Cenni sulla fortuna di Dante, Foscolo e Leopardi nella poesia maltese

Premessa storico-culturale

L’acquisto dell’autonomia costituzionale fu la prima vittoria importante dei Maltesi nella loro marcia verso l’indipendenza conseguita nel 1964.

Dal 1921 in poi la piccola nazione continuò a crearsi la propria fisionomia, organizzando meglio il sistema dei partiti e superando la polemica linguistica nel 1934, allorché il maltese, insieme con l’inglese, divenne lingua ufficiale. Attraverso gli assidui contatti con esuli italiani, e considerando le condizioni del risorgimento della penisola analoghe alla situazione del loro Paese, il popolo maltese trovò l’ispirazione e la motivazione che gli mancavano.

Alla base di tutto questo c’era il patrimonio culturale comune1. Per interi secoli a Malta si sviluppò una vasta letteratura in italiano, frutto di intellettuali educati “italianamente” (come si diceva) che seguivano costantemente l’architettura stilistica e la gamma tematica (largamente religiosa, civile e personale) degli autori italiani.

Quando poi ebbe inizio lo sviluppo di una letteratura in lingua maltese, accessibile facilmente a tutti, lo scrittore fu finalmente in grado di interpretare fedelmente e direttamente il sentimento proprio e collettivo e non più l’ambizione accademica, spesso distaccata dalle tensioni attuali della comunità.

L’autore non poteva rinchiudersi più nello stretto santuario delle sue care precettistiche e dei suoi preziosi formalismi, ma doveva incontrarsi con il popolo e ispirarsi alle sue esperienze.

A Malta il principio della popolarità della letteratura, un’eredità illuministica che il romanticismo modificò secondo le nuove profonde esigenze, non poteva realizzarsi pienamente in italiano.

Si ebbe così, «entro i limiti di una sola esperienza culturale», il dualismo fondamentale: l’italiano, la lingua dotta della tradizione. e della classe colta, e il maltese, la lingua incolta (anche se antica e ricca) delle masse popolari.

Tale processo di sviluppo in lingua maltese nacque all’incirca nella prima metà dell’Ottocento – se si vuole parlare in termini di movimento diffuso e di dimensione nazionale – quando chi scriveva in maltese non poteva prescindere dal fatto che, nonostante il substrato semitico del suo veicolo, la tradizione, la struttura dell’espressione e l’intera educazione letteraria di tutti erano esclusivamente italiane. Perciò la nuova produzione maltese era costretta a seguire la stessa direzione, ed in effetti a mantenere la continuità storica che è sempre essenziale nell’evolversi del pensiero e della forma.

Tra letteratura antica e letteratura moderna (o romantica) c’è, dunque, quasi a spartiacque, la distinzione linguistica tra italiano e maltese. C’è anche la distinzione inerente alla polemica tra il classico e il romantico, l’antico e il nuovo. Ma in ultima analisi c’è una sola identità che in termini di storia letteraria e sociale significa il trapasso dall’indifferentismo tradizionale alla maturazione di una nuova consapevolezza nazionale. In termini di polemica linguistica significa la scoperta romantica della lingua incolta, popolare.

Dunque la conoscenza della letteratura italiana come conoscenza della letteratura della regione (la presenza della cultura italiana è essenzialmente un aspetto della complessa identità mediterranea dell’Isola) è un bisogno indispensabile per la valutazione delle due esperienze della sensibilità maltese. A causa di questa presenza, ispirata alle personalità più distinte (Dante, Manzoni, Foscolo, Leopardi e numerosi altri), la poesia maltese, come del resto tutta la narrativa, è direttamente riconducibile alle caratteristiche fondamentali della tradizione europea. Non si trattano soltanto di influssi e di assimilazioni, si tratta anche di una autentica esperienza maltese che, vista sotto questo profilo, è un altro contributo alla formazione di un’unica, anche se complessa, spiritualità continentale.2

La visione spirituale di Dante

Frequentemente l’italiano è descritto dai letterati e dai politici maltesi come “la lingua di Dante”. In effetti è questa la frase che può introdurre il discorso sulla vasta fortuna che ebbe il poeta nell’Isola, sia sul piano educativo sia su quello della prassi letteraria.

Già nel 1643, anno della pubblicazione del primo libro stampato a Malta (I Natali delle Religiose Militiae de’ Cavalieri Spedalieri, e Templari, e della Religione del Tempio l’Ultima Roina, opera di G. Marulli da Barletta), c’è qualche eco della poetica della luce nel paradiso in un sonetto del Marulli e un certo riflesso dell’atmosfera infernale in un altro sonetto di Carlo Cosentino.

Sono elementi, comunque, rappresentati con una sensibilità e con un gusto di tipo barocco. In fondo, questa sintesi tra elementi danteschi e barocchi costituisce il carattere principale di tanta letteratura maltese in lingua italiana. Malta ha una vasta raccolta di inni religiosi e civili, di sonetti e di odi d’occasione che mettono in rilievo questa tipica scelta metaforica e lessicale.

Questo culto dantesco doveva per forza manifestarsi, particolarmente nell’Ottocento, anche nelle opere degli scrittori maltesi.

Accanto alla visione di Dante patriota c’è anche la scoperta sentimentale di Dante esteta del notturno, del terrore e della morte. È Richard Taylor (1818-1868) che introduce questo gusto nella letteratura in lingua maltese.

Egli comincia con la predilezione per la rievocazione di paesaggi indefiniti, ricchi di un fascino patetico e presto contribuisce all‘affermazione della sensibilità ossianica e sepolcrale del preromanticismo storico mediante la traduzione di un’opera dello Young, il Giudizio Universale (1845). Acquisito questo gusto attraverso la lettura di un poeta moderno, Taylor scopre la maggiore rilevanza di Dante. Lo stesso gusto lo spinse a tradurre, nel 1864, il canto XXXIII dell’Inferno (Il-Konti Ugolino, Malta, Borg, 1864), che Taylor definisce “il-kant tat-treghid” (il canto del tremore). Il poeta maltese pensava di tradurre tutta l’opera dantesca ma morì quattro anni dopo.

Con la traduzione di questo XXXIII canto si inizia il culto che poi ebbe vaste risonanze nella letteratura maltese.

Alla luce della psicologia apologetica con cui tanti letterati maltesi affrontavano il problema linguistico del maltese, tradurre Dante significava anche dare prestigio alla lingua nativa e fornire una prova della sua ricchezza espressiva. Nel 1899 Ganni Sapiano Lanzon (1858-1918) pubblicò Kant 33 ta’ l-Inferno: Il-Konti Ugolino e nel 1905 L-Ewwel Taqsima tad-Divina Commedia: l-Infern. Nello stesso anno, Alfredo Eduardo Borg pubblicò La Divina Commedia ta’ Dante Alighieri migjuba u mfissra bil-Malti, e nel 1907 uscì Att tal-Fidi miktub fuk il-Kredu ta’ Dante Alighieri (con una seconda edizione nel 1909) di Salvatore Frendo de Mannarino (1845-1918). Più tardi Sapiano Lanzon pubblicò anche Francesca da Rimini – Il-Hames Kant, ta’ l-Infern (1913) e II-Hajja ta’ Dante (s. d.). La traduzione più importante e più valida è indubbiamente quella di Erin Serracino Inglott (1904-1983), il cui primo volume uscì nel 1964. Accanto a questo corpo di traduzioni vi è una scelta abbastanza larga di saggi critici.

La fortuna di Dante è dovuta in gran parte al profondo riconoscimento datogli dal poeta nazionale Dun Karm Psaila (1871-1961), noto popolarmente come Dun Karm. È opportuno soffermarci brevemente almeno sull’influsso di Dante nella sua opera, visto che è la figura culturale maltese più importante e un sicuro punto di riferimento per la conoscenza del carattere della letteratura maltese in più di mezzo secolo.

L’ammirazione di Dun Karm per Dante traspare non soltanto attraverso i giudizi di valore che lo collocano tra i maggiori poeti del mondo, ma anche dagli influssi tematici e stilistici che si manifestano varie volte nelle sue poesie, particolarmente in quelle della prima raccolta del 1896. Ma egli mostra ancor più schiettamente questa sua devozione nelle tre parti di un suo lungo commentario filosofico, Il monumento commemorativo del congresso. Nella prima parte Dun Karm dà un esempio stilistico di come Dante si servì di una figura geometrica per significare incrollabile fermezza, e presenta la sua giustificazione per questa scelta: «La piramide difatti tra le molte figure geometriche è forse la più stabile, giacché essa ha un centro di gravità più vicino alla base che al vertice e ugualmente lontano dai lati3». Si riferisce all’ episodio dell’ incontro di Dante con il suo trisavolo Cacciaguida nel quinto cielo del Paradiso, dove appaiono al poeta gli spiriti militanti. Nella seconda parte l’autore ritiene che dal felice sposarsi di due ritmi nascono il piacere estetico e la bellezza. Come esempio di questa fusione tra forma esterna e senso interno, la sostanza dell’ispirazione, Dun Karm cita l’episodio dell’incontro tra Dante e Casella. Nella terza parte del saggio Dun Karm discute la complessità che si dibatte nell’esperienza spirituale dell’artista, soprattutto del poeta.

Egli trova il massimo modello nella personalità di Dante. Oltre che in questo lungo articolo, in un suo discorso del 1901, trattando della gloria come uno dei motivi principali che conducono l’artista a compiere una grande opera, Dun Karm mette in rilievo la figura di Dante: «E fu questo magnanimo sentimento che poté produrre un Dante, il quale lavorò instancabilmente ventinove anni, procacciandosi nella vita d’esilio un pane che sapeva di sale 4». In una delle sue liriche maggiori, Lill-Kanarin Tieghil (“Al mio canarino”), scritta in un momento di amarezza personale, il poeta tocca il tema dominante dalla solitudine e adopera l’immagine del pane per dare un’impostazione sensuale all’esperienza di sofferenza spirituale.

In un altro momento Dun Karm discute la rilevanza di Dante come poeta nazionale: «Lontano da Firenze, scrivendo il suo poema, Dante se ne servì a redimere se stesso dall’infamia a cui è stato sottoposto, e a spargere (e simultaneamente calmare) la collera della sua mente e del suo cuore contro i suoi nemici che lo avevano separato dalla città che amò affettuosamente e che fino all’estremo della sua vita sperava di rivedere5».

La luce, la forma che Dante sceglie per esprimere l’indicibile nella terza cantica, ispirò Dun Karm a coniare qualche frase che descrive Dio. Dante scrive: «luce eterna6», «eterno lume7», «somma luce8», e Dun Karm, forse ricordandosi anche del «sommo sole» di Manzoni9, scrive «sole divino10», e «mar d’eterno lume11». Il motivo della luce si sviluppa in varie poesie; ad esempio, nel brano che segue il motivo dello splendore si fonde con quello dello spazio: «del sol d’eterna luce, / onde s’ammanta Dio discese un raggio, / che d’un fulgor superno ti vestío12».

Per Dante la Chiesa è «l’esercito di Cristo13», mentre per Dun Karm è la «vincente repubblica di Cristo14». È anche la sposa del Signore,15 e Dun Karm riproduce l’immagine dantesca, adoperata anche da Monti16, in alcune delle sue opere più impegnate come La Chiesa e Leone XIII, Per Novello sacerdote – II, La Framassoneria in Malta, Nel Giubileo Episcopale di Leone XIII, e Ancora l’Alpinista. La crisi foscoliana Dun Karm pubblicò la traduzione dei Sepolcri foscoliani nel 1936. Intendendo dare evidenza alla sua piena adesione al sentimento di rispetto dovuto alla lingua nazionale, Dun Karm costruì una versione di alto valore linguistico, basata quasi esclusivamente sulla componente semitica del lessico maltese. Ma questo è soltanto il motivo esteriore, storico di una esperienza che riconosce nella traduzione soltanto un primo momento. Il poeta stesso dichiarò che intendeva comporre un poema concepito come compagno ed epilogo dei Sepolcri. Si tratta di II-Jien u Lilhinn Minnu (L’io e l’aldilà), il capolavoro del poeta e una delle opere maggiori di tutta la letteratura maltese.

La prima fase dell’esperienza foscoliana di Dun Karm consiste in un’accettazione aperta della supremazia stilistica e fantastica del carme17; la seconda prende la forma di una radicale contestazione della sua filosofia. Si tratta di una reazione calma, malinconica e tormentata, anche se è sempre svolta alla luce della sua profonda fede cristiana. A volte il poeta finisce per abbracciare in parte alcuni elementi della concezione pessimistica. Fondamentalmente Dun Karm rimane sempre un romantico e la sua spiritualità si dibatte costantemente in un clima di effusione sentimentale e di rassegnato rimpianto.

Da un’accurata analisi della visione dei due poeti, si deduce che il loro interesse si concentra, essenzialmente, sul problema della sopravvivenza. La soluzione è del tutto differente; tra le due posizioni c’è l’abisso che separa una visione metafisica, anche se sofferta, dallo scetticismo che emana dal razionalismo puro.

Dun Karm reagisce cristianamente contro la teoria dell’io come il centro del mondo, e dell’illusione come il principio che motiva l’attività umana. Negando questa visione, risultato del soggettivismo kantiano, Dun Karm restaura questa costruzione intellettuale introducendo il motivo dell’amore divino (riflesso nella fede) come il fondamento inalienabile di tutta l’esperienza terrena. Contro «il sistema della continua illusione», per citare Rosmini, il cristiano riconosce un punto oggettivo di riferimento (il paradiso nell’oltretomba) invece dell’ «illusione creante» (il paradiso soggettivo che Foscolo colloca nello spirito e nella memoria umana). La restaurazione di Dun Karm è vicinissima a quella che Rosmini presenta nel Saggio sopra alcuni errori di U. Foscolo, in cui sostituisce la funzione affidata all’illusione (creata dall’io egoista) con la missione del cristianesimo che realmente «soddisfa tanto a tutte le umane necessità18».

Mentre Foscolo sposta la sua visione sull’ordine mitologico e leggendario del mondo pagano, Dun Karm cristianizza tutto il suo panorama e sceglie le immagini dalla cultura evangelica.

Nei Sepolcri ci sono i colli, i giardini, i fiumi, le fonti, il mare; in II-Jien u Lilhinn Minnu ci sono le rose, gli uccelli, le stelle, il mare. C’è soprattutto il sole; quello del Foscolo risplende sulle «sciagure umane» e quello di Dun Karm è avvolto da cupe nuvole mentre «piange» sul dolore e sull’essenziale aridità della terra.

Noto per la sua devozione verso la madre, Foscolo fonde il tema autobiografico con il tema metafisico; nel «tetto materno» raffigura tutti i sospiri per la vita familiare che non poteva più godere. Il ruolo affidato alla madre nel Jien u Lilhinn Minnu non suggerisce soltanto una memoria di una donna morta; è lei la personificazione della verità rivelata, il simbolo vago ma presente di una fonte inesauribile di principi morali. Le figurazioni foscoliane riassumono in sé la grandezza umana.

Sono inconfondibili nella loro linearità scultorea, e hanno una fisionomia che giganteggia sull’ambiente. Dun Karm mescola l’inno con l’elegia, la gloria sul livello metafisico con l’annientamento della materia.

L’opposizione fondamentale tra i due poeti si illustra anche attraverso un semplice confronto tra il verso iniziale dei Sepolcri, «All’ombra dei cipressi e dentro l’urne», e il verso l42 del poema maltese, «gos-sigar tac-cipress u qalb is-slaleb» (intorno ai cipressi e fra le croci). L’intonazione ritmica del verso di Dun Karm conserva la malinconia della cadenza foscoliana, e gli accenti dell’endecasillabo danno maggiore rilievo alle due parole più importanti: “cipressi” e “urne”, “cipress” (cipressi) e “slaleb” (croci). Si rispecchia sinteticamente il divario sostanziale che c’è tra le due opere. Il poeta maltese cristianizza il contenuto razionale di Foscolo. Lo spettacolo è unico, caratterizzato dalla presenza suggestiva dei cipressi ma, mentre le urne foscoliane sono la dimora concreta della nuova sopravvivenza ideale, le croci di Dun Karm rievocano emblematicamente un’altra realtà.

Il malessere leopardiano

Uno dei poeti maggiori maltesi, Karmenu Vassallo (1913-1987) trova in Leopardi non soltanto l’artista che si avvicina di più al suo modo in cui, a suo parere, si deve creare la poesia, ma anche l’uomo autenticamente sin cero con se stesso (che soffre) e con gli altri (a cui sente il bisogno di svelare il proprio dolore). La sincerità è la qualità che unisce l’esistenza con la poesia, l’uomo che soffre con l’artista.

Il confronto Leopardi-Vassallo si realizza mediante un contatto diretto di conoscenza e di immedesimazione: «Sono entrato nel cuore e nell’anima della poesia leopardiana e… sono diventato una stessa cosa con lui19». Gli esempi seguenti sono alcuni del complesso rapporto psicologico e letterario

tra i due poeti.

L’escludersi, una esperienza prettamente leopardiana che anche Vassallo scopre troppo presto nella gioventù, si presenta sotto due aspetti. Il primo scaturisce dal confronto tra se stesso e la società che si sente gioire intorno, condannato alla solitudine dai mali fisici e da tutto quello che lo rende socievole.

Il confronto è, in primo luogo, ambientato poeticamente in un giorno di festa tradizionale. Zewg Ghidien (“Due feste”) si compone di due quadretti contrari l’uno all’altro. Nel primo si dà rilievo alla festa che si svolge in un paese; nel secondo si dipinge la triste scena di un giovane fatalmente ammalato che si sta portando all’ospedale.

Dalla contemporaneità delle due scene, svolte nello stesso luogo, nasce il contrasto. A guisa di Leopardi (La sera del dì di festa, A Silvia, Il passero solitario), Vassallo contrappone due circostanze, l’una lieta e l’altra  tristissima. Con la loro compresenza o contemporaneità arriva ad una fusione di inno e di elegia, rendendo così, in virtù degli opposti, più commovente il significato del contrasto e più malinconico il quadretto. È questa poesia del contrappunto felicità-dolore che spiega perché il poeta, pur essendo solitario, è continuamente consapevole della festa sociale che si sta svolgendo intorno a lui.

L’escludersi di Vassallo è leopardiano anche nella sua polemica contro la banalità della folla contemporanea. E, in fondo, la poetica, di ascendenza petrarchesca e poi alfieriana, che nel recanatese si preannunzia già con All’Italia e continua a maturarsi e a diventare una delle preoccupazioni salienti della sua vita. Vassallo degli anni 1932-1944 è polemico contro la folla insensibile, priva di valori che sollevano l’uomo al di sopra dell’animalità20. La definizione degli uomini contemporanei, atroci nelle loro azioni, e moralmente ipocriti, è data, sia in Vassallo che in Leopardi, dall’idea della superiorità spirituale del poeta nei confronti della leggerezza collettiva del popolo21. I due, in ultima analisi, si definiscono nemici del genere umano; l’isolamento, che in alcuni momenti sembra l’effetto di una sconfitta personale, si traduce orgogliosamente in motivo di netta distinzione degna dei grandi: «llbiebi kulma hlaqt Int: barra l-bnedmin!22 (I miei amici sono tutte le creature: fuorché gli uomini!); / E sprezzator degli uomini mi rendo23».

Il secondo confronto da cui esce il quadro dell’escluso, sempre in virtù della rievocazione contemporanea di due opposti, è quello tra il processo incessante e sovrabbondante della natura e la sterilità insanabile e moribonda del poeta. Da un lato, c’è il continuo rinnovamento di un programma stagionale che non si esaurisce mai; e dall’altro, c’è la staticità di una condizione umana.

Il susseguirsi dell’inno e dell’elegia è comune ai due poeti24. Accanto alla celebrazione della bellezza del mondo esterno, si erge la figura desolata, simbolo del mondo interiore, così che il trionfo dell’oggetto e l’agonia del soggetto, i superlativi per la natura e le parole di privazione per il poeta (individuo e rappresentante di una intera razza umana), si intrecciano in un doloroso insieme. Apparentemente, i temi sembrano accostati, in realtà si fondono perché la relazione tra l’esterno e l’interno è reciproca, intrecciata in rapporto di causa ed effetto. Più la natura rivela il suo incanto, più si addolora lo stato d’animo.

Nella contemplazione del limite (la realtà negativa) e nella sua sublimazione fantastica (la realtà poetica), si trovano i due poli estremi di un’unica esperienza: da un lato l’autobiografia, dall’altro l’arte. Nel centro di tutta l’esperienza c’è la metafora del mare visto sotto due aspetti: come visione infinita in cui si cerca di annegare e come simbolo che oggettiva lo stato d’animo inquieto. Come in Leopardi, in Vassallo è veramente difficile distinguere tra la necessità psicologica di «tuffarsi» nell’indeterminato e nel vago, e la volontà di utilizzare la stessa visione come immagine della condizione interiore. «La vastità della sensazione » è interiore, e rivela la crisi, ma la sua esteriorizzazione si trasforma in una esperienza estetica. Accanto all’effetto che fa nell’uomo la vista del cielo, Leopardi pone anche la visione del mare «e d’ogni sorta d’immagine presa dalla navigazione ecc. Le idee relative al mare sono vaste, e piacevoli per questo motivo25».

L’esperienza è, dunque, contemporaneamente un concentrarsi sul proprio io turbato e un dispiegarsi in uno spazio sconfinato. Come nell’Infinito, il mare è il più idoneo a raffigurare poeticamente la tensione interiore; in Vassallo è anche il mare che dà dimensioni vaghe e indeterminate al problema.

Conclusione

I due piani principali dello studio comparato, qui brevemente illustrato con alcuni cenni agli autori più rappresentativi, sono i seguenti: influenza diretta e influenza indiretta. È diretta quando un autore si identifica idealmente con un autore ‘straniero’ (ad esempio, Dun Karm con Monti, con Manzoni e poi con Foscolo). È indiretta quando l’influenza, ad esempio, di un Dun Karm foscoliano, trova eco in altri autori maltesi attraverso la conoscenza di Dun Karm, e non direttamente attraverso Foscolo; è il caso dei poeti minori che sono maturati sotto le ali di Dun Karm.

Si tratta di un processo complicato di contatti, confronti e assimilazioni. Ad esempio, alcuni romantici maltesi formano la loro identità alla luce del mondo italiano che, a suo tempo, ha subíto influssi tedeschi, inglesi e francesi.

Questi elementi, quando riescono a profilarsi nell’ispirazione maltese, sembrano il frutto diretto del contatto Malta-Italia. Gli elementi dello sturm und Drang che risalgono alla superficie nella personalità di Karmenu Vassallo sono controllati e relativamente superati perché sono passati dal filtro latino.

Gli autori minori si sviluppano attraverso l’influenza di Dun Karm, e il cammino dell’assimilazione assume qui un carattere triplice: dal mondo italiano al mondo di Dun Karm e al mondo dei poeti maltesi. Questo processo non vieta che qualche autore maltese si rifaccia all’autore originale, che ora può diventare una fonte rinnovata di metafore, tonalità e contenuti che l’autore maggiore stesso (Dun Karm in questo caso) non avrebbe mai assimilato.

Ad esempio, l’importanza di un Byron nella letteratura russa si è diffusa sia a causa dell’influenza di autori russi su altri autori russi, sia a causa dell’incontro diretto tra Byron e autori russi, tra i quali un Pǔskin, che ha poi influito su un Lermontov e su altri.

Più che il carattere diretto o indiretto dell’influsso, lo studioso del fenomeno maltese deve prendere in considerazione il bilinguismo (italiano-maltese, inglese-maltese) come punto di partenza e punto d’arrivo allo stesso tempo, e così riesce a far entrare il contributo maltese (ricco anch’esso di una sua forte originalità e di molte caratteristiche indigene) nel grande oceano della letteratura continentale e mondiale.

Sia che si analizzi il rapport de fait di Carré sia che si cerchi di individuare il courant commun di Van Tieghem, ritengo che il risultato conduca sempre ad una sintesi. L’indagine su tutti e due mette in luce alcuni aspetti extraletterari, ad esempio la distinta identità dei Maltesi come popolo. Questo rapporto si traduce in un documento di identificazione nazionale; è così, sia se si chiama iufluenza, adattamento, assimilazione, interferenza, fortuna letteraria, imitazione, sia se si considera – come ritengo doveroso nel caso maltese – come partecipazione diretta ad un mondo (grande), partecipazione che è naturale per un mondo (piccolo) fatto di un’isola definibile secondo una tradizione, una storia, una lingua antica e una situazione geografica. In altri termini, l’europeità di Malta letteraria è l’evidenza anche di un’europeità extra-letteraria, una caratteristica che risale alla superficie anche dal modo meraviglioso in cui un dialetto di origine semitica è diventato una vera e propria lingua autonoma, assumendo numerose tendenze romanze.

A questo punto si impone il quesito se è giusto parlare di influenze, cioè di contenuti importati e imposti da una grande cultura su un’altra subalterna, o se si deve piuttosto riconoscere l’esistenza di un intero programma di partecipazione naturale e organica, consapevole e istintiva, ad una civiltà comune, quella mediterranea. Quando si riesce a constatare la presenza di vari elementi comuni che caratterizzano un’intera tradizione, e quando si trovano sentimenti, immaginazioni, forme di ragionamento, schemi retorici e altre componenti che tutti conducono verso la scoperta e la definizione di un’unica e sola identità regionale o continentale, lo studio comparato si riduce ad uno studio di una vasta civiltà unica. Alla luce di queste considerazioni fondamentali che il tema del presente saggio non ci permette di illustrare, Malta ci potrebbe interessare come una parte piccola e vivace di tutto l’organismo.

Sul piano letterario ciò conduce alla conclusione che il periodo tradizionale della letteratura maltese fa parte integrante dell’esperienza romantico risorgimentale italiana (e non è semplicemente il risultato di un influsso esterno), e che il periodo moderno, iniziato negli anni Sessanta del secolo scorso, costituisce una variazione o l’aumento di altri filoni su quello basilare (cioè mediterraneo, realizzato secondo una fusione di eredità italiana e di assimilazione maltese). Nonostante il fatto che questi giudizi siano stati qui consapevolmente ignorati, il loro valore rimane particolarmente in rapporto alla necessaria conoscenza di una linea di demarcazione tra una cultura nazionale e un’altra di provenienza straniera.

Gli autori maltesi del primo Novecento, inserendosi fedelmente nella strada aperta dai loro predecessori, si sono dedicati con tutta la loro forza intellettuale e linguistica alla conferma di un duplice ideale: rimanere fedeli alle esigenze della visione romantica (che, pur sorpassata come tale o quasi, era ancora a Malta la situazione storica più nota e l’unica via da battere in sede letteraria e, da un punto di vista ideologico, l’unica a potere sfruttare con efficacia il principio dell’identità razionale) e fare risalire la lingua maltese al livello di lingua letteraria.

In sede tematica intendevano raggiungere una profondità paragonabile a quella della letteratura italiana. Conservavano la disposizione dei poeti del secondo romanticismo italiano, e si servivano come loro di una irruenza retorica e di toni impetuosi (continuando così a camminare nella stessa direzione della generazione precedente), costruendo una visione sentimentale, irrequieta della vita privata e nazionale, che sublima la vita interiore quasi in uno sforzo incessante a realizzare un compromesso ideale tra il mondo esterno (turbato dai mutamenti politici e dall’insicurezza sociale) e il mondo esterno (in cui è evidente, in vari modi, il «male del secolo»).

È, comunque, sempre profondo il senso della presenza dei protagonisti del primo momento romantico italiano (e con loro, i maggiori dei secoli precedenti), ad esempio di Foscolo con la sua dottrina dei sepolcri e la sua ansia per l’immortalità, di Manzoni con la sua fede incondizionata manifestata negli Inni sacri e con la sua indomabile volontà di dare un posto stabile e perenne a Dio nel crogiuolo della storia, e di Leopardi con il suo pessimismo che non riesce a trovare significato nella vita, vista come perenne dolore, priva della possibilità di formare illusioni. Tradizione letteraria italiana, spiritualità maltese, lingua semitica: sono elementi che qui si fondono in un insieme, riconoscibile in sé e nel quadro di un’intera cultura europea.

