Sàito narratore 

Sono passati più di trenta anni da quando lessi per la prima volta e scoprii Nello Sàito narratore. L’occasione mi fu data dall’attribuzione dei premi Viareggio 1970. Quell’anno vennero premiati Pietro Citati per la saggistica, Nelo Risi per la poesia e Nello Sàito per la narrativa. Una triade che apparve fin d’allora ben scelta, accomunata com’era, non tanto dal bisogno di dire quanto di contribuire con la scrittura a migliorare la società. 

Nello Sàito, che con Dentro e fuori era al suo terzo romanzo, aveva già evidenziato questa sua attitudine in Maria e i soldati (1948) e ne Gli avventurosi siciliani (1955), e così continuerà negli scritti che seguirono, nella narrativa, nel teatro e in quelli di letteratura o di altro, perché Sàito è un agguerrito germanista oltre che un giornalista che sa il fatto suo. 

Da buon siciliano qual è (il padre di Licata, in provincia di Agrigento, si era trasferito con la famigliola a Roma per motivi di lavoro), senza niente elemosinare, s’è fatto strada da solo, giorno dopo giorno, fidando nella sua caparbietà e nell’intelligenza, in anni del secondo dopoguerra quando era facile aggrapparsi al primo carrozzone e ottenere vantaggi. Caparbio, Sàito, nella sua coerenza d’uomo e di scrittore, anticonformista che di primo acchito può sembrare reazionario, anarchico, mentre invece è animato da sincere convinzioni e da un bisogno forte di andare contro il malcostume dilagante e le opinioni comuni che fossilizzano e rendono incapaci di agire positivamente e per il bene della collettività. 

È un discorso, questo, che va contro il tornaconto e che dovrebbe caratterizzare spesso l’operato di quanti sono chiamati a venire incontro alla gente ed invece, incuranti dei danni che arrecano, a tutto pensano fuorché a se stessi, eludendo per i più i bisogni elementari che poi sono sacrosanti diritti. Un esempio? Nel momento in cui si parla di ponte sullo Stretto, a che serve un ponte se nell’isola mancano le infrastrutture da garantire un vivere sociale più umano? Mentre tanti rimangono indifferenti, come se la cosa non interessasse, Sàito è una voce ferma nel panorama dell’ intellettuali tà siciliana che da subito si è alzata contro questo progetto mostruoso, fatto cadere come una spada di Dàmocle sulla testa di tutti senza interpellare nessuno, come se il popolo non esistesse e come se tutto fosse rose e fiori, dimentichi della gente che li vive, delle conseguenze che esso può avere sull’ambiente, in un punto geografico da sempre ballerino. 

La Sicilia ha bisogno di ben altro per concretare le sue possibilità, non di un ponte; come nel passato, essa deve ritornare ad essere ponte tra le genti, per la sua produttività, per la cultura, per i suoi uomini migliori che questo vogliono. Essa è già un ponte, così com’ è un centro; abbisogna solo delle condizioni per realizzarsi veramente, e basta con la deleteria pubblicità che la oscura nella sua immagine vera e nell’umanità che è nella sua gente! Ma dove sono i tanti altri a far da coro a questa voce? 

La sicilianità di Nello Sàito non è nel clamore, non nei colpi di testa e, tanto meno, nella Sicilia a cui non pochi scrittori hanno abituato a guardare, piuttosto pronti a cogliere consensi che a darne un’immagine veritiera. Egli ama la Sicilia e se la porta nel cuore con l’orgoglio del siciliano attaccato alla terra che gli è propria. Perciò ne parla col massimo rispetto, nel timore di poterla in qualche 

modo appannare, e ne evidenzia pregi e difetti, come è bene che sia. Sicché, tratti della Sicilia o dei Siciliani, è sempre pronto a cogliere il positivo e a sposare la causa giusta. Perché, a differenza di Sciascia, di Camilleri o dei tanti loro epigoni, Nello Sàito scrittore esalta la vita, gli uomini e i paesaggi, non la mafiosità e il male, dovunque imperanti (non solo in Sicilia) che distolgono dalla realtà e danno un’ immagine negativa. 

Il siciliano di Sàito (si tengano presenti Mauro di Maria e i soldati o Enrico di Una voce, tanto per citarne alcuni) non è mafioso, bensì uomo ricco di sensibilità, capace di agire e di reagire anche bellamente, e di uscire da situazioni incresciose con dignità, quasi col sorriso sulle labbra. Così anche il lettore è portato ad amare la Sicilia e la vuole conoscere per come è, con i problemi che la travagli ano e le caratteristiche proprie della sua gente, in particolare una che, come scrive H. Koenigsberger, tra tutte le è preminente: la sua umanità1. 

Maria e i soldati, pubblicato nel 1948, vincitore del Premio Vendemmia nello stesso anno, venne ripresentato al pubblico dei lettori nel 1970, conservando intatto quel clima di tensioni e di speranze che fu proprio di quanti vissero la guerra e la resistenza. Tanti scrittori riportarono sulla pagina la loro esperienza di uomini e di partigiani, spinti – come rilevava fin da allora Arnoldo Bocelli – «dall’urgere stesso di quella realtà, della sostanza umana e sanguigna di quella cronaca», altri preferirono tradurre quelle tensioni per vederci chiaro e «risalire dalla irrazionalità di un mondo di sensazione alla razionalità del pensiero, della coscienza2». Tra questi ultimi è il romanzo Maria e i soldati, salutato con i migliori auspici dai critici del tempo (Pancrazi, De Robertis, Gallo, Bocelli e tanti altri). Qui il fatto cede il posto allo studio psicologico del momento, incerto e per questo non meno ricco di risvolti che fanno dello scrittore, ancora alla sua prima opera di narrativa, uno tra i più promettenti e validi della nostra letteratura. 

