Per una legislazione sociale moderna 

 Politica e sovranità democratica 

Come l’intelletto racchiude il complesso delle facoltà umane che permettono di pensare e comprendere la realtà sociale, così la sovranità della democrazia, che costituisce l’essenza individuale della sua personalità, non dovrebbe divenire uno strumento manipolato dall’opera dei governanti e degli amministratori. 

In uno Stato di diritto, bisogna anche tener conto non soltanto delle situazioni particolari, ma soprattutto dei processi di trasformazione della società ed adeguarne le istituzioni all’ordine sociale e non viceversa. 

È detto nella costituzione che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, e la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione. Si è fatto in modo tuttavia che attraverso le alleanze politiche coni partiti essi finiscano per consolidare il potere. Sicché, «i diritti inviolabili dell’uomo» e la stessa sovranità democratica rimangono soffocati. Infatti, quale libertà ha la società quando in nome del popolo vengono emanate leggi non idonee che deteriorano la sua sovranità, e la mettono in condizioni tali da dover seguire una strada incerta e irta di ostacoli e difficoltà? 

Che forse in tali detestabili deviazioni, le regole del gioco non vanno democraticamente rivedute e corrette con l’adozione di adeguate misure? È dovere indifferibile riformare, restaurare il sistema delle elezioni politiche, specie allorché si avverte noncuranza verso la sovranità democratica. 

Se il voto di fiducia fosse espresso con maggiore consapevolezza e convinzione, il bene dell’inalienabilità della sovranità dell’elettorato non verrebbe compromesso. Purtroppo, quando si raggiunge il potere, non di riforme si vuole più sentire parlare. Ma certe cose, di fronte a risultati opinabili, bisogna pur dirle. Eppure sarebbe opportuno che l’elettore fosse posto in condizioni di dare il proprio suffragio ai partiti, non in base a interessi particolari, ma alla conoscenza di chiari schemi di programmi economici di generale interesse, visto che le ideologie vanno sempre più differenziandosi negli stati democratici di ben poco, come sempre più si va delineando nell’opinione pubblica. 

Se si vuole risanare lo Stato, sembra che sia decisamente tempo di cambiare il sistema. Nulla è più pericoloso del perseverare in opinioni che confondono e appesantiscono sempre più la situazione. 

Lo Stato democratico-repubblicano non ha ancora compiuto la sua opera sociale. Ciò in gran parte dipende dalla democrazia incompiuta. Le parole, i propositi, gli entusiasmi congressuali, stando alla realtà delle cose, lasciano il tempo che trovano. Non basta mantenere il potere, bisogna andare avanti. I bei discorsi, dosati alle circostanze, e lungamente applauditi, non bastano a superare la crisi del sistema. La stanchezza c’è e si vede. Questa è la verità. 

Si sa che chi governa, governa non per il proprio profitto, non per interessi particolari, ma per il pubblico bene. I sistemi obsoleti o astratti, che accrescono il deficit della finanza pubblica, vanno abbandonati. Il rispetto della sovranità democratica è inevitabile per ben governare. La politica non deve eluderla facendo un uso improprio della cosa pubblica. È potere anche l’esperienza che l’opinione pubblica si forma, altrimenti che democrazia sarebbe! È stato detto più di due secoli or sono dal maggiore teorico dello Stato liberale, Montesquieu, e dal grande filosofo Rousseau, definito il padre della democrazia moderna, che «la società è buona o corrotta nella misura in cui il potere politico la rende tale». 

Il male nell’individuo si forma in base ad esempi o al comportamento sociale che tuttora purtroppo manca di largo senso di solidarietà. Lo Stato repubblicano, nonostante i vari decenni trascorsi, non ha ancora completato la sua opera sociale prevista dalle norme costituzionali. 

Molte leggi sono state emanate, ma non ancora una basilare che riguardi il rispetto della sovranità dello Stato democratico. Le leggi e la politica tuttora sono lacunose. Manca lo strumento del tutto adeguato al progresso dei tempi e alla società che crescendo s’illumina e si rinnova. Si fa ben poco o nulla al fine di avere governi stabili. Infatti, nulla viene attuato per ridurre il quadro numerico dei partiti, visto che ognuno di essi non intende trasformare la propria autonomia. Anzi essi vengono sostenuti e forse incoraggiati mediante i finanziamenti erogati dallo Stato. Giustappunto perché inesorabilmente il gioco torna, per così dire, a vantaggio del partito più numeroso! 

Gli accordi di coalizione o di alleanza fra i partiti dovrebbero avvenire prima delle consultazioni elettorali e non dopo, visto che non vi è altro sistema per cambiare le cose. È assai difficile che un tale ordine nuovo venga instaurato. La situazione politica non potrà cambiare anche e soprattutto per quell’ambizione che divide gli animi, e quindi il partito imperante continuerà nell’ipocrisia che diventa socievolezza. E quindi le leggi continueranno a non rappresentare il consenso, l’espressione della vera, diretta democrazia. 

Mentre tali sarebbero se le leggi venissero fatte da un consesso di persone illuminate e capaci, appositamente elette in rappresentanza delle regioni o capoluoghi. Si avrebbero così, in nome della sovranità popolare, atti autentici della volontà democratica. Un organo di legislatori, straordinari sotto tutti gli aspetti, in età matura, indipendenti dai due poteri, parlamentare ed esecutivo, sembra sia il modo più efficace per salvaguardare realmente gli interessi congiunti della maggioranza e della minoranza, evitando ovviamente i cosiddetti «doppioni ripetitivi». 

I tempi ormai sembrano maturi per fare un concreto, positivo passo avanti verso il riconoscimento effettivo della sovranità democratica dello Stato sociale e di diritto. 

Occorre che sia soltanto la democrazia rappresentativa l’unica autrice delle leggi, se l’azione politica vuol riconoscere l’inalienabilità della sua sovranità. 

Umberto Villari 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 35-37.




 Artifex additus artifici

Nel dicembre del 1984, in un’aula della Facoltà di Magistero di Torino, con una sobria ed assai significativa cerimonia, in perfetta armonia con il carattere e lo stile di Ettore Bonora, amici, colleghi e scolari hanno voluto degnamente onorare il settantesimo compleanno dell’illustre studioso, presentando in volume alcuni suoi scritti sulla critica letteraria del Novecento: Protagonisti e problemi, Torino, Loescher, 1984. 

A primo acchito sembrerebbe che a tenere legata la raccolta di saggi e di note sia il dato cronologico (il Novecento), ma a ben guardare vi è una unità interna, una disciplina strutturale ed una metodologia essenziale che li stringe e li annoda in un corpus organico. 

Il volume che si avvale di una deferente presentazione e di una completa bibliografia degli scritti di Ettore Bonora apparsi in varie riviste fra il 1939 ed il 1984, è costituito da nove organici ed omogenei interventi: Benedetto Croce e la letteratura del Rinascimento, La drammaturgia settecentesca nella storiograjia italiana da De Sanctis a Croce, Il dibattito sulla letteratura dialettale dall’età veristica a oggi, Il Seicento “protagonista vero e immanente” dei “Promessi Sposi” nella interpretazione di Luigi Russo. Appunti per un ritratto critico di Mario Fubini, Fubini direttore del “Giomale storico”. Breve discorso sul metodo di Gianfranco Contini, Dalla storia della letteratura alla scienza della letteratura. 

Il lettore attento sa accorgersi dell’improba e meritoria fatica di rendere lucido, anzi traslucido e sintetico, il pensiero critico di un Benedetto Croce, di un Luigi Russo, di un Mario Fubini, di un Gianfranco Contini o di un Hans Robert Jauss; lo studioso esperto riconosce non meno velocemente l’attenzione impeccabile del lavoro, la cura scientifica nell’organizzare e conseguentemente esprimere, con sicura evidenza, in una scrittura controllatissima, un organico panorama di idee di tutta una attività critica che, dai nomi summenzionati, passa alle generazioni future alcuni principi motori della nostra indagine letteraria. Ciò avviene perché lo studioso, con la sagacia e l’acribìa che gli sono pressoché unanimemente riconosciute, non si limita a rendere conto doviziosamente del pensiero del critico che è oggetto della sua riflessione, ma avanza sovente nuove e sostanziali ipotesi, propone e indica delle soluzioni, per cui i saggi di un Croce o di un Russo acquistano in intelligibilità. 

Arte del chiarire e dell’integrare ai fini di una corretta interpretazione è da dirsi quella del Sonora storico della critica letteraria. Ed è un “maieutico” aiutare non solo a capire. ma anche ed essenzialmente ad avvicinarsi al critico di turno (ma sarebbe più giusto ai critici per la vastità del respiro esegetico dato all’argomento) con ben altri strumenti interpretativi, con ben altre cognizioni. In questo individuato ambito è legittimo affermare che l’autore sia andato oltre il proposito di essere il semplice storico della critica, perché la rara esperienza e gli approfonditi studi, uniti, oseremmo dire, ad una “naturale” vocazione critica, gli hanno consentito di compiere quanto maggiormente è auspicabile: nel chiarire il pensiero del critico, costruire sulla critica nuova critica (ci si perdoni la voluta iterazione del termine), non solo illuminando. ma altresì prospettando chiavi di lettura, e probabili soluzioni senza mai influenzame l’oggettività critica. 

Lo studioso appare quindi come il sempre più auspicabile artifex additus artljìci che nell’utilizzo delle forme agili evita la pedanteria e rifugge dall’accademia “pura”. E non è certo solo un caso se il volume si chiude con 

l’osservazione del Thibaudet: “Un libro di critica è vivo solo se suscita la critica, se tiene la sua parte in un dialogo, se comunica la sua vibrazione a un movimento che lo supera – vale a dire, insomma, se è incompleto, se porta il lettore a rettificarlo”. 

Una verità essenziale che il Sonora ha da tempo tesaurizzato nella sua integralità aprendo sempre un autentico e chiarificatore dibattito di idee ove è facilmente rilevabile l’avvertito bisogno di inverare con proprie convinzioni posizioni critiche che pur mantengono sovente inalterate le loro prerogative di validità. Ciò senza nulla togliere alla messa a fuoco delle posizioni e delle ragioni critiche da cui gli interventi erano scaturiti. Pertanto il senso del dibattito lievita nella ri11essione che si rivolge al testo problematizzandolo. 

Una capacità di lettura, quindi, aderente al testo e all’autore, ma nel contempo sostanzialmente dialettica: un saper leggere che il Sonora ha attinto dalla sua lunga esperienza di solerte studioso e di fine e sensibile interprete. Un leggere con volontà di collaborazione che rivendica alla critica il suo ruolo legittimo di crescita sociale e culturale additandone i caratteri peculiari su cui si regge e prospera: il confronto, l’integrazione e lo scontro di idee che ne garantiscono il progresso e ne legittimano la essenzialità. 

Rigorosamente calati in un preciso diagramma storico-critico questi studi tengono sempre in debita considerazione l’intero arco critico degli studiosi esaminandone l’opera specifica in una visione radiale e globale di insieme, rifuggendo da arbitrari e spesso fuorvianti estrapolamenti. Anche per ciò, a nostro avviso, i saggi sono altamente esemplativi di quanto l’intelligenza critica, messa a disposizione della serietà di lettura, pur se in un settore così complesso e vario come l’ermeneutica, diventi una proposta destinata ad inl1uenzare tutto un modo di fare storia della critica. Singolarmente esemplativi a tal proposito sono i saggi su Benedetto Croce, su Mario Fubini, su Gianfranco Contini e su Hans Robert Jassus, per non parlare della “querelle” fra il Garlanda ed il Pirandello sulla struttura dell’endecasillabo dantesco che appare quasi come un pretesto per una più ampia ed articolata discussione. Che dire poi della esemplificazione magistrale che il Bonora ci fornisce del pensiero di Luigi Russo a proposito del “Seicento protagonista vero e immanente” dei “Promessi Sposi”: “Il Seicento è il protagonista del romanzo non già per gli elementi storici, chè questo poteva essere ingrediente esteriore, impalcatura, scenografia del così detto romanzo storico, ma in quanto spirito, logica, gusto, vita morale”? Non minor pregio per sintesi e precisione ha il discorso sul metodo del “postcrociano” Contini, ove lapalissianamente si evidenzia che alla base della metodologia di uno dei maggiori rappresentanti della critica stilistica sta l’analisi della tecnica di uno scrittore e dell’organizzazione di un’opera, intesa come prodotto linguistico: analisi che si fonda su un attento esame delle varianti per individuare le direzioni di lavoro dello scrittore ed il processo formativo del testo. 

