F. Provenzano, Il Fascio dei Lavoratori di Ravanusa

Caltanissetta, Terzo Millennio Ed., 2001, pagg. 200. 

Il Fascio dei Lavoratori in Sicilia costituisce, pur nella sua breve esistenza (1892-1893), un momento fulgido, irripetibile, della storia isolana e nazionale. I lavoratori siciliani, da sempre abbrutiti e resi schiavi dalle classi agiate, scoprendo l’arma dell ‘ associazionismo, fanno sentire forte la loro presenza e riescono a creare quelle premesse che facevano bene sperare in un riscatto ricco di aspettative. Ma per poco, perché il governo Crispi troncò con la forza delle armi quelle speranze nel 1894, quando pose sotto assedio l’Isola. 

Francesco Provenzano, con questo suo lavoro, che va letto e diffuso ovunque, e soprattutto nelle scuole e tra i giovani, contribuisce a far luce ad una pagina bella della storia del XIX secolo, ripercorrendo, con l’ acume di storico qual è, quel felice momento di Ravanusa (e di tutta la Sicilia), paese agricolo-minerario dell’entroterra agrigentino, con risorse e problemi identici a tante altre realtà isolane, bisognose tutte di un significativo cambio di rotta per uscire dall’arretratezza e migliorare il tenore di vita degli abitanti. 

Il libro consta di tre parti (“Ravanusa nel 1893”, “I Fasci dei Lavoratori in Sicilia”, “Il Fascio dei lavoratori a Ravanusa e gli avvenimenti del 1893”), tutte corredate di altrettante sezioni, con fotografie e documenti che calano nella realtà del momento il lettore e lo coinvolgono. Chiudono il lavoro una ricca rassegna di contributi risalenti agli anni 1987-1994, e un ritratto che lo scrittore e critico letterario Giuseppe Zagarrìo delinea del padre, dott. Vito, che del fascio di Ravanusa fu un accanito promotore e protagonista. 




Il senso di una genuina identità 

F. Costa, Minello ovvero la lotta per la sopravvivenza. Roma, Ellemme, 1990, pagg. 93. 

Vasto bozzetto di vita familiare e sociale di non comune efficacia descrittiva e psicologica. Lungo racconto incentrato sulle vicende di un fanciullo (Minello), la cui anima «in formazione» è il metro di valutazione di ogni cosa. 

È intorno a lui che ruota la famiglia, l’ambiente, la comunità sociale in cui è inserito, non viceversa. È il protagonista, gli altri mere comparse, alle quali sembra assegnato il solo ruolo di mettere maggiormente in risalto la «sua realtà». 

Gli stati d’animo, le paure, l’ansia di scoprire e di conoscere, i rapporti con gli altri, le illusioni, le speranze i sogni, il desiderio di superare, le varie difficoltà frapposte da un’esistenza primordiale, sono, tutti rappresi con delicatezza e rispetto dall’Autore. il quale, attraverso il fanciullo (lo si avverte dappertutto) rivive un periodo particolare della sua vita in un piccolo centro contadino del Sud. ancora «incontaminato», immune, cioè, dalle influenze negative di una civiltà «manipolata» dagli uomini per fini egoistici. 

Non so se le vicende narrate contengano qualcosa o molto di strettamente autobiografico, ma certo è che la partecipazione popolare intensa dell’Autore alle piccole e grandi «cose» di Minello, tradisce, per lo meno, il suo sincero rimpianto per il mondo, lontano nello spazio e nel tempo, ma che ha lasciato uno spazio profondo nella sua anima. 

La storia di Minello, inoltre, offre all’Autore il pretesto di allargare la sua indagine e le sue valutazioni da adulto, su un periodo drammatico e complesso della storia nazionale che si conclude con la 2a guerra mondiale, momento culminante di travaglio e di crisi di valori che cambiano radicalmente la mentalità e il costume degli uomini. 

A condanna di un clima di menzogne e miserie morali, è posto un forte accento sulla innocenza, sulla semplicità, sulle reazioni spontanee e naturali di un ragazzo, che assurge a simbolo di certe virtù e di certi valori, molto più interessanti dell’illusorio progresso di una società sofisticata che ha perduto il senso della sua più genuina identità. 

«E quando gli anni passarono, egli [Minello] crebbe, come ogni essere vivente, e si trovò nella dolorosa necessità di abbandonare i suoi affetti, la sua terra, e di andare lontano, rivivendo spesso in sogno la sua piccola fetta di lotta sostenuta, per sopravvivere». 

