MADRE, MADRE

La tristeza u hoyo en la tierra,
dulcemente cavado a fuerza de palabra,
a fuerza de pensar en el mar,
donde a merced de las ondas bogan lanchas ligeras.

Ligeras como pájaros núbiles,
amorosas como guarismos,
como ese afán postrero de besar a la orilla,
o estampa dolorida de uno solo, o pie errado.

La tristeza como un pozo en el agua,
pozo seco que ahonda el respiro de arena,
pozo. – Madre, ¿me escuchas?: eres un du1ce espejo
donde una gaviota siente calor o pluma.

Madre, madre, te llamo:
espejo mío silente,
dulce sonrisa abierta como un vidrio cortado.
Madre, madre, esta herida, esta mano tocada,
madre, en un pozo abierto en el pecho o extravío.

La tristeza no siempre acaba en una flor,
ni esta puede crecer hasta a1canzar el aire,
surtir. – Madre, ¿me escuchas? Soy yo que como alambre
tengo mi corazón amoroso aquí fuera.

Vicente Aleixandre Da Espadas como labios. Vicente Aleixandre (Siviglia 1898 – Madrid 1984), premio Nobel per la letteratura 1977, surrealista, è considerato uno dei maggiori poeti contemporanei spagnoli. Tra le sue opere: Ámbi-to, Pasión de la tierra, La destrucción o el amor, Poemas de la consumación, Dialogos de conocimiento.

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pag. 48.




LA PALABRA

Esas risas, esos otros cuchillos. esa delicadísima penumbra…
Abe las puertas todas.
Aquí al oído voy a decir.
(Mi boca suelta humo.)
Voy a decir.
(Metales sin saliva.)
Voy a hablarte muy bajo.
Pero estas dulces bolas de cristal,
estas cabecitas de niño que trituro,
pero esta pena chica que me impregna
hasta hacerme tan negro como un ala.
Me arrastro sin sonido.
Escúchame muy pronto.
En este dulce hoyo no me duermo.
Mi brazo, qué espesura.
Este monte que aduzco en esta mano,
este diente olvidado que tiene su último brillo
bajo la piedra caliente,
bajo el pecho que duerme.
Este calor que aún queda, mira lo ¿ves?, allá más lejos,
en el primer pulgar de un pie perdido,
adonde no llegarán nunca tus besos.
Escúchame. Más, más.
Aquí en el fondo hecho un caracol pequenisimo,
convertido en una sonrisa arrollada,
todavía soy capaz de pronunciar el nombre,
de dar sangre.
Y…
Silencio
Esta música nace de tus senos.
No me engañas,
aunque tomes la forma de un delantal ondulado,
aunque tu cabellera grite el nombre de todos los horizontes.
Pese a este sol que pesa sobre mis coyunturas más graves.
Pero tápame pronto;
echa tierra en el hoyo:
que no te olvides de mi número,
que sepas que mi madera es carne,
que mi voz no es la tuya
y que cuando solleces tu garganta
sepa distinguir todavía
mi beso de tu esfuerzo
por pronunciar los nombres con mi lengua.
Porque yo voy a decirte todavía,
porque tu pisas caracoles
que aguardaban oyendo mis dos labios.

Vicente Aleixandre

Da Espadas como labios. Vicente Aleixandre (Siviglia 1898 – Madrid 1984), premio Nobel per la letteratura

1977, surrealista, è considerato uno dei maggiori poeti contemporanei spagnoli. Tra le sue opere: Ámbito,

Pasión de la tierra, La destrucción o el amor, Poemas de la consumación, Dialogos de conocimiento.

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 47-48.




IDA

Duerme, muchacha.
Láminas de plomo,
ese jardín que dulcemente aculta
el tigre y el luzbel
y el rojo no domado.
Duerme, mientras manos de seda,
mientras paño o aroma,
mientras caídas luces que resbalan
tiernamente comprueban la vastedad del seno,
el buen amor que sube y baja a sangre.