Sobrietà, chiarezza ed una singolare accuratezza informativa ne fanno un volume fondamentale sia per gli specialisti che per i lettori comuni di buona cultura che anche dal Sonora storico della critica riceveranno la conferma della sua onestà critica ed intellettuale (una dote che si va vieppiù rarefacendo nella larga schiera degli studiosi), sia nelle note dedicate al “maestro degno di essere ascoltato” (Fubini) sia nei saggi sul Croce, di chi proprio crociano il cento per cento non è, ma che certo sarebbe pronto (e noi con lui) a “bollare” di “imbecillità” chi pretende di ignorare l’entità notevole della sua opera di critico e i filosofo, e misconoscere financo “il gusto sicuro di lettore” e la essenzialità di non poche sue pagine. 

Anche questa, ormai assodata, onestà concorre a qualificare il Bonora come uno degli ultimi veri grandi maestri, accanto a quelli che sono stati oggetto della sua riflessione, da cui le giovani generazioni di studiosi possono copiosamente attingere sicuri di trovarvi gli stimoli necessari al loro non comune e faticoso impegno. 

Vito Titone 

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 41-44




 Lettera aperta al Ministro della Funzione Pubblica  Giustizia amministrativa e burocrazia statale 

Signor Ministro, mi rivolgo a Lei, con la certezza che vorrà dedicare appena qualche minuto a poche mie considerazioni sulla DECISIONE del CONSIGLIO DI STATO n. 659 del 26-6-1990. 

Nella stessa legge, tra l’altro: “A norma… della Legge 29-2-1980 n. 33, al Personale degli Enti .disciolti… assegnati ai Ruoli Speciali… presso ciascun Ministero… era garantita, prima del definitivo inquadramento nei Ruoli Speciali suddetti, una salvaguardia transitoria delle posizioni acquisite presso l’Ente di appartenenza… L’Art. 5 della Legge 10 luglio 1984 n. 301… deve essere interpretato nel senso di applicabilità retroattiva alla data di inquadramento nei Ruoli Speciali (Promozione alla qualifica di Dirigente Superiore), anche in assenza del relativo posto di ruolo nella tabella organica, mediante la istituzione di un posto in soprannumero (nel Ruolo Speciale), cui corrisponde la soppressione del posto nella qualifica di provenienza (Primo Dirigente) … “. 

Molti Ministeri (ad esempio: quello del Tesoro – Ragioneria Generale dello Stato – quello delle Finanze – quello del Commercio con l’estero) hanno già dato esecuzione a tale Decisione del Consiglio di Stato (altri sono in procinto di farlo), per tutti i dipendenti in possesso dei requisiti richiesti. 

Alcuni Ministeri (Sanità – Beni Culturali), per mancanza di serenità e di coraggio nell’assunzione delle proprie responsabilità, non sono stati capaci di prendere analoga, autonoma iniziativa, e hanno sottoposto il quesito al conforto di codesto Dipartimento, che, nella persona del Dirigente Generale, Direttore del Servizio V. Dr. Longhi in risposta ai quesiti stessi, sostiene con forza la infondatezza giuridica della Decisione del Consiglio di Stato, per concludere: “Si è quindi dell’avviso che alle richieste dei Dirigenti … debba essere opposto un assoluto diniego, anche a rischio di provocare un altro contenzioso…”. Come per dire: “Il Consiglio di Stato non è legittimato ad occuparsi di Giustizia Amministrativa e a prendere, di conseguenza, certe decisioni o, per lo meno, poiché ha sbagliato nel prenderle, io non ne tengo conto, a costo di obbligare i dipendenti a ricorrere all’infinito, dal momento che non terrei, naturalmente, conto neanche di una eventuale, ulteriore decisione favorevole. Potrei tenerne conto soltanto quando il Consiglio di Stato si decidesse a tradurre,nel suo provvedimento, il mio punto di vista. In altri termini: o il Consiglio di Stato fa come dico io o ritengo solo me, e non altri, il depositario del Consigliodi Stato”. 

Anche se paradossalmente, sembra che il Direttore del Servizio V abbia ra-gionato e ragioni così. 

Signor Ministro, mi rivolgo a Lei con fiducia, incoraggiato dalle tante iniziative da Lei intraprese per l’ammodernamento dell’apparato statale. Lei insiste molto sul rispetto dovuto al cittadino e sul concetto che l’Amministrazione Pubblica ha come suo primo dovere quello di servire il cittadino. 

Il Direttore del Servizio V dimostra, invece, sul suo ruolo di servitore dello Stato, una concezione molto diversa, se non ritiene di fare il bene del cittadino(nel caso in specifico: del dipendente della Pubblica Amministrazione) neppure quando il supremo Organo della Giustizia Amministrativa sentenzia a suo favore. Evidentemente giudica il suo ufficio non uno strumento di servizio (nonostante il nome lo farebbe supporre – Servizio V), ma un feudo personale, un potere da gestire, più o meno capricciosamente, in nome del cosiddetto “interesse pubblico”, anche se perseguito facendo il danno e l’ingiustizia del cittadino, contravvenendo ad un diritto a lui riconosciuto, anche formalmente, da un Organo a ciò preposto dalle leggi dello Stato. 

Che direbbe questo zelante Capo Servizio se, la mattina, recandosi in Uffi-cio, trovasse i suoi dipendenti decisi a non rispettare le norme, neppure quelle dettate da lui, ovviamente discutibili come tutte le cose umane? Egli si è comportato allo stesso modo. Penserebbe mai di conferire un encomio solenne ai suoi dipendenti, come certamente ritiene di meritare per sé, per il suo lodevole servizio reso allo Stato? O non penserebbe, piuttosto, che l’uno comportamento (quello dei dipendenti indisciplinati) e l’altro (quello suo, di Capo Servizio)sanno di anarchia? Evidentemente egli è convinto, se la logica vale sempre, di fare l’interesse pubblico con l’anarchia. Non si potrebbe mettere in discussione,con questa logica, anche il suo stipendio, che qualcuno potrebbe ritenere, in qualche misura, usurpato, se pensa di impiegare utilmente il suo tempo nel trasgredire, in senso lato, le leggi? 

Il Direttore del Servizio V, tra l’altro, non solo ritiene che possa coincidere l’interesse pubblico con il danno del cittadino, ma, incurante anche del danno che un contenzioso sistematico può arrecare alla Pubblica Amministrazione, la incoraggia a resistere ad oltranza alle “pretese” del proprio dipendente, anche se il Consiglio di Stato ha riconosciuto che quelle “pretese” sono un suo diritto. 

Se neppure la Decisione di un Organo Giurisdizionale ha valore, scompare,per il cittadino, la certezza del diritto, in nome dell’arbitrio di un Capo Servizio,che ritiene diritto solo il suo convincimento e che, sconvolgendo l’ordine giurisdizionale esistente, presume di assommare nella propria persona tutti i poteri,con buona pace di Montesquieu, i cui criteri sembravano ancora validi. 

Non è dissimile, lo stato d’animo che porta a questa conclusione, da quello dei componenti dell’armata, cosiddetta, di Brancaleone. Ogni Dirigente statale,nel caso nostro al di fuori di ogni regola e di ogni norma, può tranquillamente,come i componenti di quell’armata, decidere come più gli aggrada, quando si sveglia la mattina, in base ai suoi discutibili umori di giornata. 

Ciò, purtroppo, avviene non soltanto dinanzi ad una Decisione del Consiglio di Stato, ma, più spesso dinanzi a tutte quelle provvidenze che vari Ministeri (non tutti per fortuna), gestiscono, non animati da spirito di giustizia, ma di parte, per cui alcuni cittadini o persone giuridiche risultano lautamente favoriti, altri sistematicamente esclusi da certe provvidenze, che potrebbero, meglio,essere destinate a rotazione, quando i mezzi non consentono di raggiungere tutti contemporaneamente. 

Mi scusi, Signor Ministro, questo sfogo, ma la Società (sia essa fatta da cittadini, da dipendenti statali o da altre categorie), per andare avanti bene, ha bi-sogno, credo, di persone responsabili, non dominate da passioni ingenerose, di cui ci si possa fidare di più. 

Fino a qualche tempo fa, almeno, il Dipartimento per la Funzione Pubblica, nella sua azione di consulenza legale, si è sempre schierato dalla parte del cittadino, quando non era di danno alla collettività. Diventa assurda e ingiusta, quando, come nel caso specifico, presume di fornire indirizzi giusti, in contrasto con le decisioni dei Competenti Organi di uno Stato di Diritto come il nostro. 

Tale azione non può non essere avvertita come frutto di arroganza e di disprezzo della giustizia. Si possono anche discutere le decisioni degli Organi 

Giurisdizionali, ma non essere disattese. Sarebbe come se la Corte Costituzionale dichiarasse incostituzionale una norma o altri Organi dello stato, non condividendo, si sentissero autorizzati a non tenerne conto. Sarebbe lecito e giusto? Agli Organi dello Stato ciò non è consentito. Perché è consentito ad un Capo Servizio? 

Non sarebbe stato più opportuno che, almeno, il parere su una Decisione del Consiglio di Stato fosse scaturito da un esame collegiale, date le sue implicanze? Come la mette, poi, questo Capo Servizio con quei Ministeri che hanno già applicato la Decisione del Consiglio di Stato? Non avrebbe dovuto tener conto anche di questo un funzionario attento e scrupoloso? 

Affinché chiunque legga questa lettera (al di fuori di Lei, Signor Ministro, che non ha bisogno del chiarimento) comprenda che la citata Decisione del Consiglio di Stato non voleva creare dei privilegi (come sostiene il Capo Servizio) per gli appartenenti al ruolo Speciale rispetto a quelli del Ruolo Ordinario, ma ristabilire, per essi, la giustizia, faccio notare che la confluenza (del Personale di tanti Enti disciolti contemporaneamente) in un unico Ruolo Speciale, presso i singoli Ministeri, ha comportato grandi disparità di trattamento, nel senso che alcuni, figuranti al primo posto nella posizione giuridica dell’Ente di provenienza, si sono ritrovati all’ultimo posto nel ruolo Speciale e viceversa, anche quelli che avevano maturato il diritto alla promozione e potevano ricoprire posti già disponibili nell’Organico dell’Ente di provenienza e non assegnati per la soppressione dell’Ente stesso? 

Il “nostro” Capo Servizio non ha saputo o voluto comprendere queste cose, all’origine della Decisione del Consiglio di Stato, come non ha saputo o voluto comprendere che l’unica via per ristabilire la giustizia non poteva essere che quella del soprannumero, visto che il Ruolo Speciale era viziato, come si è visto, in partenza. 

Se come prevedeva la legge, il Ruolo Speciale fosse confluito subito nel ruolo Ordinario, si sarebbe fatto un torto a quelli del Ruolo Ordinario, per lo stesso motivo valido per i provenienti da Enti soppressi. Ecco perché la confluenza nel Ruolo Ordinario ha incontrato molte resistenze ed è avvenuto dopo otto anni e non in termini di parità. 

Potremmo discutere a lungo, con punti di vista diversi, sul contenuto, le motivazioni pro e contro. le difficoltà di un provvedimento, ma solo a titolo accademico, perché nessuno, neppure il Capo del Servizio V del dipartimento della Funzione Pubblica ha il diritto di opporsi alla applicazione di una Sentenza di un Organo giurisdizionale al suo ultimo livello. 

Mi auguro, Signor Ministro. che Lei (impegnato ad eliminare dai comportamenti della Pubblica Amministrazione tante storture) trovi il modo di rendere responsabile, a tutti i fini, il Funzionario che emana i provvedimenti, anche per l’eventuale risarcimento dei danni. 

Troppo comodo contrapporsi ad una decisione definitiva di un Organo giurisdizionale quando al Funzionario-trasgressore non costa nulla, mentre costa molto alle altre parti in causa, compreso lo Stato. Un contenzioso ingiustificato e diffuso costa di più allo Stato, della promozione, sì o no, di quindici, venti Funzionari. Neppure questo valeva considerare per il premuroso Capo Servizio? 

