La guerra e le sue vittime: «Quando scoppia la guerra la prima vittima è la verità.» Senatore Hiram Johnson, 1917

       Un vecchio proverbio recita: «Chi semina vento, raccoglie tempesta». Ed è quello che avviene quando si entra in guerra. I nostri detentori del potere, incuranti della volontà del popolo e della Costituzione1, invece di dirimere diplomaticamente controversie e attriti fra nazioni, non fanno altro che schierarsi a favore di una o dell’altra delle parti belligeranti, come è avvenuto per le guerre russo-ucraina e israelo- palestinese, mandando aiuti ed armi, con i conseguenti aggravi sul popolo, “sovrano” nella Carta, ma nei fatti chi subisce le conseguenze di eventuali allargamenti dei conflitti o l’aumento esagerato dei prezzi di ogni genere, compresa la benzina. Una tempesta che vede in crescita i disoccupati, il numero dei poveri e dei senza tetto, e la ricaduta in negativo sugli enti pubblici e privati, la sanità, ridotta agli estremi, la scuola e tutto il resto.
      Il vento della guerra non cessa mai, perché non cessa nelle menti dei potenti l’ingordigia, la sete di dominio e di ricchezza. Ma l’homo omini lupus, ripreso da Hobbes, spesso non fa notizia, non se ne parla e non si sa niente delle tantissime guerre che si combattono nel mondo; interessano ai promotori e a chi sta loro dietro. In ogni caso, la prima vittima a cadere, come scrisse il senatore Johnson, è sempre la verità, accompagnata dalle tante vittime dell’una e dell’altra parte, spesso innocenti che non avevano niente da spartire con la guerra, tolte barbaramente alla vita e all’amore dei propri cari.
       La verità è la prima cosa che in guerra si oscura per insabbiare l’orrore, annebbiare le menti e farle parteggiare. Prima di agire, la stampa e l’etere vengono asserviti e non si fa altro che leggere o vedere immagini contro la parte avversa, con tutti gli orpelli che la tingono di nero; il tutto per giustificare azioni e stragi distruttive e seminatrici di morte. Sicché, dal febbraio 2023 ad oggi, assistiamo ad una danza di notizie, e siamo portati a credere come pecore al pascolo. Si condanna così la Russia, senza conoscere ciò che sta dietro alla guerra, trascinato per anni; si condanna Hamas, dimenticando che gli accampati dal 1948 aspettano una soluzione che ponga fine alla situazione precaria in cui sono costretti a vivere. Ma non si è portati a condannare soltanto, si è spinti anche ad accettare ogni sorta di reazione, bombardamenti a tappeto, senza pietà. Non importa se il tutto ricade sulle popolazioni inermi e indifese. Si arriva così a condannare l’orrore, ricorrendo all’orrore, senza un freno e con il beneplacito di tanti.
      Le grandi potenze e l’America, a parole, si danno da fare e dicono di impegnarsi per risolvere le questioni sul tappeto, ma in concreto non muovono un dito per una pacifica soluzione. Israele è una finestra aperta su quella parte di mondo, e la gestiscono a loro uso e costume. Perciò, vanificata rimane la promessa del costituendo Stato palestinese, promessa nel 1948 e non mantenuta. Così si vuole, così piace. Il «divide et impera» non è cosa passata, d’altri tempi; è attuale, attualissimo, e se ne giova chi sta dietro le quinte, che fa finta di mediare, mentre sottobanco impone.
Stando così le cose, le questioni in campo non si risolveranno mai, ed Eros e Thanatos, la pulsione di vita e la pulsione di distruzione, di freudiana memoria, non avranno pace. Questo i potenti lo sanno, ma curano il loro interesse, dimentichi che, se Thanatos dovesse avere il sopravvento, Eros languirà, e la sua caduta si ripercuoterà su di essi.
                                                                                                                                    S. V.
1 Art. 1: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
Art. 11: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».




La Sicilia non ha bisogno del ponte

       Si ricomincia, come se fosse una telenovela, a parlare del ponte sullo Stretto di Messina. Una pazzia. Salvini, contrario da tempo, si è convertito (o è stato convertito?) alla sua realizzazione, dimenticando lui e i fautori (progettisti e finanziatori) che la zona dello Stretto è stata sempre terra ballerina che ha prodotto nel tempo disastrosi terremoti.

         È un discorso, questo del ponte, che dovrebbe far riflettere e dare una mossa all’operato di quanti sono chiamati a venire incontro alla gente per il bene della collettività, ed invece, incuranti dei danni che arrecano, questi signori pensano a se stessi, eludendo i bisogni elementari che altro non sono che sacrosanti diritti. 

        A che serve un ponte se nell’Isola i servizi sono per buona parte inesistenti o fuori uso, e mancano le infrastrutture necessarie per garantire un vivere sociale umano? Le autostrade sono un pericolo costante, la Palermo-Messina è impercorribile, la Catania-Ragusa spesso si trasforma in strada della morte. I collegamenti interni sono alla deriva, senza alcuna manutenzione, per non parlare delle ferrovie, in parte fuori uso, con i disagi che ricadono specialmente sui pendolari.

        Mentre tanti rimanevano indifferenti, come se la cosa non interessasse, già Nello Sàito, una voce ferma nel panorama dell’intellettualità siciliana, tempo fa si era schierato contro questo progetto mostruoso, fatto cadere come spada di Dàmocle sulla testa di tutti e senza interpellare nessuno, come se il popolo non esistesse. Se il popolo è “sovrano” perché devono essere i pochi privilegiati a decidere? Dov’è la Costituzione? Come se tutto fosse rose e fiori, non tenendo conto della gente che vive nella propria casa e con il suo lavoro, e delle conseguenze ambientali, in un punto geografico così particolare, si decide senza tenere conto di niente e di nessuno. Il popolo è fatisciente. 

         Mi chiedo: «Che fine ha fatto Beppe Grillo con la traversata dello stretto (10 ottobre 2012) per dimostrare anche l’inutilità di questo ponte? Ha forse agito, da par suo, per una manciata di voti di calabresi e siciliani? Dov’è ora, ha perso gesti e parola, dopo che Scilla e Cariddi lo fecero traversare?».

      La Sicilia ha bisogno di ben altro per concretare le sue potenzialità, non di un ponte; ha bisogno di investimenti, per dare lavoro ai giovani e non farli fuoruscire, e di risorse per incentivare il lavoro dei campi e l’agricoltura; per non parlare del turismo, ricca com’è di beni culturali e ambientali. Come nel passato, essa deve ritornare ad essere ponte tra le genti, per la sua produttività, per la cultura, per i suoi uomini migliori che questo vogliono e nella loro terra restare. Essa è già un ponte, così com’è un centro; abbisogna solo delle condizioni per realizzarsi veramente. 

     

     Basta con la deleteria pubblicità che la oscura nella sua immagine vera e nell’umanità che le è propria! 

                                                                            Salvatore Vecchio




Si riparte!

