Ventunesimo anno 

«Spiragli» entra nel 21° anno. Fondata nel 1998, la rivista continua, pur nelle difficoltà dei tempi, le pubblicazioni, con dignità e con orgoglio: con dignità, poiché non abbiamo elemosinato niente a nessuno, e con orgoglio, se l’abbiamo vista crescere portando avanti la sua linea editoriale in libertà di scelta. In questi anni abbiamo cercato di rispettare il programma che ci prefiggevamo, cioè, contribuire a dare un apporto di crescita culturale alla società, per ripristinare quei sani valori che danno fiducia nella vita. Per questo motivo, noi diamo valenza all’arte, alla letteratura, alle scienze umane, sicuri che da esse possiamo trarre linfa per costruire un vivere migliore. Scrivevamo allora: «Spiragli è una rivista libera, fuori da ogni condizionamento di parte e da fini di lucro. La motivazione che ci sostiene è prettamente culturale e nasce dall’esigenza di voler dire la nostra nel rispetto delle opinioni altrui. È, dunque, una rivista aperta a quanti sono animati da questi intenti che crediamo – nessuno escluso, operando nella buonafede – siano condivisi da tutti.» Crediamo di essere stati coerenti con gli impegni assunti, se da varie parti arrivano atte-stati di apprezzamento, con richieste di collaborazione, anche dall’ estero. E questo corrobora il proposito di continuare sulla strada intrapresa, dando voce a quanti, meritevoli, non necessariamente affermati, hanno qualcosa da dire in campo letterario, artistico e culturale. Ci prefiggiamo ora di incrementare la pe-riodicità delle pubblicazioni e la diffusione nelle scuole e nelle biblioteche pubbliche, e di ripristinare gli abbonamenti e la distribuzione nelle librerie specializzate. Con questi intenti e con tale spinta opere-remo: è un modo di dare senso alla nostra vita, facendo nostro quanto scrive il Poeta: si cresce in umanità, se si segue «virtute e canoscenza». Ringraziamo per il fattivo aiuto la prof.ssa Maria Di Girolamo, gli editori Renzo Mazzone e Donato Accodo, e quanti collaborano per rendere la rivista sempre più fruibile e interessante. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 2.




Una lezione di grande umanità 

 Gentili Signore e Signori, 

Innanzitutto, devo personalmente dire grazie al direttore Cammarata, perché ha accolto con piacere il mio invito, e devo dirgli ancora grazie – e gliene do pubblicamente atto -, perché le sue opere, oltre a costituire motivo di studio, mi hanno arricchito moralmente e socialmente. 

In una delle prime “Taratalle” apparse su Spiragli, il prof. Davide Nardoni, ricorrendo alla Filologia Sperimentale, spiega come la parola “poeta” significhi “qualificatore”. 

Ebbene, se poeta è “colui che qualifica”, diciamo che stasera abbiamo l’onore e il piacere di avere con noi un grande qualificatore, un vero poeta: Romano Cammarata. 

Forse, molti dei presenti lo conoscono come l’autore delle lettere piene di umanità che di tanto in tanto pervengono dal Ministero ai dirigenti e ai capi d’istituto. Ma ai molti impegni che la carica di Direttore Generale comporta, Romano Cammarata abbina il suo silenzioso lavoro di artista che lo colloca tra i più accreditati del nostro tempo, e con le sue opere, alla stessa stregua di tanti altri grandi (dall’antichità ai giorni nostri), qualifica gli uomini e la loro condizione esistenziale. 

Si leggano, ad esempio, alcune liriche (Notte siciliana, Presente, Nel circo di notte, Dalla finestra, Amo tutto ciò che scorre). Si possono evidenziare, in questi pochi esempi, tante di quelle motivazioni che da sole basterebbero per intavolare un lungo discorso. 

Ma io non voglio dilungarmi, perché è giusto, in questa sede, sentire la viva voce dell’Autore. Pertanto, rimando, per una più ampia conoscenza dell’uomo e dello scrittore, al mio saggio, fresco di stampa, che porta il titolo di: Arte e vita nelle opere di Romano Cammarata, (*) e mi soffermerò, invece, su “Violenza, oh cara”, l’ultimo suo romanzo, evidenziandone l’aspetto didattico-educativo che nel mio saggio è accennato, come deve essere in uno scritto di un certo respiro, ma che qui merita una particolare attenzione. 

Fatta questa premessa, necessaria, devo dire prima di tutto che chi si accosta ad un’opera del nostro Autore rimane scosso e al tempo stesso affascinato: scosso per la verità del vissuto quotidiano che, specie in Dal buio della notte, porta al pianto e all’immedesimazione diretta col protagonista, affascinato per la compostezza formale, per la dignità di stile che la caratterizza, per cui – sin dall’inizio – vita e arte convivono senza alcuno stacco, e senza un minimo di sofisticheria. 

L’arte, in sostanza, in Cammarata, viene da sé, è qualcosa che nasce spontanea, senza – direi – cercarla. L’arte nasce da sé, perché è il vissuto che assurge a dignità artistica, venendo incontro all’intima esigenza dell’Autore di esternare agli altri il mondo che si porta dentro, per “qualificare” meglio se stesso e gli uomini. 

Il vissuto di Romano Cammarata è quello con cui tutti quotidianamente facciamo i conti; in poche parole, quello della condizione dell’uomo di oggi arroccato nel suo “io”, perché “fuori” predomina il male: da una parte dovuto alle malattie che silenziosamente mietono tante vite umane, dall’altra, alle ingiustizie e ai soprusi che disorientano gli animi e li reprimono. 

I personaggi del nostro Autore reagiscono a tutto questo: Andrea di Dal buio della notte lotta, e vince il male che lo ha deturpato nella persona, ma al tempo stesso lo ha arricchito nello spirito, facendogli ritrovare una “umanità nuova”; Agostino Bertoni di Violenza, oh cara sfida lo Stato, uscendo dall’anonima solitudine dell’uomo qualunque e riscopre il mondo degli affetti più puri e gli altri. 

In fondo, in ambedue i protagonisti, si tratta di violenza subita, una violenza, però, che ha un risvolto positivo. E appunto per questo, diviene cara, perché, ottimisticamente, e in concreto, il male non viene per nuocere. Ecco la giustificazione del titolo. 

Il dettato è sempre lineare, ma con diverse gradazioni della voce, perché venga sentita e apra delle brecce che abbiano un seguito nell’operato dei lettori. Sicché l’aspetto didattico-educativo è esplicito e manifesto, anzi è il vero movente che spinge Romano Cammarata a scrivere. D’altronde non può essere diversamente in un uomo di scuola come lui. 

Ma veniamo a Violenza, oh cara, il romanzo su cui mi voglio soffermare. 

Un abbaglio della Giustizia porta in carcere Agostino Bertoni, da un po’ di tempo pensionato e vedovo, con l’unico impegno di accudire alla cagnetta Eva. Per il resto, una vita piatta e monotona, non invidiabile, che viene interrotta tutto d’un colpo. 