Le sembra, Signor Ministro, che sia il più adatto a ricoprire un incarico così elevato, chi è più abile ad alimentare i conflitti che ad appianarli, non certo per migliorare il clima della Pubblica Amministrazione, nell’interesse di tutti? 

Signor Ministro, grato per la pazienza dimostrata. Si abbia la mia stima e il mio rispetto. 

Giovanni Salucci 

P.S. – Forse non è male sottolineare ancora, per il Signor Ministro, la farraginosa e assurda procedura ancora vigente per la tutela dei diritti amministrativi: un dipendente della Pubblica Amministrazione a cui è stata negata l’applicazione di una sentenza del Consiglio di Stato, deve, per chiedere che gli venga applicata, ricorrere al T.A.R e cominciare daccapo, in un circolo vizioso “forse” infinito. 
Come può funzionare bene la macchina statale, se questi sono i suoi ingranaggi? Il Ministro per la Funzione Pubblica non può fare proprio nulla per rimediare a certe storture?

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pagg. 21-25.




Congresso Sindacato Nazionale Scrittori

 Il mio intervento sarà di natura eminentemente pratica. 

Il nostro è un Sindacato come si sa “sui generis”, diverso certamente da tutti gli altri. Negli altri sindacati ci sono ruoli ben definiti delle parti in causa, e linearità del contenuto e della materia del contendere: il datore di lavoro, il lavoratore dipendente, l’interesse preciso e generale da difendere, l’arma dello sciopero come strumento di pressione e di persuasione. 

Nel nostro sindacato, invece, i ruoli delle parti in causa sono poco circoscritti, più indeterminati: o per lo meno non così strettamente collegati tra loro e molto più complessi: perché il datore di lavoro quasi non esiste, confuso spesso con la stessa struttura della società. prevalentemente nelle sue parti più carenti; il lavoratore quasi mai è un lavoratore dipendente: la materia del contendere è così multiforme e sfuggente che investe le più clamorose contraddizioni della stessa organizzazione dello Stato e della società: il lavoratore non ha quasi mai la possibilità di usare l’arma dello sciopero come elemento di pressione e di persuasione. Da qui discende l’enorme difficoltà di trovare la via giusta da seguire nelle lotte e nelle rivendicazioni. Bando perciò alle facili critiche ed alle inevitabili insoddisfazioni e invito alla ricerca responsabile e serena dei mezzi adatti e soprattutto ad una maggiore intesa e ad una maggiore solidarietà tra noi, senza di che, io penso, ogni sforzo potrebbe risultare vano. 

Esistono due posizioni sulla fisionomia del Sindacato: 
Avrebbero ragione i primi, se esistessero Organismi diversi dal Sindacato, capaci veramente di difendere gli interessi particolari. Avrebbero ragione i secondi, se tali Organismi non esistessero o dimostrassero di essere incapaci di difendere gli interessi particolari. Siccome non esistono tali Organismi capaci, io sono con quelli della seconda posizione, i quali ritengono che l’azione del Sindacato non dovrebbe escludere nulla che possa giovare agli iscritti. Del resto, ormai, in ogni Sindacato non è più così netta la distinzione tra interessi generali e particolari o individuali. Il suo impegno maggiore dovrebbe senza dubbio essere per le piattaforme rivendicative di carattere generale, ma dovrebbe esistere anche per le istanze di carattere particolare. Tra l’altro, per gli iscritti, spesso alcuni problemi particolari sono più importanti o importanti nella stessa misura di quelli generali. (Un trasferimento: una migliore utilizzazione del lavoratore sul posto di lavoro; una pressione, perché una certa pratica legata al suo rapporto di lavoro venga sollecitata, evasa, ecc. ecc.). 

Non intendo qui riferirmi all’opera svolta dai vari “patronati”, di derivazione sindacale, che si occupano di tutti i problemi degli iscritti in quanto cittadini, anche al di fuori della loro qualità di “lavoratori” (Tale attività può esulare da quella del Sindacato). Ma non può essere esclusa quella, nel nostro caso, che investe i problemi relativi alla persona nella sua qualità di “scrittore” e non di semplice cittadino. 

La riforma, ad esempio, delle nonne del diritto di autore (problema di carattere generale) è importantissima, ma potrebbe avere poco senso per quell’autore, che non avesse risolto prima, a monte, il suo problema legato alla edizione del libro, alla sua distribuzione, alla sua pubblicizzazione, e alla sua vendita. Perciò il Sindacato non può restare estraneo a problemi apparentemente di carattere particolare, ma in realtà di carattere generale, perché investono gli interessi di tutti. 

Cosa può fare il Sindacato per affrontare questi problemi? Poiché il lavoratore-scrittore non ha, e lo abbiamo detto, come i lavoratori dipendenti, l’arma dello sciopero, bisogna trovare altre forme incisive di pressione. E qui scendo nel concreto. 

Il Sindacato deve sviluppare la sua opera di penetrazione in tutte le direzioni. Ed io penso ci sia da fare molto in questo senso. Molti ambienti, statali, parastatali, pubblici, in genere economici e non economici, hanno spazi notevoli di espansione per il Sindacato Scrittori, nell’interesse dei suoi iscritti. Mi spiego con un solo esempio che può valere, però, di indicazione per tantissimi esempi dello stesso genere. Il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali esplica molte attività direttamente connesse alla nostra qualità di scrittori: 

– stampa molte riviste, anche se di contenuto specializzato, con la collaborazione, per gli articoli, di esperti anche esterni; 

– acquista libri, direttamente dagli autori o dagli editori, per la distribuzione gratuita a biblioteche private di ogni genere (di sindacati, di scuole, di parrocchie, di organizzazioni culturali, di istituti di pena, ecc); 

– acquista libri, per la distribuzione gratuita alle biblioteche non statali aperte al pubblico; 

– acquista libri (anche se per il tramite delle stesse biblioteche) per le Biblioteche statali; 

– finanzia le Edizioni Nazionali; 

– eroga premi di cultura agli autori; 

– sottoscrive abbonamenti per riviste da destinare a persone giuridiche, in ambito nazionale ed internazionale; 

– acquista libri da destinare ad Istituti culturali esteri, nell’ambito degli scambi internazionali previsti dai trattati bilaterali di natura culturale; 

– concede premi a riviste di elevato valore culturale; 

– concede contributi per Convegni di natura culturale; 

– concede premi per la esportazione del libro italiano all’estero; 

– concede mutui agevolati all’editoria libraria (praticamente senza interessi); 

– assegna, in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione, diplomi e medaglie al merito culturale. 

Tutte queste attività sono gestite da Commissioni, formate da funzionari interni, da esperti esterni, con la partecipazione dei Sindacati di categoria. A me risulta che. in molte di queste Commissioni, è presente l’Associazione Italiana Editori. Non so se sia egualmente presente il nostro Sindacato Nazionale Scrittori, 

nell’interesse ovviamente della cultura e dei propri iscritti. Se non è presente, e laddove non è presente, è necessario premere, a tutti i livelli, perché faccia parte anch’esso di tali Commissioni. Ciò vale per il Ministero dei Beni Culturali, come per tanti altri Ministeri e Enti Pubblici. Certamente il nostro Sindacato è presente in tanti Organismi, come ad esempio, nella Commissione che assegna i premi di cultura presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Deve cercare di essere presente dappertutto. Tante attività non si conoscono. Sono certo che molti di noi non conoscono quelle attività, o almeno non tutte, che ho nominato per il Ministero per i Beni Culturali, come la maggior parte non conosce attività similari svolte da tanti Organismi Pubblici, a livello nazionale e locale (Presidenza del Consiglio, Ministeri, Enti Pubblici, Istituti Culturali, Enti locali. ecc.). 

Tutti questi organismi possono essere anche interessati a non avere troppe voci esterne nel loro seno e spontaneamente potrebbero preferire anche il silenzio sulla possibilità della presenza dei Sindacati delle categorie interessate. Tale atteggiamento è comprensibile, perché la presenza dei Sindacati limita il potere discrezionale, che può diventare arbitrario, della Pubblica Amministrazione. Sono i Sindacati esclusi che devono prendere l’iniziativa, sia per conoscere in maniera capillare le attività culturali svolte a tutti i livelli ed in ogni zona, sia per ottenere la loro partecipazione responsabile alle scelte culturali. 

Io suggerirei che, sia a livello nazionale che locale (regione, provincia, comune) vengano istituite, nell’ambito sindacale, commissioni permanenti (formate da iscritti che rivestano cariche sindacali, come da iscritti esperti o inseriti nei vari ambienti esterni) che studino il problema della partecipazione del Sindacato ai vari Organismi esterni e propongano agli Organi Sindacali responsabili le soluzioni da adottare di volta in volta. 

Tali commissioni permanenti potrebbero occuparsi anche dello studio e delle proposte di soluzione anche di tutti gli altri problemi che interessano gli scrittori (il rapporto con le Case editrici per la pubblicazione dei libri, la distribuzione del libro. la vendita del libro, il rapporto con le librerie, l’opera di pubblicizzazione del libro stesso, ecc.). 

Sono note a tutti le difficoltà che incontra la soluzione di questi problemi. Le case editrici, la distribuzione, la vendita, la pubblicizzazione del libro rappresentano altrettanti ostacoli spesso insormontabili, che vanificano ogni nostro sforzo. Le leggi del mercato e del profitto mortificano spesso le nostre aspettative e ci trasformano in semplici oggetti di sfruttamento. quando va bene. Perché spesso, neppure dopo che siamo stati sfruttati, riusciamo ad avere la gioia di qualche successo, perché gli altri hanno deciso così: gli editori, i distributori, i venditori. Tutti, tranne noi, fanno il bello e il cattivo tempo: stampano i libri che vogliono, distribuiscono i libri che vogliono, vendono i libri che vogliono. in base a criteri discutibili, discriminanti, che di tutto tengono conto, tranne, nella maggioranza dei casi, del contenuto valido del libro. Siamo, nella politica del libro e della cultura, ai primordi dello sviluppo civile e storico, alla fase, direi, ancora di servitù della gleba, di feudalesimo il più retrivo. E non abbiamo la possibilità di reagire come gli altri lavoratori, al nostro, diciamo così, datore di lavoro, in senso ironico quasi e improprio, rappresentato, per noi, dall’editore, dal distIibutore, dal venditore. 

Dobbiamo perciò rassegnarci al ruolo di vittime, senza possibilità di scampo? Io dico di no. 

Ogni situazione, anche la più grave con l’in1pegno e la buona volontà, può trovare una via d’uscita. 

Non potrebbe il Sindacato tentare di fare delle convenzioni, degli accordi, per i propri iscritti, con gli editori, con i distributori, con i venditori? E al limite, se ogni tentativo risultasse vano, non potrebbe il Sindacato affiancandosi a strutture solide già esistenti, ipotizzare la creazione di una propria casa editrice, di una propria rete di distribuzione, di proprie librerie, almeno nelle grandi città, con la partecipazione finanziaria e operativa dei propri iscritti? Indubbiamente sono problemi di enormi proporzioni che vanno esaminati a fondo, senza ingenuità, con senso di equilibrio e di realismo. Ma devono essere affrontati, pena il fallimento di tutta l’opera del Sindacato, che risulterebbe, diversamente, sterile. Senza dubbio, prima di arrivare a proprie strutture industriali, produttive, commerciali, bisogna tentarle tutte: nelle tesi preparatorie del precedente Congresso, si insisteva sulla iniziativa di cooperative di secondo grado. 

Non ricordo bene come fossero strutturate, ma mi pare rientrassero nello spirito di ciò che sto dicendo io. 

Nelle tesi si accennava anche ad un’altra idea interessante sull’intervento della mano pubblica nel settore dell’editoria, fino alla conseguenza più globale: alla istituzione di un Ente pubblico che gestisca in proprio l’attività culturale e, in senso stretto, quella concernente il libro nel suo iter completo: pubblicazione. distIibuzione, vendita, pubblicizzazione e promozione. Un Ente Pubblico, naturalmente, dove sia prevalente la presenza delle categorie interessate, compreso il nostro Sindacato. 