Anche la lotta per l’esistenza è rivissuta in termini di poesia e di lirismo che permea come nota dominante non soltanto la fine, ma ogni brano del libro e che sembra rappresentare per l’Autore, come uno sfogo personale, una liberazione, quasi un tributo emotivo ad una parte di vita alla quale è legato da una sottile e struggente nostalgia. È tale la suggestione della magia di certi ricordi che la commozione diventa elegia proprio nel momento in cui sparisce Minello e al suo posto compaiono tanti esseri (non escluso, forse, lo scrittore Costa) protesi come lui, ad andare lontano per rivedere nel sogno quella realtà diventata mito. 

G. Campo

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 56-57




G. Scursi, Liber carminum

Dopo circa quattro secoli di silenzio, è tornato alla luce, ad opera di uno studioso, che da anni sta profondendo le sue energie alla riscoperta ed alla valorizzazione della cultura fiorita nella parte meridionale dell’Italia nei secoli XVI e XVII, ed in particolar modo della Calabria, l’opera completa di Giandomenico Scursi, forse l’ultimo epigono dell’umanesimo e rinascimento napoletano e meridionale in genere. Di Scursi, medico e poeta, aveva in un paio di occasioni soltanto accennato Vito Capialbi, che, nella prima metà dell’800, parlando di avvenimenti e personaggi di Vibo Valentia, ne riportava due brevi carmi di non ignobile fattura. 

La scoperta del manoscritto autografo, cui nei tempi successivi al Capialbi, non si era data eccessiva importanza, e si credeva addirittura perduto, è opera di G. Scalamandrè. Questi, come si è detto, da tempo si sta dedicando alla scoperta ed alla valorizzazione di poeti ed uomini di cultura fioriti in Calabria nei secoli XVI e XVII; e, prima che gli venisse tra le mani il codice inedito di Scursi, si è a lungo occupato di Domenico Pizzimenti, un altro eminente personaggio di Vibo Valentia, alla cui influenza, che risaliva al magistero del Minturno, Scursi deve molto della sua formazione culturale e poetica. L’ ambiente era piccolo e facili le influenze. 

L’ editore, però, non ha fatto solo opera di trascrizione ed edizione del codice; ma ha profuso impegno ed energie per collocare nella giusta luce un poeta ancora ignoto. Con pazienti e faticose ricerche in archivi pubblici e privati, in biblioteche ed opere di coetanei e conterranei, ha tracciato nell’introduzione un quadro vivo e scientificamente ineccepibile dell’ambiente di Vibo Valentia e di Napoli, dove Scursi ha trascorso gli anni più importanti della sua giovinezza e vi ha assimilato quella cultura che rendeva la città partenopea un centro di primissimo piano e meta preferita di artisti e poeti .. 

Oltre all’ambiente del paese natio, allora un centro ricco e fiorente e commercialmente e culturalmente, Scursi è stato suggestionato soprattutto dal fascino della cultura napoletana, dove ancora viva era l’eco del Pontano e del Sannazzaro. Ma prima di dedicarsi alla lettura ed allo studio di così grandi umanisti, Scursi aveva già una buona conoscenza della poesia latina: Virgilio, Ovidio, Tibullo, Properzio e Marziale sono continuamente presenti nei carmi del poeta calabrese. 

I CV Carmi che Scursi ha affidato al suo manoscritto sono vari, nel contenuto, nell’ispirazione e nella fattura: risentono dei diversi stati d’animo del poeta, dell’occasione e, soprattutto, della persona cui sono dedicati. La loro lettura, comunque è scorrevole e piacevole. 

Un accenno particolare merita la traduzione, condotta con gusto e fedeltà, senza indulgere a rifacimenti personali anche là dove l’intervento dello studioso sarebbe stato necessario. Oltre al verso latino, molto spesso di squisita fattura, il lettore può parimenti ammirare la traduzione, opera poetica anch’essa, non indegna di Scursi. 

Orazio Antonio Bologna




La poesia di Buttitta

G. Giacalone, Saggio critico su Ignazio Buttitta, Lalli ed., Poggibonsi, 1987, pagg. 95. 

Rileggiamo con piacere il saggio su Ignazio Buttitta che è stato aggiunto alla ormai vasta fortuna critica del poeta siciliano in Italia e all’estero. 

Il volume fa seguito allo «Ignazio Buttitta» di AA.VV., Novecento siciliano, Catania, 1986. 