Il pregio del romanzo, la sua originalità, sta proprio qui, nel trascurare volutamente gli accadimenti per dare più importanza ai soggetti (e alle loro reazioni) che quelle esperienze vivono, ciascuno secondo la sua sensibilità. Ormai siamo negli anni in cui il neorealismo cominciava ad uscire da un modo esasperato e soggettivo di intendere la realtà e la vita per dare inizio alla riflessione e passare così da una esteriorità rumorosa ad una consapevolezza che nella coscienza del singolo trova la sua immediata ragione3. 

Maria e i soldati (4), per questo, è un romanzo corale, nel senso che (popolazione, soldati, militi, partigiani) tutti concorrono a creare un’atmosfera di attesa dovuta all’incognita del domani, all’evolversi della situazione che sempre più diventa incandescente, mentre il paese è diviso e combattuto nel fisico e nella morale. E se prima questa situazione era maggiormente sentita tra quanti erano vicini al potere o in esso coinvolti e nei luoghi più direttamente interessati, ora (siamo intorno al 1944) vivono in stato di agitazione anche quelli che si erano ritenuti al sicuro e fuori di ogni pericolo. 

Il racconto è incentrato su un distaccamento di soldati che nei magazzini della Sussistenza di una non ben precisata località del Centro Italia, a pochi chilometri dalla borgata di Santa Fiora, lavora ai forni e fornisce di pane e di viveri la zona militare di sua competenza. Tutto tranquillo, fin quando non si verificarono le prime avvisaglie di incursioni aeree alleate, ma soprattutto fin quando ai magazzini non arrivarono i militi con l’ordine di tenere la situazione sotto controllo. C’era un sottile malessere tra i soldati, specie da quando le azioni dei partigiani cominciarono a coinvolgerli direttamente, e il comandante aveva pensato bene di chiedere rinforzi. Anche perché un giorno o l’altro potevano essere attaccati, cosa che alla fine del romanzo è già decisa e data per scontata. 

Su questo, poca cosa per la verità, ma sufficiente a creare lo stato d’animo particolare che è di guerra, Sàito tesse con sapiente regìa il suo discorso che traduce l’ambiguità, le diffidenze, ma anche la generosità che nonostante tutto ha terreno fertile pure in momenti così tristi, e poi le speranze con i dovuti ripensamenti, la dedizione alla causa. In poche parole, lo scrittore ritrae bene lo stato d’animo delle parti in guerra senza cadere negli eccessi di una retorica che è consueta in opere del genere. 

Tutta la notte Remo stette ad occhi aperti. Cercava una via d’uscita a quella situazione e non la trovava. Egli non credeva ai miracoli: calcolava, non fantasticava più, e se si fosse potuto vedere al buio, in un pezzetto di specchio, quell’ombra infantile che nel momenti di rilassamento affiorava istintiva e trasparente sul suo viso, era stata definitivamente vinta (p. 115). 

La monotonia dei magazzini rotta a poco a poco dalle imboscate ai camion, dall’arrivo dei militi, cede il posto ad un disagio interiore che pesa come una cappa sulla testa di tutti, sui soldati come sulla gente, e ciascuno lo vive a modo suo. Tutti risentono di quel clima di tensione senza sapere bene perché, disorientati, successivamente, solo dopo l’arrivo dei militi, consapevoli di doverli contrastare. La guerra che altrove opera una netta scissione tra nemici, qui è come se non avesse luogo, eppure logora gli animi e rende sospettosi. 

A risentire di questo, Remo è l’ esempio più lampante e più studiato, controfigura di Maria che, a prima vista, può sembrare ambigua, ed invece recita bene la sua parte per legare gli altri alla causa di quanti lottano per uscire dalla guerra. Questa apparente ambiguità si dipanerà alla fine, quando si offre per facilitare l’assalto ai magazzini. Sicché Maria si rivela nella sua luce più vera che va al di là dei sentimenti, e sacrifica tutto, persino se stessa, senza niente chiedere, senza niente dire; sa solo di rendersi utile e per questo aspetta nella dedizione totale il sacrificio. 

Maria è determinata, come Andrea, il capo partigiano, come Bianchetti, il soldato passato con loro insieme a Remo, che, però, non riesce a darsi interamente alla causa, a sentirla con dedizione come gli altri, perché si fa prendere dal sentimento ed è dibattuto dal pensiero di lei che «gli si era infiltrata in corpo lasciandogli come un veleno imprecisabile e vago, che tutti gli avvenimenti posteriori non erano riusciti a spremere dalle sue vene» e dei compagni relegati ai magazzini, dal desiderio di vederli liberi e dal bisogno di amare. Remo è un ostinato, non vuol rendersi conto che in guerra c’è poco posto per i sentimenti. Maria soffre ma non si tradisce, riesce ad essere forte, a far prevalere un’ anima, ed è solo all’ultimo compresa da Remo, quando già le cose precipitano e non c’è tempo per i ripensamenti. 

