci asciughiamo i sudori e ridiamo del paventato pericolo di non dovercela fare. Ci viene in mente la corsa delle donne nella mattinata e ridiamo per avercela fatta in entrambi i casi. 

C’è ancora luce. Voliamo su un cielo limpidissimo; sotto di noi, un mare d’argento che sembra stagnato. Tra poco saremo con gli amici che ci aspettano, isolani tra isolani, in un’isola molto vicina e simile alla nostra. Brinderemo nel nome dell’amicizia e della collaborazione. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pagg. 33-35.




 La ragazza che voleva i pantaloni 

Che grande invenzione, la pubblicità! Avete mai pensato alla pubblicità e a quante cose fa venir fuori? Basta solo mettere in moto un marchingegno, perché la cosa, quasi a forza d’inerzia, vada da sé, senza bisogno di altri spintoni. 

La pubblicità è come il pettegolezzo delle comari: inizialmente prende le mosse da una, e poi… poi coinvolge tutto l’abitato! Basta solo iniziare, anzi, l’importante è iniziare, perché subito si troveranno i proseliti, magari si costituiranno due fronti (non secoli!) «l’un contro l’altro armato», ma poco importa, tutto tirerà acqua al mulino, e questo macinerà, e come! 

Prendete il libro di Lara Cardella, della ragazza che voleva i pantaloni. Ci troviamo dinanzi ad uno dei miracoli veramente grandi che la pubblicità ha fatto da qualche mese a questa parte. L’annuncio di una pubblicazione, un’intervista sollecitata all’autrice di Volevo i pantaloni, e qualche ingenua affermazione: è bastato tanto poco per imbastire un fuoco d’artificio di cui tuttora si sentono i rimbombi. 

Tanto poco per dare il via al marchingegno di cui abbiamo parlato. Un fatto puramente paesano o, se volete, provinciale, in pochi giorni è divenuto un caso nazionale. Se n’è occupata la televisione con l’impeccabile Enzo Biagi, Canale 5 con l’accattivante pacioccone Maurizio Costanzo, e tutta una serie di giornali e rotocalchi. 

Ne valeva la pena? Ma tutto è lecito, quando c’è in palio il denaro. Perché diversamente non si spiega. Sfruttare le pur minime occasioni è una delle leggi di mercato. E l’occasione è stata sfruttata puntando sull’ingenuità della gente o, meglio, toccandola nel suo perbenismo, perché alla maschera in Sicilia ci si tiene ancora ed è prassi mostrarsi per quelli che non si è. 

Parlavamo di affermazione ingenua, poco fa. Ed in verità, cosa ha detto Lara Cardella dei licatesi – essi non vengono menzionati nel libro – che scrutano con gli occhi le ragazze, quasi le volessero spogliare? Forse che, quando si vedono delle belle ragazze, non è delizia guardarle? E questo non si verifica in qualsiasi altro paese di provincia del mondo e, magari, in una grande città? Anzi, dobbiamo dire che, con questi mezzi d’informazione di massa, differenziazioni comportamentali tra abitanti di paese o di città non ce ne sono o, tutt’al più, le distanze si sono molto ravvicinate. 

L’affermazione della Cardella da una parte e il risentimento paesano dall’altra hanno fatto traboccare l’acqua dal bicchiere ed è stata subito polemica aperta, quasi una caccia alla strega, a Lara Cardella, che s’è dovuta rinchiudere in casa ed aspettare tempi migliori. 

La gente di questo splendido paese costiero dell’agrigentino, bagnato dal mare ancora intatto e dominato dall’altura di Montesole (un tempo, ohimè, terra ridente di mandorli e d’ulivi, con qua e là qualche casina nobiliare, ora devastata da un abusivismo edilizio che qui non si arresta), ha gridato allo scandalo, ha contestato; insomma, ha fatto tanta di quella cagnara che ha persino coinvolto la stessa amministrazione comunale a tralasciare i problemi urgenti per interessarsi al caso. 

Il primo cittadino s’è dato un gran da fare, ha telefonato a destra e a manca per essere ospitato in televisione e così rigettare pubblicamente le affermazioni della «ribelle»: nella sua veste di sindaco doveva tranquillizzare gli animi, dicendo le cose come stanno. D’altronde, c’era dimezzo la reputazione di tutto un paese; persino la politica ne veniva toccata, e la politica nelle nostre parti non va toccata… 

Mi chiedo ancora: era necessaria questa messa in scena? Certo che se non si fosse dato peso alla cosa, il tutto sarebbe passato inosservato. Non sarebbe stata lesa la rispettabilità dei molti che a ben altro hanno da pensare, e di tutto potevano parlare tranne della ragazza dei pantaloni. Non sarebbe successo niente, e chi se la doveva sentire – non solo a Licata – se la sarebbe sentita. 

A fatto avvenuto, così come sono andate le cose, la cittadinanza tutta non ne è uscita indenne o, per lo meno, non ha fatto una bella figura dinanzi all’opinione pubblica nazionale. Il silenzio, vero che non è sempre d’oro, ma sicuramente non avrebbe fatto sbagliare! 

Così, questo chiasso è servito solo a far scattare il marchingegno della pubblicità con pochissime spese iniziali o, meglio, a spese del perbenismo risentito dei licatesi. E chi ne trae vantaggio è la Mondadori che vende il libro primo classificato. 

La giovane Cardella va incoraggiata e spronata a continuare la strada intrapresa dello scrivere ma senza badare alle varie voci che si dicono, perché, quando c’è di mezzo il meschino denaro, si fa in fretta a montare le persone. 

Gran brutta cosa è poi la delusione… 

Alcuni, senza perderci tempo, col fiuto finissimo che li caratterizza, hanno parlato di «caso letterario», non sapendo che così offendono la dignità artistica ed umana di tanti scrittori meritevolissimi, i quali o sono passati inosservati e tuttora aspettano giustizia , o la loro opera è stata apprezzata fuori prima che il pubblico nostrano «bestia varia e scanzonata» se ne potesse interessare. È il caso di Svevo o, per non andar lontano, del siciliano Tomasi di Lampedusa. 

Di Lara Cardella ci sarebbe poco da dire, se non fosse stato per questa montatura. Volevo i pantaloni è un libretto animato solo dagli ardori e dalla fede giovanili: vuole essere una denuncia sociale e tale è, vera o inventata che sia. Ma più che romanzo – così come l’autrice lo presenta -, perché romanzo non è, parlerei di documento, restando nell’ambito della denuncia, dato che dal vizio e dalla depravazione non viene intravista alcuna via d’uscita. 

Zio Vincenzino o ziaVannina, l’uno vale l’altra, se per superare le difficoltà economiche essa si vende a questo o a quello, dimostrandosi superficiale, vuota e, persino, banale. Ma anche l’io scrivente si chiude nella rassegnazione e all’ultimo niente fa per cambiare quella realtà che prima aveva contestato e deriso. 

La trama è esilissima, e tutta incentrata sulle figure dell’uomo-padrone e della donna-oggetto. Tema che, a dir la verità, a noi sembra inattuale o molto limitato nella sua casistica. Con la televisione che ci propina volgarità a mai finire e che viene seguita dalla mattina alla sera da casalinghe e da collaboratrici familiari, si è avuta un’evoluzione (o involuzione?) veramente sorprendente in tutti i ceti sociali e nei paesetti più lontani, dove si assiste ad eccessi d’usi e di costumi che non si riscontrano neppure nelle stesse grandi città. 