Giacalone in sette agilissimi capitoli inquadra l’inconfondibile personalità poetica del Buttitta. Nel primo capitolo l’Autore affronta l’aspetto etnologico (la sicilianità del poeta) e il noviziato poetico suo. Nel secondo tratta questo aspetto etnologico come carica sentimentale del suo impegno politico, mentre nel terzo è visto come base in cui il talento poetico del Buttitta comincia a prendere forma e consistenza di poesia universale. Nel quarto l’Autore rivive in un’ottica comico-grottesca la filosofia buttittiana che ci fa ricordare la posizione pirandelliana. Nel quinto capitolo vi ravvede un’epica popolare, e il sesto tratta del passaggio dall’epica corale alla elegia personale. Il settimo è dedicato alle componenti dell’arte di Buttitta. L’Autore affronta la sua critica con grande obiettività che gli deriva da due motivi inequivocabilmente fondamentali: il primo riguarda l’elemento etnico in quanto egli è siciliano come lo è Buttitta. Questa prerogativa permette al Giacalone di penetrare meglio di qualche altro critico non siciliano le gioie e le sofferenze, i sentimenti e le aspirazioni, le ingiustizie e le delusioni politico-sociali del popolo siciliano. Il secondo motivo riguarda il carattere del suo pensiero di critico creativo, proprio della sua attività spirituale, improntato ad una straordinaria intuizione intellettiva sempre sveglia e pronta a cogliere l’intelligibilità delle cose intuite. La critica del Giacalone affonda nella coscienza del poeta per cogliere il suo «fiducioso anelito alla giustizia sociale» che auspica al popolo della sua Sicilia. 

La poesia del Buttitta «non ha origine o ispirazione letteraria» né si rifà a «schemi o moduli della poesia dotta», non rientra neanche in quei movimenti storico-letterari e neppure in quella corrente del verismo o neorealismo, come può sembrare a prima vista, la quale è più conforme alle sue «strutture narrative». Nasce invece da quelle caratteristiche e condizioni, anche «contraddittorie», che sono il costume, il carattere, il sentire, il folklore, i quali esprimono fondamentalmente e inconfondibilmente quel tratto etnico sui generis che in una parola si definisce sicilianità. 

Osserva il Giacalone che la «qualità eccezionale» del Buttitta come poeta popolare è nell’avere non solo «elevato il dialetto siciliano a lingua d’arte», ma anche «nell’avere universalizzato la sicilianità del suo sentire», cioè nell’avere fatto materia del suo canto il popolo siciliano nella sua «millenaria e contraddittoria civiltà», perché, appunto, nell’urto di tanti popoli succedutesi storicamente in terra di Sicilia, si è formata e consolidata nei millenni quella coscienza popolare che, passata sotto il filtro della eterogeneità etnica dei popoli invasori, è intessuta e vive, sotto la spinta di strutture morali e sentimentali, del costume del popolo siciliano. 

La critica di Giacalone è un contributo non indifferente alla critica letteraria. Forse prima o contemporaneamente a lui erano state riconosciute alcune qualità trascendentali della poesia del Buttitta quali la «universalità», la «verità» e la «bontà» che altro non sono che qualità inerenti alla sua produzione poetica e costituenti quella che si può chiamare la sua «perfectio poetica». 

Ma merito del Giacalone è il riconoscere nella poesia del Buttitta altre qualità, quali la «spes» e la «deceptio» (delusione), che sono elementi costitutivi cioè i «sentimentalia» propri del popolo siciliano storicamente visto e impersonati nello spirito del poeta. Ora, le prime come le seconde qualità costituiscono quelle esigenze logiche e quei criteri della conoscenza in generale di cui non crediamo si possa fare a meno. Il critico mette assai bene in luce il sentimentalismo che si rivela in Buttitta come bisogno di comunicare col pubblico per denunciare le sue impressioni e le sofferenze per le ingiustizie umane e la solidarietà sua con chi soffre o è emarginato. Ma oltre a ciò non mancano note politiche intessute di sentimentalismo, come in «Sariddu lu Bassanu» fino alla satira antifascista. Ecco pochi versi di questo poemetto satirico dal ritmo di ballata popolare «La vita sì fu lorda / ora nuddu la ricorda; / travagghiari un vosi mai: / jocu, vinu, liti e guai; / e la sira li so figghi / comu fussiru cunigghi / si mittivanu a la gnuni / cu li testi a pinnuluni, / e, diuni, li nuccenti / cu la fami ‘nta li denti». 

La «Littra a una mamma tedesca», «La paci» e la «Strage di Portella» testimoniano il «più sincero e universale canto d’amore» e la coscienza di uomo che lancia il suo messaggio di pace e di odio per la guerra. Ma Ignazio Buttitta, non è solo questo. In «Lu silentiu» (1930) la sua poesia è pervasa di un’aspirazione continua alla lirica dotta in un’atmosfera di naturale musicalità. La poesia assurge a valore poetico universale nella poesia popolare ove lo stile epico-eroico ben s’intreccia con quello elegiaco che trova nel «Lamentu di Turiddu Carnevali» (1955) una storia di «Chanson de geste» medioevale che narra l’efferato delitto di mafia di Salvatore Carnevali. 