Solo una struttura pubblica di questo genere potrebbe fare da contrappeso all’attuale prepotere del monopolio privato, a favore proprio di quegli autori che l’attuale sistema emargina o distrugge completamente. Si è fatto qualcosa in questa direzione? 

Tutto è molto difficile, ma bisogna tentare tutto. 

Si è fatto qualcosa sul contenuto di altre tesi dello stesso Congresso: Ristrutturazione ed efficienza dell’ENAP – abolizione della legge Bacchelli per interventi più radicali e definitivi – presenza degli autori nello staff dirigenziale delle case editrici – rapporti con gli altri Sindacati – attività vertenziale in difesa del contratto dell’autore in seno all’OLAF-SIAE percentuale del diritto d’autore degli scrittori decedudi da oltre un cinquantennio a favore degli scrittori viventi – penetrazione dell’oggetto libro nei supermercati e nei negozi di altro genere, ecc. 

Un’altra cosa io ritengo molto importante: è una questione un po’ delicata, che va esaminata con attenzione, ma potrebbe anch’essa dare i suoi frutti. Sviluppare una maggiore conoscenza reciproca tra gli iscritti. A questo punto gli scopi di un sindacato si fondono con quelli di una Associazione e si integrano. 

Rispettando la libertà di ciascuno. potrebbero essere messi a disposizione degli iscritti quei dati che i soci ritenessero di far conoscere spontaneamente, sulla posizione, che essi occupano nella società (case Editrici, Ministeri, Organismi pubblici e privati, nazionali e locali), perché tutti possano sapere, possano scambiarsi le esperienze, possano fornire quelle notizie e quelle conoscenze utili agli altri, in un clima di fraterna, serena, mutua solidarietà, senza pretese assurde. 

Sarebbe un male, ad esempio, che tutti conoscessimo l’intera opera dei colleghi scrittori, per dare una mano quando è possibile, per fare, anche se in piccolo, opera di propaganda quando capita l’occasione? Sarebbe un male, se il Sindacato potesse rivolgersi con fiducia a quelli di noi inseriti nelle strutture pubbliche e private e che potrebbero facilitare la partecipazione del Sindacato alle Commissioni di cui parlavo prima? Sarebbe un male, se la conoscenza della nostra posizione sociale potesse rappresentare un punto di riferimento, per il 

Sindacato e per gli iscritti, per la conoscenza di quelle iniziative culturali esistenti ai vari livelli e che spesso ignoriamo, per la utilizzazione, almeno, delle provvidenze esistenti che non conosciamo, per una più facile presa di contatto con tutti quegli Organismi pubblici e privati che interessano la nostra attività di scrittori? 

Io non ritengo che sia un male. Sono anche convinto che ciascuno di noi utilizzerebbe con discrezione e senso della misura ogni possibilità di solidarietà umana. Ma anche se non fosse. chi impedirebbe a ciascuno di noi di dire con sincerità e senza risentimento al collega troppo pressante: “abbi pazienza, stai esagerando”? 

Io sono convinto che gli aspetti positivi di questa iniziativa siano più numerosi di quelli negativi e che ogni azione umana comporti sempre qualche rischio, al quale, se vogliamo agire, non possiamo sottrarci. 

Forse sto abusando della vostra pazienza. Vorrei terminare con due parole soltanto sulla organizzazione del Sindacato. Data la molteplicità e la complessità dei compiti che il Sindacato è chiamato a svolgere, se non vuole fare solo opera di vuota accademia. deve rafforzare, è la mia impressione, le sue strutture a livello centrale e periferico. 

Ritengo che il Sindacato debba disporre di maggiori mezzi finanziari: che le persone investite di certe cariche, richiedenti notevole disponibilità siano adeguatamente retribuite. Non so cosa accada attualmente in proposito: che la rivista Produzione e Cultura venga potenziata per periodicità e contenuti, con la inclusione anche di una rubrica destinata alla divulgazione dell’opera degli scrittori soci; che vengano istituite commissioni permanenti. come detto prima. per l’approfondimento pratico dei problemi e per la indicazione delle soluzioni opportune; che a livello di segreteria nazionale. regionale e provinciale. funzioni un centro di raccolta di dati e notizie che interessano gli scrittori; di dati e notizie che riguardino l’opera degli iscritti; una specie di anagrafe generale di tutto ciò che può interessare; che in ogni struttura pubblica e privata, dove lavora qualche iscritto, venga nominato un rappresentante del Sindacato, che faccia da tratto di unione, da organo di tutela degli interessi degli scrittori soci che lavorino nello stesso ambiente e di tutela di quelli che non lavorino negli stessi ambienti, ma che potrebbero partecipare alle iniziative culturali promosse dalle stesse strutture. 

Se non insistiamo di più sui problemi concreti come questi e su altri ancora che potrebbero venir fuori, rischiamo di fare opera, come detto innanzi, di inutile accademia. 

Giovanni Salucci

*. In vista del Congresso del Sindacato Nazionale Scrittori, si stanno tenendo in tutta Italia riunioni e assemblee. Riteniamo mollo utile. per le sue indicazioni concrete, l’intervento effettuato dal pro] Giovarmi Salucci alla riunione tenuta presso la sezione del Lazio il 15-2-1991.
1) alcuni ritengono che esso debba limitarsi al sindacalismo puro; alla difesa, cioè, degli interessi generali degli iscritti, per demandare ad Organismi diversi dal Sindacato, a specifiche associazioni, il compito di occuparsi di interessi particolari, individuali; 
2) alcuni invece ritengono che il Sindacato debba preoccuparsi sia della difesa degli interessi generali che di quella degli interessi particolari e individuali. 

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 45-51




Luigi Tenco.  A venticinque anni dalla morte

“Signore e signori buona sera, diamo inizio alla seconda serata con una nota di mestizia per il triste evento che ha colpito una valoroso rappresentante del mondo della canzone. Anche questa sera per presentare le canzoni è con me Renata Mauro. 

Allora, Renata, chi è il primo cantante di questa sera?”. Così, il ventotto gennaio di venticinque anni fa, il presentatore per antonomasia, Mike Bongiorno, posteggiava impudicamente nell’inconscio collettivo degli italiani la vita di Luigi Tenco, e il gesto disperato (o profetico?) che quella vita aveva concluso. 

La notte precedente, una pallottola calibro 7,65 br., uscita dalla canna di una Mauser PPK – la piccola, magnifica semiautomatica dei poliziotti tedeschi – aveva ruotato nel suo cranio purgandolo per sempre dai pensieri molesti. Questi i fatti: troppo noti per insistervi ancora. Sulla ridda di commenti a caldo e a freddo, sul corpo riportato dall’obitorio alla tragica camera per soddisfare i fotografi ansiosi di macabro sensazionalismo stendiamo un velo pietoso. C’è comunque da stupirsi che i numerosi poliziotti lì convenuti fossero così impegnati a esaudire le richieste dei giornalisti e discografici da non osservare che “il foro d’entrata era posto non ‘nella tempia’ ma dietro il mastoide destro, leggermente sopra il padiglione auricolare, e quello d’uscita nella regione frontale sinistra; una posizione anomala per un suicida, come asserisce più di un criminologo.” (Aldo Fegatelli, Luigi Tenco, Lato Side Editori, Roma 1982). 

A onta del cinismo mostrato nell’occasione e poi ampiamente ribadito dagli addetti ai lavori, le canzoni di Tenco restano una scoperta rigorosamente privata, un momento di crescita, a volte un’autentica rivelazione, per ogni generazione che si affaccia nel mondo della musica. 

Nonostante la fretta con cui le sinistre si impossessarono del cadavere per farlo applaudire al suono di Bella, ciao eppure è ben noto come avesse usato le sue mani (da musicista, ma non proprio diafane), con la feroce dignità che possono esibire solo i timidi che hanno troppa paura di avere paura, per difendere un giornalista di destra sopraffatto dal coraggio del numero -, per la gente semplice – gli infiniti samaritani che non hanno il tempo per lacerarsi il frac sulla “Gazzetta di Gerico” e “Il corriere di Gerusalemme”, magari perché impegnati a lenire le ferite inferte da chi ha preso troppo sul serio certe indignazioni – Tenco è rimasto come la figura dolente di un figliuol prodigo che ha speso a piene marti i numerosi talenti affidatigli: e che poi ha scelto di tornare al Padre, prima che i porci che aveva sfamato lo divorassero. 

Una tale considerazione agiografica pare quasi inspiegabile se rivolta a un pur bravo cantautore che ha prodotto solo alcune notevolissime canzoni d’amore e alcune (in genere mediocri) canzoni impegnate. Pure in questa visione frementemente affettuosa si inserisce la toccante canzone, Preghiera in gennaio, di Fabrizio De André; il quale sembra addirittura volgarizzare poeticamente (” … non c’è l’inferno / nel mondo del buon Dio”) le tesi esposte con rigore teologico da Hans Urs von Balthasar. 

Un fatto è comunque certo: Tenco resta austeramente fuori dal novero dei musici caduti lungo la strada del successo. I pur mitici, angosciati e angoscianti Jimy Hendrix e Janis Joplin paiono soprattutto vittime dei loro vizi e del distruttivo american way of life. Il tragico gesto che ha spento la vita del nostro cantautore sembra invece motivato dall’incommensurabile disperazione di bambino bocciato agli esami; ed è per questo che continua a suscitare compassione (nel senso etimologico del termine). Nel contempo non si riesce a non accomunare quella dolente figura con quelle ben più grandi di autentici poeti come André Chénier e Robert Brasillach, figure di giovani che si sono trovati tragicamente in contrasto con le idee correnti dei loro anni. 

Proprio perché il paragone con i due poeti francesi appare azzardato, è invalso anche l’uso di stabilire un parallelo, anche per le comuni origini piemontesi, tra il cantautore di Cassine (Alessandria) e Cesare Pavese. A noi pare più calzante invece confrontarlo con un altro grande scrittore piemontese: Beppe Fenoglio. Le affinità sono quasi sconvolgenti: i famigliari di Luigi Tenco commerciavano vini all’ingrosso, e presso una ditta di virti aveva trovato stabile impiego il “solitario di Alba”. Identico è il fallimento negli studi universitari dopo una brillantissima carriera liceale. E per frequentare l’università Fenoglio era sceso a Genova. la città che adottò bambino Tenco. “La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti….. si lamentava l’autore del Partigiano Johnny, e allo stesso lavoro di lima Tenco sottoponeva le sue canzoni; Ciao amore ciao, cantata quel tragico ventisette gennaio, ha avuto certamente tre versioni prima dell’ultimo rifacimento. Il tema di questa canzone, che narra l’abbandono dei campi per la tentacolare città, ha un’affinità straordinaria con l’unico soggetto cinematografico (mai realizzato e pubblicato postumo) di Beppe Fenoglio. Anche Tenco teneva nel cassetto una sceneggiatura e alcuni racconti. Ma, oltre a queste somiglianze esteriori, quello che accomuna veramente i due piemontesi ci sembra l’identico sentire morale, la stessa etica austera – da pastore valdese -,la stessa tensione partecipativa, quel desiderio pungente di essere presenti alle vicende storiche della loro patria; e poi quel sarcasmo amaro (che denuncia un autentico disagio fisico) contro il perbenismo, la boriosa atteggiata mezzasapienza. 

Anche alla luce di quanto appena detto, Luigi Tenco rimane ancora, con le sue contraddizioni e le sue utopie, un dramma irrisolto nel profondo delle nostre coscienze, una continua domanda a cui non è possibile (e neppure sarebbe onesto) opporre delle risposte prefabbricate. Una sola speranza: che sia il silenzio a cullarne la memoria, perché, come lui cantava, ” … nel mondo c’è già tanta gente / che parla, parla, parla sempre / che pretende di farsi sentire / e non ha niente da dire.” 

Gaetano Radice 

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 73-75.




 Il poeta contadino: una nuova specie da salvare? 

Se c’è una cosa che oggi non va, questa è che tutti vogliono far tutto, e nessuno vuol far più quello per cui è portato. Cosicché si assiste al paradosso, in altri tempi inconcepibile, che il «dottore» semilaureato, magrolino e macilento, con gli occhiali spessi due dita, è costretto a scaricare cassette di frutta ai mercati generali. Mentre l’opposto tipo più grosso e robusto, «contadino» ante litteram dai muscoli possenti, sta in ufficio, con quei grossi ditoni, seduto sempre alla macchina per scrivere. 