Maria e i soldati è un romanzo d’amore sofferto, dove l’uomo fatica a vivere la sua umanità con i sentimenti più puri per il trascinarsi di una guerra fratricida che snerva e disorienta, e risulta piacevole sia per i fili sottesi del discorso ‘ narrativo che è pure avvincente, sia per il linguaggio calato nella realtà dei personaggi che non sono nelle condizioni di sfoggiare chissà cosa ma di esporre e di esporsi nella crudezza del momento. Nonostante il disagio che è dovunque, essi sono ben delineati e formano il variegato mondo che vive quel definito periodo. Anche l’aria che essi respirano in quel fazzoletto di terra è la stessa di tante altre parti, e vi prende corpo l’attesa, pur nel precipitare discontinuo di avvenimenti che dicono la gravità delle circostanze: la reazione di Mauro e la sua conseguente uccisione da parte dei militi (e la rabbia rattenuta dei compagni), il malumore e la chiusura della popolazione. E ci sono anche i partigiani che fanno proseliti e incrementano la loro azione di disturbo, il furto della mitragliatrice, la corsa di Bianchetti e il suo incontro con Remo nella casa di Maria … 

Nello Sàito già in questo primo romanzo rivela le sue doti di scrittore inconsueto. Intanto, dimostra di conoscere bene l’uomo e lo sa scrutare senza farsene accorgere, senza far pesare la sua presenza che è pure vigile e sostenuta da una prosa asciutta, senza ricadute o abbellimenti vari, calata nella psicologia dei personaggi, nel loro modo di valutare le cose, nel cercare un perché e nell’agire nel modo più consono . Sicché la scrittura ubbidisce al movimento interno che spesso è concitato, libera espressione del sentire. di tutti. Lo stesso paesaggio è assorbito nella vicenda che i protagonisti vivono, e le descrizioni sono riferite più all’ ambiente che ad altro, un ambiente dove uomini e cose risentono di uno stato di pesantezza e quasi di depressione. 

Arrivarono alla borgata. Remo non era mai stato a Santa Fiora: quattro case strette intorno a una chiesetta dal campanile aguzzo e giallastro. Dalla parte opposta a quella da cui erano entrati, una strada di campagna, ridiscendendo con larghi giri, conduceva nell’inteno della pianura. Sebbene fossero le prime ore del pomeriggio, non c’era quasi nessuno fuori delle case. 

Da una stalla uscì un contadino con una treggia, tirata da due buoi, piena di paglia mista a concime naturale. I buoi, dalle cui narici fumavano nuvole di alito caldo, si guardarono lentamente intorno: e a un grido dell’uomo si fermarono . di mala voglia, in attesa che quello aggiustasse con un forcone la paglia e il concime che minacciavano di cadere fuori della treggia (5). 

Eppure non mancano momenti. di grande tensione. Si veda la pagina che descrive Mauro nell’osteria con i militi e, quella di Bianchetti e Remo che recuperano la mitragliatrice e vanno defilati alla casa di Andrea. E poi Remo che incontra per la prima volta Andrea e il tumulto che quell’incontro gli suscita. Remo osserva, valuta ma a modo suo, con gli occhi del cuore, e non potrà mai rendersi conto, anche se partecipa, della determinazione di quegli uomini, a partire da Giovannino che nel suo silenzio decide ed è ubbidito e, inoltre, non riuscirà a motivare e tanto meno a giustificare l’uccisione di Antonio o di quella del milite. 

Lo scrittore plasma i suoi personaggi come l’artista la materia grezza, e non è facile dimenticarli perché in ciascuno di essi è la vita con le sue luci e le ombre su cui, vuoi o no, siamo chiamati a riflettere. 

Il secondo romanzo, Gli avventurosi siciliani, fu pubblicato nei «Gettoni» Einaudi, diretti da Vittorini, nel 1954, in un momento in cui il realismo cerca nuova linfa per rendere più incisivo l’apporto della letteratura nella società. Sàito, al di là delle tendenze, continua la sua ricerca iniziata con Maria e i soldati nel segno della razionalità che vede l’uomo più orientato ad affermare la sua lindura morale piuttosto che a cadere nelle maglie di un malcostume rapace. Studiato nella struttura, che è già molto, perché l’autore fin dall’inizio sa dove vuole arrivare, il romanzo si svolge, pur nella sua coerenza logico-narrativa, in due momenti (se non in tre, se si considera a sé la sosta palermitana) collegati tra loro, e il tutto in una prosa ormai padrona e libera, in cui persino il paesaggio ha la funzione di contrappunto, partecipando dell’aria che tira e della disposizione 

d’animo dei protagonisti. Al centro di tutto la Sicilia, con l’ amore e l’odio propri di chi vorrebbe che la sua solari età non contrasti con la triste realtà della gente. 

Fulvia, giovane milanese di sangue siciliano, viene mandata dalla madre in Sicilia con la scusa che lo zio Rosario sta male e la vuole vedere, ma con lo scopo di darla in sposa al di lui figlio Ninl, frivolo e vanesio. La prima parte del romanzo è dedicata al viaggio della ragazza da Milano fino a Napoli in treno, e di qui per mare fino a Palermo, dove Fulvia farà una sosta con amici casuali (l’avvocato Pennisi e l’esportatore Petralia) che già dalla partenza l’avevano adocchiata per spirito d’avventura. Si vede subito in opera, in treno come sulla nave o nella sosta a Palermo, l’estrosità dei due, che rasenta la comicità, ed è tutto un tocco di colore che mette in risalto alcuni aspetti dell’ essere siciliani, riconoscendo loro la generosità e la genialità delle trovate, il senso dell’ amicizia e anche la loro cocciutaggine. 

Se fin qui tutto si svolge nel segno di un’esaltante euforia dei protagonisti, l’arrivo a Trapani, da parte di Fulvia e di Petralia che la volle accompagnare, segna il cambio di registro che qui diviene drammatico con punte alte che sfiorano il tragico. Fulvia arriva in un momento particolare per don Rosario Barrancu, lo zio, che è ricco ma è anche uno sfruttatore e abusa dei salinari che lavorano nelle sue saline, grandi come un regno. Basta la morte di uno di loro per scatenare una rivolta e per far capire anche che è un mondo da fuggire, materialmente e soprattutto moralmente. 