Il successo del libretto sta solo nel lassismo proprio dell’uomo di oggi e nella capacità di assecondarlo da parte di chi detiene il potere culturale, sfruttando al massimo ogni occasione per far quattrini. Alle case editrici – e il nostro caso è lampante – non interessa un’opera dal suo lato artisticoculturale, bensì dall’introito che ne potrebbe derivare: e se le previsioni fanno ben sperare, vada pure a farsi benedire la morale o l’elevazione culturale della gente! 

La realtà è che ci troviamo dinanzi ad un decadimento etico senza alternative e tutto sembra inclinare verso l’accettazione passiva di una situazione che mortifica e ripugna, se lo Stato non si farà garante esso stesso di moralità. Diversamente le cose andranno così, alla deriva, e il peggio dovrà ancora venire. Anche perché uomini culturalmente validi e preparati, che veramente hanno qualcosa da dire, sono nell’impossibilità di operare, tagliati fuori come sono da un sistema che impone, anche in modo occulto, la sua volontà. Ne risente la scuola, e ne vive la sua crisi la famiglia, se di crisi si può parlare, perché fortemente scissa negli affetti più intimi e negli interessi. 

La disgregazione del nucleo familiare, facilitata anche dai ritmi della vita moderna, ha messo ancor più in discussione il rapporto genitori-figli, non nei termini tradizionali della questione, ma come disinteresse ed egoismo spinti all’esagerazione: e da qui è venuta meno tutta una serie di valori fondamentali per la convivenza sociale. 

L’amore, il rispetto degli altri, l’amicizia leale e disinteressata sembra siano stati accantonati per dare spazio ad ogni specie di materialità dilagante che costituisce, come in un circolo chiuso, il polo d’interesse dell’uomo odierno, anche se egli fa difficoltà a riconoscersi in questo stato di bruttura e di miseria. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 27-30.




 Il mio paese 

Sono nato in un paese di cui conservo solo il ricordo. Vi passai la mia infanzia, e me ne allontanai quando cominciai a guardarmi attorno, scoprendo il mondo con occhi non più bambini. 

Cosa potrei allora dire del mio paese, se non quello che mi porto dentro e mi appartiene? 

Sorge su un’altura e guarda il mare. Una volta, dalle parti più alte, ad occhio nudo si saranno viste entrare nelle rade le navi pirata ammainanti bandiera bianca, ché non credo i pirati abbiano usato qui le scimitarre o i tromboni. 

A strapiombo sul mare sorgeva il castello fatto costruire nel 1358 da Federico III Chiaramonte, conte di Modica, a cui questa terra apparteneva. Un maniero imprendibile, utilizzato come deposito di grano e roccaforte in caso di emergenza. Il visitatore l’avrebbe potuto ancora ammirare, se il tempo, le incurie e l’ignoranza degli uomini (queste ultime superano di gran lunga il primo nella loro opera di distruzione) non l’avessero reso un immenso cumulo di macerie, utile ricovero per i delinquenti o, nel casocmigliore, improvvisato ovile. 

Ricordo che il maestro delle elementari – un uomo di mezza età, serio, poco colloquiale con noi ragazzi, ma umanamente buono (anche a volerlo citare, non ricordo il nome) – parlando delle origini del mio paese, diceva che sul posto dove venne fondato sorgevano tante palme e da esse prese il nome. 

Contadini robusti, armati di accette, asce e picconi, vennero dalle vicine terre di Licata, e ci fu lavoro per tutti e per diverse stagioni. A testimoniare ciò quella brava gente lasciò una palma che, a sfida del tempo radicalmente mutato e degli uomini. resistendo, ancora svetta in cìelo i suoi rami, sicuro riparo dei passerotti. Vanno lì nella bella stagione a nidificare. 

Contadini d’una volta su cui si poteva contare, e con pochi grilli per la testa, che tramandavano ai figli i lavori, ed erano gratificati e edificati dai loro signori, ché non credo ci siano paesi che vantano santi, beati e uomini di chiesa quanti il mio. 

A fondare il mio paese furono due gemelli, Carlo e Giulio Tomasi, due sant’uomini all’antica che avevano a cuore il bene degli altri e praticavano le virtù come massime di vita a cui sempre bisogna guardare se si vuole la misericordia divina dalla nostra parte. Sta di fatto che Carlo rinunciò di lì a poco al ducato per vestire l’abito talare, e divenne teologo e servo di Dio. Al posto suo subentrò il fratello Giulio, II duca di Palma e I principe di Lampedusa. Carlo lasciò che il fratello continuasse la sua opera e che Giulio sposasse persino la sua ex fidanzata, Rosalia Traina, baronessa di 

Torretta e di Falconieri. 

Il mio paese allora doveva essere costituito da poche casupole di coloni che sorgevano attorno al palazzo ducale. Ma ben presto Giulio Tomasi si diede alla costruzione di chiese e monasteri, seguendo i consigli che gli venivano da più parti. Innanzitutto quelli del fratello Carlo che, dal monastero dei padri teatini di Palermo, dove s’era rinchiuso, insisteva perché si adoperasse a fare del bene al prossimo e, con opere più che con parole, tenesse viva la fede evangelica tra la gente. E poi quelli della moglie, Rosalia Traina, che di lì a qualche anno si sarebbe fatta suora. 

Giulio I Tomasi di Lampedusa finì per cedere il palazzo ducale che divenne monastero benedettino e se ne fece costruire un altro dove passò i suoi giorni nella preghiera e in opere di bene. 

Il duca santo – così da allora cominciarono a chiamarlo – era un uomo tutto cuore che non si faceva sfuggire la pratica della carità che, anzi, programmava e curava di 

persona, vestendo gli ignudi e sfamando gli affamati. Anche lui si era votato interamente a Dio, dopo che aveva visto farsi monache le quattro figlie e la moglie, da cui consensualmente nel 1661 si era diviso, volendo «vivere in celibato per il rimanente della loro vita». 

Da una famiglia così pia e serafica chiunque si sarebbe aspettato un santo, e il santo c’è stato nella persona di Giuseppe Maria (nato nel 1649), figlio del duca Giulio e della baronessa Rosalia Traina. 

Seguendo le orme dello zio Carlo, Giuseppe Maria Tomasi abbandonò ogni cosa e si fece religioso, entrando nel monastero dei padri teatini, a Palermo. E di qui a qualche anno andò a Roma per continuare gli studi di filosofia e teologia. 

Chi volesse rendergli visita, trovandosi a Roma, può portarsi nella chiesa di S. Andrea della Valle. Qui in una cappelletta della fiancata destra riposano i suoi resti mortali. 

Non saprei descrivere quale fu la mia impressione andando la prima volta a rendere omaggio ad un si grande concittadino. So soltanto che sembrava come chi, dormendo, è in balia di un piacevole sogno, e la sua espressione è serena, soffusa di gioiosa dolcezza. 

A volte mi chiedo dove siano andati a finire la santità e il timore di Dio degli antichi miei concittadini, ora che il paese è noto e conosciuto esclusivamente per i fatti e i misfatti che vi succedono. Chissà, forse per una rivalsa delle forze demoniache che nei tempi passati non avevano mai avuto il sopravvento o, forse. per la confusione che nella gente c’è tra ciò che è bene e ciò che è male. Ma, intanto, spesso si sconfessa la ragione e si rifiutano certe norme del vivere civile. 