Amor.
Como esa maravilla,
como ese blanco ser que entre flores bajas
enreda su mirada o su tristeza.
El paisaje secunda el respirar con pausa,
el verde duele, el ocre es amarillo,
el agua que cantando se aproxima
en silencio se marcha hacia lo oscuro.

Amor,
como la ida,
como el vacío tenue que no besa.

Vicente Aleixandre Da Espadas como labios. Vicente Aleixandre (Siviglia 1898 – Madrid 1984), premio Nobel per la letteratu-ra 1977, surrealista, è considerato uno dei maggiori poeti contemporanei spagnoli. Tra le sue opere: Ambi-to, Pasión de la tierra, La destrucción o el amor, Poemas de la consumación, Diálogos de conocimiento.

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pag. 49.




SABINA CARUSO, Sale cinematografiche a Palermo. dalle origini al 1953. Campo, Alcamo, 2007.

I luoghi di uno spettacolo che fiorì a Palermo nella prima metà del ‘900 

Questo libro, oltre che studio storico-architettonico delle sale destinate a cinema, dalle origini a metà degli anni ’50 del ‘900, sembra dare l’idea di un documentario-manifesto per rilanciare, con la rievocazione degli anni d’oro del cinema, l’interesse per questa forma di spettacolo. Il cinema, infatti, ha esordito a Palermo in un momento in cui la città viveva un periodo felice, grazie alla forza trainante della dinastia FIorio che, coinvolgendo l’imprenditoria locale e straniera, aveva risollevato le sorti dell’intera isola, facendo del suo capoluogo una capitale dal respiro rrlltteleuropeo: Floriopoli. 

L’atmosfera brillante della Belle Époque favorì più che altrove il veloce attecchimento del cinematografo, che entrò nelle abitudini dei palermitani modificandone gli stili di vita. Il fenomeno si protrasse anche dopo il declino dei Florio e la grave crisi economica, sociale e culturale che investì la Sicilia a ridosso del primo conflitto mondiale. 

L’evoluzione di una tipologia architettonica per i cinematografi, messa a punto nel 1913-1925, rispecchia il perdurante entusiasmo di quegli anni alimentato da una committenza privata lungimirante (Biondo, Finocchiaro, Utveggio, Bonci, Mangano, per citare i più rappresentativi) che seppe intuire la forza di espansione di questo mezzo di comunicazione e vi investì risorse per assecondare le istanze di un pubblico sempre più esigente e numeroso. 

I progetti per le sale cinematografiche vennero affidati alle firme più prestigiose dell’ epoca, a cominciare da Ernesto Basile che, col Kursaal Biondo, cominciò ad allontanarsi dallo schema del teatro ottocentesco, ponendo le premesse di una ricerca tipologica atta a connotare questi edifici sia strutturalmente sia per il linguaggio architettonico. 

Passare in rassegna attraverso documenti fotografici i vari locali dall’origine sin quando televisione e discoteche ne hanno contratto la frequentazione assume un doppio significato: da una parte far rivivere le immagini di quella che può definirsi un’epopea che ha caratterizzato la nostra storia urbana; dall’altra indurre riflessioni sulla necessità di recuperare quel che resta di un patrimonio storico-culturale che rischia di disperdersi per incuria o disinteresse. Ne ricordiamo i nomi più rilevanti: 

Gran Salone Biondo – Teatro Olympia – Kursaal Biondo – Cinema Excelsior, – Palazzo-Cinematografo Utveggio – Palazzo- Cinema Massimo – Palazzo Finocchiaro – Supercinema – Cinema «II Modernissimo» – Cinema Imperia – Cine- teatro Diana – Cinema Orfeo – Cineteatro Dante – Ci ne-teatro Colajanni – Cinema-teatro Arena Trianon – Cineteatro San Lorenzo – Cinema Gaudium – Cinema Astoria. 

Oltre il profilo architettonico, lo studio ha contestualizzato la società dell’ epoca e i suoi rituali mondani, di cui il cinematografo divenne il luogo più rappresentativo. 

E opportune ci sono parse le rievocazioni di vari interventi nella produzione cinematografica di alcuni gestori e architetti, come Paolo Bonci e Raffaello Lucarelli. 