Al primo apparire de Gli avventurosi siciliani alcuni critici notarono una minor coerenza alla tematica. G. De Robertis e N. Gallo che avevano salutato positivamente e con i migliori auspici Maria e i soldati, ora rilevano un contrasto tra prima («rumoroso, eccedente») e seconda parte («essenziale»)6, ora la caduta nella «raffigurazione, tra il simbolo e la favola, di una mentalità e di un paese7». 

Com’ è strutturato il romanzo, è facile giungere a siffatte conclusioni, e Sàito lo sapeva bene sin dall’inizio, dal momento in cui si prefisse di trattare della Sicilia da due angolazioni diametralmente opposte: una dall’esterno, ed è la solita retorica campanilistica di chi da lontano, con nostalgia, reclama la sua terra, dando sfogo al sentimento e risolvendo tutto nel mito (i discorsi che l’avvocato Pennisi e l’imprenditore Petralia fanno sul treno, il dirsi e sentirsi siciliani, il loro agire), nel parodistico e nel comico, senza avvedersene. E quando l’avvocato Pennisi afferma: «la Sicilia è un paese avventuroso», dice la verità, perché non ha potuto essere altro, ed è stata sempre bistrattata terra di conquista (basta dire che lo è tuttora), e non si è potuta mai realizzare come avrebbe potuto e dovuto. E la realtà è che la Sicilia è sfuggita di mano ai Siciliani, per cui non resta loro che darsi all’ avventura. 

Sàito, che è nella mente e nel cuore siciliano, ha sperimentato a spese sue questo, e ne soffre, perché sa che a niente valgono i tentativi dei singoli, se non c’è la volontà di cambiare una volta per tutte le cose. Questa intima sofferenza è nella pagina e, al di là delle apparenze, s’intravede in filigrana, grazie ad una scrittura ben dosata e ad una vigile presenza, eppure discreta e mai invasiva. L’altra angolazione riprende la Sicilia dall’interno. Qui non c’è posto per la retorica, tanto meno per i sentimenti, perché tutto è abbrutito dalla misera quotidianità del vivere che non dà scampo alla povera gente costretta a vendersi più che a lavorare dignitosamente. Ed è la Sicilia del sopruso, dove i prepotenti o detengono il potere o fanno lega con quanti lo esercitano. Firdusi, l’uomo di fiducia di don Rosario Barrancu è l’esempio lampante di questa categoria di persone fautrice dello schiavismo moderno. 

Alcuni uomini lavoravano nella prima salina, erano a circa trenta metri da noi. Correvano come animali neri, une dietro l’altro, in su e giù, coi cesti pieni di sale sulle spalle. Salivano sull’argine opposto, scaricavano in fretta il cesto e poi tornavano. [ … ] In basso c’era un uomo con una grande paglia in testa; era seduto sull’argine e ogni tanto gridava perché qualcuno dei salinai rallentava8. 

E c’è Barrancu che dalla sua parte ha la ricchezza ed è tutelato da quella stessa legge che dovrebbe essere garante di giustizia. A che vale la rivolta se viene soffocata dalla consorteria dei poteri? Non resta che evadere. Fulvia, liberatasi dalle grinfie dei Barrancu, prima va ad assistere con i suoi amici ad uno spettacolo dei pupi (che è realizzare con la fantasia ciò che è difficile nella realtà), poi fugge insieme con gli altri per non essere compromessa, per essere libera dai condizionamenti. 

E magari dicevano a tutti Sicilia Sicilia ma in fondo erano contenti di esserne fuggiti; e magari dicevano Palermo […] ma poi fuggivano perché essi non volevano tradire, non volevano essere complici di quell’ambiente dove tutti erano con la loro omertà complici9. 

Si potrebbe a questo punto pensare ad un senso di sfiducia, di delusione diffusa, ma in Nello Sàito non viene mai meno la speranza. C’è più che altro una forte denuncia contro lo Stato latitante che, una volta per tutte, deve mettersi dalla parte della gente e rendere giustizia delle inconc1udenze e dei tanti problemi ultrasecolari irrisolti. 

Dopo una lunga parentesi di anni, Nello Sàito ritorna alla narrativa nel 1970 con Dentro e fuori, pubblicato da Rizzoli. Si nota subito che Sàito narratore punti sulla qualità più che sulla quantità, se consideriamo che al suo primo apparire il romanzo viene salutato con molto entusiasmo dalla critica e dai lettori, è finalista al Premio Strega e, sempre nello stesso anno 1970, vincitore del Premio Viareggio. Lo stacco temporale, comunque, non comporta un affievolirsi dell’ impegno o un allontanamento dalla tematica; essi risultano convalidati, e la stessa scrittura ne esce arricchita, sicura, corroborata da un raziocinio che scava nella realtà del momento, e denuncia un immobilismo cronico, asfittico dei Siciliani, pronti ad accogliere mai a rifiutare, vittime non protagonisti della storia, di quella di ieri e anche di quella di oggi, ma lascia pure intravedere una speranza che è quella di non cadere nella tentazione di mollare tutto ed andare come tanti fanno. 

I migliori non hanno trovato di meglio che fuggire da qui. A me verrebbe invece la voglia di non tornare più su, comprarmi un pezzo di terra e inchiodarmi qui non per isolarmi sdegnosamente come il professore di filosofia o trincerarmi nel pessimismo totale di Guardione: ma per cominciare qualcosa proprio da qui, per risalire la corrente, non per me, io sono ormai morto dentro, ma per gli 

altri 10. 