Agostino, in un primo tempo, reagisce, ma subito comprende che non ne vale la pena, visto che, senza un dialogo che avrebbe potuto essere chiarificatore, lo si accusa di sequestro, con prove alla mano. Questo modo di agire dell’autorità lo spinge a non difendersi: che sia il giudice a provare la sua colpevolezza; lui se ne starà a guardare. 

Il dialogo: se tutti vi ricorressimo, tanti mali verrebbero meno. Anche se è risaputo, non sempre è così. Agostino ci dà una grande lezione e ce lo fa riscoprire, pagando lo scotto della violazione del suo diritto alla vita. E farà quello che gli altri spesso non fanno: chiudendosi alla Giustizia, si aprirà a quanti vengono in contatto con lui, e parla e dialoga, scoprendo così la vera essenza della vita. 

Agostino, in carcere, conosce quello che doveva essere l’avvocato d’ufficio e che, invece, diverrà il suo difensore di fiducia e amico. È bastato un breve colloquio, perché Mauro Fonti, così si chiama l’avvocato, venga attratto dalla forte personalità di lui, ne accetti il comportamento, e ne condivida le idee che, il caso vuole, coincidono con quelle del padre, fino a quel momento contestate. 

«Mio padre, che ora è in pensione, l’abbraccerebbe. 
Quante volte ci siamo scontrati per il suo modo di pensare, per quel suo concetto della dignità, per quel non voler 
scendere a compromessi, ed erigersi a giudice egli stesso. 
Ma si sa, è mio padre, e come sempre avviene, è diffìcile 
comprendere i propri genitori». […] 
«Credo che stasera farò felice mio padre, perché lo 
saluterò con più rispetto e credo che sarò più in grado di 
comprenderlo, di ascoltarlo. Grazie per questa lezione». 
Un contrasto generazionale, come questo tra padri e figli, viene così risolto nel giro di poche battute, grazie al contegno onesto e disinvolto che Agostino tiene nei confronti del suo interlocutore. 
Agostino Bertoni convince con la forza della parola, col ragionamento; e prima 
di esporre agli altri le sue idee, già le ha vagliate al lume della sua esperienza, le ha meditate, bandendo il superfluo e l’incerto. Perciò agisce con la sicurezza di chi è convinto, ma non impone mai i suoi convincimenti con l’autorità dei suoi anni. 

Il bello di questo protagonista è tutto qui. Ed è in personaggi così riflessivi e responsabili come Agostino o Andrea che il lettore trova esempi di coerenza. La loro parola scava in profondità e lascia un segno che non si può dimenticare. 

I personaggi sono veri e nonostante il loro status, ognuno di essi ha qualcosa di buono, o di “bello”, volendo usare una parola cara al nostro Autore, che spinge al bene, e nessuno sarà per il male, perché in Romano Cammarata il male non è nel singolo; è nelle circostanze che la vita associata presenta. Sicché l’uomo ne è una pedina. Dopo, magari, diverrà soggetto e oggetto del male, ed è allora che farà fatica ad uscirne fuori. 

Carlo, il giovane recluso con cui Agostino stringerà amicizia e colloquierà durante la sua detenzione, ce ne offre la prova, ma ci dà anche la prova di una grande abnegazione e di un sentito rispetto per gli altri. 

«Secondo lui [l’avvocato], per una valida difesa, è la 
società che bisogna tirare in ballo, con il suo permissivismo, 
il consumismo; la famiglia per un’educazione sbagliata. la 
noia, il benessere eccessivo, e quindi il disprezzo accumulato 
per tutto questo nel periodo delicato della crescita». 

Carlo non condividerà l’impostazione di una siffatta difesa che, pur di trovare le attenuanti, vorrebbe coinvolgere la sua famiglia, a cui niente ha da rimproverare, e la società. Quando, poi, saprà dell’ingiustizia che l’amico Agostino subisce, allora correrà subito dal giudice e si autodenuncerà, scagionandolo da ogni accusa. 

Una lezione di grande umanità che sembra riportarci indietro nel tempo, ma che l’Autore crede possibile anche ai nostri giorni con un ritorno effettivo all’uomo. Sicché Cammarata ci scuote: sta a noi, ognuno nel nostro piccolo, operare nel bene. Allora il mondo tornerà a sorridere. 

Volendo così tirare qualche conclusione, a proposito dell’aspetto didattico-educativo di Violenza, oh cara, dobbiamo dire che al Nostro sta molto a cuore la famiglia che, nonostante il capovolgimento dei valori a cui giornalmente assistiamo, è basilare per la convivenza sociale e, perciò, va tutelata e difesa. 

In Violenza, oh cara, la famiglia dell’avvocato Mauro Fonti ne esce rinsaldata, difesa l’altra del giovane Carlo, tutelata e rinvigorita dall’amore quella che lo stesso Agostino metterà su quando meno se l’aspetta. Sì, perché uscendo dalla solitudine Agostino riscoprirà anche l’amore vero. 

Ma Romano Cammarata non ce la ripropone soltanto in Violenza, oh cara; questo della famiglia è un tema ricorrente negli altri suoi libri. Si veda, ad esempio, Per dare colore al tempo, dove qua e là riaffiora l’amore coniugale e paterno. 

«La mano ricadde ancora piena 
del gesto di addio. […] 
Il sapore struggente 
di quell’abbraccio di sposa 
e di quello festoso e leggero del bimbo! 
Sapeva di primavera quell’abbraccio 
come le margherite raccolte nei campi 
a riempirmi il cuore e le mani». 

Oppure, si veda ancora il suo primo libro: Dal buio della notte. Qui Andrea riscopre nella figura del padre l’amico sicuro che lo incita alla lotta, perché – dice – ognuno di noi appartiene a quanti ci vogliono bene. Sicché Andrea reagirà e l’amore filiale corroborato vivificherà ancora di più l’amore per la famiglia. E quando Andrea, svegliatosi dopo un ennesimo intervento chirurgico, scorge la moglie che, stremata, aveva preso sonno chinata su di lui, carezzandola leggermente, dirà: «Povera Francesca, […] e io egoista che ho desiderato di andarmene, di lasciarti». 

Le opere di Romano Cammarata, come un terso specchio d’acqua, da cui si dipartono tanti cerchi concentrici, allargano e sviluppano tematiche facilmente riconducibili tra loro. 

Il tema della famiglia, riproposto in modo diverso nelle sue opere, è solo un esempio, ma !’insegnamento di Romano Cammarata non finisce qui, perché investe l’uomo nella sua complessità. Sicché potremmo ricordare tanti altri temi, come quello della libertà individuale, soprattutto quella morale e, di conseguenza, quello del comportamento dell’uomo di fronte alla violenza. 

Questo della libertà morale è presente in maniera più manifesta in Violenza, oh cara, dove l’alto senso dell’umana dignità caratterizza e delinea, meglio che gli altri, la figura di Agostino che già, sin dalle prime pagine, si rivela un uomo di tutto rispetto. 