Per completare il quadro, ricordiamo le principali sale di spettacolo. 

Agria Bellina

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 57-58.




 Giuseppe Palmeri, Giornali di Palermo. Settimanali d’opinione dal dopoguerra agli anni ’80, Ila Palma, Palermo. 

 

Giuseppe Palmeri nei Giornali di Palermo, tra un gelato di scorzonera e cannella sotto le Mura delle cattive, le stigghiole arrostite dello Spasimo e della Kalsa e i primuneddi salati, descrive in maniera puntuale gli odori ed i sapori della sua città, nel trentennio successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Partendo dalle bombe che hanno devastato Palermo nel 1943, passando poi al dopoguerra e all’autonomia siciliana e finendo con la rinascita della città ed il boom edilizio incondizionato, l’autore crea una breccia nella realtà politico-culturale del capoluogo siciliano. Interessante soprattutto il modo in cui Giuseppe Palmeri incrocia la descrizione dello stato in cui giace la Palermo del dopoguerra alla carta stampata locale del periodo; si sofferma soprattutto su I vespri d’Italia (1949-1963), Semaforo (1961-1964), La Rivolta (1965-1968), Il Domani (1957 1985) e Voce Nostra (1968-1980), emblemi di un giornalismo politico palermitano libero e spontaneo. La prosa di Palmeri è quindi una lettura educativa, oltre che piacevole, perché permette di capire, attraverso i suoi settimanali di opinione, una parte importante della storia della città di Palermo in un periodo in cui, secondo l’autore, si predilige «clientelismo, particolarismo e spreco di risorse». 

Agria Bettina

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 56-57.

 




Un poeta fertile e di rara sensibilità

Un poeta fertile e di rara sensibilità  

Giovanni Monti, con il suo A due voci, in poche pagine riesce ad emozionare ed a creare nello spirito del lettore un varco, quel «qualcosa» che fa riflettere sulla vita, sulla morte ed in generale sull’esistenza. 

Il testo è un’unica poesia, anzi un poemetto, di colloquio con il padre malato; un discorso silenzioso, impercettibile con cui sembrano darsi l’addio. 

Versi semplici sia nel linguaggio che nello stile ma che creano un contenuto ricco e denso di significati profondi, di emozioni contrastanti che lasciano un segno nel lettore. 

Poco altro resta da aggiungere sulla raffinata prosodia di Giovanni Monti, se non l’invito a leggere A due voci non solo con la mente ma soprattutto con il cuore ed a lasciar penetrare nel proprio spirito la dolcezza e insieme l’amarezza dei suoi versi. 

Bettina Agria

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 63




FILIPPO GIGANTI, Ritorno a Jaffna, collana di narrativa «Meridiana», Ila-Palma, Palermo 1993, pp. 352.

Ci sono tragedie che, volutamente, vengono ignorate e non fanno più notizia, non essendo collegate a quegli interessi di cui si fanno garanti, forse nel proprio interesse, le grandi potenze mondiali. Il genocidio operato da più di un quarto di secolo nei confronti della minoranza di etnia tamil, da parte del governo cingalese di Sri Lanka è una di queste tragedie. 

Con il romanzo Ritorno a Jaffna, Filippo Giganti ha cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema dei Tamil che, in una penosa diaspora, hanno lasciano la loro «Isola splendente», cercando rifugio in altre parti del mondo. Innestandosi sulle vicende di alcuni componenti della comunità vivente a Palermo, l’autore, in prima persona, riesce a condurre per mano il lettore da questa terra di immigrazione a quella di origine con una prosa viva e scorrevole che illustra una vicenda carica di avventure, in cui decine di personaggi, ora abbozzati, ora a tutto tondo, scorrono davanti agli occhi del lettore evidenziando problemi personali e familiari, tradizioni e fede religiosa senza che tutto scada nella tentazione della ricerca folclorica. Questa «opera prima» di un apprezzato notaio di professione, che ha sempre coltivato l’esercizio letterario con particolare inclinazione, sorprende per la naturalezza con cui si passa da momenti di forte drammaticità a situazioni di struggente tenerezza, da descrizioni paesaggistiche a intimi approfondimenti. Quei lettori che hanno già dimestichezza con i Tamil, che lavorano nelle loro case o aziende potranno aprire nuovi orizzonti nel reciproco rapporto quotidiano, mentre gli altri, che forse mai ne hanno sentito parlare, potranno apprendere fatti e situazioni ai quali i brevi trafiletti di agenzia, che raramente appaiono sui nostri giornali, non rendono giustizia alcuna. 