È l’io narrante che pensa, ma è anche il nerbo del pensiero di Sàito che in questo come in altri suoi scritti spinge alla consapevolezza che vuoI dire fare storia, non subirla, bensì cercare di combattere per uscire dai condizionamenti ultrasecolari che oscurano la Sicilia e non la fanno apprezzare. 

Il titolo la dice lunga: Dentro e fuori, in Sicilia e fuori di essa, guardare dentro ma anche fuori, a confronto continuo con gli altri, sentirsi parte viva di un tutto e non chiudersi nel sordo settarismo, come fanno i professori di cui si parla, innalzando muri di incomprensioni e di chiusura. Allora il romanzo si connota come la continuazione ideale de Gli avventurosi siciliani. In entrambi l’io narrante espone lo stato d’animo di chi non vuole accettare, anzi non può accettare situazioni di compromesso e vuole essere se stesso, preferendo piuttosto fuggire o resistere rimanendo e portando avanti coerentemente la propria idea. 

Un professore universitario, nominato presidente di Commissione, da Roma viene in Sicilia per gli esami di Stato, e dovrà imporsi per ottenere un risultato più consono alle aspettative degli studenti piuttosto che un responso distaccato, freddo, dei professori, sempre in combutta e pronti a rintuzzare qualsiasi cosa, ma uniti quando si tratta di difendere il loro operato e il ruolo di cui sono investiti, come se si trattasse di una casta da difendere ad ogni costo. Nelle riunioni e durante gli esami il clima è teso; c’è tanta chiusura mentale ed è inutile affermare che la scuola deve essere viva, se vuole suscitare interesse e continuare la sua opera educativa; perciò, deve cambiare crescendo dentro, ma anche fuori, visto che ormai le informazioni vengono da tante parti. Ma di questo poco si curano i professori, presi come sono da interessi privati, a tutto pensano che ai giovani studenti considerati numeri più che persone. Alla fine, dietro le prese di posizioni del presidente, viene salvato il salvabile con buona pace di tutti. 

Il presidente, sin dal primo giorno va a stabilirsi a Portopalo, sul mare, in provincia di Siracusa, e preferirà viaggiare, pur di tutelare la sua libertà e la integrità morale. Così, al clima pesante degli esami alterna altri momenti che pure fanno scuola, vissuti con gli amici, a stretto contatto con l’ambiente paesano e il mare che gli danno il vero senso dell’ isola e lo mettono in posizione di privilegio, perché gli consentono di guardare dal di fuori dentro, la Sicilia e l’Italia, la scuola come si svolge in un’aula e come è nella vita. Terminati gli esami, il presidente rimane a Portopalo, anche perché col passare di agosto sarà impegnato con la seconda sessione. È la scuola della vita che lo affascina ed è l’amicizia di pescatori come Nunzio, o di Lorenzo e Michele, che lo legano ancor più alla Sicilia. 

Di qui l’idea di volersi stabilire definitivamente a Portopalo, la ricerca di un pezzo di terra e gli ostacoli che, almeno per il momento, non gli consentono di acquistarla. 

A parte gli incontri e le discussioni, la visita a Pantàlica, il riproporsi del contrasto fra passato e presente, più frequenti e vive sono qui, meglio che nella prima parte, le presenze immaginarie del padre e di Fosca che permettono al narratore di fare il punto su temi già anticipati (politica, antifascismo, Nord e Sud) che danno misura della molteplicità di interessi e spingono ad un confronto più aperto e sereno. Per la Sicilia che è musica, ora dolce ora triste, che invade tutto, come acqua del mare, punto fermo di tutto il romanzo. 

Nello Sàito è una voce sicura della nostra letteratura, che affida alla parola scritta ciò che si porta dentro e alla parola s’affida, auspicandosi una società più umana e più consapevole. 

Questo è il suo sentire, questo bisogno gli urge dentro, ed è un discorso di cultura più che di politica. Ed è magistrale ed esemplare insieme il modo come tutto questo è detto. L’autore ha nel sangue il teatro, e la Sicilia è un aperto scenario dove viene rappresentata la storia di tutto un popolo che ha sete di giustizia, che stenta ancora a farsi protagonista e rivendica a sé ciò che da sempre le viene imposto. 

I colloqui col padre lontano e con Fosca sono un efficace espediente con cui Sàito tesse il romanzo e lo arricchisce di pezze d’appoggio solide che gli conferiscono una forte valenza didattica, e gli danno anche materia per la narrazione, scavando in profondità nel tentativo di capire e, di conseguenza, agire. 

«Ma che vai a fare in Sicilia?» 
«Sono venuto proprio per questo, per capire», volevo dirti. «Ti ho disobbedito, lo so.» 
«Ma perché?» 
«Perché non ho mai condiviso questo tuo astio verso la Sicilia che ormai dura da quasi cinquant’anni, mi pare un astio irrazionale; ed io almeno non ne conosco le ragioni. Sei tu piuttosto che devi risponderrni, che non hai mai risposto alla mia domanda: perché sei venuto via di qui? Me lo dici perché?11» 

Vicinanza e distacco, riconoscenza e disobbedienza, portano non tanto a disconoscere l’operato dei padri, ma a verificarlo e perciò a continuarlo, a riconoscerlo. 