Come esempio, si legga la pagina dedicata ai randagi. Un cane che va sicuro di sé e, incurante degli altri, dà ad Agostino lo spunto per parlare di certi individui che, pur di farsi avanti, si arrampicherebbero sugli specchi, niente avendo della dignità del cane. 

C’è da dire che i personaggi di Romano Cammarata sono di tutt’altro stampo. Addirittura hanno vissuto esperienze veramente brutte. In un modo o nell’altro hanno sperimentato, a proprie spese, la vita con i duri colpi che essa riserva, e hanno reagito tenacemente fino a raggiungere i loro scopi. E tutto questo non è forse di sprone per la realizzazione di una personalità coerente, per la partecipazione e per la presa di coscienza della realtà di cui facciamo parte? 

L’uomo deve aver fiducia ed insistere nella rivendicazione di quei valori che danno un senso al vivere. E da uomini come Agostino Bertoni o Andrea ci viene questa grande lezione che apre, ottimisticamente, alle aspettative e agli altri con un forte senso di responsabilità e di attaccamento alla vita, la quale va affrontata senza titubanza alcuna, e vissuta, perché veramente, così agendo, ne vale la pena. 

Salvatore Vecchio

(*) “Spiragli”. A. IV (1992) n. l, pagg. 13-35.

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 7-12.




 Ricordo di Nello Sàito, utopista anarchico 

L’amara eloquenza del silenzio dello scrittore, così è stata intitolata una lettera che Nello Sàito inviò al «Manifesto» e alla redazione di «Spiragli» e fu pubblicata nel n. 1-4 del 2005. Quella lettera, che sprizza uno sviscerato amore per la Sicilia, sembrò premonitrice di qualcosa d’infausto che cercammo di fugare, pubblicando in quello stesso numero il saggio: Sàito narratore. Un omaggio all’uomo, per dire che non era solo e, soprattutto, un omaggio allo scrittore che nella parola scritta credeva e la professava. 

Nello Sàito, uomo e scrittore, non sopportava la chiusura, il conformismo del senso comune e voleva che si ragionasse seriamente per assumere posizioni nette, precise, che facessero valere l’uomo nella sua individualità e nel suo essere profondo. Voleva che ci si battesse per ciò che nobilita la vita e rende veramente liberi da ogni asservimento cui la modernità spinge con insistenza. Utopia? Può darsi. Ma questo era l’ ideale della sua vita, il sogno per il quale lavorò fino all’ultimo e si batté, a costo di essere solo, di non essere ascoltato e seguito; sogno a cui, novello Bruno, fu abbastanza coerente, tanto da continuare nella sua amara eloquenza. Sì, amara, perché il suo eloquio, più che aprirlo, lo chiudeva, limitandone l’azione, e i molti, tesi solo all’utile, s’allontanavano e di Salvatore Vecchio gli chiudevano le porte, restii a pubblicare i suoi scritti, perché la verità fa male. 

Eppure, nel suo silenzio, continuò a lavorare e a pubblicare (anche in proprio), diffondendo il frutto del suo ingegno tra quanti gli erano rimasti vicini e gli amici, che pure gli volevano bene, come fece con Lutero oggi, in cui riporta una puntuale traduzione di un saggio del riformista del 1545, sconosciuto in Italia. Così, indomito, portò avanti le sue battaglie, anche quando il dolore, che da tempo lo travagliava, non lo lasciava più un istante. Perciò, pochi giorni prima di morire, poteva scrivere: «La staticità della nostra esistenza è la nostra condanna. L’utopia anarchica è la nostra ancora di salvezza.» La caparbietà, che non lo fece scendere mai a compromessi, gli fu di aiuto nel perseguire il sogno di tutta una vita, quello di un nuovo rinascimento in cui l’uomo potesse realmente realizzarsi nella libertà e senza alcun condizionamento. 

Di origine siciliana – il padre era di Licata (Agrigento), la madre di San Cataldo 

(Caltanissetta) – Nello Sàito era nato a Roma nel 1920, ma si considerò sempre, come risulta dalle sue opere, siciliano, ultrasiculo, e non mancò occasione per tornare nella sua terra, sia che si trattasse di un convegno pirandelliano o di un esame di Stato. Portò la Sicilia nel cuore e nella mente, guai a parlargliene male! E andò contro quegli scrittori che, per avere credito tra i lettori, evidenziano sempre i lati brutti, contribuendo a dare di essa un’immagine falsa e stereotipa. 

Laureatosi giovanissimo all’Università «La Sapienza», ottenne alcune borse di studio che gli permisero di andare a Berlino per perfezionarsi in lingua e letteratura tedesca; qui, nel 1942, ricevette la visita dell’amico Giaime Pintor, altro giovane promettente di quella triste stagione di guerra. Tornato in Italia, fu assistente di Natalino Sapegno a Roma, poi professore di lingua e letteratura tedesca all’Università «Tor Vergata». 

Intensa fu l’attività di Nello Sàito in quegli anni. Pubblicò saggi e studi di letteratura tedesca (studiò Schiller, Goethe e i romantici tedeschi, ne tradusse altri, Brecht, Kleist, Lutero) e si diede al giornalismo che – come lui stesso scrive – aveva nel sangue. Ai primi anni ’40 risale la collaborazione a «Roma fascista» (cui collaborarono tanti altri che passeranno a sinistra o saranno considerati tali, come Giaime Pintor), a «Primato», a «Il mondo» di Mario Pannunzio e a vari altri giornali. 

Come scrittore, Sàito esordì nel 1948 con il romanzo Maria e i soldati, che gli valse l’attenzione della critica e il «Premio Vendemmia». Questo romanzo, ripreso 

e ritoccato, venne ripubblicato nel 1970, conservando quella novità e freschezza di invenzione che lo rendono originale, per non essere caduto nella mitizzazione della Resistenza in cui tanti incapparono, visto l’abuso che in campo letterario se n’è fatto. 

Un altro romanzo, Gli avventurosi siciliani, è del 1954, pubblicato da Vittorini nella collana «Gettoni» di Einaudi. Se Elio Vittorini, da buon siciliano, vide bene in questo romanzo, spaesati si trovarono i critici, perché Sàito portava avanti un discorso a due angolazioni, per certi aspetti nuovo, ma tendente a dare della Sicilia un’immagine più rispondente al vero. 

Lo scrittore individua nuove strade e vi rimane coerente, tanto da ripercorrerle con maggiore sicurezza e maestria. Il romanzo Dentro e fuori (1970) è apparentemente diverso dal precedente, perché ne continua il tema ma lo svolge con più consequenzialità. La Sicilia acquista una fisionomia diversa, a seconda se si guarda da dentro o da fuori. Unanime fu il riconoscimento; finalista al «Premio Strega», sempre nello stesso 1970, ottenne il «Premio Viareggio». 