Il romanzo è permeato da una costante vena di suspence che suscita tutta una serie di speranze destinate, in gran parte, a rimanere romanticamente inappagate, lasciando il desiderio di un ulteriore complemento, che ciascuno potrà integrare, interpretando a suo modo lo snodarsi degli eventi. E questo è forse il suo maggior pregio. 

Bettina Agria

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 62-63.




Un monastero ortodosso in Oriente e una toccante storia di solidarietà 

Un monastero ortodosso in Oriente e una toccante storia di solidarietà 

Seydnaya è una storia. Seydnaya è un luogo. Seydnaya è amicizia, misticità. Seydanya può essere la storia di chi cerca di capire chi è, chi vorrebbe essere. Il romanzo è ambientato in un monastero singolare che raccoglie donne di religiosità diversa: cristiane, musulmane, ebree vi pregano per la Vergine, perché credono nella sua maternità e credono che «dal Suo grembo passi ogni figlio come ogni speranza del mondo». 

Ci sono due protagonisti e attraverso i loro pensieri. le loro azioni, il loro passato, il lettore impara a conoscerli e ad affezionarsi ad entrambi, seppure così diversi tra loro. Solamente nell’ultima parte i due personaggi si incontrano e basta un solo sguardo per far nascere una profonda amicizia: «Restarono convinti per sempre che in quei primi attimi della loro conoscenza si fossero detti tutto l’essenziale; le parole che quel giorno seguirono furono semplice conversazione, mentre i molti discorsi degli anni successivi rappresentarono la conferma di ciò che avevano provato nell’attimo del loro incontro». 

Il monastero ortodosso tra la Siria e la Terra Santa diviene luogo d’incontro, fisico e spirituale, di questi due personaggi, Gérard e Kurt, e delle loro anime. Due caratteri diversi ma uniti dal destino. Gérard un borghese alla ricerca di un ultimo congiungimento con sua moglie Anna; Kurt un fotoreporter che insegue il successo, la foto perfetta. Entrambi finiscono per trovare a Seydnaya sé stessi e la loro amicizia. 

Pochissime parole sono spese dall’autore nella descrizione del paesaggio, poiché ciò che importa non è l’esteriore ma l’interiore, non l’apparire ma l’essere. Non è il viaggio, né sono le storie dei protagonisti a costituire il cuore del romanzo, quanto piuttosto le loro anime e la loro crescita spirituale. 

Fabrizio Molina usa termini semplici, consueti, ma finisce per strutturarli in discorsi complessi, profondi, che si addentrano nella ricerca dell’ essere. Questo linguaggio, unito all’arcano monastero, contribuisce a creare un’atmosfera mistica, in cui il lettore si trova immerso. Infine, vale sottolineare anche l’obiettivo umanitario prefisso alla diffusione del libro, il cui netto ricavo è destinato ai bambini di «Nessun luogo è lontano-Onlus», di cui l’autore fa parte e che, sin dal 1998, agisce in campo socio-culturale. 

Bellina Agrìa

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 60.




ANNA BELLINA ALESSANDRO, Caminu di la vita, Repertorio dialettale, Ila Palma, Palermo, 2009.

Immagini che rivivono dal passato col sapore della lingua tradizionale 

Anna Bellina Alessandro con il suo Caminu di la vita ci regala un’emozione, un bagliore che riesce a illuminarci, anche se in poche pagine, l’anima. 

Una raccolta di poesie scritte in un dialetto siciliano elegante, usato come lingua maestra per descrivere diversi aspetti della vita quotidiana. 