Il mondo poetico del Buttitta è il mondo della povera gente, dei vinti, che fu anche il mondo del Verga, e la sua poesia non può non essere carica di sicilianità emotiva, capace di trasmettere l’emozione e la commozione con la rievocazione di «memorie d’infanzia o antichi retaggi di miserie ataviche o ingiustizie sociali sofferte dalla povera gente, che nessun governo ha mai lenite». 

Buttitta vede che la storia e il progresso sociale nazionale non coincide affatto con la storia e il progresso sociale della sua Sicilia. Perciò il suo canto vuole essere un canto di denuncia del dramma politico, che è il dramma delle miserie e delle delusioni della Sicilia, dal quale il popolo siciliano vuole liberarsi; e del dramma linguistico, perché la contaminazione della lingua siciliana di italianismi e la parlata di cui fa uso il rapsodo siciliano, nell’intento di recuperare la civiltà siciliana, non è che un «documento di questa violazione estrema della sua sicilianità». Questa denuncia è il messaggio umano che il poeta ha lanciato non solo al popolo siciliano ma agli altri popoli della terra. 

Il Buttitta certamente non meritava l’esclusione operata da Francesco Brevini dall’antologia di poesia dialettale nazionale: «I poeti dialettali del Novecento», edita da Einaudi qualche anno fa. Tanto più che i motivi non sono affatto giustificabili, anzi, hanno scatenato una reazione a catena tra molti studiosi. Brevini si è giustificato affermando’ che «appesantisce l’opera di Buttitta la presenza di elementi sociologici che troppo spesso non riescono a diventare poesia». Ogni opera d’arte si struttura secondo un modo di sentire e di concepire nel quale l’autore cala i vari elementi di cui è intessuta la materia del suo canto. Per questo a noi non sembra affatto valida la sua giustificazione. Non per campanilismo, ma per obiettività di critica. Che dire allora della poesia di Dante, del Verga, del Baudelaire, di Victor Hugo e di tanti altri grandi maestri dell’arte poetica delle varie letterature del mondo i quali nella loro poesia includono anche non pochi elementi sociologici? Così la pretesa del Brevini vuole che tutti i grandi maestri siano egocentrici, ossia che non vedano e non sentano che se stessi, come il Petrarca, il Leopardi, o Gerard Nerval in Francia. Laddove intorno a loro vive e palpita la vita dell’umanità. 

Checché dica il Brevini con la sua critica soggettivistica, non è così. L’esclusione di Buttitta dalla sua antologia è una decisione che indica un limite culturale di estrema gravità e che, tra l’altro, non tiene conto del riconoscimento ufficiale della critica letteraria italiana che addita Buttitta come il più grande poeta popolare della letteratura italiana del Novecento. 

Vincenzo Bilardello

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 50-53




V. Esposito, Poesia non-poesia anti-poesia del ‘900 italiano, Foggia, Bastogi Ed.. 1992. pp. 696.

Edito dalla Bastogi è uscito nel mese di marzo del ’92 un grosso tomo antologico comprendente nella prima parte gli interventi critici di Vittoriano Esposito dal 1949 al 1991. Questo lungo periodo attraversa la storia letteraria di quasi tutto il secondo Novecento, assai movimentato in verità, le cui diatribe e polemiche si sono succedute a ritmo serrato, per quanto la forma poetica si sia messa a morte più volte e più volte si sia fatta risorgere più o meno malconcia. Di qui la sperimentazione, l’avanguardia, la parola innamorata, la parola in libertà del non-senso e del frammento e mille altre innovazioni escogitate per allontanarsi il più possibile dalla tradizione accanitamente ripudiata. 

Il fatto è che proprio la nostra storia umana e civile è stata travagliata per cui l’inquietudine ha condannato l’artista -ad una poetica incerta, … in bilico tra gioco e necessità; …oppositiva rispetto alla tradizione, la poesia del ‘900 è perpetuamente ribelle al passato, insoddisfatta del presente, poco o punto fiduciosa del futuro'(pag.152). 

Il periodo più cruciale della poesia è stato quello degli anni attorno al ’68 in cui si è inneggiato alla disgregazione sia dei contenuti che della forma poetica al limite di una realtà volgare e di prosa arida e senza senso attuata addirittura con ritagli di giornali presi a caso. Di proposito si è voluto sperimentare la non-poesia e la anti-poesia per dimostrare a se stessi di poter ricominciare da zero il discorso poetico. Un incipit Vita Nova non è stato possibile, dati i tempi smagati e violenti; alla frantumazione nulla è succeduto di positivo se non il ritorno alle considerazioni umane dell’essere e degli eterni perché della vita. La forma è approdata ad un’impostazione di alta poesia verso il neo-classicismo, dove l’allegoria suscita immagini oltre ogni immediatezza, dove la metafisica a volte si fa religione del sacro percepita in chiave di salvezza dal mondo oggettivato e corrotto. 