Contemporaneamente alla narrativa, Sàito si diede anche al teatro. Già nel 1969 aveva scritto la commedia I cattedratici ed altre ne seguiranno. L’autore affronta il tema dell’Università in modo critico e accusatorio (Il maestro Pip, 1971), della morte (La speranza, 1978; Déjeuner sur l’erbe, 1980; Com’è bello morire, 1986), delle libertà negate (Copione, la rivoluzione è finita, 1971; Il Pinocchio studioso, 1991). Si tratta di temi attuali, svolti in modo distaccato, umoristico ma non cinico, perché la dolente umanità dell’autore si dipana e tende a nuovi approdi, all’utopia, sede di libertà e di piena realizzazione. 

Quattro guitti all’ Università, pubblicato da Bulzoni nel 1994, è un romanzo che riprende il tema della scuola e degli studi accademici. Ancora una volta, lo scrittore va contro quei cattedratici che si chiudono in sé e non pensano alla funzione educativa dell’insegnamento. Sàito, che conobbe bene il mondo dell’Università, usa parole dure e ritiene i professori responsabili di tanto degrado in fatto di cultura e di società. 

L’ultimo romanzo è Una voce, pubblicato da «Terzo Millennio» nel 2001 ed è, a parere nostro, il romanzo di una vita, perché c’è tutto Sàito, uomo e scrittore, fresco di inventiva, essenziale, profondo, convincente, sprizzante di utopistica anarchia e un sentito bisogno di rendere l’uomo più consapevole e responsabile, capace di puri sentimenti. 

Nello Sàito se n’è andato il pomeriggio del 16 ottobre 2006, in un silenzio nel quale lo accompagnava l’autunno romano, mentre le foglie degli alberi, stremate dalla lunga calura dell’estate, resistevano senza fare rumore. E per la cronaca, mentre, per suo vivo desiderio e per la disponibilità dell’editrice I.l.a. Palma, andava in macchina una nuova edizione della sua frizzante pièce teatrale Il Pinocchio studioso, col vivace monologo finale Il Pinocchio avventuroso. Egli se n’è andato con la parola «Gesù» sulle labbra e la mano nella mano della moglie, come aveva desiderato. Così cessava di vivere la sua vita terrena il fustigatore dei cattedratici e dei politici, l’utopista anarchico, lasciando i suoi scritti e l’esempio di una dirittura morale irreprensibile, vera, con un ‘idea alta dell’uomo e della sua dignità. 

Ora che Sàito non c’è più, venuta meno ogni remora, sarebbe il caso di rileggere le opere e di farle conoscere come una parte di noi che, emergendo, si accetta e si ama. La sua opera appartiene a tutti, per l’anelito di indipendenza e di libertà che trasuda, per l’aspirazione ad un bene condiviso, per il bisogno che è nell’uomo di farsi valere, al di là delle apparenze e delle mistificazioni che lo schiavizzano e rendono anonimo o insignificante. Essa tiene a precisare che la dignità è un bene da tutelare e difendere, a costo di fuggire o chiudersi nella solitudine, come fanno Enrico e Carla di Una voce, che fuggono da Roma cadente e decrepita, salvando sé stessi e la propria umanità, ritrovando il loro essere autentico e vivo. 

Ma, a parte la sua significativa presenza nella letteratura e le prese di posizione nel dibattito politico-sociale, Nello Sàito fu un siciliano rispettoso della sua terra, sempre orgoglioso delle sue origini, pronto a difendere in ogni occasione e, al momento opportuno, altrettanto pronto a denunciare le negatività che oscurano l’immagine della Sicilia e la rendono refrattaria ai cambiamenti; e la sognava autonoma, spiritualmente indipendente, sovrana come nell’antichità, al centro del Mediterraneo, un’altra Svizzera, gestita da uomini non condizionati da politiche centriste ma da siciliani veraci e intelligenti. Questa la sua sicilianità, bella, sinceramente sentita e apertamente dichiarata. 

Vorremmo che Nello Sàito venisse ricordato anche per questo, ma, prima di ogni cosa, che la sua opera fosse conosciuta, perché lo scrittore, il commediografo, il saggi sta, possano emergere nella vera luce e indicare ai lettori quei principi di indipendenza assoluta per cui valse (e vale) battersi una vita. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 3-5.




 Ricordo di Giovanni Salucci 

Giovanni Salucci, scrittore, poeta, nostro collaboratore (faceva parte del Comitato di redazione di «Spiragli»), è morto dopo un ricovero ospedaliero. Aveva 83 anni. Era nato nel 1925 a Scurcola Marsicana, frazione di Cappelle dei Marsi (L’ Aquila). 

Trasferitosi giovanissimo a Roma, dove, avendo avuto come maestri De Ruggiero e Sapegno, conseguì la laurea in Lettere e Filosofia, lavorò presso il Ministero dei Beni Culturali e ambientali, occupando la carica di dirigente superiore e ispettore generale. Scrisse vari romanzi e saggi (La lampada rossa, La mafia dietro la scrivania, Bibbia, Vangelo e Corano) e poesie, che denotano una fine sensibilità e un’aspirazione ad un mondo più giusto e umano. 

Donato Accodo scrive in un suo profilo critico: «Come in Silone, è viva in Salucci una profonda sete di giustizia, un’aspirazione non retorica ad un mondo, dove domini il rispetto per la creatura umana e sia posto al bando il sopruso, la prevaricazione, l’egoismo. È vivo in lui, come nell’altro, anche il senso dello Stato e di qualunque struttura sociale (sia essa laica o confessionale) come organizzazione al servizio effettivo dei bisogni, delle esigenze del cittadino e dell’uomo e non a sua rovina. I tempi diversi in cui si sono trovati ad operare i due scrittori abruzzesi hanno dato una sfaccettatura diversa, un timbro diverso alla medesima ansia di riscatto, alla medesima fede in un avvenire migliore per tutti gli uomini.» 

Al di là di ogni giudizio sulla sua figura di operatore culturale, che può essere suscettibile di variazione, nell’arte come nella vita, Giovanni Salucci fu soprattutto poeta e vide sempre la realtà con gli occhi del fanciullo che era in lui. Di qui l’esigenza di conciliare i contrasti per ricondurli ad un bene comune e salutare per la pacifica convivenza tra tutte le genti. 

Bibbia, Vangelo e Corano trae spunto dalla sentita esigenza di cogliere le positività proprie di queste religioni per scongiurare ogni forma di fanatismo che spesso degenera nell’odio e nella guerra. 

Ne era fermamente convinto, e a questa idea dedicò gli ultimi anni della sua laboriosa esistenza. 

Per questo, e per quelli che lo conobbero e lo ebbero amico caro e disinteressato, Giovanni Salucci non è morto; egli vive in noi col suo sorriso, con le sue idee e il bisogno di condividerle. E, mentre siamo vicini al dolore della moglie Emma e dei due figli, esprimiamo l’auspicio di veder pubblicati i suoi inediti, perché possa essere conosciuto da un pubblico più vasto, e apprezzato, nei suoi valori ideali, come è giusto che sia.

Salvatore Vecchio

 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 51.