Oliver Friggieri

Note

1 Uno dei più antichi documenti italiani a Malta è del 1409 (cfr. Archivio della Cattedrale, Malta, ms. A, ff. 171-176, pubblicato da A. Mifsud, Malta al Sovrano nel 1409, “La Diocesi”, II vol. VIII, 1918, pp. 243-248). Cfr. anche A. Mifsud, La Cattedrale e l’Università, ossia il Comune e la Chiesa in Malta, “La Diocesi”, II, vol. II, 1917, pp. 39-40; U. Biscottini, “Il Giornale di Politica e di Letteratura”, X, vol. VI, 1934, pp. 665-670. 
2 Cfr. O. Friggieri, Storia della letteratura maltese, Edizioni Spes, Milazzo, 1986, pp. 11-28 e passim. 
3 Il monumento commemorativo del congresso, “La Diocesi”, II, vol. X, 1918, p. 311. 
4 Il discorso pronunciato dal precettore sac. Carmelo Psaila il giorno della distribuzione dei premi al seminario, “La Palestra del Seminarista”, I, 4, 1901, p. 74. 
5 L-Oqbra, Stamperija tal-Gvern, Malta, 1936, p. 29. 
6 Paradiso, XI, v. 20; XXXIII, v. 43. 
7 Paradiso, XXXIII, v. 124. 
8 Paradiso, XXXIII, v. 67. 
9 La Risurrezione, v. 47. 
10 A San Filippo d’Aggira, v. 29. 
11 L’Assunzione, v. 20. 
12 Per novello sacerdote – IV, vv. 9-11. 
13 Paradiso, XII, v. 37. 
14 Nel giubileo episcopale di Leone XIII, vv. 129-130. 
15 Paradiso, XI, v. 32; XII, v. 43. 
16 In risposta al sonetto di Vittorio Alfieri, v. 14. 
17 A proposito dei diversi influssi foscoliani, qui appena accennati, sull’opera del maltese, occorre ricordare gli inizi di varie poesie. Diverse aperture di Foscolo prendono la forma di una conclusione di una precedente meditazione, e hanno parole come “così” (Luce degli occhi miei), “né” (A Zacinto) e “forse” (Alla sera). Dun Karm ricorre a questi inizi in numerose opere, e , ha “no” (A Leopoldo Dagradi), “e” (Nella morte dell ‘alpinista, Ancora l’alpinista, Al novello sacerdote G. Spiteri), “izda” (Lil Malta, II-Ghanja tar-Rebha), “issa” (Lill-Muza), “hekk” (Il-Bandiera Maltija) e “le” (II-X ta’ Frar – 1920, Lil Marija, Lil Dun Gwann Muscat, II-X ta’ Frar – 1927, Lil Dun Anton Galea). 
18 “Della speranza – saggio sopra alcuni errori di U. Foscolo”, Apologetica, Milano, 1840, p. 100. 
19 Alla taz-Zghazagh, G. Muscat, Malta, 1939, p. 34. 
20 Cfr., ad esempio, Mysterium mysteriorum, vv. 37-40 e Il’ biza’ tieghi, vv. 19-36. 
21 Si può paragonare, tra l’altro, la figurazione del popolo Iftahli mà e Int biss con “la codarda gente” (Amore e morte, v. 12) che è presente in Il pensiero dominante, vv. 53-58, 65-68 e in Le ricordanze, vv. 30-33. L’avversione che ebbe Leopardi per il “borgo natio”, sentita già nelle prime lettere dell’epistolario, corrisponde all’avversione che Vassallo ebbe per la generazione contemporanea dei Maltesi; è un argomento che ritornerà con tutta la forza nell’ultimo periodo (1947-1970) in cui si fa meno sentito il profondo dissidio tra il mondo interiore e la realtà mediocre dei contemporanei, e si dà inizio ad un processo di smascheramento dell’ipocrisia e della bassezza morale della società. Fra le poesie dell’ultimo periodo, cfr. Jekk … , Il-lum, Unknown Island, II-Bniedem, Lil Dun Mikiel Xerri. L’introversione sparisce e viene fuori l’estroverso rigenerato, il Vassallo del periodo post-leopardiano che lancia invettive senza, però, ritirarsi e richiamare la propria miseria. 
22 Hbiebi, v. 40. 
23 Le ricordanze, v. 42. 
24 Cfr. Marzu, vv. 11-18 e Ultimo canto di Saffo, vv. 19-26.
25 “Zibaldone”, Opere, II, a.c. di S. Solmi e R. Solmi, R. Ricciardi, Milano-Napoli, 1956-66, pp. 387- 388. Cfr. anche pp. 314, 375-376.

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 15-24




Riflessione e sentimento. L’io e l’altro nella poesia di Gaetano Trainito

Gaetano Trainito (Gela, 1928) è uno tra i poeti italiani viventi più rappresentativi di questa nostra età. A voler fare una sintesi della sua poesia, diciamo che si rivela poeta a partire dalla silloge Le mani degli angeli (1994). Sebbene non avesse pubblicato altro no ad allora, da sempre era rimasto vicino alla poesia attraverso letture ed esercizi che plasmeranno la sua sensibilità e lo apriranno alla parola poetica, come lo stesso poeta afferma in una breve nota ancora inedita: «Mi piace fare un’altra considerazione: io le poesie le ho scritte sempre, sin da quando sedevo sui banchi del Liceo Classico “Eschilo” di Gela. Nei momenti nei quali i sentimenti tracima- vano e gli interrogativi non trovavano risposte, la maniera primaria di esprimermi era il linguaggio poetico fatto di parole autentiche come l’acqua di roccia mai cercata e ricercata».
Nella raccolta Le mani degli angeli abbiamo già il poeta che ritroviamo nelle altre sillogi successive, da Il viaggio, del 1996, e sempre nello stesso anno, a Filo spinato, libro che raccoglie i primi due. Seguiranno Stelle di gesso (2000) e Lontani approdi (2003), più controllati, anche se mantengono forti i legami con i precedenti (da Il viaggio, ad esempio, sono prese la lirica omonima, con qualche piccola variante, e riproposta in Lontani approdi, e “A Cinzia”, ripubblicata in Stelle di gesso). Lo si nota in questi versi:
Ho visto il sole e tutte le comete. Già vecchio e stanco,
io non ho più sete
di colori e di spazi.
Sono versi che compongono la lirica “Il viaggio”, ripubblicata – abbiamo scritto – in Lontani approdi. Ha elimi- nato i primi due versi («Il mio volo / l’ho fatto» e abbinato il terzo e il quarto che formano il primo, un endecasillabo, apportando qualche ritocco ai tre che seguono. Piccoli accorgimenti, ep- pure dicono il lavoro di lima di Trainito che mira all’essenziale. Ciò che gli preme non è tanto l’effetto da raggiungere, quanto la pregnanza di significato per dire quel che ha dentro e comu- nicarlo, per gridare forte lo scontento e lo stato d’animo, lui che, giunto ad una certa età, non ha niente da sperare («io non ho più sete / di colori e di spazi.»), perché non ha più un futuro davanti a sé e il tempo presente non gli prospetta alcuna aspettative; sente solo il biso- gno di dire sul “visto” e il fatto. Perciò, ora che non si aspetta altro, guarda con occhi sereni la vita e il mondo che lo circonda, riflette e partecipa sentita- mente a sè e agli altri situazioni e coseche la musa ispiratrice gli detta dentro. La poesia di Gaetano Trainito si svolge tutta per ritorni interni o, me- glio, per moti circolari, che coinvolgo- no e delimitano l’io individuale e, al tempo stesso, allargano i punti di vi- sta, sviluppando i temi di sempre con un’ottica diversa, più raccolta, meglio interiorizzata. Moti circolari e ritorni, fatti di chiari cazioni e di sempli ca- zioni, dovute a tagli – come abbiamo notato – volti ad eliminare impurità, a dare maggiore pregnanza alla parola. E questa è il suo punto di partenza, enunciato in “Poetiche”, a cui sin da Le
mani degli angeli tiene fede.
Non ho intrecciato endecasillabi
in strofe arcaiche né ho cantato
con ritmo ilota
i miei lamenti.
Ho solo sofferto nelle brevi sillabe del mio linguaggio il vissuto1.
Trainito ha le idee chiare. Ciò che conta non è tanto la struttura del verso, la rima, o l’effetto che ne può deriva- re, ma ciò che il poeta sa estrinsecare e cogliere dalla parola che si carica di signi cato e di musica, per esprimere l’intimo, la vita, più che nell’essere, nell’essenza, senza esternazioni passi- ve, proprie di chi subisce.
Il poeta virilmente non si ferma in supercie, esprime il sofferto attraverso «brevi sillabe», scava e ri ette sull’umano operare e nella concisione dice tanto; e la parola arriva al cuore dell’uomo senza tanti intermediari, per immagini e riflessioni che acquistano una forte carica e la comunicano.
C’è alla base di questa poesia il vissuto, continua acquisizione di sofferenza, che è la molla di ogni ispirazione e, in particolare, della poesia. Lo ha bene notato Mariella Vigliano che, da attenta lettrice qual è, scrive in un suo saggio che «di là di ogni generi- ca enunciazione, è evidenziato il tema di fondo di questa poesia: il dolore. Senza fronzoli, è la de nizione di una poetica, ma di quella che esclude i ru- mori chiassosi per darsi all’ascolto e per essere vera poesia2». Ed è quanto lo stesso poeta asserisce in “Povertà”: «Con limpida povertà / rivesto i miei pensieri / di parole. / Non ho gemme / né piume di pavone…3». La sua è una poesia asciutta, ma ricca di signi cato e profonda, capace di suscitare emo- zioni e riconoscersi in essa. E, ancora, quasi a chiarimento, scrive nella lirica “La parola”:
È come il cieco
– che vede troppo con l’anima
e trema –
la parola
caduta
sola
sulla carta bianca4.
L’immagine del cieco, cara alla poesia classica (Omero cieco va trascinando a stento i suoi passi in terra greca per interrogare i morti eroi; la stessa immagine è ripresa dal Foscolo per dare risalto alla poesia eternatrice), serve al Nostro, greco anche lui, per caricare di denso significato la parola che ”vede troppo / con l’anima” e che, quasi “caduta” per caso sul foglio, è capace di andare oltre e di fare intrave- dere la realtà foriera spesso di tensioni e di forti contrasti. Questo perché non i rumori e né i suoni lo interessano. Gli è cara la parole atta a tradurre i suoi pensieri, frutto di puntuali osservazioni, di riflessioni profonde e di nobili
sentimenti che interessano tutti, indi- stintamente l’io e l’altro.
La “limpida povertà”, di cui parla il poeta, è una libera scelta, è il preferire la parola autentica, “sola / sulla carta bianca”, alle costruzioni ef mere che dicono per non dire, come l’accostarsi all’acqua di roccia che disseta piutto- sto che alle tante altre che riempiono e lasciano l’arsura. Ed è un grande pregio, questo di Trainito (a buon ragione, Giuliano Manacorda5 parla di “bella virtù”), specie nella nostra età, in cui fattucchieri della parola s’improvvisa- no sperimentatori e vogliono farsi ac- clamare poeti.
Il fondo ri essivo, come l’acqua di roccia, caratterizza la poesia di Traini- to, rivestendo di una patina di saggezza uomini e cose, ricordi puri cati dalle scorie e volti di donne fossilizzati dal tempo. Si nota anche in “Lontani approdi” che dà il titolo alla silloge ci- tata, ma anche nella lirica “Silenzio”, ripubblicata in Filo spinato:
Quando
di pallide ombre
si empie la notte
e canti di cicale
attendono l’alba
il cuore di tutte le cose si ferma. Nell’ora della verità
c’è solo silenzio6.
Nell’ora in cui tutto sembra dormire è il momento propizio per ascoltare se stessi; solo nel silenzio si può sentire viva la verità che è in noi. Trainito lo afferma senza mezzi termini. C’è qui una punta di gnomicità che non gua- sta, anzi apre al dialogo e al confronto. Così è in “Beatitudini” o, ancora, in “Naufragio” («… Confuso / nei colori e nello spazio / in un naufragio / che non ha con ni…»), in cui è evidente l’aspetto metafisico della vita e il bisogno di trovare scampo o di gettare un’àncora di salvezza che possa alleviare il dolore e mettere freno alle difficoltà di ogni giorno.
Trainito, che pure ama la vita e, a modo suo, da poeta la partecipa, pur constatando lo sconforto e le amarezze del vivere, non si chiude in sé, tanto meno si rassegna, perché sa che nessuno ne rimane indenne. Il dolore, come categoria della vita, è il lievito che spinge verso gli altri, e il poeta, novello Prometeo, si fa portatore di umana solidarietà, aprendo alla speranza, che è consapevolezza, accettazione virile, coraggio nell’andare sino in fondo e vivere con dignità.
Elemosinare la vita ed ottenerla
non è prodigio. Miracolo
è
salvare la speranza7.
Questa speranza, miracolo salvavita, è uno dei motivi che, insieme con il dolore, è presente in tutta la produzione poetica del Nostro. In “Homo”, oltre alla sofferenza e alla solitudine («Ferito dalle catene / tra tto il costato / … / e aspetta l’amore»), c’è la speranza nell’amore che tutto fa dimenticare. L’uomo d’oggi che sopporta il male esistenziale aspetta una parola, un gesto, perché possa aprirsi al sorriso e attutire il dolore nel nome dell’umana fratellanza e della solidarietà.
In “Solitudine Pasquale” c’è una cosciente accettazione del dolore, senza lamenti, senza invocazioni di aiuto.
Non ho una madonna che pianga né un calvario
dove tutti possano vedere
il mio dolore.
…Nudo,
solo
ma vero 8 ritorno alla terra in silenzio .
Nel dolore e nella solitudine l’uomo, «oscuro martire di in niti calvari», vede consumare piano piano l’esistenza: la vita va a nire e dà spazio alla morte. Eppure, al dolore sono collegati la vita e la morte. Nella brevissima liri- ca “Nagasaki”, egli, in bilico tra la vita e la morte, non si rende conto di anda- re incontro ad un’immane catastrofe, qualora continui a sganciare bombe nell’indifferenza, quasi a non dare peso all’in nità di morti e alle conseguenze delle irradiazioni, segni dif cilmente cancellabili e portatori, essi stessi, di morte. Continuare a giocare con l’ato- mica, l’essere tra la vita e la morte, signi ca incoscienza, non valutare un pericolo così devastante e annullatore («L’angelo di pietra / di Nagasaki / ha pianto. / Nessuno l’ha visto»). Il poeta, che è un veggente, con un pizzico di ironia, ma con bonomia, sembra qua- si tirare le orecchie a quanti auspicano il ritorno al nucleare, per aprire ad un tema attuale che tiene in allarme, ora più discusso, specie dopo l’avvenuto terremoto/maremoto del Giappone che ha sensibilizzato fortemente l’opinione pubblica mondiale.
Trainito sente il contrasto vita/morte, lo fa suo e lo sviluppa nella maniera più consona ed originale. Si leggano le liriche “Ai miei sogni” («Quando / mi si fermerà il cuore / nessuno / ruberà nuvole / ai miei sogni»), “Correranno cavalli” o, ancora, “In orbita”, tanto per citarne alcune, in cui, di là dell’evento che segna una cesura con il mondo, l’uomo s’immagina talmente libero dai condizionamenti, sicuro di poter vedere le cose nella loro luce più vera e bella, in un candido stupore infantile, come nella lirica “L’idealista”:
Morì bambino
da vecchio seguendo
tra ciuf di nuvole un sogno9.
Questa di Trainito è la presa di coscienza dell’ultima tappa, a cui siamo destinati, motivo portante di Lontani approdi, ma egli è sempre per la vita che prorompe da ogni dove («Agavi sulla mia strada / e profumo di zagara. / Fatemi vedere Dio», – grida -), e si manifesta attraverso le grandi piccole cose che la inghirlandano, per cui, an- che se si snoda tra un caleidoscopico vortice di spine e profumi, rifugge il dolore per aprirsi alla conoscenza e al mistero («Voglio annegare / in una ca- scata di luce / per conoscere Dio»10), per veri care il miracolo, di cui è dono, a costo di pagarla cara, come è in «Meduse», dove il gioco tra la vita e la morte è palesemente scoperto, e vale la pena farlo.
Sul lembo della spiaggia bagnata dal mare
a tempo di culla,
le lievi meduse
sospinte dall’onde, anemoni d’acqua
– fra sassi –
si sono dischiuse .
Le meduse sono metafora della vita; «anemoni d’acqua», pur sapendo di morire, s’aprono alla bellezza, così come l’uomo alla vita. Pochi versi, eppure carichi di signi cato, profondi. Di qui il bisogno del poeta di darsi all’amore e agli affetti, spesso recuperati nel ricordo (“A mio padre”), oppure semplici presenze e numi tutelari, come in “Torno all’antica casa”:
Come ulivi cresciuti
nello stesso pozzo di terra
11
– coi rami e le radici
confuse in sostegno d’amore – m’attendono il padre e la madre12.
L’amore liare, il senso dell’unità della famiglia, sono ben compendiati nella similitudine degli ulivi che allude alla solida resistenza al tempo, oltre che alla pace, mentre l’immagine dei rami e delle radici costituisce un tutt’uno «in sostegno d’amore», l’amore verso i propri cari e la terra che lo lega a sé.
Il poeta coglie in sintesi ampie tema- tiche o problemi, di cui tanto ci sareb- be da dire, perché, da buon quali ca- tore (secondo la lologia sperimentale di Davide Nardoni, poeta è chi quali – ca), anche indirettamente, non rinuncia all’impegno, fatto di denuncia per il degrado ambientale e il disagio socia- le. Si legga “Gela 1960”, dove il poeta grida la sua amarezza per lo scempio della città («L’immensa nube del pe- trolio / ha sciolto già / no all’orizzon- te / il rosso del tramonto. / Mi hanno ucciso la patria»), o “Spiagge del sud” in cui, nel persistere dell’amarezza, scrive: «sono rimasto solo»:
Hanno ucciso
le lepri che fuggivano

hanno fermato
le sirene
che venivano a notte
sottola luna tremula
in mille voci di conchiglia… ed io
sono rimasto solo13.
Non resta che constatare la triste miseria in cui il Sud è stato ridotto da una miope classe politica che permet- te ogni abuso. Il poeta rimane solo e inascoltato; nessuno fa niente per salvare il salvabile. Cosa gli resta, allora, se non ripiegarsi su se stesso e darsi al ricordo?
Chi non conobbe
Gela contadina

mai ne conoscerà
l’anima oscura
nascosta dentro un ciuffo di cotone, …14
L’uomo, ormai spaesato, non trova gli agganci nella realtà e con il ricor- do si ricrea la Gela d’una volta, fatta di miseria, seppure sopportata con dignità, ma vera.
Le immagini sono appena abbozzate, ma la luce che le irradia, anche se al tramonto, è luminosa, tale da farle rimbalzare e presentarle nella loro essenza, velate da una dignitosa nostalgia, non rimpianto, perché il poeta sa che a niente vale, e la vita, nonostante tutto, continua.
La nostalgia, il dolore del ritorno alla vita e alle cose d’un tempo, alla natura a misura d’uomo, lontana dalla plastica e da ogni forma d’inquinamento («fatta di sole, mare, / e di tuguri»), questa sì, è sentita e riproposta con accenti di liale attaccamento, perché è la terra dei padri. E la parola, ancora una volta, caduta purificata sul foglio, riesce a far trasalire e trascina, accompagnati da un sottofondo di chopiniana musicalità, reso bene dal verso breve che caratterizza la lirica trainitiana.
Non credo che nel panorama della poesia contemporanea ci siano poeti che, come il Nostro, sappiano coglie- re con tanta abilità gli stati d’animo, le trepidazioni proprie d’un sentimento, qualsiasi esso sia, tali da coinvolgere e lasciare indelebile traccia. Il lettore è portato a calarsi nel suo intimo e solo in quella sfera è spinto a riconsiderare la sua umanità, il suo io proteso verso gli altri e la vita, la sua limitatezza e l’aspirazione all’in nito. Per tutto ciò, il fondo ri essivo di questa poesia non
Saggi 12
ha riscontri, e non ha senso richiamarsi a questo o quel poeta. Senza dubbio, possono esserci luoghi comuni, ed è normale che ci siano, anche se i veri poeti non li presentano mai allo stesso modo, e ciò fa parte dell’originalità che in Trainito sta nell’attenzione che rivolge a tutto ciò che attiene all’esistenza e al modo di esprimerla, fatta di essenzialità, di equilibrio, di senti- mento, e di adeguato uso delle gure retoriche (la similitudine, l’anafora, l’analogia, l’anastrofe, ecc.) che mol- to danno ad una poesia siffatta, tutta rivolta all’economia della parola ed a raggiungere il massimo effetto. Va detto pure che questa poesia non va confusa con il frammentismo, né, altresì, con l’astrattismo, perché essa parla un linguaggio aperto alla sensibilità del lettore, assuefatto e coinvolto in un’avventura dello spirito.
Ritornando ai temi di questa poesia, dal motivo degli affetti familiari a quello dell’attaccamento alla terra d’origine, dall’amore a quello della natura, il passo è breve. È stato già fatto notare, ma piccole sfumature li presentano nella loro luce diversificata che si riflette sull’uomo. La natura ora è deturpata, come in “Gela 1960” o “Spiagge del sud”, ora è umanizzata dal lavoro dell’uomo (“Rose”), e appare solare e bella, incontaminata, come in “Villa Massimiano”, in cui « ori di cactus / aprono isole di sole / e sui cocci di pomice / la lucertola fugge / verso il verde», e desiderata (“Floppy”, «Fatemi fare / – senza inginocchiarmi – / quattro passi, / su una terra reale /…», per il semplice bisogno di vivere, magari per un po’, in diretto contatto con la natura reale, di là di ogni travisamento informatico. Il poeta preferisce rifugiarsi in essa e sentirne i palpiti,
anche le negatività che possono esserci. Sono parte integrante della vita con tutta la consapevolezza della sofferenza a cui va incontro.
L’amore è il sentimento forte che fa sprofondare il poeta in un piacevole baratro:
Affondo in te
per amarti
e gli occhi tuoi socchiusi s’aggrappano al buio
per soffrire.
Un baratro
mi si apre nel petto
e sprofondo15
.
Sono i versi di “Per amarti”. Si noti l’analogia, “un baratro”, che dà un senso di smisuratezza a quest’amore, e l’immagine della donna nella sua dolce sofferenza. Nel giro di otto brevi versi, Gaetano Trainito esprime tutta la gioia di vivere, che è anche un eterno morire, per continuare e tramandare l’umana esistenza. Così è in “Luce degli occhi” o in “Soffrire d’amore”, dove, al solo sentore di rimanere solo, dichiara la sua tristezza.
Il più delle volte, però, la donna vive nel ricordo, e l’amore allora non è che intima sofferenza (“Spaventapasseri”, “Incontro”), se si considera che con lei è passato il tempo più bello, ormai, come in «Ore», considerato «… lago d’amore / coperto di nebbia», mentre «le ore / tessute in silenzio / si strappa- no / sotto le mani»16. Di qui l’abbando- narsi nel ricordo, ma la donna è ormai lontana ed allora il poeta è portato a ripiegarsi su se stesso e a illudersi. Si leggano i versi di “Le cose che ama- vo”, o de “Le donne vestite di nero”, in cui, insieme con le donne, egli grida: «ed io sono rimasto bambino17», mentre, quasi in proiezione, si pro la l’immagine della Sicilia cara a Trainito, che ricorda per comunanza di sentire il greco siracusano Teocrito.
O dolce canto nenia
lamento d’amore sospirato
sul metallico fruscio del pizzicato scacciator di pensieri18.
È la lirica “L’aratro”, dove il ricor- do va a ripescare uomini e cose che rivivono in una luce diafana e vera. La poesia si fa canto aperto e musica ammaliante.
Stelle di gesso e Lontani approdi sono le ultime sillogi, in ordine di tempo, che, pur tenendo fede alla poetica che ha caratterizzato finora la poesia del Nostro, presentano qualche novità dovuta ad una particolare disposizione dell’animo che privilegia il vissuto come ricordo in un più insistente piegarsi su di sé, dando più spazio alla nativa propensione alla riflessione. Il poeta rivolge il suo sguardo bona- rio verso le cose della vita che insieme con essa sfumano e dicono addio, senza che questo comporti rinuncia, perché rimane ancorato alla realtà e la vive, nonostante l’inesorabile volgere del tempo e l’enigma del futuro. C’è in queste liriche un più manifesto bisogno di scrutare l’umana esistenza, di voler comprendere il noumeno, il tendere meta sico che è in noi, vivo e pressante, anche se spesso non è oggetto di dovuta attenzione.
Stelle di gesso
sulla lavagna cancellate
con lo straccio. Suona la campana. La lezione è nita19.
La lirica è Stelle di gesso, che dà il
titolo al libro citato. A volercela spiegare, diciamo che la vita, fatta di illusioni, sogni, aspettative, è, per il poeta, nita, ed ora entra nella fase in cui vol- ge al tramonto, nella vecchiezza, dove tutto è visto con distacco e come se le cose non gli appartenessero più. Il poeta è più contemplativo, tende maggiormente alla poesia occasionale (“Cappelle votive”, “Sicilia”) e al ricordo. La donna è ancora presente, ma la sua ormai è una presenza/assenza, come in “Marsala”, “A Cinzia” o in “Foschie”:
Ci siamo persi
in questo cielo grigio tra l’umide foschie …
Addio fantasma, ombra
del recente passato. Eppure
– no a ieri –
io t’ho amato20.
Il verso andante e sicuro richiama da vicino un certo modo di versi ca- re di Cardarelli, ma è una condizione propria della lirica moderna. A ciò è di aiuto l’aggettivazione, che in Trainito è scarna, per la verità, e che qui («sul stanco e lento», «Vago il pensiero / povero e svogliato») concorre parec- chio a ricreare un’atmosfera di sereno abbandono, una calma che altre volte non si addirebbe. Il poeta è portato a rivivere nella donna la bellezza, la stitica bellezza che nel ricordo gli è di conforto.
Rosa (“Rosa”, “A Rosa”) è una dol- ce creatura odorosa di alghe che, come Beate, gli dà sollievo e linfa.
Io
te cerco

– con la bianca schiuma – i miei pensieri
come del ni
a parlarti d’amore21.
Saggi 14
Questa lirica non ha niente da in- vidiare a tanta altra. Nel tono e nelle immagini, nella struttura compositiva, il poeta di Gela ssa in versi limpidissimi una bellezza che gli è lontana, eppure è vivida e presente, ricreata dalla poesia e, ad onta del tempo, continuerà ad essere ammirata.
La silloge Lontani approdi, rispetto a quella precedente, è più scarni cata, risente del tempo e delle cose che furono, e il poeta rivive tutto nel ricordo con distacco ma sempre con l’attenzione che gli ha riservato nelle altre rac- colte. È come se soppesasse di più la parola che, denudata da ogni elemento decorativo, esprime l’essenziale, toccando da vicino l’uomo nel cuore e nella mente.
Il poeta osserva e lascia spazio al silenzio: nella consapevolezza non c’è bisogno di parole, più bene co è l’ascolto. Si legga “Solo con Te” («Solo con Te, / Signore, / reciterò la preghiera / senza parole22») che è una preghiera composta, dove non viene meno la ducia, sostenuta dall’attesa. Ma tutte le liriche di questa raccolta danno spazio all’io che, come in una confessione, si apre per dare libera uscita ai ricordi che affollano l’esi- stenza e sono motivo di ri essione che spesso offre spunti gnomici, frutto dell’esperienza e degli anni.
I desideri e le sofferenze dei primi passi riaf orano
nel sopore della vecchiaia in nebulose parvenze23.
Altrove i ricordi, queste “parvenze” che sono le tracce del passato, diventa- no più sfumati, come in “Dissolvenze”, dove il poeta metaforicamente ricorre all’immagine dell’isola «di volti e di parole / sempre più vuota» e mantiene
la calma per quella consapevolezza di cui abbiamo scritto e che in “Senilità” è molto palese.
Un passato
– nero di grafiti –
in un futuro spento. Un lento trascinarsi tra le pietre e le ombre fuori dell’ore24.
È un guardare in faccia la realtà, senza chiudersi in sé e la canta. Nell’approssimarsi del tramonto, a niente vale illudersi, ed è meglio chiamare le cose col proprio nome. La parola è levigata, come i sassi dal tempo (“Gli inutili soli”), e l’effetto è ammirevole, come il ritmo che è gradito all’orecchio e al cuore. Segno della vitalità di questa poesia, che è capace di fare accettare e non si chiude in sé e le canta le umane avversità e di s dare il tempo.

Salvatore Vecchio

1 1 G. Trainito, Le mani degli angeli, Ragusa, Ci. Di. Bi ed., 1994, pag. 59; poi in Filo spinato, Torino, SEI, pag. 141.
2 M. Vigliano, La poesia di Gaetano Trainito, in “Spiragli”, Anno IX, 1-2, 1997, pag. 29.
3 G. Trainito, Stelle di gesso, Padova, Il Poligrafo, 2000, pag. 71.
4 Ivi, pag. 70.
5 G. Manacorda, “Testimonianze critiche”, in Stelle di Gesso, cit., pag. 90.
6 G. Trainito, Filo spinato, cit., pag. 87.
7 Ivi, pag. 131.
8 Ivi, pagg. 63-64.
9 Ivi, pag. 111.
10 Ivi, pagg. 59 e 61.
11 Ivi, pag. 163.
12 Ivi, pag. 5.
13 Ivi, pagg. 3-4 e 21-22.
14 Ivi, pag. 103.
15 Ivi, pag. 17.
16 Ivi, pag. 49.
17 Ivi, pagg. 11 e 73.
18 Ivi, pag, 119.
19 G. Trainito, Stelle di gesso, cit. pag. 19.
20 Ivi, pag. 60.
21 Ivi, pag. 38.
22 G. Trainito, Lontani approdi, Padova, Il Poligrafo, 2003, pag. 48.
23 Ivi, pag. 58.
24 Ivi, pag. 35. 

 

 

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 7-14.




 La sindrome di Stendhal 

È nostra intenzione apportare un contributo integrativo alla comprensione e alla terapia della cosiddetta”Sindrome di Stendhal”, ossia della serie di sintomi che possono scatenarsi per l’eccessiva emozione provata di fronte a un capolavoro. illustrata dalla Magherini nel suo libro che porta lo stesso titolo. 