Il paese della mia infanzia differisce di molto dall’odierno «Comune d’Europa», come recita la scritta turistica postavi all’entrata. Ora non lo riconosco più, e mi sento un estraneo tutte le volte che vi ritorno. Certo, lo starne lontano ha influito parecchio. Le cose vengono guardate da angolature diverse, e l’uomo è portato a elaborarle criticamente e a confrontarsi con gli altri, uscendo dal suo piccolo e curando i contatti, indispensabili in una società in continuo cammino come la nostra. Aumentate le sollecitazioni, crescono gli interessi e, vuoi o no, sei portato ad arricchirti culturalmente. Al contrario, quando non ci sono stimoli, tutto rimane fermo, e non c’è niente che contribuisca a farti uscire dal chiuso in cui ti sei cacciato, e vi rimani come farfalla che non sa allontanarsi da una lampadina accesa. 

Eppure qualcosa è cambiata al mio paese. C’è il passeggio, e dal primo pomeriggio fino a sera, una marea di giovani attraversa in lungo e in largo corso G. B. Odierna. Certo, l’evoluzione arriva anche qui, dove in passato bisognava stare attenti a guardare una donna. Subito veniva chiamato in causa l’onore e allora scattavano i ragionamenti chiarificatori e le scuse. Altri tempi, quando, per lo meno, si chiacchierava e tutto finiva lì, bevendo del buon vino sopra i discorsi che si protraevano fino a notte. Ora che il progresso ha mandato in soffitta l’onore, non c’è motivo alcuno di ragionare. E chi sbaglia. paga, perché la giustizia. al mio paese, non sta (nemmeno a parole) nei tribunali. 

Il progresso ne ha fatta di strada! Ci sono al mio paese le vigili, e si fanno sentire, coi loro fischietti, anche se nessuno le tiene in considerazione. E, per chi viene da fuori, è un rischio guidare. Gli stop, i divieti, i sensi unici non sono rispettati, e chiunque ha dalla parte sua la ragione. Ricordo che in uno dei miei sporadici ritorni. dettati più che altro da dovere filiale, una persona, solo perché non le diedi la precedenza, avendo la mia destra libera, mi guardò con due occhioni così brutti che, a pensarci, mi incutono ancora paura. 

C’è il passeggio, ci sono le vigili e ci sono anche i lunghi cortei funebri, occasioni di ritrovo e di chiacchiere che niente hanno da spartire col morto. Ma non c’è una biblioteca pubblica, e manca anche l’ospedale. D’altronde, come si può pretendere di elevare lo spirito, se non c’è la possibilità di curare il corpo? 

I ricordi dell’infanzia mi legano al mio paese, e niente esercita in me una così forte attrazione come i luoghi e le persone che, andandomene, vi lasciai. 

Persone che non ci sono più restano ferme e vive nella mia memoria, e i luoghi che mi videro bambino mi richiamano con prepotenza, quasi come dire: «Ecco, siamo ancora qui, nonostante. Nonostante le caotiche costruzioni che ci stringono sempre più e ci rendono irriconoscibili, siamo noi, il tuo mondo d’una volta! Vieni, soffermati un po’ con noi: Via Turati, Convento, Badia, piazza S. Angelo . . . Adesso è come se non ci fossero più bambini, attratti più che mai dalla televisione. Vieni, e resta un po’ con noi». 

Eppure mi sento un estraneo, ogni qualvolta tomo al mio paese. Quando provo a passare per queste strade e a sostare in queste piazze, è come se non ci fossi mai stato. La gente mi prende di mira, e mi scruta, considerandomi un intruso. Ma quelle piazze e quelle strade mi appartengono e sono là a dire che furono la mia seconda casa e il mio mondo. 

Piazza S. Angelo era il ritrovo dei ragazzini di tutto il quartiere. Qui passavamo tutti i giuochi in rassegna, secondo il tempo e la stagione e, come una moda, duravano poco, perché soppiantati da altri. Ma alcuni rimanevano sempre alla ribalta: quello della mosca cieca, dei coy-boy e gli indiani, del nascondino. Ce n’erano altri particolarmente singolari. Uno consisteva nel catturare più api possibile e liberarle dopo aver attaccato loro un lungo filo alle zampe posteriori. Chi riusciva a farne volare di più risultava vincitore. 

Nelle giornate d’inverno, quando pioveva o l’insistenza del vento non permetteva di stare molto all’aperto. trovavamo riparo in qualche androne, dove – come in un calderone sul fuoco – si raccontava di tutto. Si rientrava in casa a buio inoltrato, dopo che le madri ad uno ad uno chiamavano i propri figli. 

Non dimenticherò mai, tra i personaggi di pubblica conoscenza, Sarvaturi. Non so perché lo chiamassero così. anziché Turiddu o Totò, come di solito viene chiamato Salvatore. Era il banditore del mio paese, il giornale cittadino parlante, il divulgatore delle ordinanze municipali o degli avvisi che le autorità davano alla cittadinanza. Sarvaturi, con tamburo e cappello di pubblico ufficiale, si faceva il giro del paese, annunciandosi prima a colpi di grancassa e poi gridando il bando ai quattro venti, in un dialetto infarcito qua e là di vocaboli italianizzati. 

Il rullo del tamburo era il richiamo di noi ragazzi che scendevamo subito in campo e, con tutto ciò che poteva servire a far rumore, improvvisavamo un coro. E seguivamo Sarvaturi per tutto il quartiere, fino a quando, stanchi di gridare, non tornavamo ciascuno nel posto da dove eravamo venuti. 

Sarvaturi era un uomo sui generis: bonaccione, facile allo scherzo ma pronto a montare su tutte le furie! Ed erano guai. Dovevi dartela subito a gambe, se non volevi buscarti una sassata in testa. Per questo, lo accompagnavamo coi nostri tamburi improvvisati, ma poi dovevamo ascoltarlo in silenzio, se volevamo tenercelo buono. 

Spesso Sarvaturi prestava la sua opera a privati che, avendo smarrito un porco, una capra o un tacchino, ricorrevano a lui perché, rendendo pubblico lo smarrimento, qualcuno si facesse avanti e restituisse al padrone l’animale. In cambio era previsto un premio per chi l’avesse trovato, a parte la tariffa prevista per il banditore che, in ogni caso, veniva pagato. 

Non ho saputo più niente di Sarvaturi, e non so quale fine abbia fatto. Proverò a chiedere notizie e. state certi, ve ne parlerò qualche altra volta. 

È curioso il mio paese. non è vero? 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 33-37




 A Jerry Essan Masslo 

Jerry, amico mio, 

perdonami il lungo silenzio. Sei urtato, lo so! Dopo il fattaccio e la gran cagnara che s’è fatta, tutto sembra sia rientrato nella normalità, come se niente fosse mai successo. Anzi a dir la verità, i giornali se ne sono occupati per un po’, a causa della Chiesa Battista che, facendoti un suo adepto, ha denunciato l’egemonia cattolica per averti imposto quel rito funebre. 