Si riparte! Dopo anni di silenzio, dovuto a vari motivi, riprendiamo la pubblicazione di “Spiragli”, nel segno della continuità e dell’impegno che hanno distinto la nostra rivista. Nel corso delle manifestazioni per il ventennale (vedi n. 1, anno 2010), i relatori hanno messo in evidenza la libertà e la serietà con cui è stata portata avanti la pubblicazione. Con la stessa libertà e serietà di intendi ci accingiamo a riprenderla on line, impaginata e pronta da stampare in proprio.
“Spiragli”, che da qualche anno è dotata di un sito, ancora da perfezionare (www. rivistaspiragli.it), dove sono riportati tutti i numeri pubblicati in cartaceo, agevoli da consultare e, al bisogno, da stampare, mantiene le sue rubriche e pubblica notizie relative ad eventi artistico-culturali, saggi, profili, un’antologia di prose e poesie di autori italiani e stranieri, le recensioni e le schede dei libri pervenuti e delle novità editoriali.
Tanti amici che hanno collaborato e non sono più tra noi, a cui vanno il nostro pensiero e il riconoscimento, apprezzeranno questa impresa e la condivideranno, perché il nostro scopo è, come ricor- dano nelle relazioni sopra citate Tommaso Romano e Salvatore Valenti che sentita- mente ringraziamo, di contribuire al miglioramento socio-culturale, e per questo guardiamo fiduciosi – come ci proponevamo nel 1989 – alla letteratura, alle arti, alle scienze, alla scuola, ai problemi che ci circondano, sicuri della loro importanza formativa e costruttiva insieme.
In un mondo sempre più globalizzato,
teso all’effimero e all’usa e getta, si vuole togliere spazio all’Io pensante, per ren- derlo docile marionetta al servizio dei potentati economici che hanno in mente di dominare ancora di più. Non basta loro l’accumulo di ricchezze, a scapito dei tanti che, a stento, riescono a sopravvivere, ma vogliono anche oscurare le menti per continuare a gestirle e ad operare a loro piacimento.
Nel passato il monopolio dei pochi portò sempre scompensi, ma la minaccia attuale tende a soggiogare l’individuo e a renderlo uno schiavo inconsapevole. Per questo occorre maggiore consapevolezza per un cambio di rotta, che possa garantire il nostro modo di essere uomini pensanti, al tempo stesso tesi all’Io e all’Altro.
Il nostro piccolo apporto è niente rispetto a quello che occorrerebbe per il cambio di tendenza. Ci vorrebbero uomini politici consapevoli dei grandi rischi a cui stiamo andando incontro (la rete 5G, il ricorso smodato ai vaccini, per citare i più pericolosi e nocivi), ma è difficile, perché spesso questi (ammesso che ci siano), dotati di buoni propositi, non sono capaci di contrastare i manipolatori e sono costretti a desistere e deludere. Nonostante ciò, occorre adoperarsi per una svolta di tendenza che privilegi il bene comune e non l’interesse di pochi. Per questo occorre che apriamo bene gli occhi!
Siamo convinti che una maggiore diffusa consapevolezza possa arginare questo male che ottenebra l’umanità. Dipende da tutti, e ciascuno nel proprio campo deve fare la sua parte, per riprenderci il nostro ed essere noi stessi, pur non rinunciando al rapporto con gli altri che è alla base di tutto.




Il siciliano a scuola

Era ora che il siciliano entrasse nella scuola, che finalmente gli si desse dignità, che fosse studiato e fatto conoscere perché potesse rimanere vivo e si potesse tramandare alle generazioni future e, con esso, entrassero pure nella scuola siciliana la cultura e la tradizione millenarie del nostro popolo! Con tanta gioia accogliamo la notizia della legge della Regione Sicilia che prevede due ore di insegnamento settimanali di dialetto. 

L’on. Nicola D’Agostino non ha fatto niente di particolare, se non quello di far rispettare e attuare lo Statuto regionale negli articoli 14 e 17 che danno al governo siciliano la facoltà di legiferare anche in materia scolastica per il bene e l’interesse della popolazione. Sono passati 65 anni dal riconoscimento della Regione autonoma ed era ora che ciò avvenisse.

Era auspicabile, perché un popolo è tale quando si nutre della sua lingua e tiene viva la sua tradizione. Ho in mente i versi di “Lingua e dialettu” di Buttitta, poesia riportata a pag. 24: «Un populu, /diventa poviru e servu, / … E sugnu poviru: haiu i dinari / e non li pozzu spenniri; / i giuelli / e non li pozzu regalari; / u cantu / nta gaggia / cu l’ali tagghiati».

A che vale avere una lingua se non possiamo utilizzarla? Accettare le innovazioni non vuol dire cancellare del tutto o dimenticare l’esistente; significa ampliare la propria conoscenza e andare incontro ai tempi che s’arricchiscono del nuovo; in altre parole, significa essere capaci di accettare la modernità senza rinnegare il passato, grazie a cui ci confrontiamo con essa e la viviamo con maggiore consapevolezza.

Voltare le spalle al passato è perdere giorno dopo giorno la propria identità. Specie in questo momento, in cui i nuovi mezzi di informazione e la televisione fanno opera di livellamento culturale, e la stessa lingua italiana è ridotta a parlata volgare, è tempo di correre ai ripari e salvaguardare la nostra che tanta parte ha avuto anche nella formazione dell’italiano.

A prescindere, la lingua siciliana è la viva stratificazione della storia dell’Isola che, passati i millenni, ha lasciato una traccia indelebile nella langue, di de saussuriana memoria, ricca di voci e vocaboli che si perdono nel tempo, uniformati solo dalla grafia, ma che sanno di parlate lontane e vicine, ultime quella piemontese e l’altra dei nuovi ritrovati della tecnica e della scienza, perché in Sicilia, contrariamente ai soprusi subiti che l’hanno impoverita nel corso dei secoli, la lingua ha incamerato nuovi acquisti e si è sempre arricchita.

In un articolo di Tano Grasso che, apparso su “La Repubblica” il 7 aprile scorso, commentava il disegno di legge, dice bene il prof. Giovanni Ruffino: non deve trattarsi di una fredda introduzione della parlata, perché non otterrebbe i risultati sperati; deve introdursi la cultura siciliana nel suo insieme, essendo essa il substrato da cui una lingua si alimenta.

La lingua siciliana, decaduta a dialetto per il sopravvento dell’italiano, ha in sé accumulato un bagaglio culturale che non è secondo a nessun altro al mondo e che bisogna conoscere per apprezzare, bagaglio di cui i Siciliani devono essere orgogliosi. Purtroppo i nostri giovani conoscono tutto, tranne la loro terra che molto contribuì alla crescita storica dell’umanità. Se ora si offre loro l’opportunità di approfondire la conoscenza del territorio, non solo vi s’integreranno meglio, ma faranno opera di conservazione, contro la barbarie omologante dei nostri giorni, per tramandare ad altri questo patrimonio.

Alla notizia del disegno di legge che, a distanza di un mese, è diventata legge della Regione Sicilia, abbiamo appreso sempre dall’articolo di Gullo che le reazioni sono state controverse.

Timori e perplessità ha manifestato Camilleri che nei suoi scritti, in mezzo ad un italiano strampalato, dà la stura ad un siciliano spesso inventato, sminuendo l’uno e l’altro.

Del tutto negativo è stato il giudizio di Consolo, timoroso di una perdita di italianità, accomunando l’azione del governo siciliano a quella leghista in Lombardia. Mi chiedo: forse che costituiscono un pericolo per la salvaguardia dell’italianità le altre regioni a statuto speciale che già dal 1948 o dal 1997 (è il caso della Sardegna) hanno riconosciuto le loro come lingue in regime di coufficialità con l’italiano? Cos’ha di meno la Sicilia rispetto a queste regioni?

Niente, semmai ha solo il torto di essersi fatta sempre calpestare, e i primi ingrati a mettersi contro di essa sono stati gli stessi suoi figli che, come scrive Falcando, storico di indubbia sicilianità, «nutriti dall’abbondanza del suo latte, le si rivoltano contro con calci ed altro». Ma la Sicilia non merita questo; ha una storia e una cultura invidiabili, una lingua, al dire di Dante, “illustre” e una letteratura che affondano le origini nei millenni, e non possono essere ignorate o racchiuse in poche righe nei testi scolastici ufficiali!

Coloro che la pensano così, e credono che si dia adito al disgregamento dell’unità nazionale o ad altro, dimenticano (o non conoscono) la storia della Sicilia e non sanno che la vera unità passa attraverso la conoscenza di usi, costumi e lingua del territorio di appartenenza, come conferma Romano Cammarata in un suo scritto in cui afferma che «un’attenzione regionalistica alla problematica culturale servirà a determinare visioni unitarie nel senso più autentico della parola, cementate dalla chiara conoscenza di nessi e rapporti di fondo che ne costituisce l’elemento caratterizzante nell’ambito di una superiore unità garantita dal carattere genetico nazionale».

È ora che i Siciliani si sveglino dal loro torpore e rivendichino il diritto a conoscere ciò che devono. Questo non significa allontanarsi dal contesto nazionale, ma integrarsi in esso con maggiore consapevolezza. È ciò che ci si auspica con il federalismo, che è il pieno raggiungimento dell’unità attraverso l’apporto molteplice delle realtà regionali.