Prenderemo come schema di riferimento la “psicoterapia archetipica” di James Hillman e la critica che egli muove alle categorie di derivazione analitica e agli approcci terapeutici tradizionali. 

Le opere d’arte che inducono alla sindrome invadono, per così dire, “inflazionano” l’osservatore con la loro bellezza estetica. Spiegare, però, lo smarrimento che colpisce l’individuo in termini di riemergere alla coscienza di conflitti latenti, di situazioni familiari irrisolte, di ritorno del rimosso, sembra piuttosto riduttivo sia a livello conoscitivo che terapeutico. Infatti, cosa rappresentano queste opere? Cosa connotano in maniera così violenta da provocare smarrimento. stati confusionali. crisi di pianto. sintomi fisici quali sudorazione. tachicardia. vertigini. angosce e vomito? 

I temi che esse trattano sono per lo più di carattere mitico, religioso, eroico, fiabesco, in una parola: numinoso. Vanno a toccare dimensioni psichiche arcaiche trascendenti le mere esperienze personali. dimensioni “archetipiche”. Muovono grande “commozione. intendendo con Frobenius per commozione un fatto emotivo tale da porre in atto una potenzialità psichica che è in stretto rapporto con la sua determinante fisiologica, (ricordando che psiche e soma hanno un nesso di contemporaneità e non di causalità). 

Per meglio comprendere tali processi appare opportuno rifarsi ad un concetto di inconscio che tenga conto del mitico. del religioso. del numinoso: rifarsi alla Grecia arcaica al fine di riscoprire gli archetipi della nostra mente e della nostra cultura, rileggere la Grecia come metafora del nostro mondo immaginale che ospita gli archetipi sotto forma di dèi. 

Venticinque secoli or sono nel bacino del Mediterraneo si viveva al modo del dio Pan, il cui mondo include: masturbazione, stupro, panico, convulsioni e incubi. Nell’epoca attuale si vive al modo di Cristo, negando o, continuamente mortificando e condannando, le istanze pulsionali. In epoca arcaica si viveva nella dimensione dello straordinario, dell’eccesso, dell’illimitato, dell’inconscio, dell’Es. Ora si vive nella dimensione dell’ordinario, della misura, del limitato, della razionalità, dell’io. 

Nell’antica Grecia la religione olimpica venne via via soppiantando la religione orfica e misterica; alle divinità terrestri, sotterranee e marine delle popolazioni autoctone vennero man mano sovrapponendosi le divinità celesti delle nomadi popolazioni arie che conquistarono la Grecia. La dimensione dionisiaca del sentire e degli istinti andò sempre più affievolendosi per lasciare il posto alla dimensione apollinea con i suoi ideali di equilibrio e di armonia. 

In seguito, vi fu l’avvento di Cristo, della tradizione giudaico-cristiana che ancor più tentò di reprimere e condannare l’istintualità identificando il dio Pan con il diavolo. – 

Cristo è l’opposto di Pan. Mentre l’uno ha la corona di spine, il torace glabro, i piedi trafitti ed è asessuato; l’altro ha le coma, il torace villoso e virile, gli zoccoli, ed è potentemente fallico. Pan rappresenta l’istintualità dirompente, la corporeità; Cristo la spiritualità, la mente, il logos. 

La contrapposizione tra la dimensione di Pan e quella di Cristo parrebbe riflettere la scissione della psiche responsabile di tanti eventi patologici. Tale scissione della dimensione psichica durerà fino al Settecento quando si avrà il primo tentativo di recuperare la libertà degli istinti, di riunire mente e corpo attraverso il libertinaggio che diverrà una filisofia di vita. Seguiranno, però, romanticismo e idealismo che, con le loro caratteristiche superegoiche, soffocheranno le istanze libertine sostituendole con gli ideali di famiglia e amor di patria. 

La psicanalisi, con l’introduzione del concetto di inconscio come sede delle pulsioni, sarà il secondo tentativo libertario di recupero di una concezione unitaria della psiche. Tuttavia il pansessualismo freudiano andrà a scontrarsi con la morale vittoriana dell’epoca che fortemente ne condizionerà lo sviluppo. D’altra parte, la pretesa delle psicanalisi di essere una teoria esaustiva della realtà psichica trova un limite già nelle sue premesse. Infatti il porre la centralità e l’universalità del complesso edipico e lo spiegare tutta la realtà psichica in termini di libido e inconscio personale porta a escluderne tutti gli altri aspetti rappresentati dai simboli. 

Il ridurre il simbolo a segno, a mera espressione della pulsione sessuale, fa perdere di vista l’enorn1e ricchezza di significati che nel simbolo è insita. Sarà poi Jung, con l’introduzione del concetto. di inconscio collettivo come sede degli archetipi che restituirà al simbolo la sua pregnanza riconoscendo ad esso la molteplicità dei suoi significati e le potenzialità terapeutiche di cui eportatore. La concezione junghiana valorizzerà ancor più le funzioni dell’inconscio rispetto a quelle dell’Io. Diversamente da Freud, Jung porrà nell’inconscio e non nell’Io la motivazione a sperimentare per conoscere. L’Io invece sarà deputato ad interpretare, coordinare, dedurre e mettere ordine nell’esperienza. 

Anche a livello terapeutico ne consegue una rivalutazione dell’inconscio rispetto all’Io. Nelle terapie centrate sull’Io è l’interpretazione ad avere il ruolo principale e la parola a costituire l’elemento basilare di comunicazione. Ma la parola nata dall’esigenza di dialogare, comprendere, definire, distinguere, comunicare, ci danna di fatto all’incomunicabilità: il significato che le viene dato da chi parla è diverso da quello attribuitole da chi ascolta. Così nel setting, paziente e terapeuta utilizzano la parola l’uno per tentare di esprimere il proprio disagio psichico, l’altro per diagnosticare e interpretare. La parola è il linguaggio dell’Io, non dell’inconscio. 

Nella terapia junghiana, invece, la comunicazione è veicolata dall’inconscio che si esprime attraverso i simboli. Diversamente dal linguaggio verbale che usa le categorie della logica, il simbolo si esprime attraverso il linguaggio analogico, paradossale. 

I simboli sono produzioni immaginifiche, rappresentazioni indistinte, metaforiche ed enigmatiche della realtà psichica. Il loro significato è unico ed individuale, pur essendo, allo stesso tempo; partecipe di un immaginario universale. Se debitamente utilizzati nel processo terapeutico, essi facilitano la transizione da un atteggiamento o uno stato psicologico ad un altro, dando nuovo senso alla nostra vita. 

La valorizzazione del simbolo come strumento di comunicazione e di cura è ulteriolmente confermata e potenziata dalla “psicologia archetipica” di Hillman, in cui la mitologia assume una posizione centrale. Hillman ha fatto un attento esame delle figure mitologiche e dell’evoluzione che esse hanno subito nella tradizione; si è soffermato sul tipo di immaginazione che queste figure hanno ispirato nel corso della storia – nella letteratura, nell’arte, nella filosofia e nei comportamenti che, neitempi antichi venivano compresi come frutto dell’intervento di Pan, di Artemide, di Dioniso o di Saturno. 

La concezione di Hillman si fonda sul presupposto che ogni patologia sia associabile ad una determinata divinità, i diversi dèi, a suo parere, personificherebbero certe specifiche sindromi archetipiche e allora tra esse potremmo, a ragione, far rientrare la nostra sindrome di Stendhal. Esse appartengono al “mondo immaginale” per dirla alla Corbin, cioè, ad un mondo di immagini specificatamente psichico con le sue strutture, i suoi processi, toni emotivi e raffigurazioni drammatiche: il mondo della psiche e degli archetipi. Tale mondo di immagini rappresenta il tramite fra il mondo personale dell’Io cosciente e il mondo del comportamento istintuale e della vita biologica. 

Il comportamento patologico è, per Hillman, una rappresentazione mitica, una mimests di un modello archetipico. Il mito rivela la psicopatologia come una modalità essenziale alla vita psicologica, ogni archetipo contiene la propria patologia: pathos, la sofferenza, è essenziale alla sua natura non meno dilogos, il suo significato. H1llman sottolinea, inoltre, l’attività creativa della fantasia, l’attività di “creazione dell’anima” che si plasma sui modelli archetipici forniti dalla mitologia. È attraverso l’esame psicologico del processo vitale di questo mondo archetipico così come esso è forgiato dalla fantasia che è possibile cogliere il “significato” specificatamente valido per l’individuo. 

Risulta evidente come ciò ben si differenzi dalle “interpretazioni psicologiche” che, parlando il linguaggio dell’io, non quello della psiche, fanno perdere il significato e la ricchezza di possibilità terapeutiche che il comportamento “patologico” ci offre. Infatti il comportamento è sempre strettamente legato all’immaginale, all’attività della fantasia, e se l’interpretazione blocca la strada alla fantasia blocca anche il processo terapeutico. 

Ritornando alla Grecia antica troviamo conferma dell’impatto delle arti visive sull’anima, nell’atteggiamento originario che il greco antico usava per cogliere il mondo: l’atteggiamento contemplativo, visivo. Di qui il privilegio della vista sugli altri sensi, nonché una svalutazione culturale del mondo dell’azione e del lavoro. Stesso atteggiamento ritroviamo anche nei misteri: solo chi li ha contemplati è “tre volte felice” e l’iniziato si chiama mystes (donde il nome di mistero), perché stringe gli occhi per vedere più lontano (come fa appunto il “miope” – una designazione di identica derivazione linguistica) oppure, secondo un’altra spiegazione, chiude gli occhi del corpo per vedere con quelli dell’anima. 

Pensare e vedere erano. per gran parte, sinonimi. Vedere le opere d’arte è pensarle, è coglierne il profondo significato psichico. Il linguaggio dell’arte è come quello del sogno, come quello del mito e della religione. Anche nell’arte classica, così come nel sogno, la psiche si personifica attraverso figure mitologiche: déi, eroi, ninfe, demoni. 

Ora se l’arte, produttrice di simboli per antonomasia. può scatenare una sindrome con manifestazioni così violente come quelle da noi prese in esame, se essa è capace di determinare una “defaillance” dell’Io che promuove l’emergere degli archetipi dell’inconscio collettivo espressi attraverso i simboli, sarà proprio ai simboli che dovremo appellarci, nella terapia, per metterei in comunicazione con l’inconscio dell’altro. 

Se vogliamo comprendere e curare la sindrome dovremo entrarci in rapporto, entrare nel delirio del paziente utilizzando un linguaggio comune: il linguaggio del simbolo, appunto, il linguaggio del mito. Esso ci offre, infatti, un validissimo strumento di conoscenza: la possibiltà di esprimere affinità con l’altro, di entrare nella sua stessa dimensione psichica laddove invece l’analisi, legata al nosografico, ci porta a evidenziare una rassicurante “diversità” dall’altro etichettato come “patologico”. Si fa una diagnosi di “diverso” perché non si può accettare come propria la patologia. Anche Basaglia sottolineava la necessità di “attraversare il delirio” anziché contrastarlo. 

La sindrome di Stendhal, a nostro parere, non può essere compresa e curata se si considera l’uomo come una congerie di pulsioni più o meno cieche, se si riduce l’analisi delle componenti costitutive dell’essere umano ad una sorta di addizione pulsionale che lo priva della sua dimensione psichica globale. Solo con il recupero di una concezione unitaria della psiche potremo essere in grado di utilizzare l’esplodere della crisi, dello stato confusionale, del panico per curare e rimettere in moto risorse energetiche capaci di far riprendere all’individuo il cammino verso la realizzazione del proprio Sé. 

La recente recrudescenza della sindrome da noi presa in considerazione sembra andare di pari passo con il riemergere, nella nostra epoca, della dimensione dello straordinario, degli eccessi, della violenza, dell’oscenità. È indicativo il fatto che i casi riportati dalla Magherini riguardino maggiormente persone provenienti dai Paesi nordici, Paesi in cui l’elevato senso del sociale ha teso ad uniformare sempre più i comportamenti alle regole del vivere comune condizionando, se non soffocando, la personalità individuale intesa come tendenza formativa della psiche. 

La crisi indotta dalla sindrome può essere letta come espressione della necessità di oltrepassare i limiti dell’ordinario, come aspirazione della trasgressione, alla rottura degli schemi comportamentali abituali, come urgente spinta a riscoprire e realizzare tendenze psichiche profonde. D’altra parte, tuttavia, di solito ciò che si desidera, comportando un cambiamento. La paura crea panico, suscita la dimensione del dio Pan. Allora, nella terapia, la parola che cura è quella che ci fa entrare nella dimensione del dio, è la parola escatologica che permette il riattivarsi del mito inteso come metafora dell’archetipo. Se leggiamo la regressione a comportamenti archetipici che ha luogo nel delirio non semplicemente come tentativo di fuga dalla realtà ma come spunto per la ricerca di nuove vie esistenziali, potremo usare il delirio a fini terapeutici. 

Come i suoi antenati, l’uomo moderno è capace di forgiare miti; il terapeuta allora potrà adoperarsi per far rivivere al paziente il mito, per fargli mettere in scena drammi secolari basati su temi archetipici onde farli emergere alla coscienza e liberarlo dalla loro inflazione; egli svolgerà funzioni di psicopompo: esprimendo affinità con il paziente lo accompagnerà nel suo delirio, sviluppando Eros (e non la neutralità affettiva della psicoanalisi). Per contro il paziente, attraverso i simboli, attraverso l’espressione dell’attività fantastica, immaginale (da imago) della sua anima, potrà esprimere il suo disagio e cogliere il perché della sua sofferenza, il perché della scissione che si è venuta a creare tra i suoi comportamenti e le sue tendenze psichiche profonde. Seguendo la via dell’affinità, dunque, il terapeuta accompagnerà il paziente nel suo cammino dal pathos al logos. 

La rivisitazione della propria personalità di base nella vivida realtà con cui le immagini sono vissute nel delirio, infatti, sarà capace di operare una reintegrazione dell’Io a livelli superiori e di promuovere il risolversi della patologia in una riarmonizzazione tra inconscio e coscienza, tra psiche e soma, dando nuovo dinamismo al cammino verso l’individuazione. 

Laura Viaggio

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pagg. 5-10.




Ionesco e la critica

 Ionesco e la critica 

Ionesco, agli inizi della sua carriera di drammaturgo, era rimasto disorientato e abbastanza risentito per un certo modo di fare critica. Non aveva tutti i torti, perché spesso tutt’altro si fa che criticare un’opera o, nell’insieme, un autore. Criticare, checché ne dicano i professori, è sapere ascoltare con umiltà e mettersi nelle condizioni di sentire ciò che l’autore dice attraverso la sua opera. Così facendo, se si troverà dinanzi a un vero interlocutore, il critico – io direi il lettore – ne sarà affascinato e ne gusterà l’arte, perché quello gli parlerà direttamente al cuore e lo esalterà nell’anima e nel corpo. Al contrario, si troverà come dinanzi a un muto, mancherà ogni tipo di allusione e vano sarà il tentativo di stabilire un qualsiasi dialogo. 

L’autore, capace di tenere vincolato a sé il fruitore, e di esaltarlo, è quello che diciamo vero artista, che – a sua volta – opera nella piena libertà, lavorando la materia grezza della sua fantasia e dei suoi sogni, avendo cura soltanto del suo lavoro. Il vero artista non è affatto come i politici che, già fin dall’inizio, devono essere inquadrati in questo o in quel partito e in quella corrente; egli è veramente libero e opera incurante di ogni movimento o 

corrente, lasciando, appunto, che siano i critici a interessarsene e a perdersi poi in un labirinto di parole vuote. Venditori di fumo, piuttosto che mediatori d’arte tra l’autore e il suo pubblico. 

Ciò che è capitato inizialmente a Ionesco è stata un’incomprensione tale da far gridare allo scandalo. I critici, più disorientati che mai, pensarono all’arrivo di una nuova barbarie, e netto fu il loro rifiuto nei confronti di quello che poi verrà detto «nuovo teatro». E gliene dissero di tutti i colori. Lo presero per un provocatore (in senso negativo – s’intende -, perché positivamente a tutt’altro porta l’opera di Ionesco), per un dilettante e un imbroglione. Ma non mancarono quelli che lo apprezzarono e lo incoraggiarono fin dalla prima rappresentazione di La cantatrice chauve, riconoscendolo come drammaturgo. E André Breton, per fare un nome, andava dicendo e scrivendo che questo tipo di teatro era proprio quello che mancava al surrealismo che già aveva avuto una poesia e una pittura surrealiste, ma non un teatro (1). 

Noi non percorreremo tutta la bibliografia critica, ché sarebbe troppo lungo: ci limiteremo a citare alcuni saMi che riteniamo abbiano contribuito enormemente a far conoscere e a far comprendere l’uomo e l’artista Ionesco. 

Già nel 1954 Jacques Lemarchand. nella sua prefazione al l° volume del Thédtre d’Eugene Ionesco. dopo essere stato dei primi più accaniti sostenitori della Cantatrice chauve. dice di essere attratto da questo genere di teatro che diverte “perché i suoi personaggi assomigliano a noi indistintamente, agli uomini importanti e a me, – di profilo, – ed è proprio il nostro profilo che egli lancia con brio in queste avventure impreviste, imprevedibili in apparenza. e che spesso riconosciamo addirittura più vere di tutte quelle che ci sono potute capitare». E, avvicinandosi alla conclusione, scrive: «Il teatro di Eugenio Ionesco è sicuramente il più strano e il più spontaneo che ci abbia rivelato il nostro dopoguerra… Esso rifiuta la leziosità drammatica. e con tanta naturalezza che non c’è nemmeno verso di scorgere una “provocazione” – ciò che accomoderebbe tutto – in questo rifiuto». 

Lemarchand individua fin dalle prime opere di Ionesco qual è la motivazione profonda del suo teatro, la quale non è certo quella di fare arte per arte, o di rimpiazzare col suo un certo modo di fare teatro. E quello che meravigliò, e stordì i primi spettatori e i critici, fu proprio la mancanza di un riferimento concreto al reale, mentre, a guardarci bene, era la realtà umana nella sua essenza che veniva loro imposta. Lemarchand intuì lo sforzo di Ionesco di voler cogliere nelle sue sfaccettature l’uomo, presentandolo così come egli è, e non nelle sue apparenze fittizie. 

Ionesco porta sulle scene i mali della società di cui l’uomo è lo specchio fedele (la rozza banalità dilagante, il conformismo, la solitudine, la violenza) e in cui si dibatte per trovare una sua identità e tutelarla dalle quotidiane oppressioni della vita e dalle invadenze della materialità che tende a uniformarlo e a renderlo un oggetto. 

È un discorso nuovo, e come tale, ci vorrà tempo prima che venga accettato. Ora, magari, siamo abituati a questo genere di teatro, ma negli anni Cinquanta fu considerato strano, perché diverso in ogni aspetto dai precedenti, e persino dissacrante di una consuetudine teatrale universalmente accettata. Dalla messa in scena dei Sei personaggi in cerca d’autore a quella della Cantatrice chauve erano passati trent’anni e molte cose erano cambiate. Se dal punto di vista prettamente scenico Pirandello aveva trovato soluzioni che verranno attuate e fatte proprie dal «nuovo teatro», e da quello della rappresentazione aveva dato risalto ai personaggi con tutte le loro problematiche. Ionesco opera sul linguaggio, disarticolandolo, e dà grande rilievo agli oggetti. facendo tutto procedere in maniera illogica e priva di un significato apparente. Da qui l’imbarazzo e la difficoltà di capire il testo, da qui anche la taccia di assurdo che questo teatro inizialmente dovette meritarsi. 

Il teatro di Ionesco non solo rompe i ponti con la tradizione, ma pretende che la disposizione dello spettatore sia di uno che rinunci al divertimento fine a se stesso. Insomma, il teatro non è più un posto ove si sciorinano soltanto i panni altrui e la partecipazione è disinteressata, come se non si fosse minimamente toccati dal dramma proposto: esso è divenuto ormai lo specchio della nostra esistenza che costringe a vedere quello che non si vorrebbe, visto che si stenta a riconoscersi in quello che realmente si è. Ma questo ha comportato il non volerlo accettare e ha fatto sì che venisse considerato come assurdo, mentre assurdo non è, se si tiene conto della precarietà della vita odierna. Certo, può sembrare contraddittorio, come lo stesso titolo della Cantatrice chauve, non notando sulla scena una cantante, e tantomeno calva. Lo stesso potremmo dire dell’uomo di oggi che è nella solitudine più nera, nonostante sia più che mai a contatto col suo prossimo e abbia una vita abbastanza frenetica. Egli vive di apparenze e si mostra quello che non è: finge e s’immedesima bene nella sua finzione che a lungo andare lo tradisce, e scoperto, si difende a spada tratta e insiste nella sua testardaggine. Come non si accetta nella vita. non si riconosce nelle rappresentazioni del «nuovo teatro» che, rifuggendo da ogni tipo di sofisticheria drammatica, ce lo presenta nella sua misera nudità. 

Jacques Lemarchand, senza niente indulgere all’amico, riconosce la grande validità della sua opera, e questo suo giudizio troverà – come avremo modo di constatare – riscontro in tutto il teatro ioneschiano. 

Gabriel Marcel è tra quelli che criticheranno negativamente le pièces di Ionesco, specialmente le prime. In un suo saggio apparso nel 1958, La crise du thédtTe et le crepuscule de l’humanisme, considerato che i nuovi drammaturghi 

sono stranieri trapiantati in Francia, parla di « sradicati di cui si potrebbe dire che il pensiero si muove in una specie di terra di nessuno. Un Bechett, un Adamov, un Ionesco, in realtà, vivono ai margini della vita nazionale, quale essa sia, e questo fenomeno di non appartenenza è legato a certi caratteri distintivi della loro opera. Sono dei nuovi arrivati, e con ciò bisogna intendere, non diciamo solamente quello che potrebbe risultare ingannevole, dei diseredati, ma degli uomini che rifiutano ogni eredità… Le opere di questa avanguardia sono in linea di massima espressioni rivelatrici di quella che chiamo qualche volta la coscienza sogghignante». 

L’impressione che si ha a leggere il saggio di G. Marcel è quella di uno che non solo è insofferente a ogni novità, chiuso com’è nell’orto tradizionale, ma che non riconosce all’arte una patente internazionale, facendo differenza e valutando le opere in rapporto al luogo di origine dei singoli autori. Questo è grave in una Francia che predicò la cultura come mezzo di elevazione dei popoli. Vero è che, negli anni a cui ci riferiamo, il nazionalismo era più che mai acceso (lo è tuttora, forse un po’ meno), ma nessuno poteva pensare che si sarebbe arrivati al punto di discriminare autori validissimi che stavano in quel periodo vivificando il teatro. sforzandosi di trovare vie nuove e una nuova credibilità, solo perché stranieri d’origine. 

Gli autori nuovi stavano portando avanti un discorso di rottura con la tradizione, e in questo solo trovavano il loro punto in comune, perché ognuno di essi poi avrebbe sviluppato tematiche proprie; ciò non deve essere considerato motivo di debolezza. bensì pregio e segno di vitalità. 

L’avanguardia degli anni Cinquanta non fu una moda, ma una scelta che in maniera diversa fu portata sino in fondo. Le mode non durano e nel giro di una o due stagioni diventano sorpassate. Le scelte, se sono valide, trovano conferma e si consolidano nel tempo, com’è avvenuto col teatro di Bechett e di altri, Ionesco compreso. i quali – ciascuno a suo modo s’adopereranno a portare sulle scene l’uomo nella sua realtà più profonda, più vera e niente affatto assurda. dando così il via non al “crepuscolo” ma al consolidarsi di un nuovo umanesimo. 

Ionesco non deride l’uomo, ciò che a primo acchito potrebbe sembrare, anche se lo presenta dimesso, trasandato, e apparentemente fuori della normalità, e non fa ironia; se presenta così l’uomo, è perché vuole riportarlo entro i confini dell’umano, da cui si è allontanato. Nuovo don Chisciotte contro i mulini a vento? Forse; intanto, il teatro di Ionesco, dalla prima all’ultima pièce, testimonia la volontà del suo autore di superare l’angusta realtà con una ricerca. condotta in prima persona, tesa a ridare un valore alla vita, tormentata com’è dai mali che s’accompagnano al progresso. 

G. Marcel difende a spada tratta il teatro tradizionale. «Vediamo qui verificarsi il ritorno a una specie di stato bruto. […] uno stato decaduto. […] Il teatro di cui si parla è un prodotto di disassimilazione». E, per dare credito alla sua affermazione, cita un saggio di Ionesco, Espérience du théatre, pubblicato nel febbraio del 1958, dove il drammaturgo, nel vivo della polemica, si lascia prendere la mano da una critica altrettanto pungente contro il teatro tradizionale, non risparmiando nessuno, tenendo conto solo dell’idea che si era fatta. secondo cui, «il teatro non è il linguaggio delle idee», e la sua riuscita consiste nel dare grande risalto agli effetti: «Spingere il teatro al di là di questa zona intermediaria che non è né teatro né letteratura, è restituirlo alla sua funzione, ai suoi confini naturali». E fa il nome di autori più o meno lontani nel tempo. Noi vorremmo solo ricordare che ogni autore vive e risente dello spirito della sua età, per cui, chi viene dopo è sempre avvantaggiato dalla ricerca altrui. A Pirandello (a parte che apporti positivi sono anche negli altri autori), pur accusato di essere troppo discorsivo, possiamo negare il merito di aver rivoluzionato l’arte teatrale? La stessa avanguardia. il «théàtre nouveau» in genere, Ionesco, non gli devono veramente molto? Pirandello, con la prima dei Sei personaggi in cerca d’autore, ebbe la stessa delusione che subirà trent’anni dopo Ionesco con La cantatrice chauve. Poche le presenze, moltissime le reazioni del pubblico e della critica. 

Il nuovo incontra difficoltà a essere accolto; è oggetto di incomprensioni e di tante riserve. come quelle di G. Marcel, che è portato a chiedersi, a un certo punto, perché sta accordando tanto spazio a questo teatro: non si spiega perché tanti spettatori cominciano a seguirlo. E trova la spiegazione nella stanchezza e nella loro capacità di sopportazione, così come avviene in certe riunioni che si protraggono fino a notte inoltrata: «In realtà, non si ha più niente da dire, non se ne può più, ma non si ha neanche il coraggio di separarsi, di fare lo sforzo necessario per uscire, per andare a coricarsi, e allora, si comincia a fare e a dire stupidaggini». Un modo come un altro per uscire da una rigida presa di posizione come questa, in cui il critico si ostina a non volere riconoscere una pur minima validità a un teatro che, nuovo in ogni suo aspetto, ha tutte le qualità che ci vogliono per imporsi e per farsi amare. 

Il teatro di Ionesco, che non ha niente di drammatico, si ascrive nell’ambito della farsa dove il comico più che muovere al riso disorienta perché non si riesce a capire bene l’obiettivo che l’autore vuole raggiungere. Tutto questo fa sì che lo spettatore rimanga fino all’ultimo come sospeso tra la realtà e il sogno, e solo quando tutta la matassa creativa si dipanerà dinanzi ai suoi occhi, allora vi riconoscerà la cruda realtà, spoglia da ogni conformismo, e avrà maggiore consapevolezza del suo io, quell’io che viene meglio preso in considerazione, e non ridicolizzato, come sembra a Marcel, come se Ionesco, lui tanto amante della vita, avesse fatto propria la filosofia del non-essere. 

Tra il giugno e il luglio dello stesso 1958, l’ “Observer” ospitò un acceso dibattito sull’opera di Ionesco. Il punto di partenza di questo dibattito (Ionesco interverrà con due scritti che avremo modo di ricordare più avanti) fu dato da un articolo di Kenneth Tynan dal titolo: «Ionesco: uomo del destino?», dettato dall’ammirazione per il drammaturgo delle Chaises, che proprio in quei giorni venivano rappresentate al Royal Court Theatre di Londra, e dalla meraviglia che il successo andava oltre le aspettative. Quell’ammirazione, da una parte, e questa meraviglia, dall’altra, spingono la Tynan a chiedersi se non ci si trovi proprio dinanzi a un «messia», e dove voglia arrivare l’autore con la sua «evasione dal realismo». 

L’incomunicabilità che è ne Les chaises può non essere condivisa («Questo mondo non è il mio, ma riconosco si tratti di una visione completamente legittima, presentata con molto equilibrio immaginativo e audacia verbale»), ma – sempre secondo K. Tynan – «il pericolo comincia quando lo si presenta come esemplare, come il solo accesso possibile verso il teatro dell’avvenire, – questo lugubre mondo da dove saranno escluse per sempre le eresie umaniste della fede nella logica e della fede nell’uomo». 

Il teatro di Ionesco, allora, più che ora, non poteva non disorientare, perché in queste prime opere effettivamente non si intravvede alcuno spiraglio; è come se ci venissero presentate delle allucinazioni (tra l’altro poco comprensibili e sul filo di un giuoco verbale molto acceso, che alla Tynan sembrano interessare solo Ionesco), le quali costituiscono la premessa di un lungo straziante itinerario 

destinato a essere ulteriormente proseguito. E ciò che apparentemente sembrava interessare soltanto l’autore, a poco a poco riusciva a coinvolgere quanti gli si accostavano, perché in quel fuori del normale, o del reale, c’era una verità latente e troppo inquietante. 