Ormai oggi tutto si è capovolto, e niente sta più al suo vero posto. Perché ormai la gente ha preso gusto al potere dei «soldi», complici la tivù e i mass-media e tutti si sentono «signori», destinati ad essere pagati senza far niente, ragion per cui dover lavorare li «offende». 

Quindi lavorano poco e male: avete presente come, in quei negozi che fanno fotocopie a pagamento, vi guardino tutti dall’alto in basso, a voi che siete i clienti, come se loro fossero quasi dei nuovi «nobili» su questa terra? 

E le cose, però, non andavano meglio prima: basti solo pensare ai due tipi classici, del «professore» e del «contadino». Il primo, alieno da qualsiasi commistione con la terra, e che si guarda bene anche dal prendere in mano uno strumento di lavoro, la «zappa» per intenderci. Magro e pallido, quasi lunare, la voce fioca e acerba, il classico «topo di biblioteca». E che magari, quando va in campagna e prova a zappare la terra, in due secondi cade a terra stravolto. A tale categoria appartenevano anche i grandi poeti della patria, e tutti li conosciamo, che cantavano il nobile lavoro nei campi. ..degli altri! Va da sé che il professore è spesso un poeta. Poi c’è l’opposto tipo del «contadino», classico tipo ignorante e poco istruito, che ha un enorme rispetto per gli «uomini di cultura», in quanto tutto ciò che non capisce è per lui superiore, disprezzandoli solo di fronte al lavor dei campi, lui sempre instancabile, legato quasi visceralmente alla terra, e «suda» per ore quando deve scrivere una lettera. 

La dualità «professore-contadino» si è mantenuta costante fino ad oggi, anche se, forse grazie a una nuova mutazione genetica, o solo semplicemente al migliore livello dell’istruzione generale, si è assistito alla nascita di un tipo nuovo, anzi di due nuovi tipi, che sono poi uno solo. Il primo è il contadino che, fuori da quanto detto sopra, scopre d’un tratto di essere un «poeta». E già anche la tivù, complice il «Maurizio Costanzo Show», ci ha mostrato questi tipi. Come il contadino che, dopo anni e anni di mestiere, anzi di professione, grazie alla nuova cultura, si scopre artista, dipinge, scrive e compone poesie, trovando anche qualche editore di larghe vedute che gliele pubblica. Oppure il pastore, amico delle pecore, che tutto un tratto scopre che la musica che ha sempre fatto è cultura: e allora, grazie all’arrivismo di tanti cantautori, si fa cantautore anche lui, ci parla del suo tamburo o del suo flauto, e dei racconti che gli narrava il nonno, le sue tradizioni che adesso rinascono e vengono rivalutate. È da notare inoltre, in entrambi le due varianti del primo tipo, che l’«eloquio», pur restando rozzo, è sempre più «colto», e risente della nuova cultura. E all’opposto, esistono degli uomini di cultura, dei professori, studiosi di classicità o autodidatti, che dalla loro cultura hanno dedotto la necessità di trasformarla in azione, cioè di tornare alla terra. 

E così, come il contadino diventa poeta, dall’altra, il poeta si fa contadino. Si inventano ecologie alternative, studi storici diversi e naturali, fattorie che rinascono dalla terra, piene di gente colta che lavora i campi. E dato che sappiamo bene comè il pastore o il contadino, l’uomo della terra, sia sempre stato un 

«sapiente», avendo delle conoscenze intuitive «corporee», profonde e innate, che la mente normale ignora, così, il fatto che oggi le conoscenze corporee e quelle mentali, quelle storiche e quelle metastoriche, quelle fisiche e quelle spirituali, si uniscano, questo significa che forse è nato un nuovo tipo umano, una nuova razza spirituale: quella del «contadino poeta» o del «poeta contadino». Forse una nuova specie da salvare? 

Luigi Moretti

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 39-40.




L’eredità di Andrei Zacharov 

Giovedì sera 14 Dicembre 1989 si spegneva sul tavolo di lavoro, mentre era intento a preparare il suo intervento al Congresso dei Deputati del Popolo dell’U.R.S.S., Andrei Dimitrievic Zacharov, Premio Nobel. 

La scomparsa del grande scienziato, padre della bomba atomica sovietica e tuttavia esiliato a Gorkij da Breznev per avere preferito ai privilegi e agli onori degli accademici ligi alla nomenklatura del regime neostalinista, la difesa coraggiosa della libertà intellettuale e della verità sulla situazione del suo paese e sui pericoli incombenti sul genere umano, ha costernato tutta la gente del mondo. «È una grande perdita – ha detto Gorbaciov -, egli era un uomo importante per la perestrojka. Era un uomo che aveva le proprie idee, i propri convincimenti. e li esprimeva direttamente, senza infingimenti». Più di un giornale lo ha definito, appena resa nota la notizia della sua improvvisa scomparsa, «l’interprete della coscienza morale del suo paese». 

Seppi dell’esistenza di Zacharov nella prima metà di settembre del 1968, quando in una libreria di Conegliano Veneto, ove mi trovavo in qualità di commissario di esami di maturità, acquistai e avidamente lessi il suo opuscolo (già da tempo ciclostilato e privatamente diffuso tra gli intellettuali non conformisti dell’U.R.S.S.) «Progresso, coesistenza e libertà intellettuale» edito nell’agosto del 1968 dalla casa editrice Etas Kompass. 

La lettura del libro mi ridiede un po’ di ‘quell’entusiastica e fiduciosa speranza di affermazione anche in Italia del socialismo dal volto umano che mi aveva trasfuso la lettura degli opuscoli di Dubcek e la primavera di Praga e che la susseguente repressione dei carri armati sovietici aveva spento. 

Capii che non tutto era perduto, che uno spiraglio di luce e di speranza rimaneva per chi ama la giustizia e la libertà e per la salvezza stessa della vita e della civiltà del genere umano. Ebbi pertanto la sensazione di vedere nei concetti esposti da Zacharov lo specchio delle aspirazioni elementari e nel contempo universali di tutti gli uomini di buona volontà viventi sul nostro pianeta, e sinceramente rimasi frastornato e rammaricato nel leggere un articolo su “L’Unità” del 28-9-1968 di Giuseppe Boffa il quale, dopo avere messo in risalto le positive novità che trasparivano dal libro di Zacharov e concordato sulla necessità della libertà di discussione nell’U.R.S.S., scriveva: «È una pericolosa illusione quella di chi crede che i grandi problemi umani si possano risolvere con alcune intuizioni e sistemi da laboratorio. Simile metodo è scientifico (allusione questa alla scientificità sulla quale Zacharov diceva di basare le sue idee e aperture democratiche) solo in apparenza. Certo, non è democratico». 

Ho riletto attentamente l’opuscolo e sono giunto alla persuasione ferma che Zacharov in esso appare non solo !’interprete genuino della coscienza del suo paese e del mondo intero, ma anche il profeta lungimirante degli avvenimenti che stanno rapidamente evolvendosi sotto gli occhi di tutti. Altro che pericolosa illusione quella che egli ci ha tramandato. Si tratta, invece, di una serie di idee cardine che hanno valore di certezze illuminanti e di binari sui quali non può evitare di correre la storia del genere umano, se vuole sfuggire al suo suicidio universale. Non è il caso in questa sede di recensire analiticamente Progresso, coesistenza e libertà intellettuale, ma alcuni suoi passaggi essenziali penso doveroso rinfrescare alla memoria di tutti. 

Innanzitutto appare vero, oggi con luminosa chiarezza, che l’opuscolo zacharoviano rappresenta il risultato di un’ampia spaccatura determinatasi più di vent’anni fa nelle alte sfere del Partito Comunista, della classe dirigente e dell’intellettualità dell’U.R.S.S. e dello scontro già allora in atto sull’interpretazione della realtà dell’U.R.S.S. e del mondo. Ma soprattutto sorprende la lucidità premonitrice con cui vengono additati i principali pericoli che tutt’oggi incombono sull’umanità: la guerra nucleare, la catastrofe per fame per la maggioranza degli uomini, l’intossicazione prodotta dalla «droga» della cultura di massa, il dogmaticismo burocratizzato, i miti di massa generatori di capi demagoghi crudeli e impostori, la degenerazione e distruzione dell’ambiente naturale dovute alle imprevedibili conseguenze di rapidi mutamenti nelle condizioni di vita del pianeta. 

Zacharov sostiene che tali pericoli possono essere neutralizzati solo se l’umanità supererà la sua divisione (la cui accentuazione egli definisce una follia criminale) fino a pervenire a un governo unico del mondo e del genere umano considerato (concetto ultimamente ripreso da Papa Giovanni Paolo II) un’unica famiglia mondiale, anche se distinta nei vari popoli per diversità di storia e di tradizioni. Inoltre egli pone come necessità inderogabile per l’evoluzione progressiva del suo paese l’introduzione dell’economia di mercato e l’affermazione del pluralismo, il superamento del burocratismo ossificato e in ciò egli coincide, per tanta parte, con il programma di svolta e di trasparenza inaugurato da Gorbaciov dopo le intese di pace con Reagan. Quanto alla libertà intellettuale, intesa come libertà coraggiosa di discussione, libertà dall’imposizione delle tesi ufficiali e dei pregiudizi, libertà di ricevere e divulgare informazioni, egli sostiene che essa è necessaria non solo all’U.R.S.S., ma a tutta la società umana e va difesa, onde prevenire le conseguenze estreme sperimentate con le dittature, dalle insidie della cultura standardizzata di massa, dalla viltà, dall’egoismo, dalla ristrettezza mentale e dalla censura. 

Qui, appunto, il discorso di Zacharov vale anche per noi occidentali nei cui sistemi di capitalismo avanzato la democrazia è sempre in uno stato di equilibrio instabile, la libertà d’informazione minacciata dalla tendenza alla standardizzazione e alla pubblicitaristica concentrazione delle testate giornalistiche, editoriali e televisive nelle mani di pochi. Va anche aggiunto che nella nostra democrazia capitalistica non so quanti dei grandi intellettuali dell’informazione sarebbero disposti a rinunziare ai privilegi finanziari e «di potere» per proclamare apertis verbis tutte le verità di cui sono a conoscenza, come ha saputo fare Zacharov, se è vero che spesso nelle varie città e regioni gran parte di giornalisti ed emittenti locali dicono solo le cose che possono essere dette e se è vero che qualcuno che ha superato una certa barriera è morto ammazzato. 

È inoltre sorprendente la chiarezza con cui lo scienziato Zacharov previde nel 1968 i danni all’ecosistema del pianeta provocati dall’inquinamento delle acque e dell’aria, dalla distruzione del patrimonio forestale, dall’uso dei composti chimici velenosi, dagli scarichi delle industrie e dei mezzi di trasporto, dall’anidride carbonica proveniente dalla combustione e provocante l’effetto serra, dalle sostanze chimiche velenose usate in agricoltura le quali «assorbite dal corpo umano e dagli animali sono causa di gravi danni al cervello, al sistema nervoso, agli organi del sangue, al fegato», dall’uso degli antibiotici nell’allevamento del pollame «che ha portato allo sviluppo di nuovi microbi portatori di malattie antibiotico-resistenti», dallo scarico dei detersivi, dall’erosione e salinizzazione dei terreni, dalla distruzione degli uccelli e degli animali non domestici e utili all’equilibrto biologico. Anche per la soluzione di questi problemi di dimensione planetaria nell’opuscolo si insiste sul concetto del superamento della divisione del mondo e sull’inadeguatezza dei provvedimenti di carattere locale o nazionale. 

Ma la grandezza di Zacharov consiste non soltanto nell’aver previsto con ammirevole lucidità le riforme oggi in via di rapida attuazione nell’Est europeo e in U.R.S.S. con la fine delle monocrazie stalinistiche, con la fine del concetto del partito guida che era stato sancito come una specie di eterna immobilità nelle costituzioni dell’area del casiddetto «socialismo reale», con il trionfo del pluralismo, o nell’avere preconizzato l’avvio al disarmo e l’avvicinamento fra i due sistemi (statunitense e sovietico) fino alla loro fusione, avente come sede – carne hanno affermato Gorbaciov e Giovanni Paolo II – la «casa comune europea» e derivante, più che da accordi di vertice, da una mobilitazione democratica dei popoli attraverso un trasparente dibattito e consultaziani elettorali veramente libere. 