Il trascendente nell’arte e nella filosofia va oltre il pensiero, oltre la conoscenza per snodare le regioni dell’ignoto nel mistero dell’esistenza. Il progresso delle scienze in questo senso è agevolato nelle sue ricerche e d’altro canto tutto ciò che è percepibile dall’inconscio è a sua volta espressione di trascendenza. 

L’autore di questa antologia in esame si fa carico delle convinzioni e delle proposte di molti poeti e saggisti contemporanei di chiara fama, che al di là di ogni anacronismo formulato dalla critica militante e dalla critica accademica avvertono l’importanza di una fusione di valore nel senso che il giudizio critico e il giudizio estetico devono confluire verso un appagamento armonico totalizzante, ed è importante scoprire nella lettura di un testo -l’incognita parabola» (B. Marniti). 

Tra critica e poesia si identificano gli stessi principi estetici per potersi sintonizzare nell’arte poetica con uno scambio metafisico che consenta l’integrazione illuminante. Oggi le parole di Salvatore Quasimodo pronunciate nell’immediato dopoguerra risuonano più che mai di grande incitamento: -Rifare l’uomo», aveva detto, -quest’uomo che aspetta il perdono con le mani sporche di sangue!»; altre, ancora più attuali, quelle di Charles Péguy: – Réfaire la Rénaissance» sono grido e bandiera per una svolta necessaria; e Rubén Darìé: -Mentre contate su tutto, una cosa vi manca, Dio». Si riesce così a individuare a fine secolo la richiesta impegnativa di riavvicinamento alla poesia per la poesia: Arthur Rimbaud iniziatore e veggente. 

Il repertorio della poesia regionale passa in rassegna le varie scuole e tendenze che al presen.te denotano connotazioni di tutto rispetto. L’antologia dedica la seconda parte alle molte schede e profili che l’Autore ha scritto per poeti noti e meno noti nell’ambito della critica ufficiale e non. Suddivisi per gruppi e tendenze artistiche Vittoriano Esposito riconosce suo malgrado di aver ottemperato per necessità pratiche all’esclusione di molti nomi per quanto riguarda il Novecento -minore»; poco o nulla conosciuto nulla ha da invidiare a quello ufficiale spesso deludente e povero di imputo Egli stesso si fa paladino di tali ingiustizie ed auspica che ciò dovrebbe almeno insegnare qualcosa nell’ambito dell’editoria intesa a far soldi soltanto con nomi già affermati, ma disattenta a chi il talento ce l’ha per davvero. Comunque i nomi qui considerati sono già moltissimi e tra essi l’Autore si dichiara soddisfatto di far conoscere da queste pagine un congruo numero di poeti che meriterebbero di salire la ribalta della considerazione che meritano. 

L’antologia a questo punto sarebbe ben fornita, ma una terza sezione raggruppa una categoria a parte dove leggiamo i nomi e le schede di donne poetesse. Se la poesia è nel potere del sentimento, dell’immaginazione e della maturità riflessiva indipendentemente dalle differenze sessuali, credo che le donne qui inserite avrebbero avuto piacere trovarsi tra “poeti” e non tra “donne”. Passata l’impennata femminista non si giustifica più questa separatezza di fronte al talento creativo i cui valori sono comuni a tutti. Comunque in questa sezione anche le poetesse sono divise per tendenze artistiche fino a risalire alle più giovani esponenti ancora in fase di sviluppo estetico ma con chiare impostazioni di scavo interiore. 

È interesse prendere atto del lavoro dei giovani nell’attuale malessere della società che li disorienta con falsi profeti e falsi valori. Tuttavia il rapporto dei giovani con la poesia è migliore di quello che si crede: sentono imperioso il desiderio di colmare il vuoto dell’esistenza affidando alla forma poetica la ricerca della propria identità perduta; l’impegno è di cimentarsi per una chiara coscienza umana per affermare dei valori che non riscontrano nel deserto morale che li circonda. Le prove non mancano, e molti di essi mirano proprio con uno sforzo di volontà a scalzare la crisi in atto. 

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 58-60.




 Un dramma di elevata potenza descrittiva 

Romano Cammarata, Dal buio della notte, Armando Editore, Roma, 1983. 