Fa, comunque, piacere notare che già in quegli anni le pièces di Ionesco varcarono i confini e cominciavano a essere conosciute e rappresentate nei teatri europei. Il 1958 è stata la volta di Londra, ma anche dell’Italia, dove, precisamente a Genova, Paolo Poli rappresentò La cantatrice calva per la regia di Aldo Trionfo, e ad Atene. Ciò significò l’interesse crescente verso quest’autore che, partendo da piccoli teatri parigini, si impose all’attenzione di un pubblico sempre più vasto, conquistando i maggiori teatri del mondo. 

Gilles Sandier, scrivendo di Ionesco nel libro Thédtre et combat, del 1970, a un certo punto, riferendosi alle opere successive del drammaturgo, dà risalto alla retorica e al meccanismo allegorico che le caratterizza e nota una recessione, come se Ionesco, preso dall’idea ossessionante della morte, rinnegasse gli elementi costitutivi dell’antiteatro e, in poche parole, ciò su cui poggiava la sua originalità che consisteva in «una concezione tragica del linguaggio, impotente a esprimere sentimenti e pensieri», e continua: «L’universo favoloso e sinistro che la sua comicità di una volta ci rivelava nel quotidiano ha ceduto il posto a un fantastico di scarso valore e senza pericolo». Ionesco, insomma, stando a quanto afferma Sandier, nella nuova fase del suo teatro dice cose già dette, servendosi, però, di un linguaggio più esplicito, cioè, più letterario e meno poetico. 

Abbiamo scritto che Ionesco disorienta. Così ci troviamo dinanzi a una parte della critica che, dimostratasi indifferente e del tutto ingenerosa verso le opere scritte intorno ai primi anni Cinquanta, cominciò a interessarsi di lui da Rhinocéros in poi, mentre, partendo sempre da quest’opera, un’altra parte di essa (noi abbiamo citato Sandier) ritiene, all’opposto, che Ionesco si sia discostato dal suo modo iniziale di fare teatro, facendo registrare in negativo la perdita della spontaneità che era alla base della sua originalità. A scanso di equivoci, va detto che non c’è stato alcun cedimento da parte di Ionesco. Se è vero che inizialmente Ionesco fu spinto dalla necessità di ridare vigore al teatro, è pure vero che la sua non era soltanto ricerca di nuove formule drammatiche, bensì ricerca spirituale, dibattito aperto soprattutto con se stesso prima che con gli altri: una ricerca che gli permetteva di chiarirsi alcune verità elementari e, al tempo stesso, di servirsi d’un linguaggio più semplice e adeguato a esprimere le conquiste del suo animo. Gli stessi gesti, il moltiplicarsi degli oggetti, le allusioni, saranno ancora presenti e sempre con una funzione di grande importanza per la comprensione; nelle pièces successive, magari, non saranno veri e propri oggetti (come nel Roi se meurt le crepe nelle pareti o le notizie diverse e allarmanti che sopraggiungono dall’inesistente regno, o il proliferarsi delle coma in Rhinicérosl. ma siamo nell’ambito di un equivalente che dice lo stesso il degrado dell’uomo e del mondo odierni. Nonostante questo, a cominciare da Macbett, Ionesco riprenderà il tono parodistico delle prime pièces. 

La tematica è sempre la stessa: l’incomunicabilità, la solitudine, il conformismo, la sete di potere che getta nell’imprevedibile e spinge verso la morte e, ancora, la precarietà della vita e il senso della morte, che annientano ogni illusione; temi che, seguendo uno sviluppo circolare, acquistano via via sfumature diverse. ma che riportano al drammaturgo delle prime opere. Segno di estrema coerenza morale oltre che artistica, grazie a cui Ionesco è, a buon diritto, uno dei massimi esponenti della drammaturgia contemporanea.

Salvatore Vecchio

(1) «Voilà ce que nous aurions voulu faire au théàtre. Nous avons eu une poésie surréaliste, une peinture surréaliste, mais nous n’avons pas eu un théàtre surréaliste, et c’était celui-là qu’il nous fallait».

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 17-24.

 




 Mario Pomilio narratore *  «Il Quinto Evangelio»

È difficile riassumere, in poche parole, la trama semplice, eppure straor-dinariamente complessa di questo romanzo. 

Un ufficiale americano, di stanza a Colonia, durante la seconda guerra mondiale, è ospite, per caso, in una vecchia canonica, dove si imbatte con i resti di una biblioteca e, quel che più conta, con un manoscritto, dalle cui annotazioni a margine si intravede l’esistenza di un altro Vangelo, il quinto, dopo i quattro canonici. 

Il protagonista, Peter Bergin, inizialmente scettico, si appassiona a mano a mano all’idea: rovista da capo a fondo tutto il materiale esistente nella canonica; segue tutte le piste e le tracce emerse, alla ricerca del quinto Evangelio sconosciuto. Esplora mezza Europa, scrive a tutte le biblioteche coinvolte in qualche modo nella vicenda e alle persone che si presume possano fornire qualche indicazione, anche minima. Nonostante il materiale raccolto sia moltissimo, il protagonista, non sicuro che il quinto Evangelio esista ancora, scrive prima di morire al Segretario della Pontificia Commissione Biblica di Roma, per sottoporre al suo esame tutto il materiale raccolto e per chiedere se esistano a Roma altri eventuali documenti che provino l’esistenza del prezioso Evangelio perduto, che conterrebbe tantissime novità, rispetto ai quattro Vangeli, ritenuti finora i soli degni di fede. 

La Commissione Biblica risponde quando il signor Bergin è già morto. La sua segretaria, Anne Lee, ringrazia la Commissione della sollecitudine dimostrata e coglie l’occasione per inviare altri documenti, tra cui, importantissimo, il dramma «quinto evangelista», rifacimento e ampliamento di una bozza di dramma, trovato da Bergin nella canonica di Colonia e, tra le pagine del dramma, una novelletta scoperta dallo stesso Bergin all’inizio della sua attività di ricerca:«Un uomo andava pellegrino cercando il quinto Evangelio. Lo venne a sapere un santo vescovo e, per l’affetto d’averlo veduto vecchio e stanco, gli mandò a dire queste parole: “Procura di incontrare il Cristo e avrai trovato il quinto Evangelio”». 

Così l’autore, in sordina, quasi senza dar peso alle ultime battute del romanzo, condensa in una novelletta (buttata lì come a far credere che si tratti di un semplice scrupolo di documentazione) il messaggio, sempre attuale, nuovo ed eccezionale, che, al di là della lettera, è contenuto nello spirito del Vangelo, al di sopra delle eventuali incompletezze, contraddizioni, lacune, che pure emergono dall’esame dei testi. Stilisticamente composito, classico e spigliato o, se si preferisce, moderno nello stesso tempo, agevole anche nella trama (che sarebbe potuta risultare pesante, data la materia trattata), dai risvolti divaste proporzioni. Sono messi in evidenza tutti i problemi che i Vangeli e la figura di Cristo hanno suscitato nei duemila anni della storia cristiana: l’iniziale incertezza sul significato da dare, in senso più o meno ecumenico, alla missione di Gesù: le varie interpretazioni date all’insegnamento di Gesù stesso, che gli uomini sono stati capaci di identificare con i modelli più contraddittori e strani della moralità singola e collettiva, del costume, spesso anche immorale delle diverse epoche. Cristo è stato coinvolto, nel corso della storia, con grande disinvoltura, con l’inquisizione, il dissenso, la rivoluzione, la repressione, la violenza, l’oppressione, l’ingiustizia. Le istituzioni politiche buone e cattive, la Chiesa, anche nei periodi più oscuri della sua storia, si sono servite di lui come puntello e sostegno del potere. Anche il problema della divinità o dell’umanità di Cristo, della sua storicità, è sottolineato con forza. 

È autentico il contenuto dei quattro Vangeli? È completamente da condannare quello dei Vangeli apografi? Che senso hanno le lacune, le inesattezze, i disaccordi che emergono dalla lettura dei testi sacri? Tutti interrogativi che il narratore pone alla considerazione di chi legge, ma senza mai comparire, senza mai prendere posizione, in prima persona, fra una tesi e l’altra. Egli fa parlare i personaggi: i testimoni della vicenda umana, dalla nascita alla morte, di Cristo, Cristo stesso, il ricercatore, i suoi collaboratori, i manoscritti, le leggende, i documenti storici o inventati, gli attori del dramma conclusivo. Tutti esprimono opinioni, fanno valutazioni, apprezzamenti, interrogano, chiedono, assolvono o condannano. L’autore rimane sempre dietro le quinte. Fa parlare gli altri. Obbliga, così, il lettore a seguire più attentamente i documenti, i personaggi e le loro tesi e a trarre da solo le conclusioni. Contatto, intelligenza e bravura romanzesca (anche se la materia sembrerebbe prestarsi poco ad una storia romanzata), Pomilio parla continuamente al lettore, ma per mezzo di intermediari, che egli trasforma in protagonisti di eccezione. Anche il più modesto manoscritto medioevale acquista l’autorità di una testimonianza, che impegna molto chi legge. 

Il Quinto Evangelio, sotto forma scenica soltanto alla fine, a noi è parso un vasto dramma, dall’inizio alla fine, dove diventano personaggi tutti: uomini, documenti storici o inventati e cose. Non c’è brano che non parli al lettore con l’immediatezza e la forza di un interlocutore vivo, con una voce precisa ed eloquente. Anche quando cala il buio sulla scena finale, lo spettatore attende un atto ancora, che continui ad approfondire l’appassionante tema, il quale, nonostante sia stato sviscerato fin nei ripostigli più segreti, non risulta esaurito. Del resto è la tesi fondamentale del romanzo: la tesi, appunto, che il Vangelo non si esaurisce mai. Ad ogni epoca ha da dire qualcosa. Chiunque può sempre attingervi, senza limiti di spazio e di tempo, nel confronto con la propria coscienza, con i propri dubbi e le proprie certezze. 

«Ho detto piuttosto (è la professione di fede di Pietro d’Artois) che quanto ai segni resta quello, ma in perpetuo si rinnova quanto ai sensi più profondi: al modo stesso che una sorgente rimane sempre la medesima, ma quella che ne sgorga è acqua sempre nuova; e al modo stesso, se posso servirmi di un’altra comparazione, che coloro che vanno a bervi son mossi sempre da nuova sete… Che io dunque sostenga che, siccome gli Evangeli non furono bastanti a redimere e cambiare il mondo, il Cristo ce ne ha dato di scrivere un quinto, non significa affatto, come m’è stato rimproverato, che io abbia inteso designare materialmente un altro libro, ma solo che penetrando sempre più negli Evangeli, “cercandovi la carità”, come domanda S. Paolo, l’intelligenza che ne avremo sarà più perfetta, che veramente sarà come se ne avessimo composto un quinto. E alcunché di simile ho voluto dire nel luogo dove ho scritto che a ogni nuovo santo che nasce è un nuovo evangelio che si scrive. Il che tuttavia può anche essere inteso altrimenti: che le opere buone che compiamo sono il nuovo evangelo che si scrive; o propriamente che il Vangelo muore e nasce tante volte quante la carità declina o rifiorisce… ciascuna generazione d’uomini riscrive il suo Vangelo». 

Il quinto Evangelio, che Bergin insegue, è quello di Pomilio. Non sembri un’affermazione puerile. Pomilio, in realtà, dopo aver sottoposto in primo luogo i quattro Vangeli, in secondo gli altri testi del Nuovo Testamento ad una critica serrata, dai più diversi angoli visuali (del credente, del non credente, dell’uomo comune, del depositario del potere, dell’eretico, ecc.) conduce, quasi per mano, il lettore alla scoperta di quel quinto Vangelo: carità, giustizia e amore nella sostanza profonda, che dovrebbe mettere a tacere, per chi vuole veramente trovare Cristo, ogni dubbio e ogni incertezza di qualsiasi natura. 

In fondo è lo stesso Pomilio di sempre, che in maniera diretta o per contrasto ci invita a meditare, con la sua produzione di narratore, su certi traguardi o valori fondamentali della vita dell’uomo, come l’importanza della coscienza nelle scelte, l’aspirazione ad una superiore giustizia, la vittoria sulla morte attraverso l’amore, che rimane l’esigenza ultima per ogni autentica moralità individuale e sociale, prima fra tutte quella cristiana. 

Non riteniamo di poter chiudere il profilo su Pomilio, senza soffermarci, seppure rapidamente, sulla sua collocazione nella letteratura contemporanea. Non sarebbe difficile, data la statura del narratore, trovare precursori e seguaci della sua opera, tra gli scrittori italiani e stranieri, viventi e nonviventi. 

A noi preme mettere in risalto il rapporto (che dovrebbe essere approfondito di più dalla critica) con due grandi della nostra letteratura: Pirandello e Manzoni. 

È fuori di dubbio la straordinaria forza drammatica delle opere di Pomilio, di alcune in particolare. Per convincercene senza fatica, basta scorrere le conclusioni de «Il testimone», de «Il nuovo Corso» e le pagine de «Il Quinto Evangelio» relative ai tremendi interrogativi posti da Giuda sulle presunte responsabilità di Dio di fronte al suo tradimento. Tutto il romanzo, per essere più precisi, ci è apparso – come abbiamo detto – un vasto ed autentico dramma, dall’inizio alla fine, e non soltanto nelle ultime pagine, che sono sotto forma esplicita del dramma. 

Tutto acquista, ne «Il quinto Evangelio», la consistenza, lo spessore, le caratteristiche peculiari del personaggio: non soltanto gli uomini, ma anche gli stessi documenti storici o inventati e le altre cose, pure le più insignificanti, che parlano al lettore con l’immediatezza e la forza di un interlocutore reale, dotato di una sua voce precisa ed eloquente. 

Anche quando cala il sipario sull’atto finale, il lettore-spettatore resta al suo posto, con la netta sensazione che qualcuno stia per comparire ancora, per proseguire gli interrogativi sull’affascinante tema, che sembra non esaurirsi mai: accettando, con ciò, lo stesso dramma dell’uomo di fronte al suo destino. 

La differenza tra la sostanza e il contenuto del dramma dei due scrittori sta nel fatto che, in Pirandello, la verità e la menzogna non hanno alternanze, al di fuori di un’eterna e insuperata lotta di coscienza; in Pomilio, la stessa lotta trova lo sbocco in una superiore esigenza di moralità, di giustizia, di Dio. 

Il rapporto con il Manzoni sorge spontaneo, se si pensa alla visione fortemente etica e religiosa di ambedue gli scrittori, anche se con qualche diversità di approccio agli stessi temi. 

Al Manzoni il piano provvidenziale di Dio si presenta alla maniera tradizionale, in linea con l’interpretazione teologica cattolica e in termini di educazione e di ammaestramento. La storia dovrebbe servire, cioè, a convincere gli uomini che esiste un disegno di Dio, di cui essi rappresenterebbero le pedine, non sempre coscienti, libere e responsabili. Una «Città di Dio», anche se in chiave non propriamente agostiniana, ma pur sempre espressione di una Provvidenza che non lascia, molto spesso, il dovuto spazio alle scelte spontanee dell’uomo. 

In Pomilio, invece, il discorso si fa meno teologico e più morale. Il piano provvidenziale di Dio o la «grazia» (come lo scrittore preferisce) ha bisogno, per manifestarsi, della collaborazione delle coscienze individuali, le quali rappre-sentano il presupposto indispensabile dell’opera di Dio, che è prima nelle coscienze, poi fuori di esse (come amava esprimersi anche Silone, suo grande conterraneo). La coscienza in Pomilio diventa, insomma, protagonista della storia, più di quanto non sia nell’autore dei Promessi sposi. 

Manzoni, inoltre, mostra di avere quasi timore, per scrupolo di magistero, di scavare nelle coscienze oltre certi limiti. Pomilio, invece, scava maggiormente proprio negli angoli più tenebrosi e proibiti e nei momenti più disperati di esse, con il risultato che alcune sue figure risultano più vive e drammatiche di quelle del Manzoni. 

Giovanni Salucci 

* La prima parte del saggio Mario Pomilio narratore di Giovanni Salucci è stata pubblicata in «Spiragli», anno 1, n.1, gennaio-marzo1989. 

1 Ed. Rusconi – Milano 1975 (Premio Napoli – Premio per il miglior libro straniero in Francia – Premio Pax in Polonia). 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 17-21.




Rousseau y el surgimiento de la sociedad civil

«El Hombre quiere la concordia; pero la Naturaleza sabe mejor que él que es lo bue-no para la especie: necesita la discordia» KANT

 