C’è anche la visita a Pantàlica. Per il presidente è una nuova esperienza, un tuffo nel passato che non deve coinvolgere più di tanto, perché è il presente che va preso in considerazione. Di qui la sfuriata con Turicchio e contro quanti si chiudono in un immobilismo che è rinuncia ed anche accettazione. Bella, a proposito, l’immagine del contadino che corre dietro al suo mulo che scappa sotto un sole cocente in una terra che è un deserto, ma è altrettanto bella l’immagine del presidente che inveisce ora contro Turicchio ora contro i professori, perché si ribella a questa staticità, lui scheletrico ma deciso ad andare avanti per dare una lezione di coraggio e di grande umanità. 

Dentro e fuori credo sia uno tra i libri più belli scritti in quello scorcio di secolo; a parte il fatto che non cede agli indirizzi di moda, esso non si stacca dalla realtà e ubbidisce al cuore e alla fantasia del suo autore. Di certo, comunque, è il romanzo più interessante, utile, tuttora attuale, che descrive una Sicilia sofferente e meravigliosa al tempo stesso.  

Quattro guitti all’ Università viene pubblicato a Roma, presso Bulzoni, nel 1994. È ancora il tema della scuola, allargato all’Università, che viene ripreso e affrontato in modo aperto, critico e certamente di accusa degli altari della cultura o, meglio, di tanta pseudocultura. Se ne I cattedratici (1969) e in Dentro e fuori Nello Sàito mette a nudo le sfasature, il tornaconto, il solipsismo e l’arrivismo che condizionano spesso i professori, tutti presi da ben altro piuttosto che dal lavoro di competenza, dal di dentro, perché conosce bene l’Università, essendo lui stesso un professore, in questo romanzo denuncia la grettezza e l’ignoranza che li porta a chiudersi in sé, presi dall’orgoglio e da una smania di potere che li mette l’uno contro l’altro. Di quale potere? viene subito da chiedersi, come anche fa il protagonista, e, in ogni caso, ne vale la pena, se a farne la spesa è sempre l’uomo? 

Quattro guitti (Bakunin, Anguilla, Marta e Cipolla) vivono di teatro e non ne possono fare a meno, perché il teatro è la loro vita, in quanto, in uno spazio pur ristretto, la verità prende corpo ed è la dominatrice della scena. Ma le cose non vanno bene. Proprio perché questi guitti dicono il vero, viene loro tolto il teatro di Mola di Bari e vengono a trovarsi in mezzo alla strada con pochi soldi e un camion che fa loro da mezzo di trasporto e da casa, visto che una casa non l’hanno. A Bakunin, un ex studente universitario, viene in mente il teatro dell’Università di Roma, e i quattro, dopo un viaggio movimentato, nottetempo, si presentano nella capitale, sperando nel professor Colapietro che proprio quella notte muore, e con lui la speranza di essere presentati al rettore: dovranno fare da sé, magari servendosi di Francesca, la giovane moglie del morto che niente potrà fare. Sarà Francesca a dire che il marito non andava d’accordo con i colleghi, e un diario trovato sul tavolo di Colapietro darà a Bakunin la dimensione di quel contrasto. 

Il teatro verrà negato, e la reazione è sempre imprevedibile e il più delle volte scatena violenza che si colora di rosso sangue quando i quattro guitti, usciti dalla casa della Colapietro, penetreranno nell’Università e s’impossesseranno del teatro. 

Questa è la trama che però è intessuta da acute notazioni che danno movimento all’ azione. È come se i protagonisti recitassero in un grande palco, ed è il teatro della vita che si apre loro davanti, tra realtà e sogno, anche se a dominare è la realtà che fustiga e tarpa le ali a chi avrebbe e potrebbe dire e fare qualcosa per la collettività. 

Avevamo un piccolo teatro a Mola di Bari, grazioso, ottocentesco, una gemma. Eravamo riusciti a raccogliere dopo due anni di fatiche intorno a noi alcuni giovani, poi adulti: insomma un pubblico, cui volevamo appunto dal teatro aprire gli occhi. Non ce l’avevamo con nessuno, semmai contro il mondo che continuava a camminare ad occhi chiusi e secondo cui siamo noi i sonnambuli. Per essere veri. O se volete finti ma di modello agli altri che secondo noi si sono dimenticati di essere uomini12. 

La tematica è di grande attualità: il teatro e la cultura che non vengono valorizzati come dovrebbero, i professori che s’allontanano sempre più dalla didattica e a tutt’altro pensano che al proprio insegnamento, la violenza che dilaga, il venir meno dei buoni sentimenti e, ancora, il divario Nord-Sud. Eppure il teatro e la cultura che aiutano ad aprire gli occhi non interessano più di tanto ai detentori del potere. Ne è che i finanziamenti sono sempre meno e, nel romanzo, ai quattro guitti non verrà ceduto il teatro e i professori, come Colapietro, che vorrebbero fare bene il loro lavoro sono emarginati. 

L’autore, con una scrittura agile e più che mai essenziale, ha saputo ancora una volta mettere il dito su una piaga che travaglia la nostra società, ed ha parole dure contro i responsabili di questo stato di cose, non per puro gusto di mettersi dall’altra parte, bensì per evidenziare i lati oscuri e aiutare a correggerli. 

Uno dei fili conduttori di tutta la produzione di Nello Sàito è il senso della vita, la moralità e, quindi, l’impegno che ognuno deve fare suo, perché il mondo diventi più umano. Può sembrare un’utopia, eppure alla luce di quanto avviene giorno dopo giorno bisogna puntare su questo, se si vuole evitare il peggio. Dire le cose, gridarle, uscire dal conformismo, è il modo migliore per essere prima di tutto se stessi e poi per ritrovare l’umanità che è in noi e negli altri. 