Salvatore Vecchio




Antoine de Saint-Exupéry

Lo scorso anno, il 29 giugno, Google dedicò la pagina di apertura al 110° anniversario dalla nascita di Antoine de Saint-Exupéry, essendo nato a Lione il 29 giugno del 1900 e morto nel Mar Tirreno il 31 luglio 1944, il suo aereo di ricognizione abbattuto dalla contraerea tedesca.
Di nobile famiglia, fu subito avviato agli studi, nel 1909 nel collegio dei Gesuiti di Notre-Dame de Sainte- Croix au Mans, dove si fece notare per discontinuità nello studio, ma era molto portato per la meccanica e l’invenzione; poi, nel 1914, nel collegio, sempre dei Gesuiti, di Mongré a Villefranche-sur-Saône. Successivamente andò in Svizzera e terminò gli studi superiori a Friburgo; s’iscrisse in architettura a Parigi. Qui, dopo il servizio militare nella marina e poi nell’aeronautica, fece diversi mestieri, dandosi nel tempo libero alla scrittura e alla lettura.
Il suo primo racconto, “L’aviatore”, è del 1926, un anticipo di Courrier Sud, pubblicato a Parigi presso Gallimard nel 1929. Sempre nello stesso anno fece un corso per pilota a Brest e diventò direttore della Compagnia Aeropostale Argentina. 
Nel 1930 fu insignito del titolo di Cavaliere della legione d’onore e fu protagonista nel salvataggio dell’amico Guillaumet nella cordigliera delle Ande. Di qui trasse lo spunto per scrivere Vol de nuit, con cui ottenne il premio Femina nel 1931. Ancora nel 1930 incontrò a Buenos Aires la donna che dopo un anno diverrà sua moglie, Consuelo Suncin. 
Altre pubblicazioni, oltre alle citate, lo avevano fatto già conoscere come autore di libri di avventura e di riflessione. Ricordiamo: Terre des hommes, 1939; Pilote de guerre, 1942), in cui, non tralasciando di andare oltre la semplice narrazione, riporta la sua esperienza di uomo tra gli uomini e il suo approccio con la natura nelle sue manifestazioni che esprimono una sensibilità, al pari di quella umana, ora dolce e aperta, ora cupa e minacciosa, come quando con il suo aeromobile l’Autore si trovò nel mezzo di una bufera.
Il piccolo principe era stato pubblicato un anno dopo, nel 1943, in inglese, senza che l’Autore ne avesse dato il consenso. Era stato scritto nel 1942, ed ebbe subito un successo strepitoso.
Antoine de Saint-Exupéry fu scienziato e pilota, pensatore profondo e scrittore, autore di opere da leggere e meditare, perché in ogni suo scritto c’è l’uomo, a cui si rivolge con molta cura e rispetto, da signore qual era. L’impegno che lo caratterizzò fu frutto di un’intima esigenza di partecipazione e di dedizione agli altri, mai di un bisogno di emergere e di farsi notare. 
Era tanto schivo quanto grande per non curarsi di quello che si diceva della sua opera, motivo di spunti polemici per i detrattori, mossi da invidia di mestiere piuttosto che da argomentazioni serie e degne di essere considerate.
Alternò alle opere di narrativa saggi e scritti di riflessione, considerazioni di vita ed altro in cui si rivela acuto pensatore e valido amico di viaggio alla volta della ricerca e della conoscenza.
Citadelle (Fortezza) è del 1948, pubblicato postumo da Gallimard; Écrits de guerre (1939-1944) è apparso nel 1982; Manon danseuse è un romanzo giovanile portato a termine nel 1925 e pubblicato nel 2007; poi, i saggi e corrispondenze varie che fanno di Antoine de Saint-Exupéry un autore prolifico e aperto a sé e agli altri.
Fu attaccato dai detrattori – abbiamo scritto -, e ciò perché, prima gli si rimproverò che la sua letteratura era frutto di esperienza vissuta, poi, quando cominciò a interessarsi più apertamente dell’Uomo (lo scriveva così, con la U maiscola), come se ci fosse uno stacco tra le prime opere e le successive, non venne accettato nella nuova veste di saggista e di pensatore. Ma tra le une e le altre opere non c’è ancuno stacco, non c’è passaggio da un argomento ad un altro; la tematica è la stessa da un’opera all’altra. Cambia, semmai, l’approccio, seppure gradatamente, perché lo scrittore darà più peso alla riflessione che non è dovuta al mero ragionamento, che avrebbe trovato il tempo che vuole, bensì diviene più insistente, frutto della ricca elaborazione esperienziale e del dialogo che sa instaurare con gli uomini e le cose. Altrimenti non ne sarebbe stato capace, perché in lui l’azione, il vissuto quotidiano, precedono la scrittura; e questo sempre, anche in quelle opere che meno lo fanno notare, come ne Le petit Prince, l’opera che gli diede la notorietà mondiale. 
Écrits de guerre (1939-1944) lo conferma con molta evidenza: quando ha la possibilità di volare, per rendere un servizio al suo Paese, Antoine è allegro, non risente dei dolori residui delle tante cadute, gioca, come a Napoli, librando aquiloni tra le grida festose dei bambini, si sente di avere «un cuore di vent’anni»; quando, invece, per età avanzata non gli si consente di volare è triste, gli sembra avere «notte nella testa e freddo nel cuore», e non è capace di scrivere. Ecco cosa dice in un’intervista rilasciata a Dorothy Thompson del “The New York Tribune”, pubblicata il 7 giugno 1940:

«Nessuno, attualmente, ha il diritto di scrivere una sola parola se non partecipa alle sofferenze della società. Se non opponessi la mia stessa vita, non sarei capace di scrivere. E ciò che è vero per questa guerra deve essere vero per tutte le altre cose. Bisogna servire l’idea cristiana del verbo che si fa Carne. Lo si deve scrivere, ma con il proprio corpo.»

Il mestiere di pilota, che Antoine de Saint-Exupéry esercitò dal 1927 fino all’anno della morte e che dà lo spunto a molti suoi scritti, non lo chiuse agli uomini, come si sarebbe potuto verificare; anzi, operò in lui una metamorfosi rispetto al giovane aristocratico che era stato. L’altitudine lo avvicinò alla terra e all’uomo più di quanto si possa immaginare e gli fece amare la vita, con lo stesso entusiasmo e la commozione di quando si trovava dinanzi ai cartoni animati di Walt Disney.
Antoine de Saint-Exupéry non è il narratore della sua esperienza di volo, è il poeta innamorato degli uomini e delle sue cose. Il volo gli apre il cuore all’ascolto di milioni e milioni di altri battiti che, seppure a diecimila metri, negli agglomerati urbani, minuscoli e lontani, alla luce delle lanterne delle singole abitazioni, sono in stretta comunione con lui.
Già molto noto per i libri sopra citati, raggiunse notorietà internazionale con Il piccolo Principe, tradotto in tutte le lingue, con il primato delle vendite. Questo perché è un libro stupendo, un monumento imponente della letteratura mondiale che chiunque dovrebbe tenere caro e di tanto in tanto leggere, perché è patrimonio di tutti, parla la lingua semplice che va diretta al cuore per nobilitarlo e per rinsaldarlo nei suoi valori, a cui l’uomo non può e non deve rinunciare.
Antoine de Saint-Exupéry trova la molla ispiratrice nell’infanzia, nel ricordo vivo, sempre presente della sua:

«Chiedo perdono ai bambini di aver dedicato questo libro ad una persona adulta. […] Tutti gli adulti sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano)… »

La dedica a Léon Werth, che in sintesi preannuncia la dicotomia presente nel libro (il mondo dell’infanzia e quello degli adulti, evidenziando cosí due livelli di lettura), riflette lo stato d’animo del suo autore che nei momenti più tristi soleva rivedersi bambino, ricreando i fantasmi buoni di quell’età.
Il piccolo Principe maturò nel clima della comprensione e nella calma del silenzio e del deserto, piano piano, come il bocciolo della rosa, in un momento particolare della vita dell’uomo e del poeta, che viveva in prima persona un’esperienza di guerra atroce e fratricida, pronta a svuotare di ogni nobile sentimento l’uomo e farlo belva per rendere vano il tentativo di quanti volevano fermarla. Di qui la tristezza del piccolo Principe, ragazzino biondo, capelli sciolti al vento, pensoso più di quanto non lo sono gli adulti, capace di agire e di giudicare, perché lontano dai loro interessi e pregiudizi. Eppure, ponendo la sua attenzione sugli uomini, li commisera per la loro stoltezza, ma li ama per il fondo buono che tutti accomuna.
Incontri indimendicabili sono quelli che il ragazzino fa con la volpe e con la rosa. La volpe è guardinga, perché agisce per spirito di conservazione, ma è fondamentalmente buona e si fa addomesticare.

«Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi. […] – Gli uomini hanno dimenticato questa verità,, – disse la volpe. Ma tu non devi dimenticarla. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile per sempre della tua rosa…»

Antoine de Saint-Exupéry ricorre ad aforismi, come questi, molto citati, segno che colgono nel vivo lo stato d’animo dell’uomo che ha già in sé i mezzi sufficienti per gestire il suo destino. Ma il racconto è una trasposizione del vissuto, e l’affabulazione si serve dei dati oggettivi dell’esperienza: il volo, il guasto, la presunzione che è negli adulti e il bisogno di ridimensionamento, per renderlo più ingentilito e più buono nei rapporti umani, perché lo scopo dell’Autore è di riportare l’uomo nella condizione di appropriarsi ciò che gli appartiene, ma vuole anche sia bandito il male che si manifesta con il vizio o dando troppa importanza alla materialità che rende succubi dell’effimero e del vano.

 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 30-32.




F. Hoefer, Senza partitura – diario poetico dall’ U. R. S. S., Ragusa, Ed. Duemila, pagg. 58.

L’ultima raccolta del poeta empedoclino si evolve con graduale e visibile intensità affettiva che confluisce in una vera e propria «dichiarazione d’amore» a quello terra così sterminata e così lontana che è la Russia, quasi fosse un mondo di favole oltre l’umana dimensione, un mondo sospeso eternamente fra antichissime tradizioni che accen- dono la fantasia e una realtà immu- tabile. avvolta nel mistero.

Tramite un’impalpabile velina di «metafisica respiro», l’autore rivela i sentimenti ispirati da luoghi, imma- gini e situazioni, realizzando undiario di viaggio sospinto senza forzature dell’anima, intrepida e instancabile moderatrice di emozio-ni. Il titolo stesso del libro ne è il segno premonitore, che indica come la spiritualità poetica sia sciolta da qualsiasi costrizione lirica per librarsi nella marea di motivazioni psicologiche che agiscono sull’impulso creativo.

Maria Giovanna Cataudella

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pag. 78




“Un porco italiano o un maiale tedesco?” 

Vallecorsa, terra ciociara di F(uori) R(oma), dimenticata da Dio, non dai Santi che v’han chiese e feste, accomodata sulla propaggine rocciosa che divide !’imbuto della valle, fa a destra quanto non fa a sinistra, memore dell’evangelico: “La destra non sappia della sinistra”, che tutti conoscono ma che solo i furbi praticano, non a gloria di Dio ma a proprio vantaggio. 

Nel borgo e nella valle, cristiani e cristiani per fame e miseria lavoravano a spacca-schiena i giorni della settimana, le domeniche e le feste comandate, perché lo stomaco non ragiona come agli ammutinati plebei del Monte Sacro spiegava il buon Menenio Agrippa che la faceva corta per non farsi scoprire lungo. 

Nel borgo e nella valle, arciprete, abate, canonici e seminaristi di Anagni godevano le domeniche e le feste comandate per dovere, come dicevano, per vocazione, come spiegavano per convincere il popolo devoto: il dovere di tutti, la vocazione degli eletti. 

Nel borgo e nella valle, godevano domeniche e feste comandate la guardia civica e la guardia campestre sempre in giro per cogliere in flagrante chi stendeva panni sul suolo pubblico, chi legnava nelle selve demaniali, con multe e sequestri provando la loro fedeltà al Comune. 

Nel borgo e nella valle, godeva domeniche e feste comandate il Camposantista che nel Camposanto a garbo suo e a sgarbo dei morti scavava fosse convinto che i morti han pazienza da vendere e non avallano cambiali a scadenza. 

Nel borgo, non nella valle, gli impiegati del Comune godevano i giorni della settimana, le domeniche e le feste comandate; costoro poltrivano in poltrona e indurendo con calli le chiappe carnose, non facevano distinzione tra i giorni lavorativi e i festivi, sicuri di posto e di stipendio. 

Nel borgo e nella valle, non godevano le domeniche e le feste comandate i mercanti d’olio, di lana, di frutta e ortaggi che sui carri stracolmi tirati da muli petenti e fetenti, andavano per le polverose strade della Ciociaria a far mercati. 

Nel borgo e nella valle, godeva le domeniche e le feste comandate l’esigua pattuglia dei macellai che lavorando all’occasione per i privati, nelle feste vendevano carni scelte ai ricchi clienti, versando quota dell’incasso ai Comitati delle Feste per ringraziare i Santi che sapevano come mandare avanti il commercio perché la “destra di Dio” è sempre “destra” anche per chi usa la “sinistra”. 

Tra i signori macellai, figurava Ernesto Giuliano N’Zellotto, fiero dell’arte, della bottega e del soprannome ereditato, facendo onore all’adagio: “Quale padre. tale figlio”, profetico programma per quanti lo capiscono e per quanti non lo capiscono: sempre in maggioranza. 

Ernesto teneva bottega allo Sciurarieglio con insegna di robuste corna al sommo dell’arco della porta, chiusa da tenda di variopinte cannucce che bloccavano l’esercito delle mosche ma davano accesso ai clienti. 

Nulla e nessuno nei tempi passati era riuscito a scuotere !’immobile società dell’antico borgo ma quello che non riusciva ai briganti, alle Camice Rosse di don Peppino Garibaldi, ai Carabinieri dei re Savoia e ai Centurioni del Duce Benito, riusciva ai Granatieri di Adolph Hitler, Fuehrer delle Camice Brune e Kanzler di 

tutti i Laender germanici, a tradimento occupando Vallecorsa bloccandone entrata e uscita con Panzer e blindati, con “PeKaWé” e “ElKaWé”. 

In quei giorni di ansie e delusioni, Ernesto teneva bottega aperta per onor di firma; non essendoci in giro bestie da macellare, Ernesto non disperava; di nascosto macellando, di nascosto vendendo, Ernesto metteva in scarsella in barba alle “SS”, aiutato nell’imbroglio dalla gente decisa a far dispetti ai Gcrmanesi. 

A turbare chi non ci teneva ad essere turbato, scendeva dal Vicolo Traverso l’Obergefreiter Udo Offenbach della “San-Kar-Einheit Haupt. Otto Hotegger” massiccio nella statura, fiero dei parafernali di “Panzer-Grenadier”, battendo i ferrati tacchi dci corti stivali chiodati sugli sconnessi selci dello Sciurarieglio. 

Si fermava il Caporalmaggiore della Wehrmacht a gambe divaricate davanti alla porta della macelleria e con occhiate, con accenni di capo e cenni di mani e con parole stracciate cercava di far capire al macellaio che la “Kommandantur”gli chiedeva di scannare un “ghi, ghi”:· un porco pronto per il macello. Ernesto capiva ma fingeva di non capire perché con i Germanesi: “Fidarsi è bene; è meglio non fidarsi” come consigliava ai Troiani in giuggiole il sarcedote Laocoonte esortando a non dar fiducia ai Greci anche se portavano doni: “Timeo Danaos et dona ferentes!”. 

Ernesto stufo del lungo tira-molla cedeva come il debole cede davanti al forte che nella forza pone la sua ragione. Mogio andava Ernesto dietro a Udo a mo’ di giaculatoria ripetendo a labbra strette: “Meglio scannare un maiale tedesco che un porco italiano!” e stringeva nella destra la “scannatora” come i padri stringevano canna e calcio del “novantuno”, le bombe a mano, i pugnali, i tubi di gelatina contro gli Austresi sul Montello, sul Monte Grappa, sulle rive dell’Isonzo e del Piave. 

Al Curtino, Ernesto provava grande imbarazzo. 

La bestia da scannare: un gran bel porco, dal colorito moro, dalle setole scure e dal grugno tutto bianco; “Questo un porco italiano” si diceva Ernesto” i maiali tedeschi sono bianchi, con le setole chiare e con il grugno roseo”. 