A chi ancora non si fosse soffermato a meditare sul significato della parola supplizio sin nei termini ultimi delle comuni possibilità interpretative e per mancanza di amore verso il prossimo, o per semplice apatia non abbia provato, almeno una sola volta nella vita, effetti benefici dopo essersi compenetrato nel dramma di una qualsiasi creatura, che al martirio della Croce non pari sol perché a tutte le innumerevoli sofferenze fisiche non si è potuto aggiungere il barbaro rito della vera e propria crocifissione, quest’opera sortirebbe nient’altro che un freddo e alquanto distaccato interesse. Viceversa lascerà una traccia indelebile nel cuore e nella mente di tutti coloro che, avendo provato l’intensità del proprio dolore, delle proprie afflizioni esistenziali, giudicheranno meritevole di esaltazione il calvario del protagonista minato da un terribile male, risorto a nuova vita, grazie alla sua tenacia, alla sua resistenza agli assalti della malasorte nella tempesta di timori e pensieri funerei, oppresso dall’assillo di un’ipoteca totale a garanzia di un viaggio senza ritorno, a lungo tempo e puntualmente rimandato ogni volta che il responso delle analisi cliniche ed istologiche lasciavano spiragli ad un esile filo di speranza vitale. 

Andrea, questo straordinario sopportatore del dolore e artista della penna, ha saputo ovviare alla fragilità di detto filo con una resistenza che più volte – miracolo? – ha retto persino agli attacchi della ghignosa signora, impaziente ora più ora meno, ma sempre pronta a ghermire la preda nel silenzio delle interminabili notti insonni, tra il timore inconfessato di una imminente dipartita o di una non più possibile procrastinazione, tra una carezza e l’altra di Francesca che con bisbigli di consolazione e di amore si mostrava desiderosa di appropriarsi i dolori dello sventurato sposo come a lenirgli il travaglio dell’incessante tormento. 

In una esposizione lineare e rispettosa del migliore uso della lingua italiana, Romano Cammarata ci ha trasmesso un dramma di elevata potenza descrittiva in tutti i risvolti e rilievi di un’allucinante esperienza. Ed è senza dubbio merito da riconoscergli senza riserve, se pensiamo che altri, al posto suo, avrebbero potuto avere persino timore di descriverla per non rivivere, ai confini dell’umana sopportazione, una lotta tante volte ritenuta impari e tuttavia combattuta dalla ferrea volontà di non demordere, di continuare a vivere pur tra i rantoli della disperazione, di dimostrare, nel modo e nel senso più credibili equalmente certi, che quando si è sorretti da una forza morale l’attesa di sublimi miracoli non è poi sempre vana. In Dal buio della notte è difatti dimostrato che competenza, tecnica e dedizione di valenti luminari della medicina e dell’alta chirurgia fanno ottenere risultati sorprendenti se il paziente reagisce all’idea della capitolazione. L’odissea di Andrea ne è una comprova. 

Privo di un occhio asportatogli, devastato in viso, in ansia nella speranza di guarire e l’avvilente incertezza della buona riuscita, con la metà del palato e una mascella ricostruita, finalmente vittorioso sulla morte in agguato, il degente che oltre che per i suoi mali soffriva per quelli dei compagni che non rivedrà mai più e che ricorderà con sentita commozione, oggi, nell’espletamento delle complesse mansioni attinenti alla sua professione, è un uomo di una serenità olimpica, che infonde fiducia e coraggio con l’eleganza del suo dire, pago d’aver dimostrato che a colui che vuole nulla è impossibile e che, in definitiva, l’amore per le cose e per le persone amate, l’attaccamento alla vita, il rispetto per i propri simili, il disprezzo per gli impietosi che non si rattristano nemmeno in casi disperati, avranno la meglio nel superare qualsiasi ostacolo. Tanto più se sorretti dall’ardente desiderio di non lasciare orfani i propri figli e maggiormente se spronati a resistere dalla santità di una donna, senza l’abnegazione della quale il nostro protagonista non ci avrebbe potuto raccontare il suo dramma perché, probabilmente, già morto. 

Storie del genere saranno accadute già altre volte, pochissime a lieto fine, per la verità, ma la Via Crucis di Andrea può a ragione ritenersi un esempio di ricupero ad un passo dalla fine, di riconquista del proprio equilibrio psicofisico, una dimostrazione di come comportarsi quando più aspra si fa la lotta nel periglioso pelago delle sventure umane. Sì, la riconquista di un bene prezioso strappato alla morte, il superamento di se stesso forgiato dapprima dalla fucina del dolore e dalla tribolazione, indi sospinto a novella vita dalla ritrovata felicità. 

Donato Accodo 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 62-63.




 S. Zarcone, La carne e la noia, Palermo, Ed. Novecento, 1991 

In un contesto moderno di contraddizioni e rivendicazioni in continua conflittualità per diverse regioni di ordine sociale la critica di Salvatore Zarcone sulle opere e la vita di Vitaliano Brancati merita un posto di tutto rispetto perché espressione di una complessa e vivace problematica di una sofferta realtà in un periodo che lo scrittore pachinese ha vissuto con intensa partecipazione e fin nei termini ultimi di una speranzosa quanto vana attesa di ottenere consensi al suo innovativo apporto culturale: integrare la politica con la letteratura, in particolare con l’efficacia di rappresentazioni teatrali. 