Para todo aquel que pretenda introducirse al estudio de la obra politica de Rousseau no le resultará extraño encontrar que el sentido de ciertas afirmaciones que él establece en poco respondían al espíritu de la época. Para Jean Jacques Rousseau al parecer era imprecindible mostrar una actitud contraria a la corriente con el fin de señalar que la solución a los grandes males que ha arrastrado la humanidad desde su origen, nopodiarecaer exclusivamente en la simple creencia de propagar los resultados de la razón. Rousseau no fue un pensador errante como algunos lo quierenver, ni tampoco fue un anti-ilustrado poseedor de una gran virtud intelectual cultivada sin más recursos que sus propias fuerzas. Por lo contrario, él fue no sólo uno de los más grandes talentos del siglo de las luces sino el que más se llego a comprometer con los principios teóricos e ideo1ógicos que hicieronde toda la llustración unodelos mássignificativos movimentos intelectuales, críticos e impugnadores de toda la historia. La llustración, como todos sabemos, buscaba afanosamente difundir, con una cada vez mayor extensión, los resultados del conocimiento o del entendimiento humano como era el término empleado durante los siglos XVII y XVIII. Resultados que principalmente eran el producto de una constante observación y reflexión de la naturaleza. Esto es, de una concepción específica del universo que al ser concebido con arreglo a un cierto orden, se encuentra que todo lo que en él exista debe responder, por la estructura de su movimiento y funcionamiento, a ciertas leyes. El saber humano de estemodo buscaba indagar tambiénsobre lasleyes que rigenalmovi-miento de la historia. Indagación que conduce a establecer a la naturaleza, o mejor dicho al método de observación y reflexión de la naturaleza, como el modelo a seguir para determinar el origen y las causas de todo el movimiento de la historia humana. De este modo encontramos que al no serposible determinar objetivamente dicho origen lo ideal surge de modo tal que se mezcla con lo real. Mezcla en la cual lo ideal como el factor dominante norma no sólo a la investigación histórica sino que desea establecer a la vez el sentido de los der-roteros sobre el devenir humano. Lo más significativo de esta conducta científica que ocurría tanto en el campo de los ciencias naturales como en el de las ciencias sociales, radicaba en el hecho de haber generado el proceso irrevertible de secularización del conocimiento. Es decir, la observación de la naturaleza tanto física como humana, mostró que el conocimiento obtenido por revelación no podía contener ni un gramo de confiabilidad. El saber o conocimiento obtenido mediante las luces de la razón se resistía a seguir cumpliendo el papel tradicional de encontrar causas divinas, las cuales a la vez de ocultar la naturaleza de las cosas ocultan la naturaleza del hombre. La razón adquiere de este modo una importancia tal que se puede decir que fue para el siglo XVIII el principal instrumento impugnador de un orden social en el cual prevalencián los privilégios e intereses de la aristocrácia sobre el conjunto de toda la sociedad. Queremos señalar que debido a la gran fuerza y peso que llegó a adquirir este método, el desarrollo de las ciencias sociales en su resistencia por no caer en los remolinos de la teología o en explicaciones sobre los origines de las sociedades humanas obtenidas a través de los textos bíblicos pero principalmente por el poder que adquirieron sus principios de autoridad a lo largo de la edad media, se mostrarón como una prolungación de las ciencias físicas; o en otro caso de que estas ciencias dependieran invariablemente de los derroteros de la ciencia natural. Ahora bien, el nuevo papel que asume la razón se reducía al hecho de creer que solamente através de ella, esto es, de la difusión de los resultados del conocimiento, el género humano en su conjunto inevitable e irreversiblemente, solamente tendrá frente de sí el camino hacia su propio autoperfeccionamiento. Se esperaba pues que las luces de la razón-despues de haberse despejado del todo el obscurantismo medieval y las fuerzas sociales que lo perpetuaban – conducirian a los hombres al prometido paraíso. La ciencia era en resumidas cuentas considerada como la llave que debería abrir las puertas de ese esperado y ambicionado reino de felicidad, libertad e igualdad entre los hombres y pueblos. El devenir humano quedaba garantizado de una vez por todas y sólo restaba abordar el tren que conduciría a los hombres hacia el progreso y la civilización más plenas. Necesariamente Rousseau no consideró jamás así el problema. Su forma particular de entender a la razón de hecho se puede decir que se reduce a ese fin. Es decir para él la razón no puede representar más que el factor del cual depende toda posible sociedad igualitaria. Es quizá su famoso Emilio el texto que mejor mues tra lo que queremos dar a entender. Pero debemos advertir que para él la razón sólo puede ser el resultado de un proceso mediante el cual el hombre se llegue a conocer a sí mismo, no esí el punto de partida para su conocimiento. Es decir, para Rousseau lo verdaderamente esencial no radica en querer forzar a los individuos a ser racionales o a que acepten sin más los grandes beneficios que puede contener por sí mismo el progreso; sino en que éstos puedan juzgar a la spotencialidades de la razón a través de juicios o criterios politicos fundamen-tados centralmente en la inquietud de poder incidir en el comportamiento moral de los individuos. De ello se comprende el por que para Rousseau la problemática de la virtud tanto como habilidad personal para de sempeñar este o aquel oficio o profesión, y como instrumento para la obtención de verdades morales, cobra una importancia esencial para la comprensíon de toda su teoría política.El caso particular de la educación de Emilio lo podemos tomar como el modelo de un proyecto educativo que va del sentimiento a la razón; esto es, de la conciencia de sí mismo e la conciencia de la necesidd de vivir en sociedad. Como se puede observar el concepto de razón en Rousseau difiere fundamentalmente del concepto de los filósofos. La razón es para él sólo el producto de la reflexión sobre la naturaleza moral, es decir hístorica y políti-ca, del ser del hombre. Insistimos, pues, la razón es para Rousseau el resultado de una reflexión que al indagar sobre la historta del hombrey que al preguntarse sobre el carácter de su orígen – orígen que lo llega a determinar como negativo – quiere encontrar la mejor vía racional al próximo devenir histórico. Entendiendo de este modo las inquietudes del ginebrino respecto al sentido de lo que hasta hoy ha sido la historia, podemos interpretar que su recházo a toda posible noción del progreso caracterizada por sur tendencias eficientistas y desarrollistas o por su expresión negativa y destructi-va, en poco conducia a superar las grandes contradicciones históricas co-mo lo son la desigualdad y la alienación. Rosseau al husmear el futuro in-tuyó de algún modo que esto no podía depender de esa concepción del progreso. Su rechazó no correspondía a una actitud descabellada y desespe-ranzadora, más bien al producto de una forma particular de interpretar a la história. De asimilar a la historia como una experiencia negativa y alienante. La concepción sonbre el progreso que ha sido más ampliamente aceptada desde el siglo XVIII, en su materialización de acuerdo con Rousseau sólo ha llegado a reproducir nuevas formas de desigual dad y alienación, mi-smas que al extenderse universalmente hacen de su posible superación y supresión la más inalcanzable de todas las posibles utopías. Rousseau mue-stra así desde suprimer Discurso que todo el movimiento de la historia se ha encontrado dominado por la existencia de fuerzas negativas y destru-ctivas, las cuales centralmente podiamos decir que son la alienación y la desigualdad social. Ahora bien, el conjunto de la obra de Rousseau descansa en la problemática sobre el origen de la sociabilidad entre los hombres y de la hi-storia de dicha sociabilidad. Pero debemos anotar, antes de seguir adelante, que esta caracteristica de la obra de Rousseau se vió truncada como lo podemos constatar hacia el final del Contrato social. Cobrando por otro lado una orientación muy significativa sus reflexiones autobiogràficas. las cuales, por cierto conservan una relación de suma importancia en referencia a toda su obra anterior. Pero creemos que posiblemente de habersecontinuado sus reflexiones en el sentido arriba anotado, tendríamos que hablar de otras muchas cosas sobre su filosofia política. Quedando, por tanto, como uno de los puntos fundamentales, el de analizar al pensamiento de Rousseau ya no sólo en relacion con las grandes determinantes del siglo XVIII, sino tambíen en las estrechas relaciones de escritos que van desde el primer Discurso hasta la Nueva Eloisac on sus escritos autobiogràficos. En referencia al devenir histórico para Rousseau el arrivo a ese paraíso tantas veces prometido pero que ahora contenía por principal fuerza motríz a la razón, justamente por contener ese carácter dependiente de una visión estrecha sobre el saber umano, sólo conduciría a crear de nueva cuenta contradicciones mucho más graves que todas las que antecedían a ese esperado devenir. El problema para Rousseau es por tanto considerar la existencia de otros factores que en vez de dibujar a ese futuro como algo que reduciría a las sociedades a una situación aún mucho más vergonzosa que las de todo el pasado, puedan mostrar que es necesario generar todo un proyecto de reforma histórica mediante el cual se reduzcan al máxi-mo las tendecias negativas que se encuentran y a en el presente. Para nosotros esto constituye uno de los puntos medulares del Contrato social y del Emilio o de la educacion. Es decir, el de determinar la sociabilidad entre los hombres a partir de una forma de entender y por tanto de llevar a la práctica social, las relaciones entre sí mismos con las instituciones políticas que para tal fin crean; y de reforzar a éstas quiza no con la idea ingénua que se pueda formar en una lectura ligera del Emilio, sino como él mismo lo llega a plantear en estos dos textos referidos aquí, mediante la necesidad imperiosa de llegar a establecer una plena identidad ético-política de la sociedad entre todos sus miembros. Para Rousseau la prin-cipal fuerza existente capaz de frenar lo que entendemos por la tendencia negativo-destructiva de la historia, consiste en asumir con radicalidad y seriedad el otro de los puntos fuertes del movimiento ilustrado; esto es, para él era fundamental establecer toda una reforma que por su esencia ética que la hace necesaria llegará a mostrar al género humano su posibilidad de perfeccionamento moral. De esta manera la inquietud de los ilu-strados por impulzar una reforma de este tipo (la cual se antojaba como algo bastante alejado de toda realidad, de ahí el abandono del cual ha sido objeto por prácticamente todas las generaciones posteriores a ese siglo), nos muestra hasta que punto el análisis de Adorno y Horkhaimer sobre la Dialectica del Iluminismo es justo. En pocas palabras queremos decir que hasta hoy el Illamado progreso, especialmente por la forma en como se ha venido produciendo lo que hemos venido entendiendo por desarrollo social, se ha determinado como una tendencia contraria a lo esperado y deseado por los filósofos ilustrados del siglo XVIII. La fuerte fe depositada por ellos en un devenir liberador basado en la fuerza de la razón, se puede decir que los cegó a grado tal que llegaban a ver que en parte la tendencia esencial de dicha esperanza era negativa y destructiva; però ¿…qué a caso no fue esto lo que ya de algun modo había intuído Jean-Jacques Rousseau desde su Discorso sobresi el progreso de las ciencas y las artes ha contribuido a corromper o a depurar las costumbres? Hasta aquí hemos querido observar la resistencia de Rousseau por indagar sobre la histaoria desde la perspectiva de determinar a las claves del progreso humano. Como podemos observar el buscaba otro punto de apoyo, otras claves para construir de ahí lo que entenderíamos por ahora su propuesta para señalar el posible camino hacia la perfectibilidad moral de los hombres. A través de su obra encontramos que las claves en sí son varias y que incluso en momentos estas llegan a adquirir matices diferentes. De entre estas «claves» tenemos como ejemplo lo siguiente: el sentimiento, el voler al estado de naturaleza, el contrato social, la voluntad popular, la educación, el ver siempre en símismo, hablar con la verdad, etc. Desde la famosa «iluminación de Vincennes»-sitio al cual cierto se dirigía Rousseau con el fin de visitar a Denis Diderot quien se hayaba prisionero en dicho lugar-nos encontramos frente a un Rousseau que detecta el problema de manera por demás intuitiva; pero que en otro plano se podría decir que quizá tal «iluminación» obedecia a ciertas experiencias propias a su condición de plebeyo. Como sabemos para él las ciencias y las artes más que contribuir a depurar las costumbres las han corrompido. Sintetizando esto que es por cierto el punto de arranque de toda su reflexión sobre la política y la moral, y que es lo que lo define frente al espíritu general de la ilustración, habría que decir que para el ginebríno la posibilidad del perfeccionamiento moral no se puede reducir al hecho de llegar a conocer de forma cada vez más objetiva los procesos que determinan al funcionamiento y movimiento de la naturaleza. Para Rousseau el problema no es colocarse frente a la naturaleza en una posición tal que permita explotar de forma más óptima y funcional sus recursos, sino de encontrar una alternativa histórica que ofrezca a los hombres modificar sustancialmente la tendencia que los caracte-riza como el ser más depredador de la naturaleza, esto por un lado, por otro que en base justamente a esa forma de desarrollar el progreso el hombre se muestre incapaz de poder establecer una formación social en la cual la igualdad, la justicia y la hoy tan discutida democracia sean un hecho histórico y no así una símple ilusión. Alternativa la cual para él sólo sería posible la política. Por ser la política la única fuerza capaz de recuperar, o mejor dicho, de modificar a la trayectoría de la historia hacia fines positivos, hacia fines racional y moralmente positivos. El verdarero significado que llega a adquirir la vuelta al estado de naturaleza radica en esto último. Pero es necesario decir que para Rousseau la realización de este planteamiento sólo puede representar el hecho de volver el hombre hacía sí mismo, hacia su propia naturaleza; naturaleza que se vió trastocada al momento mismo en que se produjo la socialización o sociabilidad a partir de una forma negativa de realizar el contrato social. La historia se ha caracterizado por la presencia de esa fuerza negativa. Por ello es de que Rousseau considera que si el origen de la sociedad fue un hecho histórico cuyo resultado ha sido negativo para toda la especie humana hasta hoy día, la solución a este mal sólo puede surgir de la historia misma. En re-sumen y en correspondencia a su deísmo para él el hombre no puede ser otra cosa más que un ser histórico. La supuesta naturaleza humana en lo esencial consiste en concebir de este modo al hombre, es decir, en verlo como un ser libre, como un ser que se define a partir de su voluntad. Uno de los rasgos más representativos de la filosofia social de los siglos XVII y XVIII fue el de la necesidad de romper con las pesadas cadenas que ataban a la investigación y explicación sobre el origen y desarrollo de las sociedades humanas, a una causa teológico-religiosa. De esta manera la explicación sobre el origen de las sociedades humanas basado en el presupuesto de un existente estado de naturaleza, de hecho adquirió una doble importancia: En primer lugar esta importancia recayó en la necesidad de establecer una reconstrucción genealógica sobre el origen de la sociedad, de sus instituciones así como de toda su historia, y: en segundo lugar, el de la necesidad de establecer una alternativa teórico y metodológica que a la vez deser el punto de partida de dicha reconstruccion, permita establecer el fundamento para la ruptura definitiva con toda explicación sobre ese orígen en razonamientos teológicos o religiosos. Es así como el pensamiento social de estos siglos se erigió de hecho en un conocimiento crítico e impugnador. Es decir, fue crítico en tanto que desnudaba a un orden social en sus fundamentos teóricos e ideológicos, y fue impugnador en el sentido de actuar como una fuerza que al sostenerse por sí misma negaba la validez universal y racional de dicho orden social: intuyendo por otro lado la necesidad de replantear a ese orden a partir del desarrollo de profundos cambios en torno a sus instituciones fundamentales así como al espíritu de éstas. En resumen se puede decir que el concepto de naturaleza para esos siglos contenía no sólo una significativa carga de «cientificidad» al ser extendido al campo de la investigación y reflexión social, sino que también contenía relevantes «intenciones políticas». Es importante señalar que para el pensamiento politico-social de los siglos XVII y XVIII en general la forma en como planteó la idea sobre el esta do de naturaleza para explicar el punto de partida comun de todas las sociedades, no debe ser tomada como la simple expresión de un pensamiento ingénuo como tal vez muchos lo quieren ver. Es cierto que el llamado «estado de la naturaleza» es en si una problemática ficticia y quizá fueron los propios ilustrados los primeros que cobraron conciencia d etal hecho. Pero independientemente de esto pensamos que es necesario establecer que la importancia que adquirió esta problemática radica en lo siguiente: al moverse el pensamiento ilustrado en un ambiente en el cual era aún la especulación teo1ógico-religioso un fuerte corsé, de hecho la idea sobre el estado de naturaleza no podría representar más que una alternativa viable para liberarse de la presión de esa tradición dominante. Es así que se debe considerar al llamado estado de naturaleza como un recurso de carácter hipotético. Recurso al cual tiene que hechar mano un pensamiento que, como ya lo señalabamos, quiere liberarse de una tradición teórico-metodo1ógica anquilosada en especulaciónes de corte teo1ógico. Por su parte Rousseau fue consciente del caracter ficticio que encerraba esta problemática; él en repetidas ocasiones se vió acosado e imposibilitado para elevar a grado de evidencia sus argumentos sobre el origen de la sociabilidad entre los hombres. Y es importante mencionar que a pesar de sentir esa presión no se atrevió a tomar un camino ya recorrido, el de la teología y todo su cuerpo hipotético basado en el recurso infinito de deducciones lógicas; por ofrecer este camino una serie de argumentos aún mucho más débiles de los que se han desprendido de ese su puesto estado de naturaleza. De ahí que para él este recurso, el cual marco todo un periódo de la historia del pensamiento social, adquiere una concatenación específica en referencía al del empleo que le imprimieron sus contemporáneos. En el siglo XVIII generalmente se aceptaba como necesario a todo orden socialel de la existencia del hombre en una situación pre-social. El denominado estado de naturaleza llenaba de este modo une spacio bastante significativo en las investigaciones sobre el origen de lassociedades humanas. De este modo se llegaba a sostener que en dicho estado pre-social el hombre indudablemente debería poseer una determinada naturaleza a partir de la cual era posible definir su estructura moral ya sea esta calificada positiva o negativamente. Rousseau niega esto. Niega que en ese posible estado de naturaleza el hombre se haya encontrado ya determinado como un ser moral. Para él dicha situación en sí misma no sería en modo alguno una condición pre-social marcada ya por un signo que defina al hombre comoun ser negativo o positivo. Aceptar así el problema implicaba que toda posible genealogía que intente reconstruir el origen y desarrollo de la sociedad, se construya como un intento no por pretender reformar al hombre sino por quererlo modificar sustancialmente. Modificación en la cual fuerza y coerción llegariana desempeñar un papel esencial. La idea de Rousseau en torno al estado de naturaleza es por su intención bastante diferente. Como todos sabemos, para él hombre en estado de naturaleza des conoce la moral por vivir en un ambiente natural en el cual no necesita del otro. El hombre en estado de naturaleza se basta, pues, así mismo y como característica de esta muestra de autosuficiencia el, hombre, que habitaba en dicho estado, no era el productor de la historia. Sus determinantes eran por lo tanto el ser un ser a-histórico, a-social y por ende a-moral. Pero sobre todo su principal determinante de acuerdo con el ginebrino era la de vivir bajo un ambiente de libertad y de felicidad. Pe-ro entonces si esto ocurría así porqué los hombres buscaron relacionarse entre sí, qué factores influyeron para pasar de ese estado de libertad y felicidad a la creación de la historia, la sociabilidad y por tanto también a la creacion de la moralidad. Para Rousseau el supuesto tránsito del hombre en estado de naturaleza al hombre de la sociedad civil, fue el producto de diversas circunstan-cias de entre las cuales las naturales fueron las que mayormente llegaron a desempeñar un papel esencial, a grado tal que prefiguraron diversas formas de asociación entre los hombres asi como de sus instituciones políticas. El ejemplo más significativo de esto lo encontramos en el surgimiento del «habla». Independientemente de la diversidad de lenguas que podamos encontrar, Rousseau llegó a considerar al «habla» como la primera de las instituciones sociales. Señalandonos también a la vez que la forma en como se produce y desarrolla cada lengua particular depende de las condiciones naturales de cada región. En su trabajo sobre EL origen de las lenguas, trabajo que ha cobrado entre los lingüistas una importante atención, pero que fue un trabajo de cual el mismo se sintió poco satisfecho, nos muestra solamente como ejemplo de esa determinante la diferencia que media entre las lenguas del mediodía y las lenguas del norte «…1os hombres septentrionales – dice Rousseau-no carecen de pasiones, pero las tienen de otra especie. Las de los países cálidos son pasiones voluptuosas que atañen al amor y la mocie. La naturaleza hace tanto por los habitantes que ellos no tienen nada que hacer. Con tal que un asiatico tenga mujeres y reposo está contento. Pero en el norte, donde los habitantes consumen mucho sobre un suelo ingrato, los hombres sometidos a tantas necesidades son faciles de irritar; todo lo que se hace a su alrededor los inquieta; como no subsisten más que a duras penas, cuanto más pobres son más se aferran a lo poco que tienen; acercarseles es atentar contra su vida. De ahí viene ese temperamento irascible tan pronto a volverse en fiera contra todo lo que les hiere. Así, sus voces se acompañan siempre de articulaciones fuertes que las hacen duras y ruidosas»1. En ese mismo trabajo del ginebrino escrito aproximadamente en 1761, es donde encontramos afirmaciones lo bastante significativas respecto a su concepción sobre el origen de la sociabilidad entre los hombres. Para Rousseau el tránsito del estado de naturaleza a la formación de la sociedad civil se encuentra determinado por el trabajo humano. Esto es, por un desarrollo productivo en el cual los hombres reclamaban ya de la relación necesaria con otros hombres. De este modo estas formas mínimas de relacionarse los hombres ya marcan el surgimiento de una determinada sociabilidad y moralidad, y por tanto también da una situación histórica determinada. Pero cabe decir en este caso las formas de trabajo se reducian a la pesca, caceria, recolección de frutos y en gran parte a la ganadería, actividad humana, estan última, a la que Rousseau consideraba que fue de hecho una verdadera revolución productiva que permitió a los hombres volverse sedentarios y ociosos. Hasta aquí podríamos decir que los hombres vivián bajo una situación en la cual ya no eran del todo «naturales» pero que tampoco vivián en condiciones sociales tal y como corresponde a su existencia en societad civil. Para ello era necesario que ocurriese una nueva revolución productiva. Esa nueva revolución productiva fue la agricultura en conjunto con la metalurgia; formas de producción que alteraron radicalmente el modo de vida de los hombres. El surgimiento de la sociedad civil se produce pues en relación a estas nuevas revoluciones productivas. La agricultura marca por tanto el origen de la sociedad civil, es decir, marca el momento en que dá nacimiento la propiedad privada y el medio de asegurarla que es el contrato o pacto social. La agricultura así «introduce la propiedad – anota Rousseau -, el gobierno, las leyes y, gradualmente, la miseria y los crímenes, inseparables para nuestra especie de la ciencia del bien y del mal»2. Como podemos observar en esto último el problema del mal, como ya de algún modo lo indicabamos anteriomlente, es sacado de sus ataduras metafisicas y teo1ógicas para ser colocado en una visión ético-política en la cual se plantea que si bien el origen del mal es histórico, su solución de igual modo debe ser histórica. Esto es, Rousseau al asumirse como deísta que si bien cree en los dogmas eternos de una religión natural, cosa que nos muestra en un extenso pasaje del Emilio dedicado al tema sobre la Profesion de fe de un presbiterio saboyano, piensa que el problema del mal no puede recaer en causas divinas. Hasta cierto punto esto nos recuerda a la solución cartesiana sobre el problema del error. Así como para Descartes el error redica en el hombre, para Rousseau el mal sólo puede estar en el hombre, específicamente en la forma en como se originó y desarrollo su sociabilidad. Rousseau pensó que el único medio para superar el mal es a travées de un proyecto de reforma en el cual el contrato social y la educación conduscan a los hombres a la necesidad de recuperar la dimensión de su libertad. La forma de contrato que ha predominato desde el surgimiento de la sociedad civil, al marcar el punto de ruptura definitivo con las expresiones de la libertad natural, punto de ruptura que condujó a su vez a la creación de todo orden social y moral, se ha caracterizado por ser el principal instrumento de institucionalización de la desigualdad social. La forma en como Rousseau establece que se debe producir la superación histórica de la desigualdad social es mediante el establecimiento de un nuevo pacto o contrato social. De un nuevo contrato social en el cual la ley como la voluntad popular llegarían a garantizar las condiciones óptimas para el desarrollo de una forma de asociación entre los hombres fundada en la igualdad. Queremos decir con ello que de lo que se trata es de suprimir la tendencia negativa de la historia y transformarla por medio de la politica y por medio de una reforma moral en un proceso positivo. Proceso en el cual el «yo» se llegue a identificar ética y politicamente con el «yo común». De esta forma la desigualdad de talentos, que es producto de toda la historia de la sociabilidad, se armonice con el conjunto de la sociedad a partir de sus necesidades reales. En resumen, la sociabilidad – que ha devenido del ocio al trabajo y del trabajo al ocio – debe dejar de ser una lucha entre los individuos por la riqueza excedente. Y para decirlo de un modo más justo, el proyecto de Rousseau significa que este abandono debe ser en sí la renuncia el enriquecimiento como el símbolo más representativo del progreso social o individual. De ahí que él como un filósofo obsesivo por determinar a la virtud y de vivir de acuerdo a ella, se haya visto presionado a definir no sólo lo que para él sería la virtud individual sino también la que sería la propia a una sociedad virtuosa. Son el Contrato social y el Emilio así como sus Conjesiones los textos de Rousseau en donde se encuentra con más detalle su concepcíon sobre la virtud individual y social. Pero en suma se debe anotar que para él la Republica es la forma de organización social y política que mejor podría contribuír al fortalecimiento de la virtud. Definiendo por Republica la síntesis de los aspectos positivos de estado de naturaleza con los de la sociedad civil. Hasta cierto punto se puede que esa forma de organización socio-políti-ca podría ser la solución al proceso negativo de la historia. Pero más que indagar sobre las características organización, debemos mejor preguntar cuelas serían los aspectos positivos a rescatar del estado de naturaleza. El primer aspecto es el de la conservación de lo que son para Rousseau las notas esenciales del hombre: la bondad natural y su carácter de ser libre. Notas que de acuerdo con Rousseau se encuentran en cada hombre de forma innata. El segundo aspecto positivo a rescatar del estado de naturaleza consiste en preservar tanto a la pasión como a la necesidad. Seña-lando que para Rousseau la pasión y la necesidad constituyen de hecho las causas verdaderas de la sociabilidad entre los hombres.

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 15-26.




 Virgilio Titone narratore 

Ci sono scrittori la cui fama dura si e no il tempo di una vita, altri la consolidano di più da morti, come se si dovessero prendere una rivincita per continuare a sfidare il passare inosservato del tempo e far parlare di sé. Di questi è Virgilio Titone scrittore. È noto e si ricorda lo storico, trascurando che fu un eclettico versatile e molto geniale, di vasta cultura che s’interessòdi tutto, lasciando una traccia indelebile. 

Al di là d’ogni tornaconto, guardò esclusivamente all’uomo e all’umanità che è in lui. Per questo continueremo a ricordarlo, mettendo in risalto lo studioso attento, il sociologo, il letterato, lo storico che dà importanza alle piccole cose, perché- diceva – sono la chiave di comprensione dei grandi fatti, e lo scrittore, capace di calarsi nella realtà per farla vedere nella sua luce migliore. 

Virgilio Titone, sia che trattasse di storia o di letteratura, sia che esprimesse, com’è nei Diari1, sue riflessioni, aveva il senso del giusto mezzo del vero scrittore, e tale è da ritenersi: uno scrittore che sa bene dosare la parola per andare subito al nòcciolo del discorso ed esprimere tutto quel mondo visibile o sotterraneo che l’uomo si porta dentro. 

Come narratore, nel senso proprio del termine, si rivelò nel 1971, quando pubblicò presso Mondadori la raccolta Storie della vecchia Sicilia. Nel 1987 la ristampò con alcune varianti presso la casa editrice palermitana Herbita con il titolo Vecchie e nuove storie siciliane. Già nel titolo “storia” sta per narrazione, com’è nella parlata del popolo siciliano, e lo scrittore Titone narra fatti con gli usi e costumi propri di una Sicilia che stava tramontando per sempre, sul finire degli anni Cinquanta, con l’avvento del boom economico; narra alla maniera diodorea ma con puntuali cognizioni di causa la Sicilia che lo aveva visto fanciullo e, nell’avanzare degli anni, con la nostalgia delle cose che furono ma non con rimpianto, perché c’è in lui la consapevolezza che la vita abbisogna di questo lento passare per rinnovarsi e continuare il suo moto, e insieme con quella delle cose, c’è la nostalgia degli uomini che passano, come un fiume in piena, lasciando un ricordo destinato anch’esso ad essere cancellato per sempre. 

Ad aprire Storie della vecchia Sicilia2 è “La zolfara”, seguita da “La pensione” e da “L’odio”. Le prime due nell’edizione palermitana prenderanno rispettivamente titolo “La fuga” e “Gli anni di Mazara”, mentre non verrà riproposta “L’odio” e così anche “L’annunciatore del traghetto” e “Il pranzo di Natale”. In cambio, a corredo della sezione «Nuove storie siciliane», verranno aggiunte “L’AIDS in Sicilia: storia di una colonna infame senza la colonna”, “Andrea” e “L’onorevole trombato”. Pare che l’Autore abbia voluto snellirla nella tematica e, al tempo stesso, rinnovarla per avvicinarsi all’attualità degli anni Ottanta. 

“La zolfara”, poi “La fuga”, e “L’odio” propongono l’immagine della Sicilia, con i suoi pro e i contro, con la mafia e con la povera gente che doveva farsi giustizia da sé rifacendosi del torto ricevuto, essendo lo Stato assente o forte con i deboli. Nella storia “L’odio” un poveraccio che s’era fatto tutto da sé Nicola Rizzo, che aveva conosciuto la vita di emigrato, il carcere, una posizione di agio, perché ci sapeva fare con gli uomini e con le cose, lui, ora don Nicola, non può godersi per una malattia i frutti del suo lavoro, non è ri- cambiato dalla moglie e, per giunta, deve subire le angherie del giovane avvocaticchio, suo cognato. Era questa la ricompensa di tutta una vita, che gli altri, irriverenti e ingrati, avrebbero goduto della sua roba? 

«La sera l’incendio aveva compiuto la sua opera. Pietro eseguì fedelmente gli ordini del padrone. […] Di là tutt’e due guardavano le fiamme che si levavano alte sul paese, mentre i pompieri, accorsi da Mazara, cercavano inutilmente di spegnerle. Nicola guardava il suo regno distrutto e ora si sentiva meglio. Sarebbe restato là Tutto ormai era dietro di lui, mentre la luna illuminava i campi tranquilli e in lontananza il mare di Mazara3». 

La luna è la testimone silenziosa, come lo è stata sempre, degli accadimenti umani e niente può se non alleviare con la sua luminosità il dolore che tutto avvolge, la solitudine che è nelle cose e negli uomini. 

Ne “La fuga” la malvagità spinge un bravo giovane a lasciare tutto, la senia e la madre con cui viveva, per andare alla macchia, dopo aver vendicato il torto subito, rinunciando ad una vita normale a cui aveva aspirato. Non gli mancheranno alcune vecchie amicizie, ma sarà forte in lui la lontananza dalla madre bisognosa di lui. 

Vi troviamo anche, oltre il motivo della vendetta, quello dell’omosessualità diffuso nella vecchia Sicilia, le cui origini affossano molto lontano nel tempo. Titone ricorda i pueri catinensis, ma era un uso normale e consolidato anche nella Sicilia greca e in quella delle miniere. La promiscuità e la solidarietà che si instauravano tra carusi e pirriatura, gli zolfatai, ne favorivano l’uso. È un aspetto poco conosciuto e, per questo, lo scrittore lo inserisce abilmente nella sua “storia”, perché si sappia. Lo storico non prevale sul narratore, ma tutte le occasioni sono buone per dare notizie e conoscenze attinenti alla Sicilia. Perciò non manca di inserire usi e costumi del tempo a cui si riferisce. Ecco un esempio tratto da “La fuga”: 

«Tra l’altro i contadini non vanno all’osteria, né bevono vino se non a casa loro, quando ne hanno, e sempre dopo i pasti. Una volta, come parte del salario di una giornata di lavoro, si usava darne una certa misura, che generalmente era il quartuccio, circa tre quarti di litro, e lo bevevano nei campi. Ora non si usa più Gli zolfatai invece, benché pagati meglio, spendevano tutto quello che guadagnavano ed erano frequentatori abituali delle osterie4». 

Il narratore è un osservatore attento a cui non sfugge niente ed è sempre pronto a cogliere quelle sfumature che concorrono a fissare e a far conoscere quel mondo che stava scomparendo. 

Il tema della vendetta offre lo spunto per scrivere quelle belle pagine che costituiscono la storia “L’esattoria”. Un arrogante, arrivato esattore, un certo Giacalone che aveva comprato anche il titolo di cavaliere, si accanisce contro l’impiegato Bertuglia, assiduo lavoratore che non scende a compromessi, e non manca occasione per riprenderlo e rimproverarlo. Bertuglia non cede ai ricatti e, da buon siciliano qual è ma senza voler spargere sangue, medita la vendetta, facendogliela pagare con la stessa moneta e con fredda impassibile determinazione. 

“Il pranzo di Natale” è ancora l’amara constatazione che la solitudine pesa come macigno sulla testa di ognuno e suona come una condanna con cui l’uomo è chiamato a fare i conti, ma deve trovare la forza per reagire, se non vuole soccombere. È questo, un motivo ricorrente e abbastanza presente nella narrativa del Nostro che così apre a tutto un filone proprio della letteratura europea di quegli anni. 

Col passaggio dalla vecchia alla nuova Sicilia, l’uomo si è scoperto più solo, perché se la modernizzazione ha migliorato materialmente il tenore di vita, nel contempo lo ha isolato ancora di più Allontanandolo dalla campagna, lo ha relegato apparentemente ad una vita più associata ma asociale e deprimente, fatta di apparenze e carente nei rapporti interpersonali che da soli danno senso alla vita. 

Con “L’annunciatore del traghetto” c’imbattiamo in Gaspare Riccobono, un deviatore addetto alla cabina di controllo di mezzi e persone diretti a Villa San Giovanni che vive la sua solitudine nel disagio, così come altri personaggi. Come Nicola Rizzo de “L’odio”, non è amato dalla moglie, non ricambiato nell’amore dall’unica figlia insensibile e, senza darlo a vedere, ritardata mentale e, tanto per non cambiare, un lavoro monotono che lo rendeva automa. 

«Perciò aveva dovuto abituarsi anche a questo: a considerare la famiglia come si considera un male che non si possa né curare né evitare e per il quale non ci sia nulla di meglio da fare che pensarci il meno possibile. […] Aveva cominciato a lavorare nelle ferrovie da ragazzo. Poi si era sposato. Da anni si alzava ogni mattina, sempre alla stessa ora, per fare le stesse cose che aveva fatto e che avrebbe continuato a fare, fino a quando non fosse divenuto tanto vecchio da andarsene in pensione. […] Che senso c’era in tutto questo?5» 

Se la solitudine, come ne “Il pranzo di Natale”, che tratta dell’anziano pensionato cavalier Cataldi, può essere accettata e virilmente vissuta, non così è l’estraniamento che esaspera e rende impossibile il vivere. Riccobono, a lungo andare, diventa un estraniato e medita la vendetta per riscattarsi una volta per sempre. 

“La caccia” e “La visita” ci riferiscono alcuni aspetti della vecchia Sicilia, qualcuno dei quali resiste ancora, specie nell’entroterra o in certi paesi a spiccata vocazione agricola: le lunghe strette di mano di amici e parenti ai congiunti di un morto dopo l’accompagnamento e le visite a casa, il “consolo”, cioè le cibarie che vi si portavano, a consolare il lutto. Ne “La caccia” sono le consuetudini tarde a morire di grossi proprietari terrieri, come don Ciccio Saporito e il barone Merlo, dediti alla caccia che ormai per loro cominciava ad essere un ricordo di altri tempi; e ricordo lontano era ormai per don Ciccio la giovane Concetta, giovane che aveva amato e che ora rivedeva vecchia e appesantita dagli anni «curva sotto un sacco, troppo pesante per le sue povere spalle». 

«- Voscenza benedica! – Anch’essa veniva da quel tempo. Don Ciccio la guardò incerto. Sembrava lei, Concetta, quella che era stata Concetta. Ma era possibile? La vecchia veniva avanti, curva sotto un sacco, troppo pesante per le sue povere spalle. […] Concetta non era stata come le altre. Aveva gli occhi lucidi e le carni calde e bianche. Ed era accaduta una cosa strana, che lui non avrebbe mai confessata. A poco a poco aveva preso a volerle bene. E anche lei gli si era affezionata. […] A un nuovo scroscio di pioggia, la salutò – Addio, Concetta! – Lei non seppe rispondere subito al saluto. E, mentre lui si affrettava a tornare indietro, rimase lì col suo sacco ai piedi. Due lacrime le scendevano sulle guance scarne, mentre continuava a guardarlo sotto la pioggia6». 

A leggerlo (ma bisognerebbe leggere tutta la “storia”), è un passo di struggente tenerezza per il poco che dice e per il molto che fa intuire. Titone è un abile lettore e descrittore dell’animo umano. Come un bravo pittore, gli bastano poche pennellate per rappresentare quella vita che è in noi e che ai molti sfugge. Dire in poche parole qualcosa di complesso non è di tutti gli scrittori; lui punta all’essenziale e al vero che è quello che conta e il tempo non scalfisce. 

“Gli anni di Mazara”, intitolata prima “La pensione”, come “Il sogno” e “La strada” della sezione «Ricordi castelvetranesi», sono scritti che rivelano lo strato più intimo dell’uomo Titone, sensibile, umano, vicino ai più umili. Sono gli scritti più propriamente autobiografici che ricordano amici compagni di scuola (“Il sogno”), e uomini affermati che vivevano di ridenti lavori o benestanti nella strada principale del paese (“La strada”) che, ripercorsa dopo lungo tempo, non riconosce più spopolata, com’è da quella gente scomparsa per sempre insieme con le sue cose. 

Sono “storie” che ripercorrono la vita di un uomo, con i suoi incontri, le sue cose care; ricordi che s’intrecciano e che offrono uno spaccato tra il nostalgico e il comprensivo, l’accettazione consapevole ma anche il chiedersi perché viviamo e dove andiamo che in Titone trova ferma risposta nella vitae, quindi, nel viverla con dignità nel rispetto degli umili e dei diseredati, com’è ne “Gli anni di Mazara”. Qui fa le sue prime esperienze lontano dal suo paese e nuove amicizie (quella con il falegname e con il maestro, o col sordomuto suo coetaneo che rivedrà poi in età adulta), e scoprirà un mondo che si porterà dietro per sempre. 

«Quando vediamo in campagna i lunghi filari degli alberi e calpestiamo le zolle che ci danno il nostro pane e ce l’hanno dato da secoli, non pensiamo alle generazioni di contadini che sono vissuti in silenzio, gli uni dopo gli altri, su queste stesse zolle, per andarsene poi e altri li avrebbero seguiti. Il loro silenzio era simile a quello degli alberi e alla voce del vento. Non aspettavano nulla dagli uomini, ma sapevano che la terra poteva qualche volta ripagare le loro fatiche. Ora nessuno più li ricorda, né può ricordarli7». 

Titone scrive le “storie” col cuore in mano, e queste pagine di “Gli anni di Mazara”, che sono tra le più belle della sua produzione, sono tutto un poema in prosa, poesia vera, perché sentita, oltre che vissuta. Si può mai dimenticare l’incontro del piccolo Titone con don Vito il falegname, o la figura generosa e buona del mezzadro di Seggio, Peppe Balsamo, e l’approccio e poi l’amicizia col sordomuto? Sono figure difficili da dimenticare, perché hanno un’anima e una vita loro, lontane da quelle di di un certo realismo che non va oltre il proprio orto. 

Le “Nuove storie siciliane” trattano temi di attualità che sono ripresi più avanti nel romanzo. Solo “L’onorevole trombato” affronta il tema dell’estraniamento e dell’ineluttabilità della vita che sono anch’essi ampiamente presenti nell’opera di Titone. In tutte queste “storie” la Sicilia è di sfondo. Eppure ci appare nella sua luce più vera, popolata di un’umanità spesso dolente, ma aperta e ricca di suggestioni. 

Titone detestava l’accademismo, così come l’arroganza dei colti senza cultura (il Nostro parlava di incultura, propria di quelli che non credono in quello che scrivono) e dei boriosi; e una satira abbastanza pungente la si trova in “L’AIDS in Sicilia: storia di una colonna infame senza la colonna”. 

Egli non ammetteva giocare sull’uomo-persona, qualcosa di sacro che va rispettato, al di là delle convinzioni o delle tare di ognuno. Al centro di tutto c’è infatti, l’uomo, con le sue aspirazioni, i sogni, i problemi che lo attanagliano e che cerca di risolvere, le contrarietà della vita che, imprevedibili, lo sbattono da una parte all’altra senza rendersi conto di niente, e quando tutto sembra giocargli a favore, ecco un’altra contrarietà ancora maggiore lo stringe quasi come in una morsa e, addirittura, lo porta alla morte. 

* 

Altra opera di Virgilio Titone scrittore, a parte gli inediti, è il romanzo Le notti della Kalsa di Palermo, pubblicato da Herbita nel 1987 e riedito postumo, dopo un laborioso lavoro di lima dello stesso autore, nel 1998 dalle Edizioni Novecento in cooperazione con il Comune di Castelvetrano. Ma già molti anni prima, aveva scritto un altro romanzo (La morte del Vescovo), smarrito e poi riscritto, come si legge nei Diari, e tuttora inedito, come scrive in una nota Calogero Messina8. 

Le notti della Kalsa di Palermo, scritto tra la fine degli anni Settanta e i primi dell’Ottanta del secolo scorso, è come avvisa lo stesso scrittore nell’”Avvertenza” premessa all’edizione del 1987, datata Selinunte – Triscina, 20 agosto 1981, un romanzo storico, ambientato in Sicilia proprio in quegli anni, anzi è anche un documento sociologico, storico e psicologico insieme, di una psicologia che non sa di manuali, bensì di vissuto umano e sociale. 