Sono situazioni da cui una persona esce sconcertata: gli speculatori colgono tutte le occasioni e le fanno buone per imbastire ogni sorta di discorso che dia loro credibilità e potere, a scapito della povera gente o di chi non può difendersi. Come te, d’altronde! Cosa si aspettano. che venga fuori a dir la tua? 

E sei urtato Jerry, per quello che ti hanno fatto, per come ti hanno trattato e continuano ancora a fare. È valso a qualcosa il tuo sangue innocente? Tu che eri desideroso solo di un po’ di giustizia e di tanto amore, ora proverai grande commiserazione per questa meschinità che è negli uomini; ti ripugnano le loro bassezze, così come la malvagità che tante volte ti aveva visto soffrire: le morti violente dei tuoi cari, un esilio silenziosamente vissuto, lontano dalla tua terra e dalla gente assieme a cui eri cresciuto, l’accanimento dell’odio fratricida … 

Eppure, so cosa pensavi quella sera d’agosto: un mondo che ti avrebbe socialmente riscattato! E questo chiedevi: il diritto alla vita senza discriminazioni. Disteso su una brandina sgangherata, la tua mente volava al paese d’origine, così vario nei colori, così diverso nella vegetazione, così ricco che, se non fosse per l’ostinata apartheid, potrebbe competere a pieno titolo con i Paesi europei più industrializzati. Pensavi a ciò che ti era stato negato solo perché ti eri battuto per la parità dei diritti; e non potevi restare certo indifferente al solo pensiero che i bianchi spadroneggiassero, a scapito dei fratelli negri costretti a vivere una vita di stenti nei lavori più duri e, per di più, considerati di seconda classe. E volevi che gli uomini fossero veramente umani, nel rispetto dei valori più semplici e profondi al tempo stesso, non addossando agli Africani la sola colpa di essere scuri di pelle e per ciò segregandoli e non privilegiando i bianchi che, solo perché tali, vogliono arrogarsi la superiorità. 

Mi chiedo: com’è possibile che ancora sussistano queste differenziazioni? Addirittura, in certi Paesi – come nel tuo – il razzismo è legalizzato, quasi a voler togliere dalla coscienza dei singoli il complesso di colpa che tale pratica genera; in altri lo spettro razziale è vivo e vegeto, e il suo spiritello s’insinua là dove apparentemente tutto sembra vivere in pace. E noi non potremo mai dimenticare le votazioni antitaliane tenute qualche anno fa in Svizzera, l’accanimento della Germania contro i Turchi, della Francia e dell’Italia nei confronti degli immigrati provenienti dalla vicina Africa. 

L’Europa che nel corso dei secoli ha dettato leggi in materia di civiltà, ora ha da fare i conti con insorgenti forme di razzismo che fanno veramente pensare. Per non andare troppo lontano, l’Italia, a più di cent’anni dalla sua unificazione territoriale, assiste a «lighe» politicamente organizate contro i «terroni», segno che l’unificazione vera e propria ancora non si è avuta, ea niente è valso lo sforzo dei tanti uomini che vi hanno lavorato. Quando in una città come Torino si legge «Non si loca a siciliani», o in una Milano esiste ancora il «Vietato l’ingresso ai meridionali», città dove – lo sanno bene tutti i settentrionali – enorme è stato ed è l’apporto degli Italiani del Sud, i commenti vengono da sé. 

Amico, come vedi, la discriminazione s’annida dappertutto; nelle scuole, per le strade, nei bar, e noi, presi come siamo dai nostri interessi, non ce ne accorgiamo o, meglio, non ci rendiamo conto che, così agendo, coltiviamo un terreno che a lungo andare potrebbe franare. L’Italia – mi si dice – non è stata, poi, tanto razzista. Vero. Durante il ventennio, grazie anche all’influenza della Chiesa, non si ebbero quegli eccessi che in Germania culminarono nell’uccisione di una gran moltitudine di Ebrei e di zingari. Eppure da noi 

c’è un’insofferenza che via via s’è manifestata e si è accentuata negli ultimi decenni, da quando, insomma, nelle piccole città o nelle metropoli, sono sorti grandi complessi popolari – con tutti i problemi che si portano dietro – privi dei servizi più elementari, spesso incontrollabili e, perciò, facili preda di delinquenti e uomini senza scrupoli che vogliono ad ogni costo arricchirsi alle spalle degli altri. In ambienti del genere, viene praticata ogni sorta di violenza, e non solo gli scippi e le rapine sono di casa, ma sono anche frequenti le aggressioni ai deboli, agli handicappati e alla gente di colore. A parte il tuo, che ha toccato veramente il fondo della vigliaccheria più spietata, è recente il caso di quella giovane madre negra che, tornando dal lavoro da uno dei quartieri periferici di Roma, viene malmenata e costretta a scendere dal mezzo pubblico proprio perché negra. Aberrazioni isolate, senza dubbio, ma non per questo meno pericolose. Ad esse già sul sorgere, vanno trovati i rimedi, e solo così si potrà evitare il peggio. 

Lo Stato con le sue istituzioni e i mass-media devono adoperarsi perché si crei nel cittadino una coscienza di fraterna solidarietà fra tutti gli individui, senza alcuna distinzione di razza o di religione. È quanto di più umano si possa sperare. Messa da parte, e per sempre, la famigerata superiorità dell’uomo bianco. che non è nemmeno il caso di prendere in considerazione, il problema va posto entro i termini della fortuna: questi nostri fratelli, vicini di casa, tra l’altro, per questioni storiche e ambientali, sono stati meno fortunati di noi ed ora, più che mai, ci chiedono aiuto, stanchi come sono di vivere nella miseria e nello sfruttamento. 

Un giovane africano, l’altra sera, per televisione, parlava della situazione di disagio in cui si vengono a trovare gli immigrati di colore in Italia e non riusciva a spiegarsi questo trattamento di distacco proprio da un paese che ha sempre allacciato rapporti di amicizia e di commercio con l’Africa e tuttora trae vantaggi dall’emigrazione di tanta sua gente all’estero. Ed è anche vero. I Paesi industrializzati e l’Italia devono accettare i lavoratori di colore, così come dai Paesi europei e d’oltremare vennero accolti e accettati i nostri emigranti per accudire ad umili e faticosi lavori, proprio quei lavori che ora fanno da noi gli Africani. 

Sono d’accordo con te, Jerry, quando dici che gli uomini del Continente nero non tolgono lavoro a nessuno. Per la maggior parte dei casi, questi immigrati vengono utilizzati o in fatiche ove si richiede tanta manodopera o in altre prettamente tradizionali che i nostri lavoratori non vogliono più praticare. Il benessere, per la maggior parte, – perché in Italia c’è ancora gente che vive nella miseria e tra gli stenti – ha portato anche questo: il rifiuto di quelli che vengono considerati. da che il mondo è mondo, lavori umili, umilissimi. La corsa verso la città ha spopolato, come mai in passato, le campagne, ed è qui che vengono maggiormente utilizzati i lavoratori di colore. Portano al pascolo greggi, raccolgono frutta, vendemmiano. Di tutto fanno questi poveri diavoli! Basta inizialmente guidarli, e allora trovi il manovale, il giardiniere, il marinaio, il tutto fare insomma, e il commerciante che va in lungo e in largo dappertutto: il «vu’ cumprà». A negri è affidata la cura dei boulevards parigini, Negri trovi a Londra e un po’ dappertutto. Si accontentano di poco, con la sola sacrosanta richiesta di vivere anch’essi umanamente la loro vita. 