 Ricordando Mario Caruso

Mario Caruso se n’è andato per sempre e forte è il rammarico per non averlo saputo prima! Era un bravo educatore, un politico serio, un uomo disinteressato, e un prolifico scrittore. Sono doti non comuni che rendono grande l’uomo e lo fanno vivere in coloro che lo hanno conosciuto vivere nel ricordo di chi lo conobbe pronto a dare una mano per risolvere i problemi della gente. 

Egli fu un uomo socialmente impegnato, nel senso che per lui la politica era un modo per essere accanto a chi ha veramente bisogno di aiuto per riuscire a divincolarsi da tutte le difficoltà di ogni giorno. La sua era una battaglia contro il mal affare di tanti che depredano la cosa pubblica, trascurando il bene comune che solo garantisce un vivere sereno. Per questo era infaticabile, e tu lo vedevi dibattere sui canali televisivi locali i problemi e le anomalie che spesso ricadono sui più deboli e i bisognosi. Ma lo vedevi anche affrontare gli argomenti più disparati nei giornali che lui stesso approntava perché tutti venissero a conoscenza di quanto stava avvenendo in campo locale o nazionale. 

Noi ricordiamo l’amico Mario per questo, sensibile come fu a tutto quanto poteva arrecare beneficio alla sua gente, che amò con dedizione, sperando un avvenire migliore. Lo scrittore, autore di una trilogia ben costruita (Il balcone del professar Vicoplato, L’ascensore di Cartesio, Il ladro di sogni), valorizza l’uomo per quello che è con le sue aspirazioni e, inoltre, mette in berlina le nudità dei peggiori, spesso loschi profittatori, come i personaggi negativi di questi romanzi. 

Lo scrittore Mario Caruso, rivolge la sua attenzione al sociale, mettendo in guardia contro l’arricchimento illecito e lo sfruttamento. Questo è il messaggio che ci viene dai suoi romanzi, ed è anche un messaggio di speranza, perché, pur nell’amara realtà, l’ottimismo si fa strada ed affiora nei suoi protagonisti, che, fiduciosi, perseverano per farsi valere e vincere. 

Mario Caruso fu anche un educatore irreprensibile, perché credeva nella scuola educatrice. Alla base di tutto poneva l’educazione, sulla scia di Lambruschini e altri pedagogisti, mettendo sullo stesso piano l’istruzione, e dava importanza al rapporto docente-discente. La scuola, scriveva, «rimane il luogo ideale ove lo studente e il docente s’incontrano in un rapporto dialettico, un rapporto nel quale le posizioni devono essere chiare e trasparenti. Quello dello studente è uno status, non una professione; non ha una controparte nel docente, ma un esperto conoscitore del cammino che egli deve ancora imparare a percorrere. Lo faranno entrambi assieme, ed entrambi usciranno arricchiti da quell’ esperienza. 

Si delinea una scuola che deve puntare solo su ciò che le compete, scrollati di dosso gli orpelli, da cui viene aggravata, che la snaturano e la rendono distante a docenti e discenti. 

Ora Mario non c’è più e si sente la sua mancanza, nella scuola come nella vita, e grande è il vuoto che ha lasciato. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 32.




 Perché questa Rivista 

Ancora una rivista, qualcuno dirà! E, in verità, le riviste sono così tante che è difficile farne una sommaria enumerazione. 

Eppure ognuna di esse ha la sua importanza per il fatto stesso che si viene a garantire la pluralità dell’informazione ed ognuna, nel rispetto delle idee e nel campo che le compete, dà alla società un apporto di crescita culturale. 

Non è nostra intenzione soffermarci sulle tante argomentazioni che si potrebbero, a tal proposito, affrontare. Ci preme solo dire che la cultura è elemento indispensabile della vita democratica di una società e, perciò, va incrementata e sostenuta, perché il pullulare delle idee è apertura, dibattito, continua educazione al sociale. 

Spiragli vuole contribuire anch’essa al miglioramento della società. Il titolo è sintomatico sotto questo aspetto: e non ci chiudiamo egoisticamente nel nostro io, aspettando che siano gli altri a salvare il salvabile, e nemmeno critichiamo, addossando ad alcuni gli errori commessi. Come dice un poeta a noi tanto caro, tutti dobbiamo avere, invece, il coraggio di guardare. 

In un periodo in cui tutto sembra correre verso uno sfascio senza alternative, e la materialità è dilagante, si sente il bisogno di ripristinare quei sani valori di una volta che davano fiducia nella vita e la facevano amare. 

Nostra convinzione, e di quanti la pensano come noi, è che se l’uomo guardasse un po’ più dentro di sé, certamente ritroverebbe tante di quelle risorse positive, che ora sembrano del tutto assopite, e necessarie per cambiare in meglio lo stato in cui si trova. 

Consapevoli che bisogna adoperarsi, oggi più che mai, per perseguire il bene, non rimane che rimboccarci le maniche per recuperare il senso vero della vita: la famiglia, l’amicizia, il rispetto del prossimo… 

Questo è l’intento che anima i promotori e i sostenitori della Rivista, e per questo intento guardano fiduciosi alla letteratura, alle arti, alla scienza, alla scuola, ai problemi che li circondano, sicuri della loro importanza formativa e costruttiva insieme. 

Per questo diciamo che Spiragli è una rivista libera, fuori da ogni condizionamento di parte e da interessi di lucro. La motivazione che ci sostiene è prettamente culturale, e nasce dall’esigenza di voler dire la nostra nel rispetto delle opinioni altrui. È, dunque, una rivista aperta a quanti sono animati da questi intenti che crediamo – nessuno escluso, operando nella buona fede – siano condivisi da tutti. 

Con questi propositi, ringraziamo la Casa Editrice E.I.L.E.S. per il suo fattivo sostegno e rivolgiamo un caloroso saluto ai nostri Lettori che, come destinatari, invitiamo a collaborare con suggerimenti e con scritti, e a contribuire con abbonamenti, dando così segno tangibile della loro adesione. 

Ancora un sentito grazie e un saluto rivolgiamo a tutti i Collaboratori per aver accolto con tanto slancio l’iniziativa sicuramente interessante, ma irta di ostacoli e difficoltà, che possono essere rimossi soltanto dalla perseveranza nella schietta motivazione e dalla ferma volontà di riuscita. 

Il Direttore Responsabile 

Salvatore Vecchio 

da “Spiragli”, Anno I, n. 1, 1989, pagg. 3-4.




 Nel segno della cultura 

Signore e signori, buonasera, benvenuti a questa manifestazione e grazie per averci onorato della vostra presenza, qui in questo magnifico salone, gentilmente concessoci dall’amico e collaboratore J. P. de Nola. 