L’edizione del 1998 ha subito molti tagli e varianti. L’Autore vi lavorò con tanta solerzia; si era reso conto che il romanzo così non andava bene e bisognava sfoltirlo dei tanti riferimenti e personaggi che offuscavano le figure centrali e il finale. Ne parlava con Calogero Messina e lo scriveva agli amici Montanelli, Koenigsberger, Caruso. Allo storico Helmut Koenigsberger così scriveva: «La Kalsa è un romanzo sbagliato, sotto tutti i punti di vista: anche per i molti personaggi lontani dalla conclusione finale dell’azione. Infatti se ne sta pubblicando un’edizione ridotta a metà delle pagine», e ad Indro Montanelli: «La pietà per il protagonista, quel ragazzo sepolto senza un nome e cui ho tentato di dare un nome, si è risolta in un romanzo sbagliato: sbagliato come romanzo. Ho perciò tentato di rimediare mostrando nella premessa che protagonista è tutta la Kalsa – e lo è veramente – negli antichi e strani costumi di quell’isola nell’isola, dai poveri pescatori al principe di Lampedusa, anch’egli un quasi kalsitano, né solo per la via in cui abitava9». 

Titone si faceva scrupoli, ma anche nella sua prima stesura il romanzo si legge con piacere. Pur nella densità di contenuti, non è prolisso; è la vita di questo popoloso rione che viene alla ribalta e sembra esplodere, con le strade piene di gente e il vocìo che arriva lontano, a Mazara e pure a Torino o a Malta e Amsterdam, perché fin là s’allarga e si svolge l’azione dei personaggi. 

Certo, snellito com’è nella nuova stesura si fa accostare meglio dal lettore, ma non ha perso niente nella sua sostanza, che è diventata più fluida e coinvolgente. 

Le notti della Kalsa di Palermo è un insieme di fatti ben amalgamati come tessere di un mosaico che nella sua singolarità contribuisce a dare un quadro d’insieme abbastanza convincente e armonico. Sono ripresi e approfonditi i motivi già espressi nelle Storie, e nel movimento sembra che essi vengano fuori per caso, fatti propri dai singoli personaggi che popolano quest’opera, degna, al pari di altre (e forse meglio) di essere letta nelle scuole e studiata, perché oltretutto, ne viene fuori un’immagine della Sicilia a cui non siamo stati abituati dai tanti altri scrittori che invece si servono di essa per fare cassa, una Sicilia auspicante un riscatto che le potesse ridare la dignità di cui solo nel passato poté godere. Titone auspicava un Risorgimento umano e sociale della Sicilia che la facesse risollevare dalla condizione di disagio e di abbandono in cui si trova dall’unità d’Italia ad oggi, perché niente è cambiato in questi ultimi decenni e il romanzo avanza ancora quelle aspettative che non vuole deluse. Per questo fu inascoltato da quanti politici avevano interesse perché tutto rimanesse invariato. 

Dal I capitolo leggiamo: 

«La strada, come tutti avevano capito, era sicuramente inutile. L’avevano progettata per farsi pagare le tangenti sugli appalti. Di strade la zona non mancava. Dopo la costruzione dell’aeroporto di Punta Raisi, era stata aggiunta un’autostrada. Tuttavia anche per essa s’invocava una sacralità che non si doveva negare: il Mezzogiorno, sempre sfruttato, sempre calunniato dall’avido Nord, che mai nulla aveva fatto per i poveri meridionali. Tutto questo si continuava a ripetere, anche se quell’autostrada da un giornalista straniero era stata dichiarata “un’opera faraonica”10». 

Come cambiare se, così com’è è fonte di profitto? Quella di Titone è un’analisi puntuale, obiettiva, fatta sempre con cognizioni di causa, che copre un arco di tempo abbastanza ampio, riferibile a quasi tutto il Novecento, se consideriamo che tanti problemi sono tuttora aperti e non c’è ancora la volontà di volerli una volta per tutte risolvere. Il Nostro non tralascia niente, perché tutto fa parte integrante dell’uomo, viva egli alla Kalsa di Palermo o altrove. Perciò argomenta di scuola, omosessualità emigrazione, devianza giovanile e, quindi, di droga, e denuncia le anomalie sociali che condizionano e rendono difficile la vita: il burocratismo diffuso, la furbizia dei falsi invalidi, l’arroganza dei politici. E c’è anche il decadere delle cose e degli uomini che, non dando il giusto peso al passato, non riescono a cogliere il presente. Di qui il senso dell’abbandono e la solitudine che relega l’uomo a chiudersi in se stesso e a subirne anche le conseguenti ripercussioni sociali. 

Il riferimento alla mafia gioca nell’insieme un ruolo di rilievo. Titone distingue tra quella che era la vecchia mafia, ben rappresentata dal personaggio don Peppino Novacco, e la nuova, aggressiva e delinquente. Ad essa connessi sono la corruzione, il latrocinio, la richiesta di tangenti, la collusione tra mafia e politica, in un momento in cui di tutto questo non si parlava. 

E c’è il ricco tema degli affetti che dalle prime pagine alla fine è svolto con maestria e tanta delicatezza. Pietro, attaccato morbosamente alla famiglia, Nino alla sorella Lia, e don Peppino, e poi Gianni che per amore muore! È un libro che non vuole intermediari, va letto e per questo ad esso rimandiamo. 

A distanza di più di vent’anni dalla pubblicazione, il romanzo è molto attuale. L’Autore, da storico qual è ha saputo leggere il passato, scorgendovi i pregi e anche le storture che continuano a condizionare il presente, dando una chiave di lettura che è andata oltre la semplice registrazione degli eventi; sicché quelle che erano soltanto le sue intuizioni ora sono di dominio pubblico e ancora valide, se si volesse porre rimedio a certi malanni che affliggono la nostra società. 

Virgilio Titone è uno tra i realisti più veri del XX secolo, nel senso che ha trascritto nella pagina il suo modo di sentire e di vedere il mondo con nobiltà di sentimenti, aderenza e partecipazione alla realtà e con una capacità espressiva che bene si coniuga con uno stile sempre controllato, curato anche nei particolari e mai artefatto né artificiale. I più tendono a fare arte, la fanno o vi si avvicinano. Il Nostro ha avuto solo a cuore di esternare il suo mondo, che è poi il mondo in cui viviamo e ci confrontiamo, anche se si è disorientati da ciò che si vede e si sente e spesso disincantati. 

C’è tra gli studiosi e i critici la brutta consuetudine di incasellare un autore secondo parametri precostituiti, collocandolo prima, dopo o sullo stesso piano di un altro autore; si potrebbero addurre tanti esempi attinenti al verismo o al realismo. Ma è cosa che poco interessa, perché ogni scrittore ha una sua personalità e si differenzia, se vero scrittore, dagli altri. Con Titone ci troviamo dinanzi ad uno che, conoscendo la letteratura italiana e straniera, sa bene il fatto suo e opera nella piena libertà e senza condizionamenti, seguendo solo il suo nume ispiratore e facendosi trascinare dal magma che gli esplode dentro. 

A differenza di tanti altri e dello stesso Verga, lui, conoscitore di storia, non fa arte avulsa dalla realtà ma vi arriva, utilizzandola con molta onestà intellettuale. Sicché il suo realismo, dando voce ai tanti popolani, tende a riscattarli in senso sociale e morale, raggiungendo gli obiettivi che si prefigge e vi rimane coerentemente legato con i suoi principi umani e sociali. Perciò chi voglia cogliere nel vivo la Sicilia, e senza preamboli leggere nelle sfumature il presente che è anche il nostro tempo, non ha che accostarsi alle opere di Titone, questo solitario che, disdegnando i compromessi, cercò di avvicinarsi, per capirli, a tutti, da amico tra amici, come lui stesso scrive, a proposito di padre Giacinto da Favara, guidato da «un singolare intuito dell’animo umano e una conoscenza profonda della società in cui viveva11». 

Salvatore Vecchio

* Virgilio Titone, nato a Castelvetrano (Tp) nel 1905, insegnò Storia moderna presso l’Università di Palermo. Ebbe molti interessi e fu uno studioso attento di letteratura italiana ed europea. Fondò e diresse tre riviste: “La nuova critica”, “L’osservatore” e “Quaderni reazionari”. Tra le sue opere, ricordiamo: Espansione e contrazione (1934), Cultura e vita morale (1943), La poesia del Pascoli e la critica italiana (s. d.), La Sicilia dalla dominazione spagnola all’unità d’Italia (1955), Origini della questione meridionale. I. Riveli e platee del regno di Sicilia (1961), Storia, mafia, costume in Sicilia (1964), Machado e Garcia Lorca (1967), Introduzione alla Rivoluzione francese (1966), La storiografia dell’Illuminismo in Italia (1969), Il pensiero politico italiano nell’età barocca (1975). Morì a Palermo nel 1989. 

Note 

1 V. Titone, Diari (a cura di C. Messina), III t., Palermo, Novecento / Comune di Castelvetrano – Selinunte, 1996 / 1997. Un mio saggio, “ I Diari di Virgilio Titone”, si trova in “Spiragli”, XIV, 1999-2002, pagg. 4-12, dove, tra l’altro, scrivo: «I Diari di Virgilio Titone aprono il lettore a tutto un caleidoscopio di idee e di pensieri che costituiscono il fondo della sua vasta produzione. E il lettore, o lo studioso, che si accinge ad esplorarla, non può non tenerli in considerazione, se vuole davvero comprenderla». E ancora, a proposito delle sue opere: «in tutte c’è il rispetto della parola, ponderata e messa al posto giusto, indice di padronanza del lessico che s’accompagna alle idee, di cui l’autore si fa portatore, ma c’è anche il rispetto del limite, cioè la capacità di dire molto nella stringatezza, senza che ciò pesi nell’economia della pagina, anzi la rende agile e piacevole.» 
2 Storie della vecchia Sicilia, nell’edizione del 1971, è così composto: “La zolfara”, “La pensione”, “L’odio”, “La caccia”, “La visita”, “L’annunciatore del traghetto”, “Una notte inquieta”, “Il pranzo di Natale”, “Il terremoto”, “L’esattoria”. Citeremo l’edizione postuma (introd. di L. Zinna) Racconti, Novecento / Comune di Castelvetrano, 1999. Il titolo non è condivisibile per la ragione sopra esposta e nemmeno Titone l’avrebbe accettato, visto che nelle sue edizioni ha usato il termine “storie”. 
3 V. Titone, Racconti, cit., pag. 30. 
4 Ivi, pag. 55. 
5 Ivi, pag. 32. 
6 Ivi, pag, 112. 
7 Ivi, pag, 81. 
8 V. Titone, Le notti della Kalsa (Introduzione di L. Zinna), Novecento/Comune di Castelvetrano), 1998, pag. 22. Vedi Diari (1977-1989), III t., cit. pag. 212: «Ore 3 del mattino. Mi sono svegliato all’ora solita. Sto finendo il Vescovo1». La nota è di Messina. Il nostro auspicio è che quanto prima il romanzo si pubblichi per aggiungere qualche altro tassello alla conoscenza del nostro autore. 
9 V. Titone, Diari (1977-1989), III t., cit., pagg. 271 e 274-275. A pag. 276, nella lettera a Vincenzo Caruso, scrive: «… spero di fare una nuova edizione corretta. È un libro troppo affollato di persone e cose che allontanano dalla conclusione. L’ho ridotto di 70 pagine». 
10 V. Titone, Le notti della Kalsa , cit., pagg. 38-39. 
11 Ivi, pag. 90. 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 19- 26.




 Sàito narratore 

Sono passati più di trenta anni da quando lessi per la prima volta e scoprii Nello Sàito narratore. L’occasione mi fu data dall’attribuzione dei premi Viareggio 1970. Quell’anno vennero premiati Pietro Citati per la saggistica, Nelo Risi per la poesia e Nello Sàito per la narrativa. Una triade che apparve fin d’allora ben scelta, accomunata com’era, non tanto dal bisogno di dire quanto di contribuire con la scrittura a migliorare la società. 

Nello Sàito, che con Dentro e fuori era al suo terzo romanzo, aveva già evidenziato questa sua attitudine in Maria e i soldati (1948) e ne Gli avventurosi siciliani (1955), e così continuerà negli scritti che seguirono, nella narrativa, nel teatro e in quelli di letteratura o di altro, perché Sàito è un agguerrito germanista oltre che un giornalista che sa il fatto suo. 

Da buon siciliano qual è (il padre di Licata, in provincia di Agrigento, si era trasferito con la famigliola a Roma per motivi di lavoro), senza niente elemosinare, s’è fatto strada da solo, giorno dopo giorno, fidando nella sua caparbietà e nell’intelligenza, in anni del secondo dopoguerra quando era facile aggrapparsi al primo carrozzone e ottenere vantaggi. Caparbio, Sàito, nella sua coerenza d’uomo e di scrittore, anticonformista che di primo acchito può sembrare reazionario, anarchico, mentre invece è animato da sincere convinzioni e da un bisogno forte di andare contro il malcostume dilagante e le opinioni comuni che fossilizzano e rendono incapaci di agire positivamente e per il bene della collettività. 

È un discorso, questo, che va contro il tornaconto e che dovrebbe caratterizzare spesso l’operato di quanti sono chiamati a venire incontro alla gente ed invece, incuranti dei danni che arrecano, a tutto pensano fuorché a se stessi, eludendo per i più i bisogni elementari che poi sono sacrosanti diritti. Un esempio? Nel momento in cui si parla di ponte sullo Stretto, a che serve un ponte se nell’isola mancano le infrastrutture da garantire un vivere sociale più umano? Mentre tanti rimangono indifferenti, come se la cosa non interessasse, Sàito è una voce ferma nel panorama dell’ intellettuali tà siciliana che da subito si è alzata contro questo progetto mostruoso, fatto cadere come una spada di Dàmocle sulla testa di tutti senza interpellare nessuno, come se il popolo non esistesse e come se tutto fosse rose e fiori, dimentichi della gente che li vive, delle conseguenze che esso può avere sull’ambiente, in un punto geografico da sempre ballerino. 

La Sicilia ha bisogno di ben altro per concretare le sue possibilità, non di un ponte; come nel passato, essa deve ritornare ad essere ponte tra le genti, per la sua produttività, per la cultura, per i suoi uomini migliori che questo vogliono. Essa è già un ponte, così com’ è un centro; abbisogna solo delle condizioni per realizzarsi veramente, e basta con la deleteria pubblicità che la oscura nella sua immagine vera e nell’umanità che è nella sua gente! Ma dove sono i tanti altri a far da coro a questa voce? 

La sicilianità di Nello Sàito non è nel clamore, non nei colpi di testa e, tanto meno, nella Sicilia a cui non pochi scrittori hanno abituato a guardare, piuttosto pronti a cogliere consensi che a darne un’immagine veritiera. Egli ama la Sicilia e se la porta nel cuore con l’orgoglio del siciliano attaccato alla terra che gli è propria. Perciò ne parla col massimo rispetto, nel timore di poterla in qualche 

modo appannare, e ne evidenzia pregi e difetti, come è bene che sia. Sicché, tratti della Sicilia o dei Siciliani, è sempre pronto a cogliere il positivo e a sposare la causa giusta. Perché, a differenza di Sciascia, di Camilleri o dei tanti loro epigoni, Nello Sàito scrittore esalta la vita, gli uomini e i paesaggi, non la mafiosità e il male, dovunque imperanti (non solo in Sicilia) che distolgono dalla realtà e danno un’ immagine negativa. 

Il siciliano di Sàito (si tengano presenti Mauro di Maria e i soldati o Enrico di Una voce, tanto per citarne alcuni) non è mafioso, bensì uomo ricco di sensibilità, capace di agire e di reagire anche bellamente, e di uscire da situazioni incresciose con dignità, quasi col sorriso sulle labbra. Così anche il lettore è portato ad amare la Sicilia e la vuole conoscere per come è, con i problemi che la travagli ano e le caratteristiche proprie della sua gente, in particolare una che, come scrive H. Koenigsberger, tra tutte le è preminente: la sua umanità1. 

Maria e i soldati, pubblicato nel 1948, vincitore del Premio Vendemmia nello stesso anno, venne ripresentato al pubblico dei lettori nel 1970, conservando intatto quel clima di tensioni e di speranze che fu proprio di quanti vissero la guerra e la resistenza. Tanti scrittori riportarono sulla pagina la loro esperienza di uomini e di partigiani, spinti – come rilevava fin da allora Arnoldo Bocelli – «dall’urgere stesso di quella realtà, della sostanza umana e sanguigna di quella cronaca», altri preferirono tradurre quelle tensioni per vederci chiaro e «risalire dalla irrazionalità di un mondo di sensazione alla razionalità del pensiero, della coscienza2». Tra questi ultimi è il romanzo Maria e i soldati, salutato con i migliori auspici dai critici del tempo (Pancrazi, De Robertis, Gallo, Bocelli e tanti altri). Qui il fatto cede il posto allo studio psicologico del momento, incerto e per questo non meno ricco di risvolti che fanno dello scrittore, ancora alla sua prima opera di narrativa, uno tra i più promettenti e validi della nostra letteratura. 

Il pregio del romanzo, la sua originalità, sta proprio qui, nel trascurare volutamente gli accadimenti per dare più importanza ai soggetti (e alle loro reazioni) che quelle esperienze vivono, ciascuno secondo la sua sensibilità. Ormai siamo negli anni in cui il neorealismo cominciava ad uscire da un modo esasperato e soggettivo di intendere la realtà e la vita per dare inizio alla riflessione e passare così da una esteriorità rumorosa ad una consapevolezza che nella coscienza del singolo trova la sua immediata ragione3. 

Maria e i soldati (4), per questo, è un romanzo corale, nel senso che (popolazione, soldati, militi, partigiani) tutti concorrono a creare un’atmosfera di attesa dovuta all’incognita del domani, all’evolversi della situazione che sempre più diventa incandescente, mentre il paese è diviso e combattuto nel fisico e nella morale. E se prima questa situazione era maggiormente sentita tra quanti erano vicini al potere o in esso coinvolti e nei luoghi più direttamente interessati, ora (siamo intorno al 1944) vivono in stato di agitazione anche quelli che si erano ritenuti al sicuro e fuori di ogni pericolo. 

Il racconto è incentrato su un distaccamento di soldati che nei magazzini della Sussistenza di una non ben precisata località del Centro Italia, a pochi chilometri dalla borgata di Santa Fiora, lavora ai forni e fornisce di pane e di viveri la zona militare di sua competenza. Tutto tranquillo, fin quando non si verificarono le prime avvisaglie di incursioni aeree alleate, ma soprattutto fin quando ai magazzini non arrivarono i militi con l’ordine di tenere la situazione sotto controllo. C’era un sottile malessere tra i soldati, specie da quando le azioni dei partigiani cominciarono a coinvolgerli direttamente, e il comandante aveva pensato bene di chiedere rinforzi. Anche perché un giorno o l’altro potevano essere attaccati, cosa che alla fine del romanzo è già decisa e data per scontata. 

Su questo, poca cosa per la verità, ma sufficiente a creare lo stato d’animo particolare che è di guerra, Sàito tesse con sapiente regìa il suo discorso che traduce l’ambiguità, le diffidenze, ma anche la generosità che nonostante tutto ha terreno fertile pure in momenti così tristi, e poi le speranze con i dovuti ripensamenti, la dedizione alla causa. In poche parole, lo scrittore ritrae bene lo stato d’animo delle parti in guerra senza cadere negli eccessi di una retorica che è consueta in opere del genere. 

Tutta la notte Remo stette ad occhi aperti. Cercava una via d’uscita a quella situazione e non la trovava. Egli non credeva ai miracoli: calcolava, non fantasticava più, e se si fosse potuto vedere al buio, in un pezzetto di specchio, quell’ombra infantile che nel momenti di rilassamento affiorava istintiva e trasparente sul suo viso, era stata definitivamente vinta (p. 115). 

La monotonia dei magazzini rotta a poco a poco dalle imboscate ai camion, dall’arrivo dei militi, cede il posto ad un disagio interiore che pesa come una cappa sulla testa di tutti, sui soldati come sulla gente, e ciascuno lo vive a modo suo. Tutti risentono di quel clima di tensione senza sapere bene perché, disorientati, successivamente, solo dopo l’arrivo dei militi, consapevoli di doverli contrastare. La guerra che altrove opera una netta scissione tra nemici, qui è come se non avesse luogo, eppure logora gli animi e rende sospettosi. 

A risentire di questo, Remo è l’ esempio più lampante e più studiato, controfigura di Maria che, a prima vista, può sembrare ambigua, ed invece recita bene la sua parte per legare gli altri alla causa di quanti lottano per uscire dalla guerra. Questa apparente ambiguità si dipanerà alla fine, quando si offre per facilitare l’assalto ai magazzini. Sicché Maria si rivela nella sua luce più vera che va al di là dei sentimenti, e sacrifica tutto, persino se stessa, senza niente chiedere, senza niente dire; sa solo di rendersi utile e per questo aspetta nella dedizione totale il sacrificio. 

Maria è determinata, come Andrea, il capo partigiano, come Bianchetti, il soldato passato con loro insieme a Remo, che, però, non riesce a darsi interamente alla causa, a sentirla con dedizione come gli altri, perché si fa prendere dal sentimento ed è dibattuto dal pensiero di lei che «gli si era infiltrata in corpo lasciandogli come un veleno imprecisabile e vago, che tutti gli avvenimenti posteriori non erano riusciti a spremere dalle sue vene» e dei compagni relegati ai magazzini, dal desiderio di vederli liberi e dal bisogno di amare. Remo è un ostinato, non vuol rendersi conto che in guerra c’è poco posto per i sentimenti. Maria soffre ma non si tradisce, riesce ad essere forte, a far prevalere un’ anima, ed è solo all’ultimo compresa da Remo, quando già le cose precipitano e non c’è tempo per i ripensamenti. 

Maria e i soldati è un romanzo d’amore sofferto, dove l’uomo fatica a vivere la sua umanità con i sentimenti più puri per il trascinarsi di una guerra fratricida che snerva e disorienta, e risulta piacevole sia per i fili sottesi del discorso ‘ narrativo che è pure avvincente, sia per il linguaggio calato nella realtà dei personaggi che non sono nelle condizioni di sfoggiare chissà cosa ma di esporre e di esporsi nella crudezza del momento. Nonostante il disagio che è dovunque, essi sono ben delineati e formano il variegato mondo che vive quel definito periodo. Anche l’aria che essi respirano in quel fazzoletto di terra è la stessa di tante altre parti, e vi prende corpo l’attesa, pur nel precipitare discontinuo di avvenimenti che dicono la gravità delle circostanze: la reazione di Mauro e la sua conseguente uccisione da parte dei militi (e la rabbia rattenuta dei compagni), il malumore e la chiusura della popolazione. E ci sono anche i partigiani che fanno proseliti e incrementano la loro azione di disturbo, il furto della mitragliatrice, la corsa di Bianchetti e il suo incontro con Remo nella casa di Maria … 

Nello Sàito già in questo primo romanzo rivela le sue doti di scrittore inconsueto. Intanto, dimostra di conoscere bene l’uomo e lo sa scrutare senza farsene accorgere, senza far pesare la sua presenza che è pure vigile e sostenuta da una prosa asciutta, senza ricadute o abbellimenti vari, calata nella psicologia dei personaggi, nel loro modo di valutare le cose, nel cercare un perché e nell’agire nel modo più consono . Sicché la scrittura ubbidisce al movimento interno che spesso è concitato, libera espressione del sentire. di tutti. Lo stesso paesaggio è assorbito nella vicenda che i protagonisti vivono, e le descrizioni sono riferite più all’ ambiente che ad altro, un ambiente dove uomini e cose risentono di uno stato di pesantezza e quasi di depressione. 

Arrivarono alla borgata. Remo non era mai stato a Santa Fiora: quattro case strette intorno a una chiesetta dal campanile aguzzo e giallastro. Dalla parte opposta a quella da cui erano entrati, una strada di campagna, ridiscendendo con larghi giri, conduceva nell’inteno della pianura. Sebbene fossero le prime ore del pomeriggio, non c’era quasi nessuno fuori delle case. 

Da una stalla uscì un contadino con una treggia, tirata da due buoi, piena di paglia mista a concime naturale. I buoi, dalle cui narici fumavano nuvole di alito caldo, si guardarono lentamente intorno: e a un grido dell’uomo si fermarono . di mala voglia, in attesa che quello aggiustasse con un forcone la paglia e il concime che minacciavano di cadere fuori della treggia (5). 

Eppure non mancano momenti. di grande tensione. Si veda la pagina che descrive Mauro nell’osteria con i militi e, quella di Bianchetti e Remo che recuperano la mitragliatrice e vanno defilati alla casa di Andrea. E poi Remo che incontra per la prima volta Andrea e il tumulto che quell’incontro gli suscita. Remo osserva, valuta ma a modo suo, con gli occhi del cuore, e non potrà mai rendersi conto, anche se partecipa, della determinazione di quegli uomini, a partire da Giovannino che nel suo silenzio decide ed è ubbidito e, inoltre, non riuscirà a motivare e tanto meno a giustificare l’uccisione di Antonio o di quella del milite. 

Lo scrittore plasma i suoi personaggi come l’artista la materia grezza, e non è facile dimenticarli perché in ciascuno di essi è la vita con le sue luci e le ombre su cui, vuoi o no, siamo chiamati a riflettere. 

Il secondo romanzo, Gli avventurosi siciliani, fu pubblicato nei «Gettoni» Einaudi, diretti da Vittorini, nel 1954, in un momento in cui il realismo cerca nuova linfa per rendere più incisivo l’apporto della letteratura nella società. Sàito, al di là delle tendenze, continua la sua ricerca iniziata con Maria e i soldati nel segno della razionalità che vede l’uomo più orientato ad affermare la sua lindura morale piuttosto che a cadere nelle maglie di un malcostume rapace. Studiato nella struttura, che è già molto, perché l’autore fin dall’inizio sa dove vuole arrivare, il romanzo si svolge, pur nella sua coerenza logico-narrativa, in due momenti (se non in tre, se si considera a sé la sosta palermitana) collegati tra loro, e il tutto in una prosa ormai padrona e libera, in cui persino il paesaggio ha la funzione di contrappunto, partecipando dell’aria che tira e della disposizione 

d’animo dei protagonisti. Al centro di tutto la Sicilia, con l’ amore e l’odio propri di chi vorrebbe che la sua solari età non contrasti con la triste realtà della gente. 

Fulvia, giovane milanese di sangue siciliano, viene mandata dalla madre in Sicilia con la scusa che lo zio Rosario sta male e la vuole vedere, ma con lo scopo di darla in sposa al di lui figlio Ninl, frivolo e vanesio. La prima parte del romanzo è dedicata al viaggio della ragazza da Milano fino a Napoli in treno, e di qui per mare fino a Palermo, dove Fulvia farà una sosta con amici casuali (l’avvocato Pennisi e l’esportatore Petralia) che già dalla partenza l’avevano adocchiata per spirito d’avventura. Si vede subito in opera, in treno come sulla nave o nella sosta a Palermo, l’estrosità dei due, che rasenta la comicità, ed è tutto un tocco di colore che mette in risalto alcuni aspetti dell’ essere siciliani, riconoscendo loro la generosità e la genialità delle trovate, il senso dell’ amicizia e anche la loro cocciutaggine. 

Se fin qui tutto si svolge nel segno di un’esaltante euforia dei protagonisti, l’arrivo a Trapani, da parte di Fulvia e di Petralia che la volle accompagnare, segna il cambio di registro che qui diviene drammatico con punte alte che sfiorano il tragico. Fulvia arriva in un momento particolare per don Rosario Barrancu, lo zio, che è ricco ma è anche uno sfruttatore e abusa dei salinari che lavorano nelle sue saline, grandi come un regno. Basta la morte di uno di loro per scatenare una rivolta e per far capire anche che è un mondo da fuggire, materialmente e soprattutto moralmente. 

Al primo apparire de Gli avventurosi siciliani alcuni critici notarono una minor coerenza alla tematica. G. De Robertis e N. Gallo che avevano salutato positivamente e con i migliori auspici Maria e i soldati, ora rilevano un contrasto tra prima («rumoroso, eccedente») e seconda parte («essenziale»)6, ora la caduta nella «raffigurazione, tra il simbolo e la favola, di una mentalità e di un paese7». 

Com’ è strutturato il romanzo, è facile giungere a siffatte conclusioni, e Sàito lo sapeva bene sin dall’inizio, dal momento in cui si prefisse di trattare della Sicilia da due angolazioni diametralmente opposte: una dall’esterno, ed è la solita retorica campanilistica di chi da lontano, con nostalgia, reclama la sua terra, dando sfogo al sentimento e risolvendo tutto nel mito (i discorsi che l’avvocato Pennisi e l’imprenditore Petralia fanno sul treno, il dirsi e sentirsi siciliani, il loro agire), nel parodistico e nel comico, senza avvedersene. E quando l’avvocato Pennisi afferma: «la Sicilia è un paese avventuroso», dice la verità, perché non ha potuto essere altro, ed è stata sempre bistrattata terra di conquista (basta dire che lo è tuttora), e non si è potuta mai realizzare come avrebbe potuto e dovuto. E la realtà è che la Sicilia è sfuggita di mano ai Siciliani, per cui non resta loro che darsi all’ avventura. 