E così noi bianchi ce ne serviamo e poi li ghettizziamo. senza per niente curarci della loro presenza. Li mettiamo da parte come oggetti da riutilizzare alla bisogna, mentre – più degli altri – necessitano di comprensione e di amore. Se non altro, consideriamoli per quelli che sono, uomini che cercano, senza togliere niente a nessuno, un po’ di spazio per acquisire anch’essi una loro dignità. 

Se facessimo almeno questo, Jerry, certamente ci troveremmo sulla buona strada e tu, per lo meno, non saresti morto invano! Sì, se accettassimo questa gente con quel tanto di umanità che è dovuta agli uomini, non assisteremmo a certe escandescenze, frutto di eccessiva birra, o a litigi che tra essa si verificano a volte per futili motivi. Ma è sempre un modo, come un altro, per reagire ai soprusi, allo sfruttamento, alle meschinità che spesso deve subire. In ogni caso, non c’è in essa certa spavalderia di Italiani all’estero che non sempre si sono mostrati riconoscenti presso i Paesi ospitali. 

Caro amico, male, veramente male ci rimasi quel mattino di marzo del ’75 quando, trovandomi nel bar della stazione ferroviaria di Karlsruhe, un gruppo di Italiani, ultimato il turno di lavoro e consumata la colazione, cominciò a schiamazzare. gettando a destra e a manca tazze e piattini, imprecando «bastardi» ai Tedeschi. A niente valsero le proteste del gestore che, ad un certo punto, fintosi indifferente, diceva tra sé parole di biasimo e di riscontro in un gergo incomprensibile. Fu la polizia a disperdere in malo modo quell’ingrata gentaglia. Me lo ricordo ancora quel mattino – la primavera era già alle porte, la temperatura mite – me lo ricordo. 

Eppoi, da più parti si predica un nuovo umanesimo. Ma quale? L’uomo nella corsa verso il benessere è impazzito, non domina più se stesso, ha messo da parte gli antichi valori, dandosene altri, inumani ed effimeri. 

Scusami, Jerry, se mi sto dilungando. Non vorrei tediarti con le mie chiacchiere. Ma tu mi guardi con indifferenza, come se la discussione non t’interessasse. Mi agito. A volte non trovo le parole: è il mio io che, sconvolto, non mi dà pace. Spesso mi chiedo: perché nascondere la realtà delle cose? A fatti avvenuti, c’è la falsa pretesa di volersi dare delle risposte risolutorie, come se si volesse far tacere la coscienza. Non si ricercano nemmeno le cause e, nel caso tuo, c’è stata la volontà di addossare ad altri uomini di colore il tuo assassinio. 

Gli abitanti di Villa Literno avrebbero voluto uscirne indenni: si preoccupavano della rispettabilità della cittadina. Lo stesso parroco del paese non ha fatto un discorso coerente, e le sue parole palesano un certo disagio. Il fatto è che ci si ostina tanto a nasconderci dietro ad un perbenismo che non regge ai primi scossoni e ci riveliamo spesso vuoti e inconcludenti. 

Vorresti, caro amico, che per lo meno il tuo sangue servisse a qualcosa, a far capire agli uomini che apparteniamo tutti ad un’unica grande famiglia, dove il rispetto e l’amore verso il prossimo, al di là delle razze e del colore, devono star di casa. So che non chiedi vendetta; ma, purtroppo, non ci sarà uguaglianza e giustizia sino a quando permarranno nell’uomo sentimenti di odio e di prevaricazione, rimanendo così indifferente ai problemi degli altri. 

La strada da seguire non è poi tanto semplice, Jerry! Non per questo bisogna desistere: occorre adoperarsi perché i governanti prendano seriamente in considerazione il problema – di problema qui si tratta – la cui soluzione rimuoverebbe tanti ostacoli e dissolverebbe molte perplessità. 

L’estate scorsa, in Italia, per esempio, si sono inscenate manifestazioni contro i «vu’ cumprà» e tanti commercianti sono caduti veramente nel ridicolo. Ebbene, per il momento assisteremo a proteste e tafferugli del genere, ma cosa si verificherà nel giro di qualche anno quando – statistiche alla mano – la popolazione diminuirà e gli immigrati aumenteranno a dismisura? A questo punto non rimane che affidarci al buon senso dei nostri governanti e a quanti operano disinteressatamente per il bene e la pace sociale. 

Il rammarico per la tua triste fine è stato grande, Jerry. La buona e brava gente – ce n’è tanta ancora – è rimasta scioccata e non si spiega come fatti del genere possano ancora verificarsi. Eppure non c’è che rassegnarsi; vuol dire che doveva andare proprio così perché le cose potessero veramente cambiare, in meglio s’intende. E i primi frutti credo si stiano raccogliendo. Il fatto che si parla più insistentemente che non nel passato dei Negri in Italia, fa pensare che qualcosa già si sta muovendo in favore e che il tuo sangue non è stato versato invano. Me lo auguro di cuore, amico mio. Allora la tua anima potrà finalmente trovare pace e il sorriso ritornerà sui volti abbrutiti dalle fatiche: sarà come se non fossi mai morto, e noi ti ravviseremo nei tuoi che sono anche nostri fratelli. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 39-43.




 I TUOI OCCHI 

I tuoi occhi 
dietro le finestre scure: 
avidi spietati lucidi 
come la lama di una spada di mercurio 
che illuminano il chiaroscuro. 
I tuoi occhi 
su un campo senza orizzonte 
che attirano la selvaggina 
per lo sterpeto dei sofismi. 
I tuoi occhi 
che frusciano come la seta 
dopo una battaglia perduta. 

Igna Vasile 

(Poeti romeni d’oggi, Palermo, Ila Palma, 1989) 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 33.




 Ddu paisi arruccatu 

 Ddu paisi arruccatu 

(A Salvatore Vecchio) 

Arrassu ri muntagni ri Palermu, 
arruccatu comu stidda ri carta, 
c’è un paisi chin’i suli 
chi tribbìa i so jurnati. 
Chianci, riri, 
si scuòtula, comu cani vagnatu, i so rulura 
e abbrazza ‘nta chiazza i picciotti allèiri. 
Si nni sta sulitariu comu gran signuri 
e ri drancàpu si nni pria ri so culura. 
“Saecula et saeculorum” 
hannu passatu supra r’iddu 
faciènnuni a so storia 
cu jurnati r’acitu e mieli; 
ma iddu è siempri ddà, 
tisu com’un picciuttieddu, 
mientri tanti figghi so, 
straminati munnu munnu 
pi circari u paraddisu, 
gira, vota e firrìa, 
vivi o muorti, hannu riturnatu ddà, 
‘nte so vrazza. 

 

Quel paese arroccato.
Distante dalle montagne 
di Palermo, /arroccato come stella di carta,/ 
c’è un paese di sole/che miete le sue giornate./ 
Piange, ride,/rimuove, come cane bagnato, i 
suoi dolori/e raduna in piazza i giovani allegri./ 
Se ne sta solo come un gran signore/e dall’alto 
si rallegra dei suoi colori. /”Saecula et 
saeculorum”/ sono passati sopra di lui!scrivendo 
la sua storia/con giornate di aceto e miele;/ma 
lui è sempre là,/dritto come un giovanotto, 
mentre tanti figli suoi,/dispersi per ti mondo/ 
per cercare il paradiso,/gira, ruota e rigira,/vivi 
o morti, sono ritornati là,/tra le sue braccia.