Rimaneva l’ultima prova: Ernesto chinandosi avvicinava l’orecchio al grugno della bestia e sentendola grugnire: “grù, grù, grù”, non “ghi, ghu, ghi” come grugniscono i maiali tedeschi, Ernesto imprecava contro la malasorte che lo costringeva a scannare un porco italiano quando avrebbe preferito far la festa ad un maiale tedesco. 

Come la Wehrmacht aveva ordinato, la bestia veniva scannata con gran soddisfazione di Udo, con rabbia di Ernesto che si vergognava d’aver contribuito alla resistenza delle Forze Armate Germaniche sul fronte di Cassino e di Anzio perché la Patria si serva anche facendo la guardia ad un bidone di benzina. 

Passavano gli anni ma al caffè Nardoni, agli Arbeletti, Ernesto raccontava la curiosa storia e a chi a brutto muso gli chiedeva: “N’ Zellotto, che differenza tra porco e maiale?”, a brutta ghigna rispondeva: “Se chi dice porco, non dice maiale, la differenza c’è, eccome!”. 

Nella domanda impunita e nella stizzosa risposta, la ragione della Taratalla obbligata a sciogliere il dubbio e a risolvere il problema filologico delle voci: “porco” e “maiale”. 

Le due voci italiane derivate dall’identiche voci latine: “porcus” e “maialis” indicano oggigiorno la stessa bestia nella diversità dei suoni ma nell’identica indicazione della bestia e per traslato, riferibili agli uomini, comportando significato offensivo. 

In latino le cose stavano diversamente perché come la società si svilisce 

catatropizzandosi, si sviliscono anche le parole catatropizzandosi. 

“Maialis: mai+alis”, aboriginalmente aggettivo, indicava il porco nato in maggio e destinato al sacrificio come prova il suffiziale: “-alis” indicante riferimento alla pratica religiosa1; il riferimento al culto restava nella parola anche quando questa indicava il sacrificio del “maiale” di un anno alla dea Maia, madre di Mercurio che tardivamente entrava dall’Olimpo greco nel pantheon romano2. Nello sviluppo del “rhematogramma” si perdeva via via il riferimento alla pratica religiosa, restando intatto il riferimento alla bestia come si nota in italiano se “porco” e “maiale” hanno lo stesso significato anche nella metafora3. 

“Maialis porcus”; il porcellino nato di maggio e che castrato veniva sacrificato a Maia, madre di Mercurio4. 

Il sostantivo “porcus” lo si fa derivare da “porceo; por-ceo” = tener lontano, difendere” perché gagliardo il porco difende territorio e prole5; lo si fa derivare dal grugno allungato: “a rictu porrecto seu prominente”6; Bienveniste, dopo ampia e dotta escursione nelle lingue indo-europee, convinto vuoi convincere che “porcus” nelle fonti latine appare col significato di: “animale giovane”, ·il giovane porco”; in seguito “porcus” occupava il posto lasciato da “sus”, questa voce finendo per scomparire dalle fonti e dall’uso o continuava significando il “porco selvatico”; “porcus” perdeva il suo significato e il diminuitivo: “porcellus” di recente conio indicava il “porcello” o “giovane porco”7. 

Lode altissima a Bienveniste pcr le sue dilucidazioni in merito anche se dal famoso filologo non apprendiamo il significato del1a voce “porcus” sulla quale bisogna operare, in base agli assiomi della Filologia Sperimentale come abbiamo fatto con “maialis”. 

In latino la voce: “porca” indicava le due gobbe che delimitano a difesa il solco aperta nella maggese dall’aratro: “lira”; nella “porca” si seminava con la speranza d’aver frutto le messi. 

l) “Maialis”: “porcus castratus ein geschnitten Schwein, ein borg; Varro, De Re Rustica. II, 4 et 7. Conf. Turneb. Advers. 21, 15. Nomen est ex eo quod Mqjae sacrificetur, ut est in Glossis Isidod” (B. Faber, Thes. Erudit. Scholast., Lipsia. 1717, col. 1576, Tom. Ls.v.). 
– La Filologia Sperimentale osserva: valido fissare i significati delle voci fondati sulle fonti e sull’uso; più valido fissare il significato aborigeno delle voci necessario alla ricostruzione del “rhematogramma” portatore della storia della società che le parole inventava, usava e trasformava nel tempo: diacronismo. 
2) “Parentalia“, “Satumalia”, “Volturnalaia”, “Volcanalia”, “Mortualia” etc.: il suffiziale: “‘ale”, “-alia” comporta l’idea della festa religiosa; “Flamen Dialis”, “Voltumalis Flamen”; il suffiziale: ··alis, “-ale” comporta riferimento al sacerdote. 
La Chiesa sapeva quel che cantava quando cantava: “Victimae paschalis” o quando indicava: “Vigilia paschalis”; questo quando i reverendi sapevano latino e ignoravano la “pissicologia”. 
3) L’uso reale o metaforico del1e due voci in italiano non chiede chiose, non merita postille. Del1e due parole, stando agli assiomi della Filologia sperimentale, una scomparirà e una resterà. 
4) Not. l. 
5) “Tertium etymon est, ut porca dicatur a porceo, quod ipsum dicitur quasi porro arceo” (G. J. Voss, Etymol. Ling. Lat. Reg. Typ., Napoli, 1763, pars altera, p. 553, s.v.). 
6) “Porcus, i,m.a rictu porrecto seu prominente dictus est, ein Schwein; ut ·Porci sacres”, Plaut. Rud. 4, 6, 4, i. e., sinceri, puri, integri & idonei sacrifriciis, uti explicat Varro de Re. R. Il, I & 4 ” (. B. Faber, op. cit., Tom. II, col. 1886, s.v.). 
7) E. Bienveniste, n Vocabolario dell’Istit. Indoeur., voI. l, Torino, Einaudi, 1976, pp. 19-24.
“Porca” indicava il genitale femminile nel quale si seminava con la speranza d’aver frutto di prole. Se alla “porca” si affidava il seme perché rendesse buon frutto alla stagione, consegue che al “porcus” il romano affidava capitale e speranza per aver alla stagione i frutti del lavoro, del capitale e della speranza: “porcus” la bestia della quale tutto rende e nulla va perso. 
Il significato della voce così ricavato potrà essere considerato valido se confortato da altra via. La Filologia Sperimentale batte la via dell’apofonia o gradazione vocalica che dà: “parc-“, “perc-“, “porc-“, avvalorando il significato di “porcus” ma dando significato altro al verbo: “parco”; “mettere a frutto”, “far valere”, “far fruttare”, che così inteso pone sotto altra ma vera prospettiva la politica di Roma che se fondava la sua direttiva nella prima arte e nella terza arte d'”imperium”, poneva centralmente la seconda arte: “parcere subiectus”, con essa perseguendo l’obiettivo di far “pari” i popoli, d’essi ·mettendo a frutto” le qualità delle braccie e delle menti, indifferentemente. Sotto questa nuova prospettiva filologica anche il cognome della “gens Porcia” acquista valore diverso e più impegnativo se “Porcius” non l’allevatore di porci ma chi sapeva trar frutto dalle sue qualità. 

Davide Nardoni 

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 7-9.




Scipione l’Africano Emiliano 

Al viaggiatore che da Palenno, via Milo, per ferrovia scende a Trapani e da Trapani raggiunge Marsala, la città offre spettacolo superiore alle aspettative. 

Miti, leggende, storia, faV’ole han fatto a gara per abbellire la città: “splendidissima atque ventosa”1; da borgo fatta metropoli, essa allunga le fila dci palazzi, le case e le strade all’ombra delle chiese e delle cupole, e dissemina fattorie, “bagli” e ville per le contrade. Sorpresa toccava al “ciociaro” piovuto, “Rei publicae iussu”, tra i Siculi e che non credeva agli occhi, tanto gli si slargavano davanti alla bellezza davanti ad essi squadernata. 

In tutte le città di mare, il lungomare; Marsala, città di mare ha lungomare, ma unico è lo spettacolo: sulla costa di Marsala, sullo “Stagnone”, sull’isola di Mozia e nelle Egadi: Favignana, Levanzo e Marettimo, il mito, confondendosi con la storia e la leggenda, inglesi e piemontesi nella babele di voci di differenti favclle. Marsala: crogiolo di popoli, catino di civiltà, crivello di lingue. 