Sàito, che è nella mente e nel cuore siciliano, ha sperimentato a spese sue questo, e ne soffre, perché sa che a niente valgono i tentativi dei singoli, se non c’è la volontà di cambiare una volta per tutte le cose. Questa intima sofferenza è nella pagina e, al di là delle apparenze, s’intravede in filigrana, grazie ad una scrittura ben dosata e ad una vigile presenza, eppure discreta e mai invasiva. L’altra angolazione riprende la Sicilia dall’interno. Qui non c’è posto per la retorica, tanto meno per i sentimenti, perché tutto è abbrutito dalla misera quotidianità del vivere che non dà scampo alla povera gente costretta a vendersi più che a lavorare dignitosamente. Ed è la Sicilia del sopruso, dove i prepotenti o detengono il potere o fanno lega con quanti lo esercitano. Firdusi, l’uomo di fiducia di don Rosario Barrancu è l’esempio lampante di questa categoria di persone fautrice dello schiavismo moderno. 

Alcuni uomini lavoravano nella prima salina, erano a circa trenta metri da noi. Correvano come animali neri, une dietro l’altro, in su e giù, coi cesti pieni di sale sulle spalle. Salivano sull’argine opposto, scaricavano in fretta il cesto e poi tornavano. [ … ] In basso c’era un uomo con una grande paglia in testa; era seduto sull’argine e ogni tanto gridava perché qualcuno dei salinai rallentava8. 

E c’è Barrancu che dalla sua parte ha la ricchezza ed è tutelato da quella stessa legge che dovrebbe essere garante di giustizia. A che vale la rivolta se viene soffocata dalla consorteria dei poteri? Non resta che evadere. Fulvia, liberatasi dalle grinfie dei Barrancu, prima va ad assistere con i suoi amici ad uno spettacolo dei pupi (che è realizzare con la fantasia ciò che è difficile nella realtà), poi fugge insieme con gli altri per non essere compromessa, per essere libera dai condizionamenti. 

E magari dicevano a tutti Sicilia Sicilia ma in fondo erano contenti di esserne fuggiti; e magari dicevano Palermo […] ma poi fuggivano perché essi non volevano tradire, non volevano essere complici di quell’ambiente dove tutti erano con la loro omertà complici9. 

Si potrebbe a questo punto pensare ad un senso di sfiducia, di delusione diffusa, ma in Nello Sàito non viene mai meno la speranza. C’è più che altro una forte denuncia contro lo Stato latitante che, una volta per tutte, deve mettersi dalla parte della gente e rendere giustizia delle inconc1udenze e dei tanti problemi ultrasecolari irrisolti. 

Dopo una lunga parentesi di anni, Nello Sàito ritorna alla narrativa nel 1970 con Dentro e fuori, pubblicato da Rizzoli. Si nota subito che Sàito narratore punti sulla qualità più che sulla quantità, se consideriamo che al suo primo apparire il romanzo viene salutato con molto entusiasmo dalla critica e dai lettori, è finalista al Premio Strega e, sempre nello stesso anno 1970, vincitore del Premio Viareggio. Lo stacco temporale, comunque, non comporta un affievolirsi dell’ impegno o un allontanamento dalla tematica; essi risultano convalidati, e la stessa scrittura ne esce arricchita, sicura, corroborata da un raziocinio che scava nella realtà del momento, e denuncia un immobilismo cronico, asfittico dei Siciliani, pronti ad accogliere mai a rifiutare, vittime non protagonisti della storia, di quella di ieri e anche di quella di oggi, ma lascia pure intravedere una speranza che è quella di non cadere nella tentazione di mollare tutto ed andare come tanti fanno. 

I migliori non hanno trovato di meglio che fuggire da qui. A me verrebbe invece la voglia di non tornare più su, comprarmi un pezzo di terra e inchiodarmi qui non per isolarmi sdegnosamente come il professore di filosofia o trincerarmi nel pessimismo totale di Guardione: ma per cominciare qualcosa proprio da qui, per risalire la corrente, non per me, io sono ormai morto dentro, ma per gli 

altri 10. 

È l’io narrante che pensa, ma è anche il nerbo del pensiero di Sàito che in questo come in altri suoi scritti spinge alla consapevolezza che vuoI dire fare storia, non subirla, bensì cercare di combattere per uscire dai condizionamenti ultrasecolari che oscurano la Sicilia e non la fanno apprezzare. 

Il titolo la dice lunga: Dentro e fuori, in Sicilia e fuori di essa, guardare dentro ma anche fuori, a confronto continuo con gli altri, sentirsi parte viva di un tutto e non chiudersi nel sordo settarismo, come fanno i professori di cui si parla, innalzando muri di incomprensioni e di chiusura. Allora il romanzo si connota come la continuazione ideale de Gli avventurosi siciliani. In entrambi l’io narrante espone lo stato d’animo di chi non vuole accettare, anzi non può accettare situazioni di compromesso e vuole essere se stesso, preferendo piuttosto fuggire o resistere rimanendo e portando avanti coerentemente la propria idea. 

Un professore universitario, nominato presidente di Commissione, da Roma viene in Sicilia per gli esami di Stato, e dovrà imporsi per ottenere un risultato più consono alle aspettative degli studenti piuttosto che un responso distaccato, freddo, dei professori, sempre in combutta e pronti a rintuzzare qualsiasi cosa, ma uniti quando si tratta di difendere il loro operato e il ruolo di cui sono investiti, come se si trattasse di una casta da difendere ad ogni costo. Nelle riunioni e durante gli esami il clima è teso; c’è tanta chiusura mentale ed è inutile affermare che la scuola deve essere viva, se vuole suscitare interesse e continuare la sua opera educativa; perciò, deve cambiare crescendo dentro, ma anche fuori, visto che ormai le informazioni vengono da tante parti. Ma di questo poco si curano i professori, presi come sono da interessi privati, a tutto pensano che ai giovani studenti considerati numeri più che persone. Alla fine, dietro le prese di posizioni del presidente, viene salvato il salvabile con buona pace di tutti. 

Il presidente, sin dal primo giorno va a stabilirsi a Portopalo, sul mare, in provincia di Siracusa, e preferirà viaggiare, pur di tutelare la sua libertà e la integrità morale. Così, al clima pesante degli esami alterna altri momenti che pure fanno scuola, vissuti con gli amici, a stretto contatto con l’ambiente paesano e il mare che gli danno il vero senso dell’ isola e lo mettono in posizione di privilegio, perché gli consentono di guardare dal di fuori dentro, la Sicilia e l’Italia, la scuola come si svolge in un’aula e come è nella vita. Terminati gli esami, il presidente rimane a Portopalo, anche perché col passare di agosto sarà impegnato con la seconda sessione. È la scuola della vita che lo affascina ed è l’amicizia di pescatori come Nunzio, o di Lorenzo e Michele, che lo legano ancor più alla Sicilia. 

Di qui l’idea di volersi stabilire definitivamente a Portopalo, la ricerca di un pezzo di terra e gli ostacoli che, almeno per il momento, non gli consentono di acquistarla. 

A parte gli incontri e le discussioni, la visita a Pantàlica, il riproporsi del contrasto fra passato e presente, più frequenti e vive sono qui, meglio che nella prima parte, le presenze immaginarie del padre e di Fosca che permettono al narratore di fare il punto su temi già anticipati (politica, antifascismo, Nord e Sud) che danno misura della molteplicità di interessi e spingono ad un confronto più aperto e sereno. Per la Sicilia che è musica, ora dolce ora triste, che invade tutto, come acqua del mare, punto fermo di tutto il romanzo. 

Nello Sàito è una voce sicura della nostra letteratura, che affida alla parola scritta ciò che si porta dentro e alla parola s’affida, auspicandosi una società più umana e più consapevole. 

Questo è il suo sentire, questo bisogno gli urge dentro, ed è un discorso di cultura più che di politica. Ed è magistrale ed esemplare insieme il modo come tutto questo è detto. L’autore ha nel sangue il teatro, e la Sicilia è un aperto scenario dove viene rappresentata la storia di tutto un popolo che ha sete di giustizia, che stenta ancora a farsi protagonista e rivendica a sé ciò che da sempre le viene imposto. 

I colloqui col padre lontano e con Fosca sono un efficace espediente con cui Sàito tesse il romanzo e lo arricchisce di pezze d’appoggio solide che gli conferiscono una forte valenza didattica, e gli danno anche materia per la narrazione, scavando in profondità nel tentativo di capire e, di conseguenza, agire. 

«Ma che vai a fare in Sicilia?» 
«Sono venuto proprio per questo, per capire», volevo dirti. «Ti ho disobbedito, lo so.» 
«Ma perché?» 
«Perché non ho mai condiviso questo tuo astio verso la Sicilia che ormai dura da quasi cinquant’anni, mi pare un astio irrazionale; ed io almeno non ne conosco le ragioni. Sei tu piuttosto che devi risponderrni, che non hai mai risposto alla mia domanda: perché sei venuto via di qui? Me lo dici perché?11» 

Vicinanza e distacco, riconoscenza e disobbedienza, portano non tanto a disconoscere l’operato dei padri, ma a verificarlo e perciò a continuarlo, a riconoscerlo. 

C’è anche la visita a Pantàlica. Per il presidente è una nuova esperienza, un tuffo nel passato che non deve coinvolgere più di tanto, perché è il presente che va preso in considerazione. Di qui la sfuriata con Turicchio e contro quanti si chiudono in un immobilismo che è rinuncia ed anche accettazione. Bella, a proposito, l’immagine del contadino che corre dietro al suo mulo che scappa sotto un sole cocente in una terra che è un deserto, ma è altrettanto bella l’immagine del presidente che inveisce ora contro Turicchio ora contro i professori, perché si ribella a questa staticità, lui scheletrico ma deciso ad andare avanti per dare una lezione di coraggio e di grande umanità. 

Dentro e fuori credo sia uno tra i libri più belli scritti in quello scorcio di secolo; a parte il fatto che non cede agli indirizzi di moda, esso non si stacca dalla realtà e ubbidisce al cuore e alla fantasia del suo autore. Di certo, comunque, è il romanzo più interessante, utile, tuttora attuale, che descrive una Sicilia sofferente e meravigliosa al tempo stesso.  

Quattro guitti all’ Università viene pubblicato a Roma, presso Bulzoni, nel 1994. È ancora il tema della scuola, allargato all’Università, che viene ripreso e affrontato in modo aperto, critico e certamente di accusa degli altari della cultura o, meglio, di tanta pseudocultura. Se ne I cattedratici (1969) e in Dentro e fuori Nello Sàito mette a nudo le sfasature, il tornaconto, il solipsismo e l’arrivismo che condizionano spesso i professori, tutti presi da ben altro piuttosto che dal lavoro di competenza, dal di dentro, perché conosce bene l’Università, essendo lui stesso un professore, in questo romanzo denuncia la grettezza e l’ignoranza che li porta a chiudersi in sé, presi dall’orgoglio e da una smania di potere che li mette l’uno contro l’altro. Di quale potere? viene subito da chiedersi, come anche fa il protagonista, e, in ogni caso, ne vale la pena, se a farne la spesa è sempre l’uomo? 

Quattro guitti (Bakunin, Anguilla, Marta e Cipolla) vivono di teatro e non ne possono fare a meno, perché il teatro è la loro vita, in quanto, in uno spazio pur ristretto, la verità prende corpo ed è la dominatrice della scena. Ma le cose non vanno bene. Proprio perché questi guitti dicono il vero, viene loro tolto il teatro di Mola di Bari e vengono a trovarsi in mezzo alla strada con pochi soldi e un camion che fa loro da mezzo di trasporto e da casa, visto che una casa non l’hanno. A Bakunin, un ex studente universitario, viene in mente il teatro dell’Università di Roma, e i quattro, dopo un viaggio movimentato, nottetempo, si presentano nella capitale, sperando nel professor Colapietro che proprio quella notte muore, e con lui la speranza di essere presentati al rettore: dovranno fare da sé, magari servendosi di Francesca, la giovane moglie del morto che niente potrà fare. Sarà Francesca a dire che il marito non andava d’accordo con i colleghi, e un diario trovato sul tavolo di Colapietro darà a Bakunin la dimensione di quel contrasto. 

Il teatro verrà negato, e la reazione è sempre imprevedibile e il più delle volte scatena violenza che si colora di rosso sangue quando i quattro guitti, usciti dalla casa della Colapietro, penetreranno nell’Università e s’impossesseranno del teatro. 

Questa è la trama che però è intessuta da acute notazioni che danno movimento all’ azione. È come se i protagonisti recitassero in un grande palco, ed è il teatro della vita che si apre loro davanti, tra realtà e sogno, anche se a dominare è la realtà che fustiga e tarpa le ali a chi avrebbe e potrebbe dire e fare qualcosa per la collettività. 

Avevamo un piccolo teatro a Mola di Bari, grazioso, ottocentesco, una gemma. Eravamo riusciti a raccogliere dopo due anni di fatiche intorno a noi alcuni giovani, poi adulti: insomma un pubblico, cui volevamo appunto dal teatro aprire gli occhi. Non ce l’avevamo con nessuno, semmai contro il mondo che continuava a camminare ad occhi chiusi e secondo cui siamo noi i sonnambuli. Per essere veri. O se volete finti ma di modello agli altri che secondo noi si sono dimenticati di essere uomini12. 

La tematica è di grande attualità: il teatro e la cultura che non vengono valorizzati come dovrebbero, i professori che s’allontanano sempre più dalla didattica e a tutt’altro pensano che al proprio insegnamento, la violenza che dilaga, il venir meno dei buoni sentimenti e, ancora, il divario Nord-Sud. Eppure il teatro e la cultura che aiutano ad aprire gli occhi non interessano più di tanto ai detentori del potere. Ne è che i finanziamenti sono sempre meno e, nel romanzo, ai quattro guitti non verrà ceduto il teatro e i professori, come Colapietro, che vorrebbero fare bene il loro lavoro sono emarginati. 

L’autore, con una scrittura agile e più che mai essenziale, ha saputo ancora una volta mettere il dito su una piaga che travaglia la nostra società, ed ha parole dure contro i responsabili di questo stato di cose, non per puro gusto di mettersi dall’altra parte, bensì per evidenziare i lati oscuri e aiutare a correggerli. 

Uno dei fili conduttori di tutta la produzione di Nello Sàito è il senso della vita, la moralità e, quindi, l’impegno che ognuno deve fare suo, perché il mondo diventi più umano. Può sembrare un’utopia, eppure alla luce di quanto avviene giorno dopo giorno bisogna puntare su questo, se si vuole evitare il peggio. Dire le cose, gridarle, uscire dal conformismo, è il modo migliore per essere prima di tutto se stessi e poi per ritrovare l’umanità che è in noi e negli altri. 

Con il suo nuovo romanzo Una voce, Sàito si serve di una voce che a poco a poco prende corpo e si manifesta perché predomini il bene e se ne tragga vantaggio, e l’uomo s’avvicini all’uomo per creare insieme condizioni di vita più consone, lontani il frastuono e la materialità. Tanti scrittori, pensatori d’ogni tempo (viene di pensare, a proposito, ad Antoine de Saint-Exupéry), attraverso le loro opere, cercano l’uomo; la stessa cosa è in Sàito particolarmente in quest’opera, dove la piena consapevolezza del modo come gira il mondo fa presagire l’andare incontro all’irreversibile. 

Come in tutti i suoi romanzi, la trama sembra appena abbozzata, eppure è ricca di immagini e contenuti profondi, e la penna è quasi una matita leggera che lascia un segno indelebile e connota persone e cose nella loro luce più vera, perché l’autore vuole arrivare al cuore e alla mente dei suoi lettori, convincere per farli ragionare. E come negli altri, anche in questo romanzo c’è molto autobiografismo, un recupero della giovinezza, la vita in famiglia, un richiamo della Sicilia che si fa sempre sentire, specie nei suoi figli migliori costretti ad andar fuori per realizzare la loro vita. 

Enrico, un giovane professore di storia e filosofia, stanco della stagnazione e del conformismo di provincia, dopo la morte dei suoi lascia la Sicilia insieme con il fratello Tommaso e va a Roma, dove si trasferisce per dare un senso alla vita, a quella sua e del fratello. Il contrasto fra la vita di città e quella del paese è enorme già al primo impatto: è un passaggio dalla noiosa staticità all’assordante caos, da un posto dove ognuno conosce ed è conosciuto fin nei particolari ad un altro dove si è nessuno e si passa inosservati tra una folla senza nome. In attesa di prendere servizio, Enrico e Tommaso vanno in giro per Roma, visitano la basilica di San Pietro e la trovano fredda, con poche persone e per lo più preti che si muovono nella piazza semi vuota come «tanti scarabei neri». Qui è la prima avvisaglia della voce che rimprovera il fasto, mentre altrove come a Gerusalemme è miseria; voce che si fa ancor più insistente all’inizio della partita di calcio cui i due fratelli avrebbero dovuto assistere. Difatti la partita non ci sarà perché essa punirà l’idolatria dei tanti scalmanati e succederà un putiferio: attacchi della polizia, scontri fra tifosi. Tommaso, mentre escono dallo stadio, viene scaraventato a terra, la gamba spezzata. La corsa al Policlinico, il ricovero, tra l’indifferenza dei medici e le proteste dei malati. Anche qui la voce minaccia e punisce l’arroganza di chi cura solo il suo tornaconto. 

Enrico deve per forza di cose ridimensionare le sue attese. La nuova scuola che si rivela conservatrice, il caos e il disagio sociale di Roma, la tracotanza e l’interesse che hanno sede laddove non dovrebbero aver luogo (nel Parlamento come al Policlinico), lo stordiscono talmente che la «voce» che si porta dentro si materializza e diventa più esplicita. A lui e a Carla non resta che fuggire, e da lontano, dall’alto del Gianicolo potranno guardare Roma. Enrico, provato, immagina la distruzione. 

Sàito con questo nuovo romanzo conferma le scelte e i temi altre volte affrontati ed enunciati. Il lettore può leggere Una voce a suo piacere, limitandosi alla narrazione, che è piacevole e fuori degli schemi comuni, soffermandosi magari su qualche particolare che più lo attrae. Ma per quel che mi riguarda, ritengo più utile soffermarmi sugli approcci che l’autore combina, perché egli fa parte di quella schiera molto ristretta di scrittori che insieme ‘ con il piacere della buona lettura regala spunti di riflessioni che non è facile dimenticare. Piacere della mente, ma anche dello spirito che ha pure bisogno di respirare aria nuova e di confrontarsi. Specie in un momento in cui i condizionamenti fanno capire quanto siamo soli e in che stato ci troviamo. 

Altro motivo in più per apprezzare i libri di Sàito, e non mi stancherò di ripeterlo, è che espone con distacco inconsueto la materia trattata e l’immagine che ne viene fuori, sia della Sicilia, dei Siciliani o di altro, rispecchia la realtà e, inoltre, non la esagera e deforma come spesso avviene. Questione di stile ma anche di onestà professionale che spinge lo scrittore ad essere obiettivo e coerente con sé e con gli altri. Va detto anche che le argomentazioni sono attualissime e se pure riferite il più delle volte alla sua terra, hanno un valore che vanno al di là dell’isola e interessano l’uomo ovunque si trovi. La fuga, il viaggio, il conformismo, il rapporto Nord-Sud, quello tra padri e figli, la scuola e i giovani, non sono temi cosmopoliti? 

Una voce è un romanzo loico-riflessivo che condanna la materialità e il conformismo, malattie della modernità, pericolo che ottenebra la quotidianità e rende infelici, lontani dai sentimenti puri. Narratori e filosofi del secolo scorso, drammaturghi (basti pensare a Camus e a Ionesco), hanno affrontato questi temi nella loro cruda drammaticità e hanno prospettato la rivolta, ma l’uomo s’è trovato spesso solo o non è riuscito nel suo scopo o si è chiuso in sé stesso. Il protagonista Enrico reagisce, dà voce alla sua coscienza e senso alla vita. Lui e Carla si salvano perché ascoltano e non sono attaccati ad alcunché, e si rendono uomini. Essi, ed anche Tommaso, sono personaggi ben delineati, e positivi. Miracolo dell’anticonformismo e dell’ anarchismo di Enrico-Sàito! 

Anarchismo? Da professore di filosofia ero abituato a ragionare, a non prendere per principio posizione contro nulla. L’anarchia dell’ 800 era stata utopia, ansia di libertà e per meglio dire di liberazione. Gesù, se era vero che era la sua voce, non era stato il primo anarchico, il primo ribelle contro l’ingiustizia? Che egli all’ ingiustizia contrapponesse l’amore, bene, ma non dimenticava nemmeno, citando spesso l’Antico Testamento, che il problema principale era quello dell’ingiustizia prima dell’amore. E me, siciliano, nonostante ogni critica sulla Sicilia ma per l’umanità, mi trovava particolarmente sensibile. Tornava il giovanile interesse per l’universalismo di me cittadino del mondo? E anche Bruno e Gesù non erano prima di tutto cittadini del mondo? Ribelli l’uno, lui ebreo contro la cultura ebraica del suo tempo e l’altro contro il conformismo, la struttura, la visione non certo italiana dell’inquisizione. Interesse per l’umanità non per se stessi, era questo che mi affascinava13. 

Il lettore sin dalle prime pagine noterà bene la serietà e la compostezza di questa ispirazione che mette in risalto l’invadente amoralità del nostro tempo, ed anche il disagio in cui sono costretti a vivere quanti vogliono starne fuori, come se fossero anormali, mentre sono i portatori sani di un malessere generale che rifiutano e combattono. 

Il mondo saitiano è fatto di documento umano, ma anche è ricco di tanta invenzione, di intreccio, di entrate e uscite di scena con freschezza e disinvoltura, dovuta, credo, alla frequentazione del teatro, anzi, alla professione di drammaturgo dell’autore, ai cui effetti deve anche la sua originalità. E questo perché Sàito non segue la moda, bensì quello che sente e come lo sente, pronto a far macerare la materia destinata a prendere forma. 

A popolare questo mondo sono personaggi comuni ma di alta levatura morale, che si chiedono il perché delle cose per aggiustare il tiro, mai per denigrare o adeguarsi passivamente alla realtà. È gente che si ribella per essere se stessa e dare prova di umanità, e si serve della dialettica dell’anticonformismo, coadiuvata però da motivazioni sempre fondate, calate nella realtà e perciò molto attuali. Più sfumati risultano i ritratti femminili. Tranne Fulvia de Gli avventurosi siciliani, essi sono abbozzati, eppure veri e vivi nella loro misurata presenza. Fulvia è tra le meglio disegnate, esplode vita dai pori e sa il fatto suo e in un modo o nell’altro sa farsi valere. Maria del primo romanzo si staglia e delinea in quel clima di guerra che giustifica la sua equivocità e la fa eroina. Ma tutte sono positive, come Carla di Una voce o la stessa Marta o Fosca degli altri romanzi, tutte ricche di una profondità d’animo che dà loro tono e le risalta. 

Personaggi vivi che a poco a poco prendono corpo e si delineano nella loro luce più vera. Come’ nel conterraneo Pirandello, in Nello Sàito vogliono evidenziare la loro presenza per essere emulati nella realtà. Che è forse la cosa più importante e bella per uno scrittore, e anche per il lettore che nella pagina scritta si riconosce. 

Salvatore Vecchio 

NOTE 

1. H. e D. Koenigsberger, Atmosfere di Sicilia (Una frequentazione che dura da cinquantanni), Terzo Millennio, Caltanissetta, 2002, pag. 13. 
2. A. Bocelli, Maria e i soldati, «II Mondo », 26.3. 1949. Dello stesso anno sono i contributi di P. Pancrazio «Corriere della Sera», 15.3. 1949 e G. De Robertis, «Tempo», 29. 5. 1949. 
3. Si legga, a proposito, G. Manacorda, «L’età del neorealismo», in Storia della letteratura italiana contemporanea / 1940-1965), Editori Riuniti, Roma, 1972,2″ rist., pagg. 27-49. 
4. N. Sàito, Maria e i soldati, Garzanti, Milano, 1970. 
5. Ivi, pag. 29. 
6. G. De Robertis, Gli avventurosi siciliani, «Tempo rivista». 
7. N. Gallo, Siciliani di Sàito. 
8. N. Sàito, Gli avventurosi siciliani, Garzanti, Milano, 1973, pagg. 141-142. 
9. Ivi, pagg. 176-177. 
10. N. Sàito, Dentro e fuori, Garzanti, Milano, 1973, pag. 131. 
11. Ivi, pag. 22. 
12. N. Sàito, Quattro guitti all’Università, Bulzoni, Roma, 1994, pagg. 8-9. 
13 N. Sàito, Una voce, Terzo Millennio, Caltanissetta, 2001, pagg. 95-96.

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 9-23.




 Pirandello 

La rappresentazione, in tutti i teatri del mondo, che da più di un trentennio a ora, ininterrottamente, si fa delle commedie di Pirandello, è la riprova di una creatività e di una originalità fuori del comune proprie di questo autore che ha saputo rompere i ponti con la tradizione, col grande rischio dell’incomprensione dei critici – a partire da Croce(1), il cui giudizio per diversi decenni ne ha condizionato la fortuna – e degli spettatori che spesso rimanevano disorientati. 

Oggi la critica, unanime, riconosce la grandezza di Pirandello, considerandolo uno dei maggiori interpreti della società del suo tempo, e non solo italiana. Era il vecchio mondo ottocentesco che, frantumandosi, lasciava lacerazioni profonde che non andavano più nascoste sotto false apparenze e ipocrisie. Le contraddizioni fra il vecchio e il nuovo erano tali che non scuotevano solo la vita sociale, ma disorientavano l’uomo nella sua interiorità, scoprendolo meno stabile di quanto si era creduto. 

Pirandello, con le innumerevoli opere di narrativa e di teatro, traduce quello che era stato l’animo degli uomini di allora, specie quelli della piccola e media borghesia che vedevano deluse le loro aspettative, in vere situazioni di conflitto interiore tese a rafforzare l’idea del dubbio (in noi e negli altri) e l’incertezza del vivere, a sua volta, dominato da un impenetrabile assurdo. 

Interessante, sotto questo aspetto, è Il fu Mattia Pascal (1904), in cui il protagonista, Mattia Pascal, appunto, illudendosi di farsi una vita tutta per sé, incurante dei pregiudizi e delle convenzioni sociali, va a stabilirsi a Roma, prendendo il nuovo nome di Adriano Meis. Ma per poco, perché s’accorgerà subito che gli è impossibile inserirsi in un nuovo tessuto sociale senza i documenti che comprovano la sua identità. Inscenato un suicidio, rientra nelle vesti di Mattia e ritorna al proprio paese, dove nessuno lo accetterà, perché ritenuto morto. Tanto più la moglie che nel frattempo si era risposata. 

All’uomo, come avvenne a Mattia Pascal, non è facile svincolarsi dalle norme sociali, sicché egli non può essere mai se stesso, quale effettivamente sente di essere, ed è sempre quello che gli altri vogliono che sia, anche contro sua voglia, e senza riconoscervisi, perché non è né l’uno né l’altro per quale è ritenuto, bensì nessuno. 

Il grottesco pirandelliano, di cui Il fu Mattia Pascal è un mirabile esempio, consiste nel cogliere le contraddizioni proprie dei personaggi, nello scomporli, mostrandoli quali sono, al di là di ogni apparenza. E questo li porta a volersi rifare una vita tutta per sé, contro i conformismi e le convenzioni profondamente radicati nella società, a qualsiasi livello, anche se prima o poi dovranno fare i conti proprio con queste convenzioni e con questi conformismi, e l’uomo si troverà sempre più solo con se stesso. 

Quattro anni dopo Il fu Mattia Pascal, Pirandello pubblicò il saggio su L’umorismo, dove raccoglie le idee che poi verranno espresse qua e là nei suoi scritti e che costituiscono la sua concezione della vita e la sua poetica. 

«Tutti i fenomeni, o sono illusorii, o la ragione di essi ci sfugge, inesplicabile. Manca affatto alla nostra conoscenza del mondo e di noi stessi quel valore obiettivo che comunemente presumiamo di attribuirle. È una costruzione illusoria continua»(2). Così dice Pirandello. Sicché ne deriva che noi non sappiamo chi siamo veramente. 

La verità ci sfugge perché spesso non poniamo l’attenzione su ciò che siamo, ma quali vorremmo che fossimo. Siamo tentati a vederci in una probabile identità, e non in quella che ci appartiene. Quest’aspirazione ci rende insoddisfatti e diversi a secondo le circostanze. Ed è a questo punto che ricorriamo alla finzione, sia con noi stessi che con gli altri: perciò apparentemente siamo uno, ma ogni uomo si fa un’idea, ciascuno a suo modo, riferita a come ci vede. Il risultato è che siamo tanti (e non più uno) quanti sono gli altri, per cui, in quanto uno, siamo nessuno. Ci troviamo già dinanzi al cosiddetto relativismo pirandelliano su cui avremo modo di ritornare spesso, perché condiziona non solo la vita, ma anche il regno dell’arte. 

L’artista umorista (stando alla concezione della vita e, quindi, dell’umorismo di Pirandello) è consapevole del suo lavoro e non si affida all’estro, ma alla riflessione e al sentimento che, pure in contrasto, rivestono un ruolo di pari importanza, in quanto «la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice: lo analizza, spassionandosene: ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario»(3). 