Sentitamente ringrazio il prof. Tommaso Romano per la sua esaustiva, interessante relazione che ha messo in risalto tutto il percorso della rivista nell’arco di questi venti anni di attività soffermandosi sugli aspetti che meglio la caratterizzano. Un grazie va all’amico editore Renzo Mazzone che da alcuni anni collabora fattivamente con noi, mettendo a disposizione anche la sua lunga esperienza editoriale per aiutarci a migliorare e rendere più appetibile “Spiragli”. E consentitemi anche di ringraziare mia moglie e mia figlia Rita che con molta pazienza mi aiutano e collaborano in questo non facile lavoro. 

Il titolo della relazione del prof. Tommaso Romano: «“Spiragli”, cammino di cultura» è indicativo, perché effettivamente la rivista è nata sotto l’insegna della cultura, come un bisogno soggettivo, una specie di paideia, di humanitas, che spingeva ad avere uno strumento per esternare qualcosa che ci portavamo dentro. Successivamente, essa assunse il significato di bildung e poi di kultur o civilization. Voglio dire che rientrò nell’accezione di cultura che integra l’altro e, quindi, globalizzante. 

A sfogliare tutta la produzione di questi 20 anni di attività l’impressione che abbiamo è proprio questa. Ed è un qualcosa di positivo, di speranza per tutti, perché solo progredendo nella conoscenza, possiamo augurarci il bene, che è garanzia del vivere civile; ed è un assunto che ci si poneva fin dall’inizio, guardando fiduciosi alla letteratura, alle arti, alla scienza, alla scuola, ai problemi che ci circondano. E lo abbiamo fatto sostenuti dal contributo di idee e di scritti dei tanti amici qui presenti stasera, e di tanti altri un po’ sparsi in Italia e nel mondo o di altri che non ci sono più a cominciare da Romano Cammarata, che ci fu molto vicino e seguì con interesse la rivista, poeta e scrittore, apprezzato per le sue opere esplodenti vita, pur essendo intrise di un dolore nascosto; Avelino Hernandez, lo scrittore spagnolo che cominciò ad amare e a riprendere nei suoi scritti la Sicilia; Davide Nardoni, filologo sperimentale che per diversi anni tenne la rubrica “La Taratalla”; e l’ispettore superiore dei BB. CC., nonché scrittore e fine poeta, Giovanni Salucci che collaborò e non mancò di sostenere anche finanziariamente la rivista. 

Fin dall’inizio, “Spiragli”, com’è nel sottotitolo, si è interessata di arte, di letteratura e di scienze, nella sua accezione più larga, e non ha mai tralasciato i problemi di attualità ha ospitato lavori sulla pace e anche quando ha trattato il problema della guerra, lo ha fatto per dire tutto il suo rifiuto, perché la pace va ricercata col dialogo e mai con l’uso delle armi. Si era nel 1989, alla caduta del muro di Berlino, e si pensava che le cose sarebbero cambiate in meglio, ma l’unilateralismo scoprì subito il suo volto negativo e alle tante guerre in corso in Africa e altrove se ne aggiunsero altre ancora più distruttive e micidiali. Proprio allora si è affrontato il tema della guerra, e quando si parlava di esportazione di democrazia, eravamo con altre voci che ritengono impossibile poterla esportare. 

Così altri temi di grande attualità come l’inquinamento o l’integrazione, allora come ora problemi aperti che aspettano una soluzione, se non si vuole arrivare all’irrimediabile o alla rottura con le tante popolazioni che chiedono aiuto ai Paesi occidentali. 

Uno spazio privilegiato è stato da sempre riservato alla Sicilia, alla sua storia, ai suoi uomini, grandi come lo è la loro terra, specie a quelli che l’hanno descritta con obiettività nel bene e nel male, a differenza di quanti la presentano in negativo. E se noi Siciliani siamo additati come mafiosi, non facendo alcun distinguo, si deve proprio alla propaganda negativa di questi scrittori che lucrano, dando un’immagine storpiata della realtà siciliana, dimentichi della stragrande maggioranza lavoratrice e onesta che sa – come scrive Dino D’Erice – che «il profumo della vita / è l’odore del frutto maturo / nato / dal seme / messo a dimora / con le nostre mani». 

L’attenzione maggiore di “Spiragli” è rivolta all’arte, alla letteratura, alla poesia, che aprono al bello e, volendo parafrasare le parole del poeta, «illuminano d’immenso», facendo recuperare il positivo che è in noi, l’umano che spesso è sopraffatto dal materialismo più deleterio o dai tanti “grandi fratelli” che dicono il marciume imperante nella società odierna. A tutto questo riparano la buona letteratura, l’arte, la poesia, capaci di risollevare l’uomo e fargli accettare la vita in rapporto amichevole con l’altro, materialmente lontano, di colore di pelle diverso, eppure vicino, simile, per sensibilità e aspettative. 

Per questo e a buona ragione, Heidegger aveva dato risalto alla parola poetica, perché dispensatrice di verità, aprendo all’essere e disvelandolo. Scrive: «Ma chi sarà in grado di rintracciare questa traccia? Le tracce, sovente, sono ben poco visibili, e sono sempre il retaggio di un’indicazione appena presentita. Essere poeta nel tempo della povertà significa: cantando, ispirarsi alla traccia degli Dei fuggiti. Ecco perché nel tempo della notte del mondo il poeta canta il Sacro». 

Un giorno, Avelino Hernandez, parlando di poesia in senso lato nel suo rifugio di Selva di Majorca, mi disse: «La poesia è una vecchia cieca e zoppa, eppure vede bene e cammina». Di qui l’esigenza di averla vicina e di nutrirsene, perché oggi più che mai, si ha bisogno di camminare sicuri e di vedere ciò che compete per realizzarci come uomini e come persone. 

Questo è il fine della cultura, e ad essa dobbiamo tendere, se non vogliamo rimanere schiacciati e “gettati nel mondo”, senza alcuno scampo. Ma oggi si tende a darle minor peso nelle istituzioni e ovunque. Non si vuole che le masse camminino con i loro piedi, che vedano e tocchino con le proprie mani la realtà che le circonda; non si vuole che siano consapevoli, perché alcuni, i pochi, possano continuare a manipolarle e gestirle, secondo piani ben precisi, studiati, ma sempre a loro vantaggio. Perciò non si pensa nemmeno lontanamente a sostenere e ad incrementare la cultura; piuttosto si promuovono quelle attività materiali che rendono dal punto di vista produttivo ed hanno subito un’immagine di ritorno lucrativa. 

M. Pomilio, a proposito della rivista, qualche mese prima di morire così scriveva: «…le intenzioni iniziali sono chiare. A lei, ai suoi collaboratori, auguro buon lavoro, e molto coraggio, ché ce ne vuole per far durare simili imprese». E, infatti, ce ne vuole! Tante volte siamo stati tentati di interrompere la pubblicazione, ma ne siamo troppo attaccati per abbandonare una creatura che abbiamo visto crescere e dare i suoi frutti. 