Andavamo per il lungomare, la moglie Ermelinda ed io; c’cran guide due ragazze con negli occhi vivaci l’intelligenza della gente di Marsala, nelle fattezze, la languida bellezza araba e nella mimica di mani e dita, l’ascendenza greca. 

Andavamo i quattro per il lungomare e Rita e Giovanna si disputavano l’onore di farci da guide, nel ricordo di Marco Tullio Ciccrone, cittadino romano di Sora, non di Arpino, che girando per Lilibeo, vedeva i Lilibetani farsi in quattro per far da guida al questore di Roma2. Davanti alla chiesa di s. Giovanni, Rita, accalorandosi, diceva: “Tutto il largo, alla sinistra della chiesa è vincolato dalle Belle Arti; nessuno vi può costruire perché l’Assessore del Comune lo ha proibito; là, sotto il manto erboso, resti di costruzioni romane aspettano d’essere riportati alla luce”. 

Intanto il sole, con il suo grande occhio rosso come di chi stanco del gran tragitto fatto nella volta del cielo, si affrettava al tramonto, arrossando una macchia di nuvole dietro la linea dei monti, disegnando la sinopia del forte di s. Caterina e abbuiando Favignana e Levanzo, che all’orizzonte, da quella parte, chiudono il mare che pigro se la raccontava come se la racconta quando è tranquillo. 

«Nella chiesa di S. Giovanni», diceva Giovanna slargando i suoi occhioni neri come le more sulle siepi a rovi convinta di quanto andava dicendo, «c’è stata la festa di s. Giovanni con processione, banda e fuochi pirotecnici della rinomata ditta: Salvatore Calamia di Misilmeri. Tutti si fan dovere di visitare l’antro della Sibilla Cumana, scendendo per ripida scaletta, nella parte sinistra della chiesa. 

I devoti scendono nella cripta, rinnovando lo memoria della gente pagana che vi scendeva per aver oracolo dalla Sibilla. La Sibilla, invasata dal Dio Apollo, si dimenava tutta, sbavava dalla bocca e, torcendo indietro gli occhi, profetizzava a quanti gliene facevano richiesta, con promessa d’«offerte». Taceva Giovanna e il forestiero la ringraziava. 

Andavano i quattro per il lungomare, mentre il sole calava a nascondersi dietro i monti di Favignana. Per non sminuire la soddisfazione alla ragazza, il forestiero taceva per non dire che l’iscrizione nella chiesa era sbagliata, indicando la “Sibilla Cumana”, quando si trattava della “Sibilla Lilibetana”, se di Sibilla si trattava. 

Davanti al portale del “baglio” Anselmi Rita, per accrescere i suoi meriti agli occhi dei forestieri, diceva: «Dentro il “baglio”, sotto gran telone protettivo, sta la “nave punica”; tutti vanno a vederla; dentro il “baglio”, un professore spiega tutto quello che c’è da spiegare; molto, davvero, a cominciar dai Cartaginesi sbarcati a Lilibeo, dove impiantavano emporio per i loro traffici e base militare per la flotta da guerra, fino alle Guerre Puniche, condotte da Roma contro il nemico cartaginese, fino alla distruzione di quella città, assediata da Scipione e data alle fiamme dai cittadini che preferivano morire bruciati, piuttosto che cadere prigionieri degli odiati Romani». Questo diceva Rita ed era non poco per una ragazza della sua età. 

A quell’ora tarda, a sole tramontato, la luce smorzandosi sulle isole, sullo “Stagnone” sulle “Saline” sulla spiaggia e su tutte le contrade, il “baglio” chiuso impediva l’ingresso e la visita alla “nave punica”. Rita parlava e il forestiero l’ascoltava, ma i due non potevano immaginare che la “nave punica” sarebbe diventata un incubo per l’uomo che tanti Marsalesi, dopo i convenevoli di rito, volevano accompagnare in visita alla “nave punica” nel “baglio” Anselmi; invito a profferta si rinnovavano dal barbiere, nei negozi, nei caffé e ai tavoli della meravigliosa sala da pranzo della Villa Favorita. 

I quattro, godendosi i soffi della brezza che, calando la sera, accresceva le sue lievi buffe venendo dal mare, superata la curva, arrivavano alla rotonda di Capo Boeo. 

Nella rotonda solitario cippo; sul cippo, breve colonna; sui lati del cubo di base, quattro iscrizioni celebravano i momenti salienti della storia di Lilibeo e di Marsala, a vanto dei Marsalesi e di tutte le Marsalesi. 

Rita e Giovanna davanti al monumento si disputavano l’onore della parola; Rita l’aveva vinta; la maggiore delle sorelle cominciava a dire con l’importanza di chi convinta di dire cose importanti: «Questo cippo, la colonna e l’iscrizione, posti ad onorar Scipione che sconfiggendo i Cartaginesi, a Zama, finiva la “Seconda Punica”, vanificando l’attacco degli elefanti: “fortezze mobili”, lanciate dai “Kornak” contro te “Forze Combinate Romane”, per seminare morte tra i legionari della prima, detta seconda e della terza fìla. Scipione l’Africano batteva Annibale anche con l’appoggio dei Lilibetani, amici di Roma e di tutti i Romani». 

Questo diceva Rita e si meritava il plauso che i due forestieri le tributavano, battendole le mani. Il forestiero aveva ascoltato Rita con interesse ma anche con punta di stizza perché non corrispondevano alle parole di Rita, esatte nei particolari e nell’insieme. 

L’iscrizione portava 

“149-146 

III Guerra Punica 

Scipione l’Africano E.no 

Il Comune donò la Colonna 

Delibera Conciliare n. 244 

del 9-12-45″. 

Il forestiero leggeva e, rileggendo, soffocava la voglia di levar grido contro chi cippo, colonna e iscrizione aveva voluto nella rotonda di Capo Boeo. Taceva il forestiero e non diceva la sua per non creare turbamento nella mente di Rita3. 

Il forestiero, tra sé ragionando, non con i vivi ma con i morti, si convinceva della verità del motto: “Sic transit gloria mundi!” che il Penitenziere Maggiore in S. Pietro recita al neoeletto Pontefice, se i vivi, beffando se stessi, beffano la storia e beffano chi della storia artefice e geniale operatore. Nell’iscrizione, vera la data “Terza Punica” ma errata la “nominatura”4 di Scipione che se era “l’Africano” non poteva essere “L’Emiliano”; il primo vincitore nella “Seconda Punica”, delle “Forze Combinate Puniche”. nella battaglia di Zama, svoltasi a Margaron, nella pianura di Naraggara; il secondo: Scipione l’Emiliano, figlio di Paolo Emilio, vincitore a Pidna, adottato nella famiglia degli scipioni alla morte del padre, metteva fine alla “terza Punica”, assediando Cartagine: “Cart+Acath”: “Karchedon” “Carthago”, che finiva in un mare d’incendi mentre il duce romano turbato recitava l’omerico: “Giorno verrà che Priamo e tutta la sua gente cada!”5 presentendo la caduta di Roma. 

Errava inequivocabilmente, chi faceva uno dei due Scipioni; errava inequivocabilmente, chi approvava monumento e iscrizione; continuano nell’errore i Marsalesi che non cancellano la stortura che offende gli Scipioni morti, che offende i Marsalesi vivi, la storia e il nome di Marsala. 

Siamo convinti: non tutte le Marsalesi, per tanti aspetti superiori ai mariti, custodi della meravigliosa storia della città, condividono quella delibera comunale che imperterrita continua a far oltraggio alla verità storica. 

Speriamo che la “Taratalla” sproni a rimuovere l’iscrizione o a rinnovarla, nel rispetto della verità storica, cancellando i sorrisi di scherno sulle labbra dei forestieri che, pensosi della storia e delle umane vicende, si attarderanno davanti al cippo, nella rotonda di Capo Boeo. 