Particolarmente emozionante è la poesia A Palermu vecchia. In pochi versi l’autrice descrive la bellissima città ed uno dei suoi rituali: l’arrivo de lu gilataru e del suo A st’ura v’arrifriscanu con il quale, in pochi secondi, riesce a radunare una folla di picciutteddi. Sono versi che nella mente del lettore creano un flashback, un ritorno al passato, a quando si era bambini. Chi infatti da piccolo non ha avuto un gelataio preferito e chi non ha corso sudato sotto il sole, così come perfettamente descritto nella poesia, per accaparrarsi il gelato al primo rintocco della campanella? 

Anche La picciuttedda rivela, nel ritmo dei suoi versi, l’ animo sincero della scrittrice palermitana, un po’ come l’occhi ca sunnu lu specchiu di lu cori. In realtà, tutte le poesie sono interessanti, tutte emozionanti e tutte degne d’essere descritte: Miraggiu, Lu latru, Littra a Federicu II Imperaturi … 

Caminu di la vita è un’opera impegnativa come lingua e come tematica, ma semplice e travolgente nella lettura. 

Svelare più di questo non si può … Tocca adesso al lettore scoprire tutto il resto e le emozioni che il Caminu di la vita riesce a suscitare. 

Agria Bettina

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 65.




Vertigine di un equilibrio 

Se tragedia è la presa di congedo, la presa d’atto di una scissione dell’io dal mondo, di una lacerazione nell’io e nel mondo, insomma di una conflittualità non risolvibile, labirintica, Padron ne “I cerchi dell’inferno” (*) tematizza l’umana tragedia ben sopportando quel peso dell’etica che è la volontà di impotenza, pur se, nel funzionamento del testo e nelle sue articolazioni di senso, si avverte il titanismo di un intento che può essere riassunto nel motto di Freud: flectere si nequeo superos, acheronta movebo. Ma mentre Freud postula che la coscienza condiziona l’esistenza, Padron si affida alla parola e non per mimare i ritmi della quotidianità, lesi e inutilizzabili ad affrontare la problematica dell’esistere, ma per dire quelli ottativi della progettazione ove, formalizzandoli, abita e palpita la possibilità della bellezza. Senonché la bellezza è veramente l’esodo da questo mondo, discesa agli inferi: da affrontare ed esperire e da cui risalire (anche a costo di tradire gli occhi di Euridice) – e “i suoi occhi erano luce e tenerezza”1 e “con un’ascia fendettero gli occhi della tenerezza”2, ma padrone del canto, se non “dei mondi / e dell’eternità”3. 

In equilibrio sull’abisso, Padron sta innamorato della notte e della morte che vuole riscattare con la parola. 

La notte che si attraversa in queste pagine non è quella dei romantici, né quella dell’accoglienza: non è né rifugio né riparo, ma luogo ostile, invivibile: una “trappola del tempo”4 ove si perde la coincidenza e la coerenza con se stessi e si resta smarriti e senza identità e l’io non è più certificabile, ma privo di volto e di nome. 

Tanto che, con Agostino, Padron potrebbe dire: amor mortis conturbat me: ma il fascino e l’esperienza della morte – punto d’incontro fra creatività e identità -, il lorchiano gusto di morte, altro non sono che lussuria perché diventano un cupio dissolvi per il quale si rovescia la sentenza dell’Ecclesiaste, onde qui auget dolorem, auget et scientiam. Ed allora, attraversare il dolore è appunto discesa agli inferi ma anche disinganno barocco per il quale si esperisce ciò di cui non si vorrebbe fare esperienza. Percorrere ” I cerchi dell’inferno” significa visitare un luogo non abitabile: un luogo, direbbe S. J. Perse, flagrant et nul comme l’ossuarie des saisons, dove il labirinto è letteralmente smarrimento necessario per avanzarvi. 