Con il suo nuovo romanzo Una voce, Sàito si serve di una voce che a poco a poco prende corpo e si manifesta perché predomini il bene e se ne tragga vantaggio, e l’uomo s’avvicini all’uomo per creare insieme condizioni di vita più consone, lontani il frastuono e la materialità. Tanti scrittori, pensatori d’ogni tempo (viene di pensare, a proposito, ad Antoine de Saint-Exupéry), attraverso le loro opere, cercano l’uomo; la stessa cosa è in Sàito particolarmente in quest’opera, dove la piena consapevolezza del modo come gira il mondo fa presagire l’andare incontro all’irreversibile. 

Come in tutti i suoi romanzi, la trama sembra appena abbozzata, eppure è ricca di immagini e contenuti profondi, e la penna è quasi una matita leggera che lascia un segno indelebile e connota persone e cose nella loro luce più vera, perché l’autore vuole arrivare al cuore e alla mente dei suoi lettori, convincere per farli ragionare. E come negli altri, anche in questo romanzo c’è molto autobiografismo, un recupero della giovinezza, la vita in famiglia, un richiamo della Sicilia che si fa sempre sentire, specie nei suoi figli migliori costretti ad andar fuori per realizzare la loro vita. 

Enrico, un giovane professore di storia e filosofia, stanco della stagnazione e del conformismo di provincia, dopo la morte dei suoi lascia la Sicilia insieme con il fratello Tommaso e va a Roma, dove si trasferisce per dare un senso alla vita, a quella sua e del fratello. Il contrasto fra la vita di città e quella del paese è enorme già al primo impatto: è un passaggio dalla noiosa staticità all’assordante caos, da un posto dove ognuno conosce ed è conosciuto fin nei particolari ad un altro dove si è nessuno e si passa inosservati tra una folla senza nome. In attesa di prendere servizio, Enrico e Tommaso vanno in giro per Roma, visitano la basilica di San Pietro e la trovano fredda, con poche persone e per lo più preti che si muovono nella piazza semi vuota come «tanti scarabei neri». Qui è la prima avvisaglia della voce che rimprovera il fasto, mentre altrove come a Gerusalemme è miseria; voce che si fa ancor più insistente all’inizio della partita di calcio cui i due fratelli avrebbero dovuto assistere. Difatti la partita non ci sarà perché essa punirà l’idolatria dei tanti scalmanati e succederà un putiferio: attacchi della polizia, scontri fra tifosi. Tommaso, mentre escono dallo stadio, viene scaraventato a terra, la gamba spezzata. La corsa al Policlinico, il ricovero, tra l’indifferenza dei medici e le proteste dei malati. Anche qui la voce minaccia e punisce l’arroganza di chi cura solo il suo tornaconto. 

Enrico deve per forza di cose ridimensionare le sue attese. La nuova scuola che si rivela conservatrice, il caos e il disagio sociale di Roma, la tracotanza e l’interesse che hanno sede laddove non dovrebbero aver luogo (nel Parlamento come al Policlinico), lo stordiscono talmente che la «voce» che si porta dentro si materializza e diventa più esplicita. A lui e a Carla non resta che fuggire, e da lontano, dall’alto del Gianicolo potranno guardare Roma. Enrico, provato, immagina la distruzione. 

Sàito con questo nuovo romanzo conferma le scelte e i temi altre volte affrontati ed enunciati. Il lettore può leggere Una voce a suo piacere, limitandosi alla narrazione, che è piacevole e fuori degli schemi comuni, soffermandosi magari su qualche particolare che più lo attrae. Ma per quel che mi riguarda, ritengo più utile soffermarmi sugli approcci che l’autore combina, perché egli fa parte di quella schiera molto ristretta di scrittori che insieme ‘ con il piacere della buona lettura regala spunti di riflessioni che non è facile dimenticare. Piacere della mente, ma anche dello spirito che ha pure bisogno di respirare aria nuova e di confrontarsi. Specie in un momento in cui i condizionamenti fanno capire quanto siamo soli e in che stato ci troviamo. 

Altro motivo in più per apprezzare i libri di Sàito, e non mi stancherò di ripeterlo, è che espone con distacco inconsueto la materia trattata e l’immagine che ne viene fuori, sia della Sicilia, dei Siciliani o di altro, rispecchia la realtà e, inoltre, non la esagera e deforma come spesso avviene. Questione di stile ma anche di onestà professionale che spinge lo scrittore ad essere obiettivo e coerente con sé e con gli altri. Va detto anche che le argomentazioni sono attualissime e se pure riferite il più delle volte alla sua terra, hanno un valore che vanno al di là dell’isola e interessano l’uomo ovunque si trovi. La fuga, il viaggio, il conformismo, il rapporto Nord-Sud, quello tra padri e figli, la scuola e i giovani, non sono temi cosmopoliti? 

Una voce è un romanzo loico-riflessivo che condanna la materialità e il conformismo, malattie della modernità, pericolo che ottenebra la quotidianità e rende infelici, lontani dai sentimenti puri. Narratori e filosofi del secolo scorso, drammaturghi (basti pensare a Camus e a Ionesco), hanno affrontato questi temi nella loro cruda drammaticità e hanno prospettato la rivolta, ma l’uomo s’è trovato spesso solo o non è riuscito nel suo scopo o si è chiuso in sé stesso. Il protagonista Enrico reagisce, dà voce alla sua coscienza e senso alla vita. Lui e Carla si salvano perché ascoltano e non sono attaccati ad alcunché, e si rendono uomini. Essi, ed anche Tommaso, sono personaggi ben delineati, e positivi. Miracolo dell’anticonformismo e dell’ anarchismo di Enrico-Sàito! 