Davide Nardoni 

(l) Cic. Caecil. 12; Fum., 9, 21; 12, 28. L’Oratore, questore in Lilibeo, ben conosceva la città se la definiva: “splendidissima” pcr la bianca calce che copriva di bianco strato le case per difenderle dai cocenti raggi del sole e “ventosa” se la brezza che spira dal mare a terra o da terra al mare, smorza il caldo, smorza il frcddo, a scconda della stagione. 
(2) Cic. Planc., 26.
(3) Il forestiero cristiano, apostolico, cattolico, romano e “papista”, taceva per non incorrere nella evangelica maledizione: “Et quisquis scandalizaverit unum ex his pusillis credentibus in me, bonum est ei magis si circundaretur mola asinaria cotto eius et in mare mitteretur (Marc. IX, 41). Quel forestiero non aveva voglia di appendersi manica da molino al collo e gettarsi nelle acque basse dello “Stagnone” per finirvi affogato. 
(4) Tutti i cittadini romani avevano propria “nomenclatura” che portava la “nominatura: “praenomen”, “nomen”, “cognomen”, “adgnomen”, o “adgnomina” che costituivano l’anagrafe dell’individuo romano e la “titolatura”: le cariche maggiori o minori ricoperte in vita. 
– La “nominatura” completa dell’eversore di Cartagine è: “Publio Cornelio Scipione Ernaiano Africano Minore”; la “nominatura” del vincitore di Zama è: “Publio Comelio Scipione Africano Maggiore”; questo per levar confusione. 
(5) Hom. Iliad. Z, 448-449: “Giorno sarà, quando sarà distrutta la santa Ilio e Priamo e il popolo di Priamo dalle bel1e greggi”. 
– “(Polibio) assistè alla presa di Cartagine; narrò, poi, che Scipione (Emiliano o Minore) contemplando la città distrutta, recitò i versi di Omero, nell’Iliade: “Verrà un giorno che cadrà la sacra Ilio, e Priamo, e il popolo di Priamo” e poi aggiunse: “Io temo, Polibio, che un giorno, qualcuno dirà queste parole della mia patria” (G, Perrotta, Storia della Letteratura Greca, Milano, Principato, 1951, vol. III, pag. 137).

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 5-7




«Satana e le sue pompe» 

Venne la stagione della cresima e nel paese la gente preparava la festa. Madri e padri in giro per trovare padrini e madrine per figli e figlie da cresimare. 

L’arciprete don Clemente Altobelli spiegava a quei villici figli di villani briganti il significato della domanda che il vescovo avrebbe rivolto ai cresimandi prima di far il segno di Cristo sulla loro fronte con l’olio santo e di congedarli con lo «schiaffo» di rito1. 

L’arciprete capezziava convinto: nessuno dell’impavida brigata l’aveva capito, se l’aveva pur ascoltato, per la ragione che neppur egli capiva l’espressione: «Satana e le sue pompe», anche se aveva chiaro, chiarissimo che non si trattava di «pompe» per dar l’acqua ramata alle viti, perché al seminario non aveva sentito che Satana, Satanasso possedesse viti, vigne, vigneti e «pompe». 

Spuntò il giorno della cresima e il sole radiava luce e calore nella valle e da Veroli, città di antica storia e ricca di tradizioni, arrivava il vescovo e tutti a fargli ala e coda per accompagnarlo in chiesa. Andava il vescovo per le vie e, benedicendo a dritta e a manca, sorrideva a tutti come abitudine del buon pastore verso le pecore del gregge. 

In chiesa, il vescovo, in mitra e pastorale, apriva tra nugoli d’incenso alla cresima chiedendo: «Abrenuntias Satanae eiusque pompis?», cresimando e padrino a gran voce rispondendo: «Abrenuntio!», sicuri di non intendere quanto avevano udito, certi di non intendere quanto avevano risposto, come chi non aveva mai conosciuto Satana, come chi non aveva mai visto le «pompe» di Satana. Per tante generazioni in quel paese paesani e paesane avevano rinunziato a «Satana e alle sue pompe» e nessuno aveva patito guai da quella rinunzia; da Satana e dalle «pompe» guai capitavano a chi guai non si aspettava, a chi non s’aspettava botte per aver rinunziato a «Satana e alle sue pompe». Venne il tempo di «pompare» le viti e il padre Mario, che aveva fatto cresimare il figlio Davide, invitava il figlio a seguirlo nella vigna; questi ubbidiva perché i figli hanno il dovere di obbedire ai padri. Nella vigna quel figlio preparava la mistura bordolese e ne riempiva la pancia della «pompa» ma non si decideva a passare le braccia nelle cinghie di pelle per caricarsela sulle spalle, 

Al padre che l’incitava a caricarsi la «pompa» sulle spalle, il figlio rispondeva che, avendo rinunciato a Satana e alle sue «pompe», non voleva commettere peccato mortale trasgredendo la promessa fatta alla Chiesa Cristiana, Apostolica, Cattolica e Romana, per giunta. 

Per tre volte il padre pregava il figlio; per tre volte il figlio ripeteva al padre la sua decisione e fu il finimondo: tra urla e urlacci da indemoniato quel padre scaricava cinghiate a non finire sulle povere spalle del figlio, che urlava e piangeva deciso a non commettere peccato mortale; urlava e non piangeva il padre deciso a spiegare a quella «cocuzza» di figlio che «pompare» le viti non era peccato mortale e neppure veniale. 

Questo capitava in quel paese e tutto perché padre e figlio convinti di aver la ragione dalla propria parte non si rendevano conto che tutti e due erano nel torto non sapendo essi chi e cosa fossero Satana e le sue «pompe». 

Quel ragazzo a distanza di tempo fatto vecchio ricorda il padre e non gli rimprovera le cinghiate di quel mattino, perché sicuro che il padre gliele aveva somministrate non per crudeltà ma per lo stesso nodo e vincolo d’ignoranza che legava il padre al figlio e il figlio al padre. 

In questa ignoranza la premessa per la «Taratalla». «Pompa» voce volgare derivata da «pompa» latina traslitterata dalla greca: «pompé», sostantivo derivato dal verbo: «pémpo»: il «rhematogramma. della «parole» greca chiarirà la vicenda della «pompé» greca dalle origini ai giorni nostri. 

Aboriginalmente, i Greci della Grecia, delle Isole, della Magna Grecia, della loma e delle colonie: «apoikiai», sparsi in tutta l’Ekumene Mediterranea, fino a Histria, Tomis, Mangalia sulle coste del Mar del Ponto, facevano «pompé» quando i devoti in processione andavano al tempio a portar al dio ex-voti e omaggi di canti e di preghiere nella ricorrenza della festa Più viva la fede, più lunga la processione: «pompé», più sentiti i canti e più ardenti le preghiere. 

Si affievoliva nel tempo il sentimento religioso e venendo meno la pietà, la «pompéo, lasciati i templi, entrava nella «polis» a far politica e cortei: «pompai» muovevano per le vie in onore degli Olimpionici, in onore dei Caduti, pugnando per la patria e per gli dei della patria, a favor di questa, di quella parte, a propaganda di questo, di quel demagogo. 

S’indeboliva lo stame del popolo greco e dalla Macedonia nella Grecia calavano i Macedoni e alla corte dei re Macedoni muovevano cortei e processioni per far omaggio di inni e di doni a quei re che sostituivano la loro persona alle divinità dei santuari greci. 

Passava Filippo. passava Alessandro e passavano anche i Diadochi dei regni ellenistici ma continuavano le processioni: «pompai» dei sudditi che, persa la libertà, perdevano anche il rispetto di sé e il pudore nell’umiliazione della «proskynesis»: affare dcgno di cani, non di uomini. 

I Maccabei in lotta contro i Seleucidi di Siria inviavano corteo d’ambasceria, «pompé., a Roma nella persona di Giuda Eupolemo bar Giovanni, bar Giacobbe e Giasone bar Eleazaro, per stringere amicizia e alleanza con il Popolo Romano2. 

(2) Macchab. l, 8. 

Ad Augusto che abitava nel «Palatium» sul Palatino di Roma, arrivavano cortei, «pompai», da tutti i paesi dell’Ekumene e fuori, portando omaggi e tanti doni all’Imperatore di Roma e di tutta la Romania, 

A Roma continuavano ad arrivare cortei e processioni, «pompai», per rendere omaggio al soglio imperiale per tutti gli anni nei· quali il trono restava nell’Urbe. 