La grandezza di Zacharov consiste nel fatto che i suoi insegnamenti valgono anche per i Paesi occidentali i quali, alla lunga, non potranno rimanere fermi nell’immobilismo di un tipo di democrazia anchilosata e viziata da tante corruzioni e criminalità maflose ed economico-politiche, chiusa all’alternativa perché dominata dall’alibi del pericolo proveniente dalla minaccia armata e dittatoriale dell’Oriente. 

Gli insegnamenti zacharoviani sono preziosi anche per noi: quando egli denunzia il malcostume sovietica della designazione dei presidenti delle fattorie collettive in base a qualità come la furberia e il servilismo o quando condanna la compera di fedeli servitori del sistema esistente e propone un controllo pubblica più efficace sui manager, induce anche noi a fare un severo esame di coscienza e a renderci canto della necessità urgente di imboccare una via che restauri la genuinità delle scelte elettorali affinché esse non siano più condizionate dalle tangenti o dall’assegnazione di posti di una certa delicatezza e responsabilità ad incompetenti o a corrotti mediante concorsi più o meno truccati o mediante l’insulso metodo della lottizzazione e della corruzione. E che dire dei fatali e disastrosi errori derivanti – dice Zacharov – «dalle decisioni prese nel chiuso dei consigli segreti»? In questo campo i Paesi occidentali sono immuni o, per altro verso e per motivi diversi, anche da noi il potere economico e politico non rifugge dall’obbedire a decisioni occulte piuttosto che alle esigenze democratiche del bene comune? Se è così, i mutamenti dell’Est non potranno non provocare anche all’Ovest mutamenti ispirati alla genuina trasparenza democratica. 

Un discorso e una rilevanza particolare meritano poi (e per noi occidentali degne di attenta e profonda riflessione) le sue considerazioni sulla manipolazione dell’informazione in quanto dominata da prevalenti interessi pubblicitari e commerciali, sull’uso della psicologia di massa che tende a «suggerire sempre nuove possibilità di controllo delle nom1e di comportamento e delle convinzioni delle masse, sui nuovi mezzi di controllo biochimico ed elettronico dei processi psichici», per cui i valori umani e lo stesso significato della vita rischiano di essere sconvolti e l’uomo può essere «ridotto al rango del pollo o del topo del famoso esperimento in cui esso viene ubriacato elettricamente con una coppia di elettrodi applicatigli alla massa cerebrale». 

A proposito della cibernetica. egli dice testualmente: «Non si può ignorare il pericolo segnalato da Norbert Wiener nel suo libro Cibernetica: nelle macchine cibernetiche manca del tutto quel complesso di stabili norme di comportamento che sono invece presenti negli uomini. La tentazione di un potere senza precedenti affidato a un gruppo particolare in seno all’umanità dai sapienti consigli dei suoi futuri aiutanti intellettuali, gli automi capaci di pensieri artificiali, potrebbe diventare una trappola fatale». E così prosegue: «Se la libertà di pensiero non verrà difesa e se l’alienazione non sarà eliminata, questo genere di pericoli diventerà realmente attuale nel giro di pochi decenni». 

Interessante è, inoltre, in Zacharov il frequente accenno alle forze comuniste dell’Occidente i cui programmi giudica di fatto essere più socialdemocratici che filostalinisti e alla funzione riformatrice e di freno degli eventuali eccessi propri del culto capitalistico dell’individualismo egoistico e sfrenato che esse sono chiamate a svolgere assieme alla borghesia illuminata e progressiva. Questa sua opinione sul futuro delle forze politiche di sinistra nel mondo occidentale poggia sul presupposto, che ha ampiamente dimostrato, dell’assoluta impossibilità di una rivoluzione nei paesi a capitalismo avanzato. La tesi di Zacharov non è di poco conto e certamente può essere utile a noi italiani nel momento in cui, dopo i grandi e rapidi eventi dell’Est e il crollo del più gigantesco tentativo di fondazione 

di un sistema sociale basato sulla statalizzazione e burocratizzazione dei mezzi di produzione, i residui di una ideologia smentita dalla storia si attardano a fare fideistica professione di attaccamento a principi e a sentimenti che hanno soltanto apparenza di fuochi fatui. 

L’opuscolo di Zacharov si conclude con una visione utopistico-fantascientifica del genere umano in conseguenza del superamento delle sue divisioni in blocchi contrapposti. All’orizzonte del prossimo futuro egli intravede, infatti, una vita completamente nuova in cui «migliaia di persone lavoreranno e abiteranno in altri pianeti, su satelliti artificiali e su asteroidi» e in cui si realizzerà «un effettivo controllo e una reale direzione di tutti i processi vitali … fino ad agire sui processi psichici e sul meccanismo della ereditarietà». Il tutto dovrebbe essere il frutto di una grande rivoluzione scientifica e tecnologica sotto una guida mondiale di altissimo livello intellettuale. 

Il miraggio lumeggiato da Zacharov è per un verso affascinante per la stupenda dose di fantasia che contiene, ma per un altro verso lascia l’amaro della preoccupazione derivante dal dubbio che un manipolo di intellettuali, sia pure di altissimo livello, possa guidare il resto dell’umanità al perfezionamento democratico e libero del suo vivere o non piuttosto, sia pure attraverso la strada lunga della democrazia, a una specie di servaggio universale e al soffocamento di ogni soffio di umanità e, quindi, alla fine di ogni valore morale e spirituale. 

Gaspare Li Causi 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 59-62




 Dossier Inquisizione in Sicilia 

Francesco Giunta, nel luglio del 1991, ha dato alle stampe il frutto di una ricerca (Dossier Inquisizione in Sicilia) condotta nell’Archivio Ducale Medinaceli di Siviglia assieme ad una missione politico-scientifica organizzata dai Ministeri degli Esteri e dei Beni Culturali d’Italia e di Spagna. 

Si tratta di un volumetto di entità poco significativa quanto al numero di pagine, ma prezioso per i segreti che ci svela dopo secoli di forzato oblio; segreti che avrebbero fatto tremare gran parte della classe dirigente siciliana, se fossero stati resi pubblici nell’epoca in cui l’Inquisizione di Spagna in Sicilia fu abolita con D.R.del 17/3/1782. 

Fino al 1991 si sapeva quasi tutto del S. Officio di Sicilia (l’ordinamento, i modi di condurre i processi e la casistica delle sentenze, i rapporti “ufficiali” con gli altri fori giudiziari, con le autorità civili, amministrative e militari, la giurisdizione e le competenze, le direttive ricevute dall’Inquisitore Generale di Spagna, gli Autos da Fè celebrati); s’è trovato finanche un conto spese (con elenco di vivande consumate) riguardanti un ricco banchetto riservato a tutte le alte autorità della Città, consumato presso l’Arcivescovato di Palermo dopo un auto da l’è con rogo svoltosi in una delle piazze del capoluogo siciliano. In tema di contabilità, a quanto sembra, dominava lo scrupolo. Ma dei cognomi e nomi degli Officiali e dei Familiari (cioè gli affiliati al S. Officio) nulla era rimasto dopo che il 27/3/1782, con una cerimonia solenne presieduta dal Vicerè Caracciolo, furono date alle fiamme nel palazzo dell’abolita Inquisizione tutte le carte più o meno compromettenti. Vero è, altresì, che il Vicerè M. A. Colonna, avversario dell’Inquisitore Bezzerra e coraggioso difensore della legalità, sosteneva in una lettera inviata al Re di Spagna che fra gli affiliati e caporioni della struttura inquisitoriale vi erano “todos los ricos, nobles, y los delinquentes” , e il Di Castro, con più precisione , scriveva: “Ce ne sono cavalieri, conti, baroni, ed artigiani, villani et ogni specie”. Ma nulla di più era emerso fino al 1991. 

Il Giunta ha il grande merito di avere rintracciate e rese pubbliche le matricole contenenti i cognomi e i nomi degli officiales e dei familiari operanti in quasi tutte le città e paesi di Sicilia secondo l’organigramma redatto nel 1561 dal magister notarius secreti Juan Perez de Aguillar. Tale organigramma, comunque, conferma quanto riporta il Vicerè M. A. Colonna, cioè il carattere capillare della struttura occulta dell’Inquisizione di Sicilia e tale da controllare tutta la società dell’Isola. Ben a ragione il Giunta alla fine del “Dossier” chiosa: «Come tutti i poteri occulti o paralleli a quelli ufficiali dello Stato il S. Uffizio si configura come taluni del nostro tempo e della nostra società. Mi risulta evidente la strettissima analogia, come organizzazione e come mentalità, soprattutto con il potere mafioso. Problemi di quel tempo e, purtroppo, ancora del nostro». É molto probabile – ma occorrerebbero indagini oculate e accurate per dimostrarlo con certezza – che il substrato socio-storico sul quale, prima e con più virulenza che in altre regioni d’Italia, si è innestata in Sicilia l’organizzazione mafiosa dei nostri tempi sia stato abbondantemente concimato con le scorie più infami e illegalistiche di quasi tre secoli di dominio in Sicilia della obliqua e iniqua struttura inquisitoriale a servizio della più grande superpotenza del mondo che fu la Spagna col suo intercontinentale impero. 

Il risultato più negativo di tale dominio fu l’aver abituato la gente di Sicilia, volente o nolente, al soffocamento del senso civico, alla sfiducia nei confronti dei poteri costituiti alla paura delle novità e della circolazione delle idee e del pensiero, alla diffidenza verso il proprio vicino e verso i membri della propria famiglia, al mutismo prezioso più del pane ai fini della sopravvivenza fisica, ad una mentalità insomma passiva e subalterna, allo spegnimento dello spirito critico. Tale mentalità fu, in verità, combattuta da una minoranza di intellettuali (talvolta membri della stessa Inquisizione caduti in disgrazia per aver dissentito da forme estreme di disumanità e crudeltà, come Argisto Giuffredi che fu contrario alla pena di morte e alla tortura), da eretici luteraneggianti o presunti tali, da teologi “troppo intelligenti” o anche da pubblici alti funzionari di Stato: ma essa non poteva elle soccombere dinanzi al vicolo cieco di un dominio spagnolo che sotto il volto legalistico nascondeva quello invisibile del potere inquisitoriale, il quale proteggeva pervicacemente qualunque criminale di alto o basso livello si fosse posto al suo servizio e sotto le sue ali. Sicché a uomini come il poeta (probabilmente il Baronio) dell’ottava seguente, decifrata e conservataci dal Pitrè, altro non rimaneva che affidare la difesa della sua dignità umana alla forza interiore e allo sfogo poetico sul bianco intonaco di una cella del carcere del S. Officio: 

Et haju sensu assai e ancora sentu! 
Nun sugnu foddi a la dogghia eccessiva! 
Et a li guai chi patu ogni mumentu 
la mia dogghia murtali ancora è viva! 
…chi furtuna ferma a lu miu stentu 
pirchì la dogghia sia cchiù sinsitiva: 
e benchè sia eternu lu turmentu 
nè di sensu nè di anima mi priva. 

Oppure rimaneva il piacere di inveire mordacemente contro le spie dell’Inquisizione (i familiari e affiliati vari), come si rileva dall’ottava attribuita dal Garufì all’inquisito, condannato intorno al 1567, avv. Guglielmo Bonscontro. L’ottava citata, oltre ad essere un palpitante documento dell’amara esperienza e della rabbia del poeta, lascia immaginare che chi diventava strumento dei crimini inquisitoriali subiva lo stesso destino dei perseguitati (cioè la morte violenta) quando non serviva più e poteva, se mai, diventare di impaccio e rivelatore di segreti.Tutto ciò rafforza l’ipotesi del Giunta sulla somiglianza (almeno stando a quanto ci riferiscono i giornali) della mentalità del “mondo” inquisitoriale con quella del “mondo” occulto del nostro tempo, nel quale non sembra infrequente la tendenza a eliminare fisicamente i testimoni più pericolosi di certi efferate vicende o di eccellenti delitti. Basti pensare agli inquietanti casi Giuliano, Pisciotta, Sindona, Calvi, ecc., per non parlare delle faccende sporche di altri stati orientali e occidentali. 