Stile manierato, accorta ricerca analitica nei trascorsi eventi all’epoca in cui il Brancati scriveva opere condite di varia cultura, sono i pregi salienti dell’autore di La carne e la noia espressi con forza effettiva e determinatezza. Egli riscopre, in chiave di obiettiva valutazione di merito, i principi innovatori della tematica di chi aveva già previsto, assertore della necessità di collaborazione tra cultura e politica, l’efficacia di una reciproca comprensione al fine di dar vita ad una società più giusta, più rispettosa dei diritti altrui, che col suo inarrestabile progresso avanzi di pari passo con le esigenze dell’uomo e spiani la strada a giorni migliori tra i popoli oppressi nei loro squilibri lungamente pervasi da falsi fatui valori, animati da propositi di vendetta, di perverse ideologie, mai cessando di sostenere che gli uomini hanno diritto ad una vita più degna di essere vissuta, libera da strettoie oppressive, più attinente alle loro aspettative di soddisfacimento essenziale, da quello della fame e del lavoro a quello culturale brutalmente represso da un sistema capitalistico, autoritario, subdolo e disumano. 

Contro un sistema così inquinante, che coinvolge i protagonisti del mondo brancatiano Zarcone vi si cala nel fondo dei loro risentimenti senza mai smettere di dare battaglia ispirandosi ai suoi principi secondo i quali la letteratura può convivere con la politica, pur nell’incessante accavallarsi di forze avverse e mistificanti, basando le nostre convinzioni su nuovi metodi di osservazione e deduzioni immuni da deformate angolazioni del pensiero culturale, proprie di quegli esseri che alla logica di una reale obiettività contrappongono assolutismi vecchi e nuovi, ideologici e pratici, nella speranza di un rinnovamento etico religioso dell’uomo conscio della sua dignità in una società più saggia, più ordinata e giusta. 

In polemica contro l’intellettualismo di orientamento hegeliano e contro la filosofia tradizionale staccata dai nostri bisogni e dai problemi esistenziali Zarcone condivide l’impostazione culturale del Brancati, riconoscendogli il suo assunto secondo il quale l’uomo dev’essere in condizione di affrontare la vita con virile consapevolezza e positivo coraggio, in linea col concetto di Heidegger che rivolge la sua attenzione alla ricerca del senso dell’essere il quale ha continue possibilità di aumentare e perfezionare le proprie attitudini di civile progresso in tutti i campi dello scibile, in proficua collaborazione che faccia bene sperare in un futuro libero da discriminazioni. 

Insomma, in un progresso di educazione pedagogico-letteraria tra tutte le nazioni, libere da egoismi e da orgogliose inveterate vanità. 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pagg. 41-42




 Giovanni Salucci, Mafia dietro la scrivania

Originalità stilistica, chiara esposizione dei fatti con certosina ricognizione dei particolari che animano l’intera vicenda dei luoghi e dei tempi in cui sono accaduti, differenziano quest’opera da altre narrazioni quando mancano di effetti di grande interesse. 

Al di fuori di ogni prospettiva dettata dall’esperienza, l’A. predilige approfondite indagini e riflessioni che si confrontano col presente, insistendo nel denunciare manchevolezze, soprusi e colpe di una burocrazia corrotta e inefficace, alla quale vengono ascritti veri e propri delitti morali nel nome di una giustizia beffarda, infarcita di leggi che offendono la dignità dei cittadini con una confusione di idee, di valutazioni arbitrarie e lesive del buon senso, con tranelli ammantati di lusinghe in un coacervo di legge e di leggine, decreti e decretini vòlti ad eludere la ricerca della verità per motivi di convenienza, non per esigenza di giustizia soggiogata da accomodamenti di “ragion di Stato”, da interessi pubblici per bisogni superiori, ma per nascondere sporchi interessi privati a danno di chi nella Pubblica Amministrazione si sforza di rendersi utile facendo il proprio dovere per guadagnare onestamente il suo pane. 

Opera ponderosa, sintetica, di piena attualità, nella quale il Salucci non gradisce problemi impostati in maniera semplicistica, che non approdano a nulla, convinto che per sanare i mali della burocrazia occorre riformarla alla radice, liberarla dalle pericolose insidie che l’affliggono, se si vuole rinnovare lo Stato. 