Costantino Magno spostava la capitale dell’Impero a Bisanzio: Costantinopoli (Istanbul), e cortei e processioni, «pompai», mutavano strada e cambiavano rotta muovendo verso l’Oriente e così segnando il declino e la caduta dell’Occidente. Qui dalle Alpi tracimava la marea del barbarame nordico che alluvionava, invadendole, le terre romane non per farvi cortei, «pompai», ma per farvi preda e menarvi bottino, perché i vinti debbono tributo di donne e di ricchezze ai vincitori, se ogni operaio è degno delle sua mercede! 

Nel vuoto politico subentrava la Santa Chiesa Romana e, annunziando l’Impero celeste al posto dell’Impero terrestre, predicava al popolo dei fedeli contro «Satana e le sue pompe», perché i devoti smettessero di far processioni, «pompai», ai templi degli dei falsi e bugiardi e di far cortei a Satana e facessero processioni in onore dei Santi che avevano praticato le virtù in modo eroico nella professione della fede e nella difesa del popolo cristiano che per secoli faceva processioni ai santuari della fede. Nell’attuale scadimento del sentimento religioso e nello svilimento della pratica cristiana nessuno parla di Satana e a nessuno interessano le «pompe di Satana», tutti le ignorano e chi le conosce finge d’ignorarle per non essere accusato di retrivo reazionarismo. Sotto le fanfare di tambureggiante propaganda alle processioni cristiane vengono sostituiti i cortei, «pompai», delle dimostrazioni politiche e chi le ordina e chi le subisce son tutti convinti di riempire il «vacuum» delle anime e delle coscienze che essi stessi han creato fidando nella democrazia, nella libertà e nel progresso. 

In tale marasma è piombata la società che, tra l’altro, ha perso quanto di buono possedeva per la malaventura d’aver dimenticato il significato dell’espressione: «Satana e le sue pompe», una bagatella non dappoco, non dallo scarso peso, se doveva da essa emanare tanto disordine e tanta confusione. Nessuno crede più a Satana ma per dannata distrazione tutti credono alle «pompe di Satana», intese come l’«effimero». 

Questa comune e generale miscredenza spinge Satana e le «pompe» a finire nel dimenticatoio, abbandonati nel mucchio dei fossili linguistici dal quale solo il Filologo Sperimentale, a nuova vita traendoli, dimostra e prova che il progresso materiale corrisponde a regresso spirituale e questo in tutte le civiltà e in tutte le culture apparse e scomparse dalla faccia della terra. 

Questo la Filologia Sperimentale doveva dimostrare: tanto crede d’aver dimostrato come premio della sua fatica e della buona coscienza. 

1. Il pretore romano dava schiaffo, «alapa», al figlio che con tre finte vendite veniva emancipato dal padre permettendogli di sottrarsi alla «patria potestas»; con schiaffo, «alapa», il padrone, «dominus» mandava libero lo schiavo dopo averlo liberato; con lo schiaffo, «alapa», il vescovo libera il cresimato dal losco potere di Satana. «Si pater filium ter venum duit, filius a patre liber esto» (Lex XII tab). 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 8-14.




«PANEGIRICO» 

Uno degli assiomi della «Filologia Dinamica» recita: «La Storia dell’Uomo sulla Terra nelle «paroles». Dell’assioma prova nella «parole»: Panegirico.

Il «panegyrikos logos»: il discorso sacro che dal pronao del tempio il sacerdote teneva ai convenuti devoti da tutte le città e le parti della Grecia a celebrare la ricorrenza della festa del dio. L’assemblea delle genti greche nelle feste panelleniche si chiamava: ‘panegyris»; questo raduno possibile anche durante le guerre: in ragion della tregua: «spondai» tutti avevano la «eleutheria: libertà di passaggio» attraverso le terre greche per raggiungere il tempio.

Teneva il sacerdote il suo sermone: «panegyrikos logos» e inneggiava al dio festeggiato cantandone gesta e miracoli compiuti a beneficio delle genti greche e di tutta l’umanità. Quello che il sacerdote predicava stava scolpito nel timpano del frontone del tempio e nelle frise.

Tanto voleva, tanto imponeva il sentimento religioso.

Decadeva il sentimento religioso; la politica invadeva il vuoto lasciato dalla religione. A prova di questo scadimento e dell’azione politica nella «polis» testimonianza nel «panegyrikos logos» che non più recitato dai sacerdoti, dauomini politici veniva recitato dal «bema» nell’«agorà» davanti all’«ekklesia» dei cittadini. Parlava l’oratore e celebrava i meriti della «polis» e le benemerenze da Atene acquisite davanti ai suoi cittadini e davanti ai popoli dell’Ekumene che da Atene avevano tratto quanto rendeva la vita degna di essere vissuta.

Tanto voleva, tanto imponeva la politica.

I Trenta Tiranni occupavano Atene e il potere esercitavano a danno dei cittadini, a vergogna della «polis» a morte di quanti si opponevano, di quanti avevano ricchezze da accendere cupidigia negli animi di quei Tiranni. In quei giorni di oppressione il «panegyrikos logos» non poteva essere recitato e se qualcuno lo scriveva segreto lo teneva passandolo ad amici perché segretamente lo leggessero come segretamente l’avevano ricevuto.

La libertà una volta persa non la si riacquista e per colpa dei tempi mutati e per l’indolenza degli uomini.

Filippo dalla Macedonia nell’Attica e in teatro cantando: «Demostene di Demostene, di Peana profetizzava questo!», toglieva agli Ateniesi «Graeculi» la residua libertà se ce n’era ancora nella città. A Filippo succedeva Alessandro il Grande e se qualcuno ricordava il genere letterario del «panegyrikos logos», del panegirico non poteva ricostruire la religiosità scomparsa e la libertà ugualmente sparita.

Moriva Alessandro a Babilone di Babilonia e gli succedevano i Diadochi che fondavano i regni ellenistici dividendosi l’Impero d’Alessandro ma non ridavano la religione antica e l’antica libertà ai popoli sotto il loro dominio.

Si tenevano panegirici ma in lode dei regnanti sovrani che non per burla e non per sbaglio venivano celebrati dèi presenti in terra.

Dopo Azio e dopo la conquista d’Egitto, padrone di tutta l’Ecumene Mediterranea essendo l’imperatore di Roma, il panegirico continuava nell’Urbe e si teneva davanti ai Rostri nel Foro Antico sul corpo del morto imperatore.

Si succedevano gli Imperatori sul soglio del «Palatium» sul Palatino e all’imperatore Ulpio Traiano, Plinio il Giovane teneva panegirico in lode dell’«Optimus Princeps Incomparabilis» per tre giorni: «triduo».

Crollava l’Impero e nel vuoto si lanciavano le orde selvatiche del «barbarame» nordico e la Santa Chiesa Cristiana, Apostolica, Cattolica e Romana si poneva scudo e si faceva usbergo degli umili abbandonati alla selvaggia furia dei barbari invasori.

Rinnovato s’accresceva il sentimento religioso e nelle chiese dai pulpiti, dai pergami e dagli amboni i predicatori tenevano panegirici in lode dei Santi che la vita avevano speso a pro degli altri e il sangue avevano sparso a difesa degli altri.

Ogni Santo del menassario romano aveva il suo panegirico che d’anno in anno rinnovato e ripetuto rinfrescava nelle orecchie e negli animi dei fedeli la memoria del Santo e delle sue virtù praticate in grado eroico.

Oggi, nella miseria proterva dei tempi correnti, la scomparsa di tutti i valori s’accompagna allo scadimento del sentimento religioso; questo scadimento ha portato la scomparsa del panegirico dalle chiese e alla susseguente «fossilizzazione» delle «parole» dal linguaggio comune non però dal vocabolario; nel vocabolario essa resta muto «fossile» d’epoca passata e d’una religiosità scomparsa e di un genere letterario radiato dall’attività degli scrittori che dicono: «Non mi far il panegirico!» a chi tenta di lodarli e sornioni non sanno d’essere i becchini di loro medesimi.

Questo voleva dimostrare e tanto ha dimostrato la Filologia Sperimentale: la storia greca, la storia ellenistica, la romana, la medievale, la moderna e lacontemporanea, seguendo il diacronico della «parole»: panegirico.

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 6-7.