Luogo di inappartenenza, perché, pur occupandolo “tra i vivi, /non mi appartengo più”5: dove, poi, “l’ombra è immutabile”6 e non esiste posto “per l’intimo abbandono”7 e “tutto è deserto. / Ormai è senza uscite questo labirinto”8: laborintus che ribadisce “la solitudine che urla”9. E la scoperta della solitudine ne comporta l’assimilazione al labirinto: nel labirinto della solitudine – dove “la memoria dei giorni / è quasi un nonnulla”10 perché “lettere d’amore e i loro progetti / sono ormai indecifrabili per sempre”11, sono “perdute memorie”12- Padron rimane “immobile, identico al silenzio”13, verifica l’asserzione di O. Paz. per il quale soledad y pecado original se identifican. Da questa constatazione prende avvio l’umana tragedia: ma la catastrofe apre al nuovo, è preludio, perché ogni compimento è cominciamento, attesa dell’e-vento e la scrittura di Padron sceglie come statuto quello di orientare, ogni volta in modo diverso, la parola per recuperare la disperazione o per scommettere su di essa e abolirla non già annullandola o rimuovendola. ma trascendendola, facendone una perifrasi della speranza, della “speranza impossibile”14: dire è esprimersi, uscire da sé, spezzare la solitudine. 

L’esaltazione polisemica che succede in questo work in progress fondato sull’ambiguità (nell’accezione e nelle direzioni che Empson imprime a questo termine) e slittamenti di senso, comporta il rischio, non sempre evitabile, di traboccare in un inquinamento semiotico per sovrabbondanza di significati spesso contraddittori e per il quale la metafora, talvolta, si pietrifica in enigma generando l’angoscia delle opzioni possibili. 

In altri termini, questa poesia mentre arriva a sfiorare il mistero e a farsi (quasi) mistica, ripropone anche il sempre latente conflitto fra Letteratura e Linguaggio che in altro non consiste se non nel tentativo perenne di conciliare, in esiti d’arte. facilità di lettura e densità di scrittura, di coniugare trasparenza e occultamento, armonia e allusività, incarnazione e astrazione e, cioè, (insostenibile) leggerezza dell’essere e ineludibile pesantezza del vivere: “quell’immenso affanno/di armonizzare la vita con la parola”15. 

In questa antitesi platonica di lògos e grafé, nel contesto più generale di correlazioni e inferenze che il testo di Padr6n suscita, la lingua viene funzionalizzata a partecipare contemporaneamente a un massimo di realismo e a un massimo di espressività: onde le rotture del ritmo, il variare delle strutture, l’effrazione continua del tessuto lessicale, gli strappi, le trasgressioni, gli eccessi e gli aggiustamenti e accorgimenti strategici della scrittura, finalizzati a spezzare la prigionia della lingua per aderire alla realtà rappresentata e/o immaginata, evitano brillantemente la deriva entropica e la caduta nell’omogeneo o nel monotono. 

In una realtà di segni già interpretati o esausti, Padron inserisce l’implacabile ossimoro della sua autenticità, della sua originalità: la sua esigenza di una diversa ragione del mondo che non sia “solo il pianto, il pianto”16 per onorare l’appuntamento a un luogo dove il tempo si inverta per farsi forma e ritmo – là dove convergono tutte le sirene. Tempo, tuttavia, questo di Padron, che si manifesta come “la lussazione del tempo”17, vale a dire come struttura intem1edia fra quello oggettivo in cui l’Autore è “con mistero e senza ira, / condannato ad esistere, ad essere parte”18: il tempo di Kronos che divora i suoi figli, tempo di distruzione, di strazio e di insufficienza; e quello soggettivo, il vissuto della malinconia e del lutto di aver perso irrecuperabilmente il senso dell’eternità, “nella totale assenza della vita, / … trasformato/nell’eternità morta”19. 

Anche per questo aspetto, Padron riconduce la poesia alla sua organizzata condizione di temporalità organizzata che, cioè, da potenziale si fa attuale in quanto, alludendo a ciò che manca, a ciò che è assente, ne evoca l’essenza e l’attualizza, elide la contraddizione fra vuoto e vastità (nel senso in cui l’intese Rilke) identificandoli e, con ciò, risolve il silenzio nel testo che instaura, traduce il silenzio in parola, forma spuria e scarto del silenzio. 