Mario Tornello

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pag. 18.




 La mia vita col Re Farouk 

Lunedì 15 gennaio 1990 è stata ospite della trasmissione televisiva di Canale 5 «Maurizio Costanzo Show» la Principessa Irma Capece Minutolo, famosa nella sua qualità di cantante lirica e per la sua relazione con il Re Farouk d’Egitto, che riempì, a suo tempo, le cronache di tutto il mondo. 

Nella trasmissione la Minutolo, oltre a parlare di una sua prossima tournèe di concerti in tutta Italia, si è soffermata sulla sua autobiografia dal titolo: La mia vita col Re Farouk, recentemente scritta con la collaborazione del poeta e scrittore Giovanni Salucci, per la cui opera la stessa ha avuto parole di grande stima e ammirazione. Ha ricordato di aver molto apprezzato la prima volta Salucci, per aver letto un suo bel romanzo di amore, La lampada rossa, edito dalla E.I.L.E.S. (Edizioni Italiane di Letteratura e Scienze) di Roma. Dopo la lettura del romanzo, la Minutolo ha voluto conoscere l’autore e l’ha pregato di aiutarla a scrivere la sua autobiografia. 

Incuriositi, siamo riusciti a procurarci in anteprima il testo di questa autobiografia, non ancora edita e per la quale sarebbero in corso contatti con un editore arabo, proprietario anche di una vasta rete di periodici e con un editore francese. Abbiamo letto il dattiloscritto nel timore, a dir la verità, di trovarci di fronte ad una storia piccante o addirittura scandalosa, come la vicenda in passato fu presentata dai mezzi di comunicazione di massa. Con enorme sorpresa, invece, ci siamo trovati di fronte ad una bellissima ed esemplare storia d’amore: quella di una ragazza sedicenne, che si innamora di un Re in esilio, di venti anni più grande di lei, e che lo segue per nove anni (fino alla morte di lui) con estrema dedizione e fedeltà, senza interessi di alcun genere, se non quello dell’amore e dell’abnegazione. 

Una ragazza che, dopo la prematura scomparsa del protagonista, si ritrova, per una serie di complesse vicende, sola, senza sostegno, alle prese con una dura lotta per l’esistenza, con un fardello pesante che, a quell’epoca, suonò soltanto disapprovazione e condanna. 

Senza risentimenti e senza rancore, ma con un ricordo denso di contenuti fortemente ideali, la Irma Capece Minutolo ha saputo trovare, nella musica e nel canto, una nobile ragione di vita. Al di là, però, della bella storia d’amore e dei tanti episodi curiosi e interessanti, abbiamo scoperto, nel libro, anche motivi di notevolissimo valore storico, come nell’incontro con Papa Giovanni XXIII (nel quale emerge la rivoluzionaria visione di questo grande Papa su alcuni contenuti dci suo pontificato e del ruolo della Chiesa tra gli uomini) e come nelle considerazioni sulla morte di Farouk, le quali non escludono l’ipotesi di un assassinio politico, In difformità alla versione ufficiale, che parlava di morte naturale per emorragia cerebrale. A questo riguardo è doveroso precisare che la Irma Capece Minutolo intende dissociarsi (lo dice chiaramente nel libro) dagli interrogativi e dai sospetti che Giovanni Salucci fa sorgere con la sua attenta ricerca e di cui lo stesso si assume la personale ed esclusiva responsabilità. Ancora una volta la Minutolo, con tale comportamento, dimostra di avere vissuto la sua particolare storia con serietà estrema, rifuggendo sempre dalla tentazione di dare ogni occasione agli altri, di chiasso, di scandalo e di strumentalizzazione della propria vita privata. 

Con la pubblicazione di alcuni brani, dietro l’autorizzazione degli autori Irma Capece Minutolo e Giovanni Salucci. intendiamo offrire ai nostri lettori, In anteprima, un documento di grande valore umano e storico degno di essere additato all’attenzione generale. 

LA FUGA DA NAPOLI 

La macchina che si allontanava da Napoli segnava il termine di un’altra fase della mia vita. La fanciullezza era veramente finita. Nelle due ore di macchina, da Napoli a Roma, gli occhi dell’anima rividero, come in una pellicola, il periodo passato fino allora e intravedevo quello avvenire. 

Ero felice di andare incontro al mio destino, ma il distacco reale da tutto il mio mondo abituale non fu indolore. Nell’istante preciso in cui presumevo che avrei soltanto sorriso, mi assalì una grande malinconia, mi calai nell’anima di papà. di mamma, dei miei familiari e vi vidi sconforto, tanta rassegnazione. Mamma sapeva, papà intuiva, gli altri osservavano lo svolgersi degli eventi. 

Nessuno di loro, comunque, mi aveva lasciato con la gioia della certezza, per me, di una vita migliore, lo stessa, pur nella consapevolezza del coronamento del mio amore, cominciai a chiedermi se ero stata giusta, generosa: se avevo compiuto tutto il mio dovere di figlia e di sorella o se non, piuttosto, avessi seguito semplicemente l’impulso del mio egoismo e della mia spregiudicatezza. 

Avevo abbandonato tutto per inseguire un mio sogno sincero e mi ritrovavo sola, abbandonata, a mia volta, nel momento più delicato del mio cammino, in cui avrei avuto tanto bisogno della solidarietà e del calore affettuoso dei miei cari. 

Il conforto di una macchina di lusso acuì, anziché attutire. la mia sensazione di abbandono. 

Non era colpa di nessuno. Avevo fatto le mie scelte. semmai, contro il volere e il parere di tutti. 

Era solo mia la colpa, se c’era una colpa nelle scelte, di cui in quelle ore avvertii la pesante responsabilità. A mano a mano che mi allontanavano da Napoli, si ingigantiva in me l’amarezza della privazione di innumerevoli ricordi, di cui, mentre sparivo, assaporavo. come forse non avevo mai fatto prima. la dolcezza. 

Ricordi che, forse, non si sarebbero ripetuti e di cui non avevo apprezzato, al momento giusto, il grande valore. Non avevo avuto il tempo di gustare la felicità che viene spesso dalle piccole cose e già ne era vivo il rimpianto. 

Le circostanze degli ultimi mesi erano state così insolite per me, tanto da cancellare, con violenza, la fanciullezza, già prima che fosse matura. 

Una conquista, una sconfitta, una condanna? Non lo sapevo ancora. 

Io andavo incontro al mio destino con malinconia, ma anche con tanta fede. Chiedevo perdono, nell’intimo, a coloro ai quali avevo fatto involontariamente del male e pregavo il cielo che non sfogasse il suo eventuale rancore su una creatura che, tutto sommato, aveva il solo torto di amare. 

Purtroppo, quando gli amori da rispettare sono tanti, è difficile indovinare a quale di essi spetti la precedenza. 

Io l’avevo data, per inclinazione spontanea, senza calcoli, a quello più gravido di incognite e di pericoli. […] 

Alla fine di gennaio del 1958 tornammo a Grottaferrata dal lungo giro in Europa. 

