Deleterio fondamentalismo

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Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 4.




A ROMANO CAMMARATA 

 Chi poteva immaginare che di lì a qualche giorno te ne saresti andato per sempre? Come crederci, se prima di lasciarci, c’eravamo detti di ritrovarci a Velletri nei primi di settembre per discutere e portare avanti i nostri progetti? 

Ma di lì a poco te ne sei andato in silenzio e senza alcun commiato! 

Il sole d’agosto con le sue impennate ha voluto farci questo brutto scherzo! 

Ora capisco perché, salutandomi non volevi che me ne andassi e, stringendomi forte nella morsa del tuo abbraccio di padre di fratello e di amico, m’intrattenevi con altri discorsi, con la tua parola calda, convinta, sincera. 

Ora so perché, proprio quel giorno, hai voluto affidarmi quella registrazione, dove ci sei tu, vivo, parlante, vero! Ora so che ho sbagliato ad andarmene, nonostante l’invito della signora Caterina e le tue insistenze! 

* * * 

La fredda morte lava in profondità le umane miserie, ma restituisce e mette in risalto quanto ci appartiene. Romano Cammarata ci viene restituito così com’era, integro, diamantino, nella bontà e nell’umiltà che gli erano proprie e che lo distinguevano dovunque, nella vita privata e in quella pubblica, al Ministero della P. I. o tra gli amici. Dovunque egli s’imponeva con l’autorità della sua persona, equilibrata, formata da un’esperienza di vita di dolore e di studio intenso, nobilitata dall’arte, e non mai con l’autorità della carica che rivestiva: suo motto era privilegiare l’uomo, ridargli la dignità, smussare i contrasti. 

Di qui il grande amore per i giovani e per la scuola, per cui spese le energie migliori. Romano Cammarata viveva la scuola: e guai a parlargliene male, guai a chi non mostrava un minimo di apertura ai problemi di cui essa oggi si fa carico. Agli uomini politici e di governo rimproverava l’averla gettata allo sbaraglio, a quelli di scuola l’inadeguata preparazione, la demotivazione, l’assuefazione ai luoghi comuni, l’attesa di magiche soluzioni venenti dall’alto, quando nella libertà delle scelte si può lo stesso operare e trovare soluzioni fattive e utili al bene comune. 

Le indicazioni – era solito dire – vengono dall’alto, ma devono essere i presidi, gli insegnanti a gestirle e calarle nella realtà dei vari istituti. E biasimava la chiusura mentale di tanta gente chiamata a gestire la scuola! 

Così sfogava la sua rabbia: ma era solo nei momenti di sfogo, perché trovava sempre le parole più inoffensive per dire le cose senza pesare, senza aggredire. E in questo era un gigante buono, un uomo forte, temprato dalla sofferenza, che comprendeva gli uomini e li amava di un amore profondo e, potendolo, li aiutava, rivolgendo, magari, una parola buona, di quelle che si dicono con il cuore e rimangono impresse per sempre. 

Il dolore gli aveva acceso il fuoco della poesia: e poesia è anche la sua prosa, dove le parole sono misurate e dense di significato, tanto che molte pagine vengono aformare lo splendido volume di poesie che è Per dare colore al tempo. E Romano Cammarata ha dato colore al suo e al nostro tempo, andando sul filo della memoria a rintracciare «i fantasmi buoni-, a rincorrerli, nel tentativo ben riuscito di catturarli per sempre, e restituirli alla terra, alla sua terra a cui tanto era legato e per cui soffri nei momenti di maggiore tensione e, di più, quando tristi eventi la martoriavano, facendola apparire agli occhi del mondo come una terra dove esiste e si coltiva soltanto il male. 

Romano Cammarata amava di un amore filiale immenso la sua Isola e dedicò tutto se stesso per contribuire insieme ai tanti a riscattarla e presentarla al mondo per quella che è: terra generosa, ricca di colore e di sole, aperta ai contatti come è aperta al mare. E inveiva persino contro i pitoni nostrani, i quali spesso, allontanatisi dalla Sicilia, s’atteggiano a vati sproloquianti, dimentichi della realtà e della storia millenaria, che è freno ed è anche condizione per lo sviluppo sociale e per l’integrazione con il resto della Penisola. 

* * * 

Il nostro augurio è che il tuo ricordo, Romano, rimanga impresso nella mente di quanti ti conobbero e ti stimarono per quello che sei stato, per i tuoi scritti, per la tua poesia, per la tua arte, inconsueti e densi di umanità vera, senza fronzoli, bella. Che il tuo insegnamento abbia un séguito e sia di sprone a quanti vogliono che il bene predomini in una società più giusta e più umana, come speravi e volevi che fosse. E, per tutto questo, che tu rimanga sempre vivo in noi, a guidarci, a consigliarci, a volerci bene, perché possiamo con il tuo aiuto continuare i lavori intrapresi, a cui tenevi molto, e che speriamo vengano al più presto alla luce e onorare cosi la Sicilia che tanto amavi. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 3-4.




 Editoriale 

Siamo pienamente convinti che alla base di ogni assunto giornalistico debba esserci l’esigenza di un’informazione sana e coscienziosa che rispetti la dignità professionale e il lettore. Anche perché ogni devianza è una forma di sottile violenza che si riflette non solo sul diretto fruitore, ma sull’intera collettività. 

«Carte false. Fare carte false. Spacciare carte false. Sempre di più, il giornalismo italiano appare così: un mestiere che maneggia troppe carte truccate, un mestiere che tradisce se stesso». Giampaolo Pansa sembra un po’ esagerato, eppure dice la verità. 

Sfogliando i giornali, si costata con amarezza che spesso, più che informare, confondono, e quello che un giornalista ha detto il giorno prima, da lui stesso viene sconfessato il giorno dopo. È vero che c’è libertà di stampa e di opinione, ma questa libertà non va confusa con la faciloneria e la superficialità, e la notizia non deve essere mai frutto di fantasia. 

Tanto per dirne una, all’amico e scrittore Rosario La Duca vengono attribuiti, in un noto giornale regionale, presenza e intervento ad un seminario a cui non ha mai partecipato, perché ricoverato in un ospedale palermitano. 

La notizia ha suscitato scalpore e una protesta con lettera al Direttore sottoscritta da amici e frequentatori dello scrittore. 

Non sappiamo che esito abbia avuto l’iniziativa, ma – comunque sia – l’accaduto è indice di malessere e di crisi; e questo è grave, perché un giornalismo del genere è nocivo e sarebbe meglio se non esistesse. 

Gaspare Li Causi 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pag. 3.