Perciò i gesti si placano in “una immobilità inestinguibile”20 e si placa il grido che attraversa tutte queste pagine: si placano, componendosi in una catarsi, in una poesia che è recupero del silenzio, “retorica del silenzio”, come dice Genette: eccesso che la parola consegna alla dissipazione. 

Parola che, animando la struttura dei testi, indugia a organizzare epifanie e magie, secondo una personalissima erotografia che non si limita a veicolare significati facendo parlare d’amore la scrittura, ma che producendolo, l’amore, persegue l’evento del segno. Ed è nella semiofania che, pur ubbidendo rigorosamente allo strutturarsi delle condizioni tecnico-espressive che consentono la materialità dello scrivere, la fisicità del prodotto, il testo di Padron suscita imprevisto, crea e innesca attesa, ostende e inventa onde esso e le sue letture non sono mai identici ma di valenza mimetica e di spessore simbolico cosi marcati che, rispecchiandosi reciprocamente, infinitamente riverberano, moltiplicandosi perché “voragine e gelo hanno gli specchi”21 e riflettono nunc et semper – in modo istantaneo e permanente – “la nostra perdita sfrenata”22, sono “abisso del mio inferno”23. 

In questa ottica, la scrittura, fra tensioni e tentazioni, diventa ricerca di un dire che coincida con l’essere, onde la parola, inseguendosi, si fa sull’abisso – vertigine di un equilibrio fra il grido e reco che lo prolunga, secondo un paradigma dell’inconclusione: tragicamente, si conferma l’impotenza pratica del poeta che, come Edipo, non può, non potrà mai, trasformare il cammino in regno. 

La parola, attesta questo libro di Padron, deve tendere a sbocciare in luce, rischiando che essa sia oscura: nil obscurius luce, perché sempre in bilico fra attesa e oblio, fra il dire e il tempo, fra essere e tempo; e il rapporto con la morte – che stabilisce – diventa il suo statuto definitivo: dice – con L. Chestov – le rivelazioni della morte.Perciò a me pare che col titolo “l cerchi dell’inferno”, J. J. Padron non si limiti a sintetizzare, alludendovi, il contenuto del testo senza, peraltro, esaurirlo, sicché l’oggetto ne risulta citato, ma voglia costituire una epigrafe di commento e di compimento: dunque. riassumere i testi riproponendoli in un paradigma dell’attesa, dell’e-vento, promessa di un nuovo inizio, in una conclusione inesauribile dalla quale tutto ricomincia. Perché è là, dalla chiusura del cerchio che tutto ha eternamente, inizio, per ripetersi: e il ripetuto è simbolo di ciò che diventa, della parola (in principio erat verbum) che sempre in se stessa muta: qui – richiamando Paul Valéry – te remords l’étincelante queue/ dans un tumulte au silence pareil. 

Giuseppe Addamo

*. Le note si riferiscono all’edizione italiana edita dalla Libera Università Mediterranea, Trapani, 1990. 
l. La donna della terra – pag. 37 
2. Tra noi crescono – pag. 52 
3. Il sogno del sesso – pag. 39 
4. La trappola del tempo – pag. 50 
5. Non so per quanto tempo – pag. 60 
6. Fetore – pag. 21 
7. Forse il fango stesso – pag. 46 
8. Fetore – pag. 21 
9. La città della morte – pag. 32 
10. Consiglio per il viandante – pag. 64 
11. Dove, dove andare – pag. 57 
12. La trappola del tempo – pag. 50 
13. L’invasione degli atomi – pag. 19 
14. Il grande iride – pag. 34 
15. Un’immobilità inestinguibile – pag. 27 
16. Il pianto – pag. 70
17. L’invasione degli atomi – pag. 20 
18. Quel frondoso peso – pag. 23 
19. Forse il fango stesso – pag. 46 
20. Un’immobilità inestinguibile – pag. 27 
21. Voragine e gelo hanno gli specchi – pag. 68 
22. E se Dio si stancasse di noi – pag. 31 
23. Voragine e gelo hanno gli specchi – pag. 68

 

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 17-21