L’artista umorista, in altri termini, non tiene conto dell’apparenza, e va ben al di là, mettendo a nudo la mutevolezza degli uomini, evidenziandone la caducità e le miserie. E l’uomo, così come nella vita, altrettanto mutevole risulta nella creazione artistica, che rende meglio questa mutevolezza con la discontinuità, senza seguire apparentemente un ordine prestabilito, dove tutto sembra affidato al caso. Da una siffatta concezione dell’arte come ricreatrice della vita deriva la drammaturgia di Pirandello che, rompendo con la tradizione teatrale, all’inizio disorientò i critici e gli spettatori, dando vita a quello che doveva essere il teatro contemporaneo. 

Se consideriamo che i due Colloqui coi personaggi (che poi Pirandello utilizzerà per i Sei personaggi in cerca d’autore) risalgono al 1915, a parte tutte le novelle, scritte, addirittura, prima di questa data, e che costituiranno la materia delle altre commedie, oltre il romanzo sopracitato, va detto che Pirandello è anche l’iniziatore del teatro “grottesco”, contro quanti, invece, indicano L. Chiarelli che nel 1916 rappresentava i tre atti de La maschera e il volto(4). 

Per l’occasione, cfr. L. Ferrante, Teatro italiano grottesco, Bologna, Cappelli, 1964, pagg. 26 e sgg. Non sono affatto d’accordo con Ferrante, quando afferma che «Pirandello non può essere considerato la matrice della drammaturgia italiana, ma deve, secondo la definizione di Luigi Russo, essere considerato il caposcuola del decadentismo (mentre D’Annunzio ne fu, ricorda il Russo, il “grande attore”. Spesso la critica italiana e straniera ha adottato il criterio inverso attribuendo a Pirandello un ruolo specifico di leader del nostro teatro, ed ha fatto del “pirandellismo” un genere». Evidentemente, il Decadentismo, per la portata di movimento qual è, dalla fine del XIX sec. a ora, ha condizionato gli uomini e le cose, e nessuno, chi più chi meno, ne rimane esente. Non vedo motivo per cui si debba etichettare così Pirandello, quando tutti viviamo le stesse crisi. Certo, se ci riferiamo all’aspetto culturale, per le sue opere, il Nostro si fa portatore delle istanze del suo tempo con maggiore conseguenzialità di tanti altri, proprio per il rapporto spontaneo che istituisce tra l’arte e la vita. Ma questo non esclude che il grande siciliano non sia al tempo stesso il commediografo che darà un’impronta personale e decisiva al teatro italiano e straniero. E, come la mettiamo col teatro detto dell’«assurdo»? La grande riforma dell’arte scenica, senza Pirandello, sarebbe stata inconcepibile, così come impensabili, tutto d’un colpo, un Ionesco, un Beckett o un Adamov, per citarne soltanto alcuni. 

L’umorismo è suddiviso in due parti diseguali. Nella prima, la più lunga, Pirandello, prendendo spunto da A. D’Ancona che definisce Cecco Angiolieri, in un saggio a lui dedicato, “un umorista”, parte dall’etimologia della parola “umore” per spiegare a sé e agli altri cos’è veramente l’umorismo. 

Innanzitutto, sgombera il campo alla confusione che si fa a proposito, distinguendo tra ironia e umorismo , e chiamando in causa Federico Schlegel, secondo cui «l’ironia consiste nel non fondersi mai del tutto con l’opera propria, nel non perdere, neppure nel momento del patetico, la coscienza dell’irrealtà delle sue creazioni, nel non essere lo zimbello dei fantasmi da lui stesso evocati, nel sorridere del lettore che si lascerà prendere al giuoco e anche di se stesso che la propria vita consacra a giocare»(5). 

Pirandello rigetta una tale definizione, così come è pronto a dire che l’umorismo è sempre esistito ed è presente in ogni letteratura. Per quanto riguarda l’ironia retorica, dice che essa è «una contraddizione fittizia» che non ha niente a che vedere con l’altra che non si discosta affatto dal reale. In base a questo tipo di contraddizione «il Manzoni non si sdegna mai della realtà in contrasto col suo ideale: per compassione transige qua e là e spesso indulge, rappresentando ogni volta minutamente, in forma viva, le ragioni del suo transigere: il che, come vedremo, è proprio dell’umorismo»(6). 

Ironia, più o meno manifesta, riscontra Pirandello nei nostri poeti cavallereschi, soffermandosi con giudizi ben riusciti e tuttora validi sul Pulci, il Boiardo e l’Ariosto. Vero umorismo, secondo lui, è nel Don Quijote di Cervantes, dove «il comico è anche superato, non più dal tragico, ma attraverso il comico stesso. Noi commiseriamo ridendo. o ridiamo commiserando»(7). 

Ma ciò che trovo interessante in questa prima parte, anche in vista della produzione che Pirandello da lì a poco farà seguire, è la sua concezione dell’arte. A proposito dell’Ariosto, dice che ogni rappresentazione «che tutti ci facciamo di noi stessi e degli altri e della vita» è illusione, anche se riteniamo “finta” quella artistica e “vera” quella che deriva dalle sensazioni. Ma la differenza tra le due illusioni è dovuta alla volontà. 

La rappresentazione artistica è “voluta”, cioè desiderata e, quindi, cercata, senza niente pretendere, mentre l’altra non costa alcuna fatica e la si possiede in rapporto a quelli che sono i sentimenti di ciascun individuo, venendo così incontro a particolari interessi. Ne risulta che «la differenza tra questa creazione e quella dell’arte è solo in questo (che fa appunto comunissima l’una e non comune l’altra): che quella è interessata e questa disinteressata, il che vuol dire che l’una ha un fine di pratica utilità, l’altra non ha alcun fine che in se stessa; l’una è voluta per qualche cosa; l’altra si vuole per se stessa». 

La poetica di Pirandello è bene delineata e difesa a spada tratta, e il suo allontanarsi dal verismo è più che manifesto. Le illusioni che ci facciamo vengono ritenute vere, ma esse cozzano con la realtà, sicché il contrasto fra le immagini che sono in noi e il reale è grande, e lo stato d’animo che ne viene fuori è quello del sentimento del contrario, a cui abbiamo accennato e che costituisce la materia della seconda parte del saggio.  

Qui Pirandello, in polemica col Croce, difende le sue idee sull’umorismo e, quindi, la sua poetica. Come si può negare l’umorismo quando ci sono scrittori che diciamo umoristi? E, dando una definizione dell’umorismo, da lui chiamato «sentimento del contrario», distingue il comico dall’umoristico che, tutto sommato, costituiscono il rovescio di una medaglia, di cui il comico (l’esempio della vecchia signora che s’imbelletta e vuole apparire quella che più non è) è l’avvertimento del contrario che, col subentrare della riflessione, diviene sentimento del contrario. 

Gli esempi e gli autori citati (Giusti, Lipps, Croce, Manzoni) consentono al Pirandello di ribadire le idee, in parte già esposte, che, poi, costituiscono la sua poetica. Quella che più gli sta a cuore è la difesa dell’«attività della riflessione», nel contesto di una estetica in generale, trasferendovi, così, ciò che costituisce l’aspetto più saliente della sua arte e giustificandola. Ed era ciò che gli premeva di più, visto che lo si criticava per il continuo ricorrere alla riflessione in tutte le sue opere. 

Pirandello è ben lontano, ormai, dai canoni veristici. L’artista è portato non solo a vedere per descrivere, ma a vedere per pensare ed esprimere, affidando a se stesso o ad altri il compito di riferire la sua riflessione. E il lettore o lo spettatore è messo subito al corrente del pensiero dell’autore, cosa a cui non era abituato e, per questo, spesso si trova disorientato e fa difficoltà, sulle prime, a seguirlo. 

Adesso, il reale, quale esso ci si presenta, non è che il punto di partenza per un discorso sulla vita e sull’uomo che coinvolge e differenzia, perché ciascuno non solo ha un suo mondo interiore da esternare, ma è anche in continuo conflitto con sé e con gli altri, per cui fa difficoltà a trovare una propria identità, costretto com’è a camuffarsi ora in questa ora in un’altra maschera. 

Così egli dice: «Per noi tanto il comico quanto il suo contrario sono nella disposizione d’animo stessa ed insiti nel processo che ne risulta. Nella sua anormalità, non può esser che amaramente comica la condizione d’un uomo che si trova ad esser sempre quasi fuori di chiave, ad esser un tempo violino e contrabbasso; d’un uomo a cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un altro opposto, contrario; a cui per una ragione che egli abbia di dir sì, subito un’altra e due e tre non ne sorgano che lo costringano a dir no; e tra il sì e il no lo tengan sospeso, perplesso, per tutta la vita; d’un uomo che non può abbandonarsi a un sentimento, senza avvertir subito qualcosa dentro che gli fa una smorfia e lo turba e lo sconcerta e lo indispettisce».(8) 

Evidentemente Pirandello, nell’affermare questo, e con una certa amarezza, dice tutto il suo scontento per la vita e per l’uomo, svuotati, come se li rappresenta, da ogni ideale che possa risollevarli per guardare verso l’alto. Ne deriva che l’uomo pirandelliano è attirato esclusivamente dal suo simile e a lui solo guarda per trovarvi quasi la giustificazione del suo esistere. 

Continuando il discorso, Pirandello ribadisce la differenza che passa tra il comico e l’umorista e, prendendo come esempi Don Abbondio e Don Quijote, dice che nel comico manca il sentimento del contrario, per cui siamo portati a simpatizzare per Don Abbondio, e a provare tenerezza per l’altro. Ma, in sostanza, sia nel comico quanto nell’umorista è sempre la riflessione a giuocare un ruolo importante, sicché se «il comico ne riderà solamente, contentandosi di sgonfiar questa metafora di noi stessi messa su dall’illusione spontanea: il satirico se ne sdegnerà: l’umorista, no: attraverso il ridicolo di questa scoperta vedrà il lato serio e doloroso: smonterà questa costruzione, ma non per riderne solamente: e in luogo di sdegnarsene, magari, ridendo, compatirà» (9). 

Le ultime pagine del saggio sembrano una summa di esperienza di vita vissuta, quasi un voler accostare la teoria alla pratica per dare più consistenza alle sue convinzioni. Leggiamo, a esempio: «La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato non cessi». 0, ancora: «L’uomo non ha della vita un’idea, una nozione assoluta, bensì un sentimento mutabile e vario, secondo i tempi, i casi, la fortuna» (10). 

Queste e altre affermazioni si richiamano direttamente alla concezione di vita di Pirandello e costituiscono i motivi principali della sua arte. 

 

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Con il saggio L’umorismo Pirandello enuncia la sua poetica, e già in esso vi cogliamo alcuni spunti di quel relativismo che sarà facile scorgere nelle opere di narrativa e di teatro. 

La stessa definizione di umorismo, e il ritornarvi con argomentazioni diverse, ma per chiarire lo stesso concetto, ha in sé la convinzione che relega l’uomo in una condizione di continua mobilità psicologica, per cui egli è portato a riconoscersi, a seconda le circostanze, ora in una ora in un’altra personalità. 

Pirandello si rivela innanzitutto un abile conoscitore dell’animo umano, essendo dotato di un grande spirito di osservazione e, soprattutto, un uomo, prima che artista, che ha sperimentato in proprio le difficoltà e le amarezze del vivere. Ora, queste qualità e la concezione amara che s’era fatta della vita trasferisce nel mondo dell’arte. Così operando, s’allontana dal verismo dell’inizio e insegue una forma d’arte che nasce spontanea, senza niente di predisposto, e rimane immutata, mentre cangianti sono gli aspetti della vita. 

Vediamo in che cosa consiste la sua concezione amara della vita e da dove scaturisce. Dice Pirandello in una delle tante asserzioni: «In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in sé stessa la vita, quasi in una nudità arida, inqUietante: ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che norma1mente percepiamo, una realtà vivente oltre la vita umana, fuori delle forme dell’umana ragione. Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo; e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini si sono scisse e disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si sprofondasse negli abissi del mistero. […] La vita, allora, che s’aggira piccola, solita, fra queste apparenze ci sembra quasi che non sia più per davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica. E come darle importanza? Come portarle rispetto?»(11). 

Secondo Pirandello, le illusioni che l’uomo via via si crea, lo distolgono dal suo vero essere, senza nemmeno rendersene conto. Ma se per un momento egli rientra in sé, mettendo da parte il velo delle illusioni, allora si scoprirà fragilissimo e senza alcuna certezza. In sostanza, ciò che ha un ruolo importante anche in questa fase è la riflessione, la quale lascerà un segno profondo nell’animo del singolo che, nonostante il ritornare alle sue abitudinarie illusioni, né ora né mai riuscirà più a cancellare. 

Certamente, dietro questo pensiero desolato e desolante di Pirandello, ci sono l’interesse all’introspezione e le influenze che le dottrine scientifico-filosofico- letterarie del tempo esercitarono su di lui, e queste idee successivamente svilupperà, quando lo scrittore sarà ancora più provato dalle vicende familiari. Ma c’è anche in questa introspezione così acuta tutto il relativismo di cui la sua opera è piena(l2). Appena qualche pagina prima, aveva scritto: «È appunto le varie tendenze che contrassegnano la personalità fanno pensare sul serio che non sia una l’anima individuale. Come affermarla una, difatti, se passione e ragione, istinto e volontà, tendenze e idealità, costituiscono in certo modo altrettanti sistemi distinti e mobili, che fanno si che l’individuo, vivendo ora l’uno ora l’altro di essi, ora qualche compromesso fra due o più orientamenti psichici, apparisca come se veramente in lui fossero più anime diverse e persino opposte, più e opposte personalità?»(l3). 

Rosario Chiàrchiaro, ne La patente (1911, trasformata in atto unico nel 1918), chiederà al giudice D’Andrea non che venga assolto, cosa su cui si dibatteva il povero giudice, ma riconosciuto effettivamente jettatore, visto che l’opinione pubblica lo ritiene tale. Nell’impossibilità di rigettare l’etichetta che gli hanno applicato, vuole dal giudice la patente, perché solo così potrà, nonostante tutto, vivere e sfamare la famiglia. 

Il Chiàrchiaro si adegua alla nuova realtà, perché sa che non può fare diversamente. Ha capito l’ingranaggio della vita, e ha capito anche che reagendo avrebbe ottenuto un effetto ancor più disastroso. La realtà è che la maschera è indispensabile, anzi diviene un’imposizione sociale a cui non si può sfuggire. Il vivere in società impone dei pedaggi a cui l’uomo, per forza di cose, deve sottostare(14). Una realtà, perciò, amara, senza dubbio, che toglie la libertà di agire come si vorrebbe, innescando certi meccanismi di convenienza a cui, per il proprio bene, non si può rinunciare. È il caso del protagonista dell’Enrico IV e di tanti altri che, come lui, o il Chiàrchiaro, sono costretti a vivere nella finzione. 

Questo modo di concepire la vita e gli uomini è una costante pirandelliana che non farà registrare alcuna variazione; cambierà, magari, il movente, ma nessuna certezza rischiarirà il cammino dell’uomo che spingerà l’umorista Pirandello prima al riso e, poi, alla pietà. E questo atteggiamento risoluto nei confronti dell’umana condizione farebbe di lui un beffardo, se non si andasse un po’ al di là di una semplice lettura. Ma, dietro la prima impressione che un lettore attento trae, c’è una compassionevole comprensione che accomuna tutti e porta gli uni e gli altri, comunque, a compatirsi. 

Pirandello non denuncia, come avevano fatto i veristi, uno status sociale, non si chiede cosa sarà dell’uomo o come potrà migliorare il suo essere, e non si pone nemmeno il problema di quale sarà stata la causa (come farà Svevo) che ha portato l’uomo alla crisi d’identità e al crollo dei valori tradizionali. Pirandello ritrae l’uomo nel suo travaglio interiore, nell’urto e nel contrasto fra l’essere, qual è nell’intimo, e il fittizio, tra l’aspirare ciascuno a un qualcosa, nobile o no che sia, e l’impossibilità di realizzarlo, perché forze opposte, per niente controllabili, lo ostacolano e frenano. E Pirandello è maestro nella descrizione di questo contrasto e di quest’ urto interiori, perché nessuno – meglio e prima di lui – aveva scavato tanto in profondità nell’animo umano, scoprendolo miseramente debole e indifeso. 

Il mondo pirandelliano non è popolato da uomini fuori del comune, non ha posto per gli eroi, per il semplice fatto che l’uomo nel suo intimo non differisce affatto dagli altri e lamenta le stesse pene. Ma la piccola e media borghesia è quella che meglio degli altri ceti scopre se stessa. Ed è proprio questa l’oggetto dell’attenzione del Nostro: essa è la più emergente e, come tale, la più esposta e incline a esternare i propri travagli esistenziali. 

Canta l’Epistola, scritta anch’essa nel 1911, è una tra le più belle novelle dove il dramma del personaggio trova il suo epilogo nella morte. Venutagli meno la fede, Tommasino Unzio si vede tagliato ogni legame con la vita associata, e il mondo gli cade addosso ogni giorno di più. Indifeso e debole, cerca rifugio nella natura e con essa colloquia dando ascolto alle piccole cose. L’incomunicabilità tra gli uomini viene marcata ancor più dall’abbandonarsi da parte di Tommasino alla riflessione e alla contemplazione del mistero che tutto e tutti coinvolge. 

Il non determinato, l’incerto e, quindi, il senso dell’umana provvisorietà e dell’effimero, vengono intercalati qua e là dalla voce del narratore che, usando l’infinito, traduce così lo stato d’animo del protagonista: «Non aver più coscienza di esser, come una pietra, come una pianta: non ricordarsi più neanche del proprio nome: vivere per vivere, senza saper di vivere, come le bestie, come le piante: senza più affetti né desiderii, né memorie, né pensieri; senza· più nulla che desse senso e valore alla propria vita. Ecco: sdrajato lì su l’erba, con le mani intrecciate dietro la nuca, guardar nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti, gonfie di sole: udire il vento che faceva nei castagni del bosco come un fragor di mare, e nella voce di quel vento e in quel fragore sentire, come da un’infinita lontananza, la vanità d’ogni cosa e il tedio angoscioso della vita»(15). 

Pirandello non descrive o, se lo fa, la descrizione non è fine a se stessa, perché il centro della narrazione è il capovolgimento psicologico che il personaggio fa registrare, fino alla morte che il materialismo invadente non può spiegarsi e, perciò, assurda agli occhi dei tanti che non possono immaginare, e tantomeno accettare, che Tommasino Unzio è morto per un filo d’erba. 

L’attenzione dell’autore, in questa come nelle altre sue opere, è rivolta all’uomo, ma più che all’uomo che in sé è identico a tanti altri, al personaggio o ai personaggi che egli impersona. E non gli interessano, quindi, i fatti che servono solo da pretesto, quanto la problematica che ne viene fuori. Certo, la psicanalisi avrà giuocato un ruolo determinante in questo cambio di ottica, così come il crollo dell’ideologia positivistica, e non solo in Pirandello, o nel campo della letteratura, ma nelle arti in genere; sicuramente, però, ha contribuito moltissimo il disorientamento prodotto negli uomini di quel tempo dai cambiamenti morali e sociali che la vecchia Europa stava registrando. e furono questi cambiamenti ad acuire di più i dissidi esistenziali. Ma come non si voleva accettare. e si faceva fatica anche a riconoscere, questa crisi, allo stesso modo non si tenevano in considerazione i tentativi di quelli che la condizione dell’uomo denunciavano coi loro scritti. Pirandello fu uno di questi e, cosa risaputa, venne stimato e ammirato più altrove che in Italia. Tutto questo, però, servì a svecchiare la letteratura e il teatro italiani che, con Pirandello, diedero il via a un’apertura e a un’innovazione di respiro mondiale. 

Va detto anche che la gente, uscita fortemente provata dalla Grande Guerra, aveva bisogno di tutt’altro che delle conclusioni pirandelliane. Eppure, ecco cosa dice Diego, personaggio di Ciascuno a suo modo (1924): «Niente. Che vuoi concludere. se è così? Per toccare qualche cosa e tenerti fermo, ricaschi nell’affiizione e nella noja della tua piccola certezza d’oggi, di quel poco che, a buon conto, riesci a sapere di te […]» (16). 

Ma la gente, in quel periodo, sentiva la necessità di evadere, e di ricorrere ai “sogni”, era presa dalle smanie del vivere e non poteva stare là a immalinconirsi pensando alla fragilità e alla mutevolezza del suo essere(17). Intanto la dialettica pirandelliana porta alle estreme conseguenzialità situazioni che apparentemente riguardano questo o quello, e coinvolge, ciascuno nella propria solitudine e pur volendone rimanere al di fuori, tutti nel vortice sfaccettato che è la vita. 

Salvatore Vecchio 

(1) B. Croce, L. Pirandello, in <<La Critica>>, Bari, 1935, ora in Letteratura della nuova Italia, VI, Bari, Laterza, 1957. 
(2) L. Pirandello, L’umorismo, in Saggi, Poesie, Scritti varii (a cura di M. Lo Vecchio-Musti), Milano, Mondadori, 1973, pag. 146. 
(3) Ivi, pag. 127. 
(4) Si veda, anche, M. Lo Vecchio Musti, L’opera di Luigi Pirandello, Torino, Paravia, 1939, pag.175. (5) L. Pirandello, L’umorismo, cit., pag. 24. 
(6) lvi. 
(7) lvi, pag. 98.
(8) Ivi, pag. 138. 
(9) lui, pag. 146. 
(10) Ivi, rispettivamente. pagg. 151 e 154. 
(11) Ivi, pagg. 152-153. 
(12) Aveva esercitato un fascino particolare su Pirandello il libro di A. Binet, Les altérations de la personnalité, più volte citato nei suoi scritti. Nei Sei personaggi in cerca d’autore il Padre dirà: «Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi veda – si crede “uno” ma non è vero: è “tanti”, signore, “tanti”, secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi[…]». 
(13) Ivi, pag. 150. 
(14) Croce, in Etica e politica (Bari, Laterza, 1973, pag. 103), parlando di responsabilità, scrive che: «… la società […] impone certi tipi di azione e dice all’individuo: Se tu vi ti conformi, avrai premio; se vi ti ribelli, avrai castigo; e, poiché tu sai quello che fai e intendi quel che io ti chiedo, io ti dichiaro responsabile dell’azione che eseguirai». 
(15) L. Pirandello, Novelle per un anno (a c. di C. Alvaro), vol. I, Milano, Mondadori, 198012. (16) L. Pirandello, Ciascuno a suo modo, in “Maschere nude” (a cura di M. Lo Vecchio Mustil, voI. I, Milano, Mondadori, 1985, pag. 172. 
(16) L. Pirandello, Ciascuno a suo modo, in “Maschere nude” (a cura di M. Lo Vecchio Mustil, vol. I, Milano, Mondadori, 1985, pag. 172.
(17) Vedi il discorso commemorativo di M. BontempeIli del 17 gennaio 1937, ora in Introduzioni e discorsi, Milano, Bompiani, 1945.

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 7-18.




 Omaggio a Helmut Georg Koenigsberger 

Lo storico inglese H.G. Koenigsberger festeggia quest’anno il suo novantesimo compleanno con la versione digitale dell’ interessantissima opera: Monarchies, States Generals and Parliaments, edita dalla Cambridge University Press nel 2001. Per onorare la figura e l’opera dello storico amico, pubblichiamo, nella traduzione di P. Bruna Scimonelli, il Prologo, che già da solo dà la misura e l’idea dello spessore storico-culturale dell’opera. 

Tedesco di nascita, all’avvento del nazismo Koenigsberger dovette abbandonare insieme con la sua famiglia la Germania, per andare a stabilirsi a Londra, dove poté continuare gli studi. Alla fine della II Guerra mondiale fu in Sicilia per una sua ricerca sul Cinquecento siciliano. Era il 1947 quando fece il suo primo soggiorno nell’isola. Vi tornò ancora tantissime volte, l’ultima nel 1996, per tenere una conferenza a Marsala su Il nazionalismo: passato e futuro e, al tempo stesso, per assistere alla presentazione del poema: Simone cerca l’oracolo della moglie Dorothy, pubblicato nei quaderni di «Spiragli». 

I suoi soggiorni siciliani, che confermano l’attaccamento alla Sicilia, sono riportati in Atmosfere di Sicilia (Una frequentazione che dura da cinquant’anni), un diario di viaggio denso di annotazioni, ma soprattutto una testimonianza della trasformazione lenta che in Sicilia si stava avendo in quegli anni e un ritratto dei Siciliani, che niente ha a che fare con i tanti abbozzati, spesso faziosi, tentati dai nostri scrittori. 

Tra le sue opere più importanti, ormai ritenute classiche e tradotte nelle maggiori lingue europee, sono da ricordare: The government of Sicily under Philip Il of Spain (1951), pubblicato in Italia da Sellerio nel 1997 con il titolo: L’esercizio dell’impero: L’Europa del 

Cinquecento (in collaborazione con G. L. Mosse), in Italia pubblicato da Laterza nel 1969; Medieval Europe 400-1500 (A History of Europe); Early modern Europe 1500-1789 (A History of Europe), del 1986, entrambe pubblicate anche in Spagna nel 1987. 

Helmut G. Koenigsberger ha insegnato nelle università di Belfast, di Manchester, di Nottingham, di Cornelle, dal 1973 al 1984, nel King’s College di Londra. Nel 1984 lo troviamo come «stipendiato» all’Historisches Kolleg di Monaco. Intensa è anche la sua collaborazione a prestigiose riviste, quale «European History Quarterly», da cui nel 1996 «Spiragli» ha pubblicato Il nazionalismo: passato e futuro. 

Da tutte queste opere emerge un ritratto di storico attento e di osservatore inconsueto. Koenigsberger non si ferma al fatto, non si limita a descrivere gli eventi; egli va alla ricerca del documento apparentemente insignificante per dargli vita e collocarlo nel contesto oggetto di studio. Allora il fatto si palesa nella sua luce migliore, diventando fruibile, anche da chi ha poca dimestichezza con la storia, e piacevole, perché acquista fluidità e suscita interesse. Questo si nota già a partire dalla sua prima opera, che tanto successo riscosse al suo apparire: la Sicilia è studiata nei suoi vari aspetti, pur rimanendo come punto fermo il governo dell’isola sotto Filippo II, e l’economia, la realtà sociale, la politica e la cultura costituiscono un unicum che interessa il lettore e lo apre alla curiosità e al piacere intellettuale. 

Monarchies, States Generals and Parliaments corona il lavoro di tutta una vita e segna una tappa fondamentale della ricerca stolica di Koenigsberger. Già negli anni Novanta del secolo scorso ci aveva anticipato il tema di ricerca e ce ne aveva parlato con tanto entusiasmo che solo ora comprendiamo. È un ‘opera di grande spessore culturale e di enorme interesse per chi voglia studiare la nascita e l’evolversi delle moderne democrazie, che nei paesi europei del Medioevo, a partire dell’Olanda, hanno la loro origine nelle Assemblee rappresentative e negli Stati Generali. Per questo ci auguriamo che l’opera sia pubblicata anche in italiano. Sarebbe un peccato non vederla diffusa al più presto nella nostra lingua. Come scrive in una nota la traduttrice P. Bruna Scimonelli, Koenigsberger fa «una trattazione rigorosa dei fatti storici, ma leggibilissima e appassionante anche per il grande pubblico». 

Lo studio e la conoscenza del mondo classico permettono allo storico di fare riferimento alle costituzioni greche, di risalire al diritto romano, senza trascurare quello canonico. e alle prime forme rappresentative dell’ordine dei Domenicani. Ma sono la consultazione e lo studio di una vasta mole di documenti nelle diverse biblioteche e negli archivi di Stato di mezza Europa che portano Koenigsberger alle conclusioni a cui è pervenuto, magistralmente inquadrando la lunga lenta storia delle democrazie europee fatta di «lotta più o meno esplicita tra monarchia e parlamento basata su due questioni di fondo: il potere e la libertà » (Scimonelli). 

Koenigsberger non manca di fare riferimento alla storia della Sicilia e alle sue prime forme di assemblee parlamentari, presenti già in epoca normanna e abbastanza attive alla fine del sec. XIII. Lo storico ricorda come i rappresentanti parlamentari si rivolsero a don Pietro d’Aragona, offrendogli appoggio nella guerra contro i d’ Angiò, per riceverne in cambio privilegi . Emerge di qui una costante del parlamento siciliano, che consisteva nel tutelare i suoi interessi e, al tempo stesso, nel rispettare il proprio sovrano, a cui sarà generoso di donativi e di denaro. 

Dopo tanti secoli, Koenigsberger riscontrerà ancora oggi questo carattere insito nel popolo siciliano e non mancherà di annotarlo in Atmosfere di Sicilia (Una. frequentazione che dura da cinquant’anni), in cui mette in risalto, oltre alla voglia di cambiare e di avvicinarsi al resto del mondo, il senso del rispetto e dell’amicizia. Proprio quel rispetto e amicizia che si traducono nella calda ospitalità che i Siciliani sono soliti offrire e che tante volte misero in atto nei confronti dei loro re, riservando onori, feste e tanto ossequio, anche se li delusero sempre, non mantenendo le promesse date o negando loro le costituzioni concesse. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 3-4.