Mancavano pochi mesi al compimento del mio diciottesimo anno di età. Aspettavo quella data con una certa ansia. ma non sapevo neppure io perché. Percepivo che doveva succedere qualcosa, ma che cosa con precisione mi sfuggiva. Avevo sentito dire che avrei raggiunto la maggiore età. Forse per la legge egiziana era così. Non lo so. Ma in Italia, allora, la maggiore età si raggiungeva al 21° anno. Eppure spesso quella data veniva indicata come una tappa importante della mia vita. Si insisteva tanto su quel particolare. che finii anch’io per convincermi, più per far piacere agli altri che a me stessa, che doveva essere per forza così. Prima di quella data, comunque, accadde un fatto che ha lasciato un segno nella mia vita. 

Ero seduta in un angolo appartato del giardino della villa, sotto l’ombra di una magnolia. Avevo voglia di stare sola. Ero presa da un momento di mestizia, di cui non sapevo rendermi conto. Spesso ero assalita, il più delle volte all’improvviso, da momenti di malinconia. Forse per un bisogno di fare. di tanto in tanto, nelle pause di una vita molto movimentata, il bilancio della mia esistenza. Avvertivo in essa, pur nella spensieratezza dell’età, dei vuoti, che mi spingevano a meditare, a riflettere sul mio passato, sul mio presente e sul mio futuro. 

Spesso non ero soddisfatta di me stessa. Vedevo nella mia vita ampie zone d’ombra, che nulla riusciva a dissipare, cercavo di allontanarle, tuffandomi maggiormente nelle distrazioni che il ménage con Farouk mi offriva. Ma, anziché allontanarle, la ricerca affannosa di diversivi, le ingigantiva, facendomi piombare in stati di scoraggiamento, di prostrazione, quasi di disperazione, dai quali mi riavevo con fatica. 

Quel giorno, sotto l’ombra di quella magnolia, stavo vivendo uno di quei momenti sconsolati, quando fui riportata ad una realtà completamente diversa da un’apparizione, che mi sembrò miracolosa, tanto la vissi intensamente e con uno slancio improvviso dell’anima, che mi fece ritrovare quasi le ragioni valide di una esistenza, che troppo spesso ormai avvertivo, dentro di me, come inutile, nonostante i bagliori e i colori di avvenimenti apparentemente ricchi di colpi di scena e di emozioni. 

Un bambino bellissimo, che poteva avere cinque o sei anni, spuntato come per incanto da dietro una siepe, stava correndo verso di me, mentre gridava «mamma, mamma, mamma». 

Non ebbi neppure il tempo di domandarmi cosa stesse succedendo, che già il bambino mi era saltato al collo, continuava a chiamarmi «mamma», mi baciava e mi carezzava con violenza. Sembrava che avesse ritrovato un tesoro perduto e che fosse convinto di non trovare più. 

Dopo avere sfogato la sua violenza con le carezze e con i baci, rimase aggrappato a me, deciso a non lasciarmi più. 

– «Mamma mia, mamma bella, perché sei stata lontana tanto tempo? Io ti aspettavo e tu non venivi mai, perché? Adesso non devi lasciarmi più. Me lo prometti?» 
– «Sì. te lo prometto, non ti lascerò più, bello mio. Ti voglio tanto bene. sai?» 
– «Vieni a giocare con me a nascondino?» 
– «Sì. mi piace tanto. Chiudi gli occhi contro quell’albero e conta fino a 10. Io mi nascondo e tu vieni a cercarmi». 
– «Non te ne andare però. No, no – ci ripensò -. Non voglio giocare a nascondino. Tienimi per mano. Passeggiamo insieme». 

Ero enormemente commossa. Le effusioni così forti e sincere di Fuad (si chiamava così il figlio più piccolo di Farouk, avuto dalla seconda moglie Narriman Sadek) mi avevano colpito profondamente. 

Pur nella rapidità delle sequenze dell’incontro inaspettato. in un attimo mi immedesimai tanto nel ruolo della vera madre, che riuscii a vivere le emozioni con la stessa intensità e la stessa purezza. 

Mi sentii sua madre e lo sentii mio figlio. Volli, senza mentire e senza dire la verità, vivere quei momenti, nell’illusione di una verità che non esisteva. Mi augurai, per un momento, che quella illusione diventasse realtà. Desiderai ardentemente di essere, per miracolo, sua madre e che Fuad fosse mio figlio. […] 

La fine di Farouk: morte naturale o assassinio politico? 

Per quanto mi riguarda, non ho alcunché da aggiungere alle dichiarazioni da me rilasciate al giornalista Alberto Libonati e pubblicate su «Gente» del 21 luglio 1975 e di cui ho già parlato nel capitolo Ciò che è stato scritto e detto sulla morte di Farouk. 

Consento, però, che Giovanni Salucci si soffermi su alcuni interrogativi e alcuni eventuali moventi, di cui si assume la totale ed esclusiva responsabilità, alla quale io sono completamente estranea. 

«Non intendo con queste mie parole accusare qualcuno. Pongo solo quesiti che, a suo tempo, né la Irma Capece Minutolo, né altri furono capaci o vollero porsi e che, invece, avrebbero dovuto, ognuno in relazione al ruolo svolto e alle rispettive competenze, sia in Egitto che fuori dell’Egitto». 

Tutto, solo per il rispetto che ognuno avrebbe dovuto avere per la verità e per la giustizia. 

Chi può, avrebbe il dovere, oggi, anche se a distanza di anni, di rispondere a questi quesiti. 

Egualmente, chi ne disponesse, avrebbe il dovere di fornire ogni elemento utile a chiarire i dubbi che da più parti sono stati avanzati sulla morte di Farouk e sui quali anche la Irma Capece Minutolo, ha, volontariamente o involontariamente, contribuito a far cadere il silenzio. 

A lei per prima faccio notare che con troppa sicurezza fece, a suo tempo, certe affermazioni, senza avere elementi inconfutabili dalla sua parte, se non il desiderio di evitare che si speculasse sulla morte di Farouk, come s’era speculato spesso sulla sua vita; di evitare che di nuovo Farouk diventasse motivo di chiasso e non di ricerca seria della verità; di evitare, ancora, che si offendesse il suo ricordo con la soddisfazione di curiosità morbose e con il piacere di sollevare problemi scandalistici, utili soltanto agli speculatori. 

In quel momento – posso capire – il suo stato d’animo le suggerì di buttare acqua sul fuoco, per non assistere al risveglio del veleno della maldicenza, della ingenerosità e della cattiveria. 

Ma, in seguito, passato quello stato d’animo dettato dall’amore, non era più logico che le capitasse di rivolgere a sé stessa qualche domanda, che allora, non era stata capace di rivolgersi? Non avendo dalla sua parte elementi inconfutabili di prova, per scartare con assoluta certezza l’ipotesi di un delitto, non le è mai sembrato di avere commesso dei torti verso Farouk per avere omesso di considerare, anche soltanto a titolo di ipotesi, la eventualità di un delitto? Non ha mai pensato che, Farouk per primo, avrebbe potuto disapprovare il suo comportamento, anche se in buona fede, per desiderare che si facesse piena luce su tutto, anche su semplici ipotesi? Si è mai chiesto di aver fatto o meno tutto il proprio dovere, cercando di soffocare sul nascere tanto categoricamente qualsiasi dubbio? 