Un altro aspetto che accomuna o fa somigliare l’Inquisizione di Sicilia ai poteri occulti del nostro tempo è rappresentato dal costante esorbitare dai suoi conclamati compiti di sacro tribunale in difesa della fede cattolica nel clandestino e frequente uso della sua organizzazione sul terreno politico e politico-militare. Questa connotazione politica si accentuò durante i regni di Filippo IV e di Carlo II. In questi anni di critiche emergenze assolse a compiti di primissimo piano contro le insidie dei Francesi in Sicilia e contro la rivolta popolare capeggiata da Giuseppe D’Alessi, della cui uccisione si tramò – dice il La Mantia – nel palazzo del S. Officio, ed è certo che il Baronio fu rinchiuso nel carcere dell’Inquisizione quando fu scelto come segretario dal D’Alessi. 

Repressa la rivolta, il S. Officio funzionò come servizio segreto di spionaggio e di informazione sulla condotta dei singoli cittadini, stando a quanto si evince da una lettera di Don Giovanni d’Austria al S. Officio siciliano riportata dal La Mantia. Ma un vero e importante ruolo di supporto politico-militare fu svolto dall’Inquisizione durante la guerra franco-spagnola del 1647. È noto che durante quella guerra la Città di Messina, stanca di vedere la sua industria della seta tartassata da pesanti bulzelli, aprì le porte alla flotta e alle truppe francesi. L’evento suscitò gravissime apprensioni e l’Inquisizione, per scongiurare l’estensione della ribellione a tutta l’Isola, seppe abilmente prendere i provvedimenti adeguati e addirittura si sostituì alle autorità regie, al punto che – ci informa il Pitrè – il boia del S. Officio si sostituì al boia dello Stato nello strozzare nel carcere inquisitoriale, nel 1672, un cappellano della galera siciliana “S. Chiara”, reo di portare addosso alcune lettere del Duca di Bivona provenienti da Messina e alcune monete francesi. 

Ma la prova palmare del molo politico-militare assolto segretamente dall’Inquisizione durante l’occupazione francese di Messina è costituita da una lettera inedita contenuta nel Manoscritto Qq.H 62 conservato nella Biblioteca Comunale di Palermo dal titolo: “Quanto ha contribuito alla tranquillità dello Stato il Tribunale del S. Officio”. Si tratta di una lettera riservata inviata dall’Inquisizione di Sicilia a quella Generale di Spagna e al Consiglio Supremo concernente la situazione di Palermo e dell’Isola determinatasi dopo lo sbarco dei francesi a Messina. In essa si fa una dettagliata analisi dei pericoli incombenti e si mettono in guardia le autorità politiche e militari dal prestare troppa fiducia al popolo reclamante la morte dell’Arcivescovo incolpato di non avergli voluto dare l’artiglieria della Maestranza necessaria al rafforzamento dei Bastioni e ardentemente voglioso di armarsi e di saccheggiare le case dei messinesi. Vi è detto che” ningun pueblo puede ser tan generalinente bien timorado que no tenga quien desea novedades y occasion de esercitar la codisia y la mudanza de fortuna” e aggiunge che “el zelo” della plebe “se passa a indiscreto y peligroso”. Non mancano, poi, le osselVazioni di carattere militare e l’informazione sulla organizzazione di un vero e proprio contingente di volontari armati. “Abbiamo formato – prosegue la lettera – una compagnia di familiari che stia pronta nelle occorrenze presenti (…) e consta in gran parte di cavalieri e di gente onorata e valorosa”. 

Ho voluto riportare i passi più importanti della lettera per la curiosa analogia con i fatti tristemente collegati ai vari piani occulti dei nostri tempi e con le accennate ombre di nuovi volontari di un potere parallelo che non si chiamano più “familiari” ma “gladiatori”. Si vede che in Italia, all’alba del Duemila, la storia tende a ripetersi. 

Gaspare Li Causi

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 69-72.

 




 A vent’anni dallo sbarco sulla luna (Noterelle senza pretese) 

Il 20 luglio 1969 due terrestri, gli americani Armstrong e Aldrin, dal modulo dell’astronave Apollo Il, guidato dal pilota Michael Collins, sbarcavano, muniti di scafandro e telecamera, sul suolo lunare. 

Quel giorno veniva violata la verginità della silente peregrina del cielo e l’ariostesca utopia del viaggio d’Astolfo diventava realtà. 

Si ricordi, però, che il bravo Astolfo viene immaginato dall’Ariosto come protagonista di una stupefacente esperienza: la scoperta di tutte le bontà che, fuggite dalla terra, erano approdate fantasticamente sulla luna; il recupero, tra esse, del senno dell’amico Orlando impazzito d’amore per la bella Angelica; la rivelazione che l’unica cosa non rintracciabile sulla luna era la pazzia rimasta fra gli uomini assieme a tutte le altre brutture della vita. 

Si disse vent’anni fa che con la storica impresa lunare, paragonabile a quella degli Argonauti, sarebbe cominciata una nuova era. E poiché, come dimostra Giacomo Leopardi nel Dialogo d’un venditore di almanacchi e di un passeggere, gli uomini suppongono, quando si parla di novità, che queste preparino tempi migliori, si sperò che il nuovo traguardo lunare della scienza umana avrebbe comportato la possibilità di risolvere, se non tutti, molti antichi problemi del genere umano. 

Qualcuno ne dubitò e l’uomo della strada, sia pure con grossolana saggezza, arguì che, non essendosi trovato sulla polvere lunare nulla che servisse alla vita umana (né frutta, né insalata, né le gustose triglie del mare di Sicilia) l’impresa era servita solo a fare spendere dollari e a preparare armi nuove e più micidiali delle antiche. Qualche altro, come Marcello Cini su «L’Unità» del 21-7-1989, ha definito la conquista della luna nient’altro che «il trionfo e il punto d’arrivo di una visione tipicamente ottocentesca della scienza e della tecnica». 

Certo è che nel 1969 l’astrofisica e le collaterali tecnologie dello spazio, comprese quelle concernenti la computeristica e la telematica, hanno fatto balzi in avanti meravigliosi e impressionanti in direzione della facilitazione dell’informazione e dell’abbreviazione delle distanze nonché in direzione dell’esplorazione degli abissi dell’infinito universo fino a lambire e svelare i misteri dei remoti satelliti di pianeti prima sconosciuti. 

Ma la vivibilità sulla nostra terra è migliorata? È stata cacciata o sconfitta la pazzia che già nel 1500 fu al centro delle tematiche dell’Orlando Furioso? È diventata meno infelice l’umanità che ora ha – come aveva auspicato il Leopardi nel Canto Notturno d’un pastore errante dell’Asia – le ali per «volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una»? 

Ed è finalmente riuscita a scoprire ove tende il vagar suo breve e lo stesso corso della luna e degli astri? 

Il benessere materiale e consumistico (non può negarsi) è cresciuto a dismisura nelle aree ad elevata industrializzazione. Ma chiunque abbia un minimo d’intelletto si accorge che in questi ultimi vent’anni, benché non si sia precipitati nella voragine di una terza con11agrazione mondiale, l’imbarbarimento dell’uomo e la sua atavica pazzia sono cresciuti sensibilmente; la violenza e la crudeltà sui più deboli, sui bambini e sugli anziani assieme alla violazione massiccia dei diritti della libertà personale e domiciliare avanzano in modo capillare e devastante; la droga (nuova arma di sterminio e di schiavistica disumanizzazione nelle mani di potentati criminali non facilmente scindibili dall’alta finanza tout court) e la conseguente spudorata criminalità dilagante stanno disgregando ogni tipo di organizzazione sociale e civiltà che hanno impiegato millenni per formarsi, e stanno riducendo i popoli ad ammassi di «animali parlanti» ispirati soltanto dal più gretto ed egoistico individualismo competitivo, a «vulgo disperso che nome non ha» di manzoniana memoria. 

È in pericolo lo stesso concetto di civiltà perché, se è ancora valida la concezione vichiana e foscoliana di civiltà intesa come intreccio solidaristico («esser pietosi di se stessi e d’altrui») scaturito dall’affermarsi di «nozze, tribunali ed are», allora possiamo affermare che i popoli che non hanno più fede in niente, che sono amitti dal vizio della disgregazione familiare e che sono torturati dall’inefficienza della magistratura, non sono più popoli civili, anche se le loro autostrade (anche qui però quante migliaia di morti all’anno) sono percorse da milioni di automobili, e le loro abitazioni sono fornite di tutte le comodità tecniche. Allora aveva forse ragione Gyorgy Lukacs quando, 20 anni fa, dopo avere affennato che nell’epoca odierna lo sviluppo eccessivamente rapido della scienza e della tecnica è collegato ampiamente con l’alienazione dell’uomo e che questo dell’alienazione è il problema centrale del nostro tempo, così concludeva: «Io non vedo che su questa linea, la vera questione dell’umanità – cioè il divenire uomo dell’uomo e il superamento dell’alienazione – possa ottenere alcun risultato sostanziale anche attraverso i più grandi risultati scientifici conseguiti nell’astronomia e nella tecnica del volo». 

Penso quindi che non è cosa saggia ridurre tutto (lo stesso mondo, il cielo, la terra e il mare) in termini di macchinismo e di congegni smontabili o separabili. Troppo grande appare ormai il rischio della inevitabile scomposizione e dello squilibrio prodotti dagli effetti di tecniche spericolate. Basti pensare un po’ ai buchi della fascia dell’ozono e alla irrespirabilità delle città. 

Non si può impunemente continuare in uno sviluppo illimitato e perseguito caparbiamente a gloria del denaro che lo sostiene. Occorre ridurre alle giuste dimensioni il culto di Plutone e ridare validità e prestigio alle altre divinità dimenticate o oltraggiate. Bisogna insomma che il cosidetto progresso scientifico sia condizionato dall’egemonia degli antichi valori umani. 

Non si tratta di impiantare il paradiso sulla terra, ma cominciare qui da vivi, come ci suggeriva Paolo VI nell’enciclica Populorum Progressio, a costruire Il Regno di Dio, rinnovandoci in meglio nel solco dell’insegnamento che ci proviene dalle antiche civiltà. Del resto mai nella storia alcun movimento di rinascita e di liberazione ha potuto svilupparsi disancorandosi dai valori trasmessi dagli antenati. 

Gaspare Li Causi 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 47-49.




 Le ragioni del principio antropico 

L’universo è sconfinato nel tempo e dunque anche nello spazio. La teoria cosmologica del Big Bang, quasi unanimemente accettata da tutti gli studiosi, fissa una origine dell’universo circa 15 miliardi di anni fa: tenendo conto dell’espansione dell’universo scoperta da Edwin Hubble negli anni 1920/30 e del fatto che la velocità massima con cui ha luogo ogni genere di propagazione (di materia, di informazione, di energia, etc.) è quella della luce, si potrebbe osservare un volume di spazio pari a quello di una sfera con un raggio di circa 15 miliardi di anni luce (a.l.): essendo un a.l. la distanza che la luce percorre in un anno nel vuoto, 15 miliardi di a.l. equivalgono a circa 142.000 miliardi di miliardi di Km! 

In questa immensa distesa spazio-temporale, la vita, almeno per come la conosciamo noi e per quello che sappiamo dell’universo, così come ci appare oggi con i nostri limiti osservativi, si è sviluppata su un piccolo pianeta di un sistema stellare periferico di una comunissima galassia a spirale: la Terra. 

Le valenze conoscitive di questa osservazione chiamano in gioco, da qualunque angolazione la si voglia leggere, il ruolo ed il significato della presenza dell’uomo e della vita nell’universo: qualunque esso sia, la sola nostra presenza, impone che questo universo debba essersi originato e sviluppato, per caso o per disegno prestabilito non è possibile appurarlo (anche se su ciò possiamo congetturare), in maniera tale da rendere possibile la vita e la presenza di esseri intelligenti quali noi siamo. 

È il cosiddetto principio antropico: in sintesi il tentativo di interpretare l’universo sulla base del fatto che nella sua genesi ed evoluzione ha reso possibile resistenza di esseri ‘coscienti in grado di osservarlo e di porsi domande su di esso. 

Le condizioni iniziali dell’universo in cui viviamo e leggi fisiche che ne sono scaturite e che lo regolano sono infatti proprio quelle necessarie per consentire resistenza della materia, della vita e dell’uomo sul pianeta Terra. 