Il perverso strapotere burocratico che da secoli immiserisce gran parte dell’umanità con strumenti legislativi oppressivi del suo mastodontico apparato di leviatana memoria ormai deve cedere il passo alle esigenze delle generazioni future. I tempi per aprire a nuovi orizzonti e per instaurare per tutti un sistema di vita, che non offenda la dignità dei propri simili, sono già maturi. 

È impensabile, nemmeno lontanamente, ritenere che la giustizia possa essere esercitata dal capriccio di singoli uomini, alla leggera, essendosi così bene diversificato da escludere qualsiasi legge che non si confaccia, come dovrebbe, a quella della Natura. 

Con argomentazioni di varie discipline acquisite in singoli campi specifici, in questo severo atto di accusa il ruolo funzionale del romanzo-saggio, altrove detto anche a tesi, viene valorizzato, alla maniera del Montesquieu in Lettere persiane, del Voltaire in Candido, con tono esaltante la finzione letteraria, la stessa ricorrente nelle Operette morali di Giacomo Leopardi, attraverso l’indagine conoscitiva della condizione umana e lo sviluppo dell’immaginazione condita di sentore autobiografico con valore civile e nazionale, ricca di peculiarità intellettuali e sempre con aderenza alla realtà espositiva dei fatti, in uno scavo psicologico di arte introspettiva nel rapporto tra chi scrive e il suo universo immaginario. 

Nel teatro delle vicende evidenziate in tutte le loro sfaccettature si susseguono colpi di scena che lasciano il segno di consumati misfatti morali, di intolleranze e stravolgi menti del vero a parte di alcuni uomini di legge moderni, spesso insensibili alle altrui necessità e al richiamo di ogni retto operare. Motivi, questi, che hanno spinto l’autore a lanciare, a tutto campo, la sua filippica contro il dilagare di scandali, angherie, mancanza di trasparenza in commercio, mazzette, corruzione, prevaricazioni e tutta una serqua di azioni disoneste a non finire. 

L’ambiente è sempre il solito, quello burocratico fatto di pratiche, di norme polverose, di rapporti stantii quasi sempre formali e falsi, freddi. Il tutto in un 

verismo che utilizza molto lo stile, oltre agli stati d’animo dei personaggi con i quali rileva la reale atmosfera di un ufficio pubblico in cui si dissacrano i miti del buon senso e della ragione. Da qui gli insegnamenti che possono ricavarsi dal libro: l’esigenza che il pubblico dipendente consideri il suo lavoro soltanto come pubblico servizio, come dedizione assoluta vòlta alla soluzione dei problemi e al soddisfacimento dei bisogni dei cittadini e la necessità che egli reagisca ai soprusi con estrema fermezza, come quella che l’autore definisce ribellione pacifica per una società fondata sul rispetto reciproco. Ribellione a che non vi sia alcuno a credere di potersi mettere al disopra degli altri, anteponendo il proprio utile e la conservazione della propria felicità e della propria vita a quella di tutto il resto dell’ umanità. E ribellione anche contro noi stessi, se necessaria, ogniqualvolta pensassimo di ritenerci al centro di tutto e di tutti per essere d’incomodo ai nostri simili con le armi del tradimento e della disonestà. Per contro, se riuscissimo a convincerci di ciò che è proprio della sana burocrazia amministrata con leggi di comune interesse, potremmo se non altro ovviare a pericoli di ben altra ribellione, la più deprecabile che ci sia: quella che genera la lotta di classe, sempre possibile quando sono negati i sacri diritti umani. 

Alla luce di quanto sin qui esposto, si può dire che sia stato Salucci, con la sua Mafia dietro la scrivania, a spezzare o quanto meno a fiaccare i tenaci gangli di quella parte di burocrazia inefficace, dando avvio, consistenza e nuovo originale svolgimento al romanzo-saggio, inquadrandolo nelle vicende moderne da lui esposte con fervore creativo e diversificate forme dei suoi protagonisti. Non più nobilumi, non più dirigenti e funzionari inquisitori, non più magistrati infallibili, ma la gente del popolo, le donne, i fanciulli e persino i bambini in braccio alle loro madri vi fanno mostra di rivolta contro le pubbliche istituzioni per richiamare attenzione ai loro diritti. 

C’è in tutta la trama del romanzo una impostazione morale dei vari problemi che affliggono la società e una volontà di superare certi schemi espressivi e discorsivi di luoghi comuni nel proporre nuovi temi di ansie concrete al posto dei vecchi, architettati di estemporanee decorazioni evasive. Quindi, partecipazione attiva ai problemi della vita attraverso una narrativa di letteratura viva, intrisa di realtà, di umanità concreta, fatta di sentimenti puri e gentili, di doveri ma anche di diritti. E massimamente di giustizia alla quale si anela al grido di libertà quando ci si vuole sbalzare di dosso il giogo dell’arbitrio e della coercizione.