Anche se tutto le lasciava supporre che non vi fossero motivi per pensare ad ambienti interessati a sopprimere l’ex Re, non avrebbe, almeno, potuto supporre che certe macchinazioni possono anche essere provocate (come spesso è accaduto per personalità molto in vista) da fanatismo, irrazionalità, gesto, cioè, inconsulto? 

Ammesso che motivazioni serie per l’assassinio di Farouk non esistessero, perché escludere che potessero esservene di riflesso: come strumentalizzazione, tanto per dirne una, di quell’assassinio proprio contro persone e ambienti che non avevano alcuna motivazione per perpetrarlo? 

Certi delitti, si sa, restano impuniti soltanto perché l’apparente assenza di moventi impedisce di percorrere il cammino giusto per arrivare ai colpevoli. Sarebbe doveroso, pertanto, che, in ogni caso, specie per le persone in vista, nulla venisse tralasciato per la individuazione di eventuali moventi delittuosi. 

Perché non considerare, ad esempio, il timore, da parte dei governanti egiziani dell’epoca, che la spartizione e la distribuzione, al popolo, delle proprietà e delle ricchezze della Corona, potesse suscitare la reazione e la ribellione dell’ex Re, che, attraverso suoi emissari segreti, avrebbe potuto rappresentare un ostacolo alle riforme? 

Tale ostacolo non sarebbe potuto diventare elemento sufficiente a giustificare una sua eliminazione? 

Ammesso pure che non si fosse trattato di ostacolo vero e proprio, non avrebbe potuto dar fastidio, ai governanti egiziani, la sola eventuale critica severa e condanna dell’operato, a cose fatte, delle autorità egiziane, da parte di Farouk? 

È proprio da escludere che potesse esistere gente interessata a venire in possesso di eventuali ricchezze di Farouk, per caso sfuggite alla requisizione delle autorità, dopo la sua destituzione e la sua condanna all’esilio? 

Le disavventure della guerra con Israele non avrebbero potuto risvegliare, nel popolo e in una parte dei governanti, nostalgie monarchiche pericolose per i fautori della rivoluzione? 

Non potevano esserci potenze straniere desiderose di ristabilire il precedente «status quo», anche per la salvaguardia di grandissimi interessi che la rivoluzione aveva messo in pericolo? Dinanzi a questo timore, non potevano i governanti ritenere più oppotuno sbarazzarsene, per evitare qualsiasi tentazione nostalgica? 

La stessa lotta, senza esclusione di colpi, tra mondo arabo e mondo ebraico, non sarebbe bastata a creare un terreno favorevole a tutte le insidie, a tutte le ipotesi e a tutti gli intrighi? 

La soppressione di Farouk non sarebbe potuta scaturire anche da un semplice calcolo sbagliato? 

Né era – mi pare – da scartare totalmente l’idea che, in una vita sentimentale movimentata, come quella di Farouk, potessero sorgere ragioni di risentimento, di rancore e di vendetta sia in campo maschile che femminile. 

E il suo mondo degli affari, non avrebbe potuto offrire l’occasione di incomprensioni, di delusioni, di prospettive non gradite, tali da spingere a soluzioni radicali e definitive? 

I moventi, dunque, potevano essere tanti, da non far escludere a priori, come capitò ad Irma Capece Minuttolo, le ipotesi di un assassinio politico. Senza lasciarsi prendere la mano dai sentimenti, la stessa avrebbe dovuto far funzionare di più il freddo e realistico raziocinio e non influenzare alcuno con le sue convinzioni, indubbiamente molto attendibili e autorevoli per l’esterno, dal momento che conosceva intimamente la vita, le confidenze di Farouk. Avrebbe potuto offrire, mentre non offrì, qualche spunto perché si esperissero approfondite indagini. Lei per prima scagionò tutti e insistette perché non si facesse nulla. Proprio lei che doveva essere una delle maggiori interessate acché non si escludesse alcuna ipotesi e non si lasciasse alcunché di intentato per fare piena luce sull’intera vicenda. […] 

– «Non voglio neppure sentirlo. Non farti prendere dalle fantasie anche tu. È morto di emorragia cerebrale e basta. Argomento chiuso. Se i familiari sono convinti di questo, perché non dovrei esserlo io? No. Non voglio neppure sentirlo. A suo tempo i Governi italiano e egiziano hanno fatto certamente il loro dovere». 
– «Non accuseremo nessuno. Porremo soltanto degli interrogativi». 
– «No. Non voglio». 

Si era quasi seccata che io avessi osato tanto. Non ho mai capito quella presa di posizione così dura. Forse ha avuto paura di poter andare incontro a dei guai. avventurandosi in un ginepraio pericoloso. Forse si ribellava al solo pensiero che Farouk fosse stato assassinato. perché la sentiva come una realtà enormemente ingiusta. 

Non è escluso, però, che abbia influito anche un altro fatto: più di una persona pare che, in quell’epoca, l’abbia dissuasa a parlarne, dicendole che si sarebbe potuta cacciare nei pasticci: che i governi italiano ed egiziano avevano fatto tutto ciò che c’era da fare: che era tempo perso recriminare sull’accaduto, che niente e nessuno avrebbe ormai potuto modificare. 

È stato proprio questo particolare che mi ha indotto ad insistere perché consentisse che certi interrogativi venissero posti. Tanto io li avrei posti egualmente, magari al di fuori del libro, giudicando ancora più severamente i suoi scrupoli e le sue paure. Così ha accettato, che io ne parlassi, assumendomene tutta la responsabilità. 

Dopo che Irma Capece Minutolo ha letto queste mie considerazioni, ha esclamato: 

«Io confermo che Farouk è morto di morte naturale. Comunque, ammesso che potessero essere formulati interrogativi, perché dovevo essere io a porli? Perché non lo hanno fatto coloro che erano tenuti più di me? Cioè le sorelle, la madre, le ex mogli, i parenti?». 
«Io – ho aggiunto e concluso – ti inviterei a riflettere. So che hai letto il servizio della giornalista Carla Pilolli, pubblicato su «Il Messaggero» del 24-12-1989, a proposito di un incontro avuto a Parigi con Fuad, figlio del re Farouk. Hai notato che lo stesso figlio ha affermato che il padre «è morto in una trattoria romana, in una maniera niente affatto chiara». Se anche il figlio ha dei dubbi, perché non dovrebbero averne gli altri»? 

Irma Capece Minutolo ha annuito, senza rispondere, ma è rimasta molto pensierosa. 

I. Capece Minutolo G. Salucci 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 47-54.




 PARTITURE 

Suoni -esplosioni 
lacerano la terra con stridore 
straziano corpi, 
musica che frantuma sentimenti 
assenti alla barbarie. 
L’acqua, il fuoco, la terra 
e l’aria, le montagne ed i deserti 
sfuggono al controllo degli dèi . 
Un maestro orgoglioso dal suo podio 
segna con la bacchetta partiture 
macabre. Eppure un coro 
d’angeli intona canti di speranza 
ed acque di cristallo 
rispecchiano nei cuori un divenire 
certo. 
Turiboli a incensare 
desideri d’avvento della luce. 
Rintocchi di campane a coronare 
silenzi. 
Fremiti di colombe a sorvolare 
cattedrali dell’ anima. 
(Un dio perplesso 
anch’esso ora è in attesa.) 

Yeda Prates Bemis

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 44.