Certo le difficoltà ci sono, e sono tante; le intuiva G. Salucci, quando scriveva: «Mi dicesti che avresti chiarito, su “Spiragli”, le modalità di aiuto e di contribuzione per la rivista, ma non c’è niente. Non lo dico per me, ma per gli altri. Io, comunque, siccome sono convinto che iniziative come la tua vadano sostenute, oggi stesso ho inviato il mio modesto contributo». Si era nel ‘93, quando le leggi fiscali, penalizzando le piccole attività facevano chiudere tanti esercizi commerciali. 

Ora, a distanza di anni, stiamo vagliando alcune modalità di contribuzione per migliorare ancora la rivista e per dotarla di un sito che metta a disposizione di tutti il lavoro fatto e quello che si andrà facendo. 

La manifestazione di oggi vuole essere un momento di verifica, ma anche di confronto (pertanto, sono graditi eventuali vostri interventi), per meglio operare a favore di questa realtà che riscuote consensi per il taglio editoriale che le si è dato, per i suoi contenuti di largo interesse e per l’anticonformismo che da sempre la caratterizza, facendola non strumento di parte, bensì di crescita individuale e collettiva come solo la cultura sa fare. A questo tende “Spiragli” con l’auspicio che si avveri. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XXII n.1, 2010, pagg. 16-18.




 La ricerca artistica di Nino Martino  

Chi ha l’opportunità di conoscere Nino Martino si rende subito conto che è un artista riservato e di poche parole, ricco di sensibilità e di una dote che è di pochi: quella di saper plasmare e dare vita alla creta con forme e colori che niente hanno da invidiare a quelli della tela. Mi si dirà che l’arte della ceramica è antica quanto l’uomo e che proprio in queste parti (siamo a S. Stefano di Camastra) si consolidò più che altrove. 

La ceramica di Martino esula da ogni riferimento di indirizzo, perché, prima di essere fissata a fuoco nella materia e nei colori, è come meditata, cotta nel calore del suo animo con il cuore e con la mente. La sua arte è questa: un darsi, perché l’uomo ne fruisca non per puro godimento estetico che dice e non dice, bensì per trame un beneficio che lo porti a considerare la condizione umana e ad elevarsi spiritualmente. E ciò che ci vuole per dare un senso alla vita, per affrontare le contraddizioni che essa riserva, ed è ciò che troviamo nella tematica di Martino, ed espressamente fermate in due splendidi vasi: Le contraddizioni di Pandora, disegnati con un cromatismo ben dosato, o in Cavaliere senza nome, dove il tema ispiratore è il voler migliorare che è proprio dell’uomo, acquistare prestigio o nome, ieri come oggi. L’artista va con la sua ispirazione ai paladini antichi, ai crociati, che lottavano per una fede e, soprattutto, per affermarsi e imporsi. La ricerca di una propria identità è attuale, e oggi più che ieri l’uomo ha difficoltà ad uscire dal conformismo e dalla massificazione ed è destinato a rimanere solo. Il colore dominante è l’arancione che insieme con gli evidenzia questo cavaliere che Dante direbbe «sanza ‘nfamia e sanza lodo». 

Il colore e il segno sono frutto di una ricerca costante e di uno studio attento della natura e della vita che è in essa. Si veda Arabesque o Ampolla dinfinito, oppure La lunga notte di Pompei, dove i contrasti di colore e le scie infuocate delle lingue di liquida lava dicono la forza racchiusa nella terra, che può sempre esplodere, e anche la paura e le ansie che sono in essa, e il silenzio che accompagna questi stati d’animo. 

Ma quello che colpisce in gran parte di questa ceramica, siano essi vasi o piatti, sono le forme sottili e la tenuità dei colori, che riposano l’occhio e fermano l’attenzione dell’osservatore. Segni leggeri e colori riposanti, perché nel giuoco dei contrasti anche quelli forti acquistano un tono e una gradazione tali (Passione, Incantesimo, Lo spazio di Dionisio, La collana, Festa mobile, per citarne alcuni) per farsi apprezzare e diventare un piacere che l’animo distende e stimola.

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 50.




F. Oliviero, “BENATTIA” (Significato della vita, senso della malattia e processo di autoguarigione), Palermo, Nuova Ipsa, pagg. 227. 

 L’Autore è un medico specialista che, dopo una lunga esperienza nel campo medico tradizionale, si è dato alla medicina non convenzionale che gli consente di operare in sintonia con l’uomo-paziente, comunica agli altri l’importanza dello star bene, facendo riscoprire – come recita il sottotitolo- il Significato della vita, senso della malattia e processo di autoguarigione”. 

Benattia” è un neologismo, ed è il contrario di malattia (da male habitum); mentre, bene habitum è lo star bene in salute, che è consapevolezza, accettazione, gioia di vivere. 

Questo libro, che si compone di cinque parti, spinge a non trascurarci nella persona e a voler bene prima noi stessi, poi gli altri; perciò apre alla positività, condizione indispensabile per vivere nella pienezza la vita e stare veramente bene. Se questo è il libro, l’intento è quello di aprire una breccia nel muro di dolore e di sofferenza che condanna l’uomo, e restituirlo al senso della vita. 

Sapere è potere, ma potere è anche volere. Se noi vogliamo, possiamo cambiare noi e gli altri. Questo flusso vitale, che è condensato nella I parte del libro e, in modo particolare, in quella che viene detta “legge del cambiamento”, porta al recupero dell’ armonia fisico-spirituale necessaria per autoguarire, perché, scrive F. Oliviero, “è la persona che va guarita, non la malattia. Il corpo non si ammala, si adegua, per cui non va maltrattato”. 

Nella II parte del libro viene analizzata la malattia, come si sviluppa e quando. Grande importanza in tutto questo ha il pensiero, creatore di realtà, che ha dietro di sé una filosofia che va da Parmenide a Cartesio, fino all’idealismo, ad Heisemberg ed altri, che valorizzano e potenziano il pensiero. E la medicina orneosinergetica gli dà grande valenza, perché parte dal presupposto che si può ottenere ciò che desideriamo, solo se pensiamo di volerlo veramente. 

Più specificatamente, la fisica quantistica e l’energia dell’anima sono trattate nella III parte del libro. Inutile dire che dalla prima all’ultima parte, esso è scientificamente ferrato. L’Autore correda la sua esposizione con adeguati supporti scientifici, per cui, anche se il procedere è abbastanza discorsivo e lineare, non mancano i richiami alle acquisizioni della scienza e, in particolare, della fisica che lo convalidano. Il principio di indeterminazione di Heisemberg, il teorema di Bill, l’intuizione della risonanza morfica di Shaldrake, l’esperimento di Watson, occupano tante pagine, a supporto delle interazioni tra i campi mentali individuali e i flussi di energia che tendono ad armonizzarsi nell’Uno-Tutto. E questo grazie ad una sinergia di forze costruttive capaci di imporsi e di operare fattivamente. 

La IV parte del libro affronta il tema del tempo, una categoria abbastanza ricorrente nella filosofia e nella scienza del secolo scorso, a partire da Bergson a Husserl, da Heinstein ad Heidegger, fino a Bloch ed altri. Emerge, da una parte, che il tempo è relativo e indeterminato, dall ‘altra, che esso è presente e plurale, provvisto di armonia e di libertà sia per il singolo che per la colletti vita, per me e per gli altri. 