Noi sappiamo che l’universo è nel suo complesso retto da 4 tipi di forze od interazioni come è più corretto chiamarle (gravitazionale, elettromagnetica, nucleare forte, nucleare debole) le cui intensità vengono espresse per il tramite di alcune costanti fondamentali della fisica quali la velocità della luce, la costante di Planck, la costante gravitazionale di Newton, la costante di Hubble, etc.: queste costanti, insieme ad altre della fisica che esprimono le proprietà delle particelle elementari, quali la massa, la carica, etc., avrebbero potuto benissimo assumere valori diversi da quelli a noi noti, ma se ciò fosse avvenuto, l’universo non sarebbe così come noi lo conosciamo e noi non saremmo qui a porci questo quesito: in altri termini noi esistiamo perché esistono certe precise relazioni tra interazioni e particelle. 

Basta cambiare di poco il valore di una di queste costanti e le condizioni che hanno portato alla vita vengono a mancare! 

“L’esistenza degli esseri umani è iscritta nelle proprietà di ogni atomo, stella, galassia dell’universo ed in ogni legge fisica che regola il cosmo”: così afferma Trinh Xuan Thuan, astrofisico americano di origine vietnamita. Altri studiosi si spingono ancora oltre appoggiandosi ad uno dei più sorprendenti risultati della meccanica quantistica e sostengono che è proprio la presenza dell’uomo a dare senso all’universo: senza l’uomo esso non ne avrebbe e pertanto l’evoluzione dell’universo non può che essersi univocamente indirizzata sulla via che porta alla vita ed all’uomo. 

Il principio quantistico che ne fa da referente a1Terma che è l’interazione tra osservatore e cosa osservata a conferire realtà al fenomeno e perciò è necessaria la presenza dell’uomo a fare collassare l’onda dell’universo e stabilime l’esistenza, proprio come un elettrone, che in buona sostanza è una nuvola di carica spazialmente non individuabile, acquista realtà di particella solo quando un osservatore fa collassare la sua funzione d’onda, cioé fa sì che, mediante un oppportuno dispositivo sperimentale, la probabilità di osservarlo in un certo punto sia massima rispetto a quella di osservarlo in altri punti dello spazio-tempo quadrimensionale, nei limiti consentiti dal principio di indeterminazione di Heisenberg. 

In questa ottica si comprende la entusiastica affermazione del fisico americano John Wheler: “Se perché esista un osservatore cosciente è necessaria resistenza di un universo, è altrettanto vero che l’esistenza di un osservatore è ugualmente indispensabile per il collasso dell’onda dell’universo: vale a dire per sancire la sua esistenza”. 

Senza la presa di coscienza della sua esistenza da parte di un osservatore, cioè senza un processo di osservazione e misurazione, la cosa osservata è priva di realtà fisica: il principio antropico sembra dire che gli esseri umani, in quanto osservatori, sono la coscienza di sé riportando così l’uomo al centro dell’universo. posizione da cui era stato strappato con forza dalla rivoluzione copernicana. 

È superfluo sottolineare che una simile applicazione su vasta scala di un principio il cui dominio di azione è il microcosmo non è affatto unanimamente accettata sembrandone il suo uso del tutto arbitrario, fuorviante e ad hoc per dimostrare un assunto aprioristicamente accettato per buono. 

Quest’ultima versione del principio antropico è quella detta forte in contrapposizione alla prima detta debole. proprio perché mentre la prima partendo dalla realtà che ci circonda si limita alla ricerca delle condizioni che apriori la hanno resa possibile, l’altra impone una lettura finalistica di questa realtà: in altri termini secondo la versione debole la presenza della vita ci può aiutare solo a selezionare tra le possibili storie dell’universo quelle compatibili con la vita mentre la versione forte si spinge oltre assegnando all’uomo il ruolo di termine ultimo. di fine del creato. 

È fortemente anomalo, ma a mio avviso fecondo di possibilità di ricerche future. come nella cosmologia moderna sia entrato. attraverso la variante forte del principio antropico, un elemento finalistico anche se usato in chiave scientista come spiegazione post hoc dell’universo. 

Il problema di fondo che spinge parecchi cosmologi ad una lettura forte del principio antropico è essenzialmente legato alla improbabilità che dal Big Bang sia potuto emergere un universo come il nostro: bisognava perché ciò accadesse un universo che già nello stato iniziale fosse ben ordinato e ciò è assai poco probabile anzi è molto speciale: bisognava che le leggi dell’universo in cui viviamo preesitessero ad esso stesso regolandone la genesi e lo sviluppo: e siamo a due passi dalla presenza di Dio! 

Questa scomoda presenza può però essere rimossa ipotizzando un modello ad N-universi. per il quale alcuni si richiamano alla teoria inflazionaria caotica elaborata dal fisico sovietico Andrei Linde ed alla disomogeneità e disuniformità al contorno del Big Bang, dati questi recentemente confermati dal COBE (Cosmic Background Explorer) il satellite della Nasa che sta fornendo importanti indicazioni sulla struttura dell’universo. 

Secondo la teoria ad N-universi esistono infiniti universi non in relazione tra di loro e noi esistiamo in uno di essi nel quale si è potuta sviluppare una vita basata sul ciclo del carbonio e possiamo percepire solo questo universo perché solo in esso siamo in grado di compiere operazioni di misura. 

Così facendo la vita torna ad essere un caso e non una condizione al contorno stringente ed assoluta. 

Dimenticando per un momento la duplicità di lettura del principio antropico esso appare come una sorta di nuovo propulsore della ricerca cosmologica, nuovo nel senso di un utilizzo post hoc del dato reale della presenza della vita sulla terra: partendo dalla constatazione della presenza dell’uomo si deducono le condizioni iniziali adatte a determinare tale presenza; ciò pur non costituendo un nuovo epistema è comunque un indicatore del bisogno di nuovo che si avverte all’interno della comunità scientifica’ (vedi il problema delle 3 C in fisica non lineare: catastrofi, caos, complessità). 

Che il principio antropico possa avere implicazioni finalistiche o meno, mi sembra, ma è una mia personale opinione, esuli dal campo della ricerca scientifica vera e propria e chiami piuttosto in gioco il bisogno di metafisico che emerge sia dalla crisi di valori della cosiddetta civiltà tecnologica sia dai tentativi di coniugare fede, teologia e scienza che attraversano trasversalmente il dominio della ricerca teologica e quello della ricerca scientifica. 

Sembra infatti riemergere la necessità di un principio, di un elemento ordinatore che assicuri razionalità ai fenomeni della Natura in maniera da permetterei di descriverla in termini logici, simbolico-matematici, o metasimbolici ed il vecchio epistema laplaciano per il quale l’ipotesi di Dio sia superflua per la descrizione del mondo non appare più, come altresì accade al meccanicismo newtoniano ed alla dinamica lagrangiana, come una condizione imprenscindibile per la ricerca scientifica. 

Una tale necessità pare sembra farsi più impellente a mano a mano che si accumulano dati sulla teoria del Big Bang, una teoria che pone i fisici dinanzi ad un oggetto particolare descritto con il nome di singolarità: uno stato fisico che non sappiamo descrivere in termini di equazioni e con cui i fisici hanno poca amicizia poiché esso contravviene ai più basilari principi di continuità su cui è costruito l’intero edificio della fisica. 

L’elaborazione del principio antropico si inserisce nel quadro di queste nuove necessità conoscitive da due differenti versanti: da un lato i teologi non hanno tardato a farne uno strumento per riaffermare un antropocentrismo ed una teologia della salvezza rivista in termini cosmici, dall’altro essa ha spinto la ricerca scientifica su territori ad essa inusuali, pervenendo alla elaborazione di un concetto di dio in termini razionali e logici che coinvolgono il concetto di informazione ed in maniera riflessa quello di entropia. 

Sul versante teologico il principio antropico sottolinea ulteriormente la specificità della presenza dell’uomo nell’universo rimarcando l’unicità di specie vivente intelligente propria dell’uomo. 

Nel porre la genesi e lo sviluppo dell’universo in relazione con il presentarsi della vita, il principio antropico pone. secondo i teologi, un problema di relazione che va oltre l’usuale determinismo causa-effetto proprio perché in tale universo viene a determinarsi una forma di vita intelligente: in altri termini i teologi tendono a sottolineare che la differenza che l’uomo pone all’interno del creato non può essere, né deve essere sottaciuta! 

L’uomo che si pone come osservatore nei confronti dell’universo e che percepisce la sua unicità di osservatore intelligente, riconosce nella esistenza di 

un processo evolutivo che a lui conduce una sorta di codice cosmico che alla luce della fede egli vede come opera di una persona che ha programmato la genesi e lo sviluppo dell’universo in funzione dell’uomo: questa persona gli si palesa quindi come supremo ordine, come realtà apriori dell’universo, in modo da poterlo preordinare, fuori, pertanto, dal tempo che egli stesso crea e nel quale si immerge, come garante della stabilità del creato e delle sue leggi: ma questa persona gli si palesa anche come principio di libertà dato che l’uomo si percepisce realtà incondizionata e libera: in tale persona la fede gli consente di riconoscere Dio! 

Il progetto etico della fede, ma sarebbe meglio dire delle religioni, diventa pertanto il progetto di una sorta di realizzazione cosmica che passa, come per un percorso obbligato, attraverso la realizzazione dell’uomo. 

Il progetto cosmico di Dio, l’universo stesso creato per l’uomo, si compie attraverso la realizzazione dell’uomo, come entità chiamata alla vita ed al mistero dell’essere ed a rapportarsi con il motore euristico dell’universo, Dio, Essere autoesplicativo e principio ordinatore del cosmo e delle sue leggi. 

Sull’altro versante, il principio antropico ha dato luogo al tentativo di un modello matematico di Dio: è la “Omega Point Theory” (Teoria del punto Omega) elaborata dal fisico-matematico Frank J. Tipler. 

Il Dio di Tipler è un Dio in evoluzione, che è nel mondo, lo crea e ne è creato. 

Creato e creatore, lungi dall’essere due cose differenti, sono invece manifestazioni differenti di un unicum, cioé manifestazioni su scale diverse di questo unicum, come fossero realtà sovrapposte una all’altra, ma di una sovrapposizione che li rende apparentemente una trasparente all’altra! 

Consideriamo come esempio esplicativo un uomo: esso è composto da atomi, ognuno dei quali obbedisce a delle precise leggi fisiche: pur non di meno l’uomo, totalità di quegli atomi, non solo non è descrivibile nei termini con cui si descrivono gli atomi, ma è ben più che la semplice somma degli atomi stessi. 

In egual maniera l’universo è descrivibile da precise leggi fisiche, ma oltre quelle leggi emerge una realtà oltre, emerge una Persona. 

L’universo di Tipler è un universo autoconsistente in quanto per esistere non richiede il bisogno di un intelVento ad esso esterno; è in evoluzione nel senso che esso è sede di un continuo aumento di informazione! 

La storia dell’universo è una storia di tipo evolutivo: dalle forme di vita elementari si è pervenuti all’uomo e noi stessi siamo destinati ad essere sostituiti da una specie più evoluta di noi; questo ci suggerisce da un lato la nostra insignificanza nel tempo, nella storia del cosmo e dall’altro ci pone dinanzi un imperativo di tipo etico: quello di assicurare la continuità di crescita dell’informazione. 

In questa maniera si compie l’evoluzione di Dio: come una continua crescita di informazione, garantita dalla vita e tuttavia da essa sempre più smaterializzata! 

Se questa continua crescita avrà un fine naturale, esso è il Punto Omega, una singolarità, la fine del cosmo come completa autorealizzazione del creato, una sorta di intelligenza senza materia, pura ed assoluta conoscenza! 

Domenico Salvatore Giarraffa 

BIBLIOGRAFIA 

1) P.C.W. Davies, “C’è posto per Dio tra i quark e il Big Bang?, n° 31 1’cAstronomia., marzo, 1984. 
2) S. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri, Rizzoli, Milano, 1988. 
3) John Gribbin, L’Universo come parte di noi, nO 97 l’cAstronomia., marzo, 1990 
4) J. D. Barrow, n mondo dentro il mondo. Ade1phi. Milano. 1991. 
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Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 45-51.