Quello che ai fini del libro interessa è l’importanza che al presente viene dato come “adesso”. Se il tempo non esiste, se non in noi (Agostino parla di distensio animi), bisogna vivere l”‘adesso” con intensità, perché in esso viviamo. Questa consapevolezza è alla base del nostro essere; perciò, bisogna vivere nella pienezza. Scrive Oliviero: “Eliminiamo il tempo dalla malattia (…). Lasciamo che 

ci costringa a entrare in un’ intensa consapevolezza del momento presente. Dobbiamo diventare alchimisti, trasformare il metallo in oro, la sofferenza in consapevolezza, la catastrofe in illuminazione”. Sono parole che danno coraggio e forza d’animo che spingono ad imporsi e a farsi valere. È evidente che cosi il rapporto medico-paziente cambia, cioè, il medico, o il paziente, non svolgono il ruolo tradizionale. La persona-medico ha a che fare con la persona-paziente. Un soggetto di fronte ad un altro soggetto. 

La V ed ultima parte è costituita proprio dalla “benattia”. Qui, più che altrove, è maggiormente presente il medico omeosinergetico. F. Oliviero espone i consigli tratti da esperienze di vita vissuta e dalla tradizione (orientale e non), perché il paziente-persona possa star bene, in armonia e all’unisono, con sé e con gli altri. Di qui il meccanicismo della “vita”, che ha in sé il suo insegnamento in: Vai, Insegna, Traduci, Ama. Una filosofia di vita, questa, che è anche di pensiero. Tante volte, a più riprese, viene data importanza al pensiero, che non sbaglia, mentre sono le parole che lo traducono in modo errato. Di qui un suggerimento che è a]Ja base di tutto: “Imparare a pensare”; e poi un inno alla vita che prende spunto dalla formula heinsteiniana della relatività, presa come formula di vita dell’uomo e dell’universo. 

L’argomentare è chiaro e abbastanza lineare, l’informazione è utile, oltre che interessante. Il libro ha una sua valenza umana e culturale e, per questo, lo consigliamo a quanti vogliono avvicinarsi di più alla vita per conoscerla meglio ed amarla. 

Salvatore Vecchio




 Editoriale

La tentazione che spinge alcuni a voler predominare sui molti ha sempre costituito pericolo per la collettività. È risaputo: eppure, mentre i problemi da risolvere sono tanti e tali da richiedere interventi urgenti da parte dello Stato e soluzioni durature, questi pochi, ricchi solo di soldi e delle loro idee tornacontiste, vengono al contrattacco per imporre la loro presenza e impinguarsi ancora di più. 

La corsa alla concentrazione e all’accaparramento delle maggiori testate giornalistiche di coloro che detengono il monopolio economico non può che farci temere e, al tempo stesso, protestare energicamente perché ciò non avvenga mai. È un male pestilenziale che va affrontato senza alcun indugio e curato, se non si vogliono evitare ritorni all’indietro e tristi conseguenze. 

La facoltà di pensare e di generare sempre nuove idee, e manifestarle agli altri per confrontarci e insieme costruire, è quanto di più bello e sano ci possa essere. Diversamente potremmo fare a meno di parlare di democrazia, anzi non ce la sogneremmo affatto, perché – velatamente o non – ci vieterebbero di palesare le nostre opinioni, avendo interesse, quei pochi, a far marciare tutti a senso unico. 

I detentori di capitali già ci condizionano abbastanza. Il consumismo, figlio di un progresso molto spesso apparente, servendosi di una pubblicità sfrenata e irriverente, ha modellato e informato i sistemi di vita e, incidendo moltissimo sulla personalità dell’individuo, ha creato valori così effimeri da farlo cadere in un vuoto senza fondo. Cosa avverrà se a questo, con la ventilata concentrazione dei maggiori organi di stampa, si aggiungerà un piatto conformismo mentale? 

Noi diciamo no a storture del genere e crediamo fermamente che le forze più genuine del nostro Paese siano contrarie ad un clima di stallo che non lascerebbe spazio ad alcuno e, tantomeno, gioverebbe allo Stato, venendo meno il dibattito dialettico, linfa salutare che nutre i suoi uomini migliori. E poi, che giovamento uno Stato trarrebbe da cittadini robot? Che senso avrebbe il costruire? E cosa costruire? Ancora, non sarebbe un ritorno indietro della democrazia, in un momento in cui i Paesi dell’Est europeo stanno finalmente assaporando i frutti delle libertà di comportamento e di pensiero? 

No, noi non crediamo che lo Stato possa permettere ad uno sparuto gruppo di persone di accaparrarsi il monopolio dell’informazione. Sarebbe come darsi una zappata sui piedi! Siamo convinti, invece, che debba esigere serietà e professionalità da tutti gli operatori del settore. La gente ha bisogno di conoscere i fatti come si verificano, non vuole menzogne e falsità, come quelle notizie che legge al mattino per sentirle screditate un’ora dopo. 

Alla base di tutto questo che non vuole per niente essere un discorso moralistico -la moralità prima di tutto è concretezza e obiettività – poggiavamo la motivazione che ci spinse a fondare Spiragli, convincendoci ancora di più che bisogna adoperarsi perché la libera informazione e la sana cultura, indispensabili elementi del vivere civile, siano patrimonio di tutti. 

Tenendo fede a quel programma e dando credibilità al simbolico nome della rivista, rinnoviamo il nostro impegno ad aprire nuovi orizzonti culturali, rivisitando con gli occhi della mente il passato per riscoprirlo e per meglio conoscere e spiegarci il presente. 

A tal proposito, rifiutiamo, quale sia la sua provenienza. il principio di autorità. Chiunque, nel rispetto delle idee altrui, deve esprimere le sue opinioni liberamente e senza condizionamenti, anche se possono cozzare con l’acquisito. Siamo convinti che l’uomo. venendo incontro alla sua sete di sapere, non può accettare passivamente quanto è stato via via sentenziato. Se è vero che bisogna essere disponibili a qualsiasi apporto, purché costruttivo, è anche vero che occorre avere il coraggio di mettere in discussione il discutibile. Vanno bandite, perciò, ogni sorta di «servilismo» e le assuefazioni culturali, in nome di una moralità capace di investire tutte le manifestazioni del nostro vivere sociale. Moralità che nel campo dell’arte trova sostegno nelle tradizioni, perché le innovazioni e le creazioni artistiche hanno bisogno necessariamente di un sostrato culturale che affondi le sue radici nel passato, se vogliono risultare credibili e resistere al tempo. 

Riscoprire il passato per spiegarci meglio il presente, dicevamo; e la società ha bisogno proprio di questo per migliorare. Nostro dovere è contribuire, affrontando i problemi e le questioni del momento con obiettività e determinazione, coerenti ai principi di umana solidarietà a cui tanto crediamo. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 3-4.