Anarchismo? Da professore di filosofia ero abituato a ragionare, a non prendere per principio posizione contro nulla. L’anarchia dell’ 800 era stata utopia, ansia di libertà e per meglio dire di liberazione. Gesù, se era vero che era la sua voce, non era stato il primo anarchico, il primo ribelle contro l’ingiustizia? Che egli all’ ingiustizia contrapponesse l’amore, bene, ma non dimenticava nemmeno, citando spesso l’Antico Testamento, che il problema principale era quello dell’ingiustizia prima dell’amore. E me, siciliano, nonostante ogni critica sulla Sicilia ma per l’umanità, mi trovava particolarmente sensibile. Tornava il giovanile interesse per l’universalismo di me cittadino del mondo? E anche Bruno e Gesù non erano prima di tutto cittadini del mondo? Ribelli l’uno, lui ebreo contro la cultura ebraica del suo tempo e l’altro contro il conformismo, la struttura, la visione non certo italiana dell’inquisizione. Interesse per l’umanità non per se stessi, era questo che mi affascinava13. 

Il lettore sin dalle prime pagine noterà bene la serietà e la compostezza di questa ispirazione che mette in risalto l’invadente amoralità del nostro tempo, ed anche il disagio in cui sono costretti a vivere quanti vogliono starne fuori, come se fossero anormali, mentre sono i portatori sani di un malessere generale che rifiutano e combattono. 

Il mondo saitiano è fatto di documento umano, ma anche è ricco di tanta invenzione, di intreccio, di entrate e uscite di scena con freschezza e disinvoltura, dovuta, credo, alla frequentazione del teatro, anzi, alla professione di drammaturgo dell’autore, ai cui effetti deve anche la sua originalità. E questo perché Sàito non segue la moda, bensì quello che sente e come lo sente, pronto a far macerare la materia destinata a prendere forma. 

A popolare questo mondo sono personaggi comuni ma di alta levatura morale, che si chiedono il perché delle cose per aggiustare il tiro, mai per denigrare o adeguarsi passivamente alla realtà. È gente che si ribella per essere se stessa e dare prova di umanità, e si serve della dialettica dell’anticonformismo, coadiuvata però da motivazioni sempre fondate, calate nella realtà e perciò molto attuali. Più sfumati risultano i ritratti femminili. Tranne Fulvia de Gli avventurosi siciliani, essi sono abbozzati, eppure veri e vivi nella loro misurata presenza. Fulvia è tra le meglio disegnate, esplode vita dai pori e sa il fatto suo e in un modo o nell’altro sa farsi valere. Maria del primo romanzo si staglia e delinea in quel clima di guerra che giustifica la sua equivocità e la fa eroina. Ma tutte sono positive, come Carla di Una voce o la stessa Marta o Fosca degli altri romanzi, tutte ricche di una profondità d’animo che dà loro tono e le risalta. 

Personaggi vivi che a poco a poco prendono corpo e si delineano nella loro luce più vera. Come’ nel conterraneo Pirandello, in Nello Sàito vogliono evidenziare la loro presenza per essere emulati nella realtà. Che è forse la cosa più importante e bella per uno scrittore, e anche per il lettore che nella pagina scritta si riconosce. 

Salvatore Vecchio 

NOTE 

1. H. e D. Koenigsberger, Atmosfere di Sicilia (Una frequentazione che dura da cinquantanni), Terzo Millennio, Caltanissetta, 2002, pag. 13. 
2. A. Bocelli, Maria e i soldati, «II Mondo », 26.3. 1949. Dello stesso anno sono i contributi di P. Pancrazio «Corriere della Sera», 15.3. 1949 e G. De Robertis, «Tempo», 29. 5. 1949. 
3. Si legga, a proposito, G. Manacorda, «L’età del neorealismo», in Storia della letteratura italiana contemporanea / 1940-1965), Editori Riuniti, Roma, 1972,2″ rist., pagg. 27-49. 
4. N. Sàito, Maria e i soldati, Garzanti, Milano, 1970. 
5. Ivi, pag. 29. 
6. G. De Robertis, Gli avventurosi siciliani, «Tempo rivista». 
7. N. Gallo, Siciliani di Sàito. 
8. N. Sàito, Gli avventurosi siciliani, Garzanti, Milano, 1973, pagg. 141-142. 
9. Ivi, pagg. 176-177. 
10. N. Sàito, Dentro e fuori, Garzanti, Milano, 1973, pag. 131. 
11. Ivi, pag. 22. 
12. N. Sàito, Quattro guitti all’Università, Bulzoni, Roma, 1994, pagg. 8-9. 
13 N. Sàito, Una voce, Terzo Millennio, Caltanissetta, 2001, pagg. 95-96.

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 9-23.




 Monarchie, Stati Generali e Parlamenti 

Re Riccardo: « … i leoni domano i leopardi.» 
T. MOWBRAY DUCA DI NORFOLK: «Sì , ma non possono cambiare le loro macchie.» (Riccardo II, l, 1,5-6.) 
Machiavelli fu bandito dal Parnaso «perché fu sorpreso di notte con un gregge di pecore a cui insegnava ad usare falsi denti di cani così che in futuro esse non potessero essere rido Ile all’obbedienza col fischio e con la frusta». (Traiano Boccalini. Ragguagli di Parnaso, LXXXIX) 

PROLOGO 

Lo Stato. che nasce per rendere possibile la vita, in realtà esiste per rendere possibile una vita felice. (Aristotele. Politica, libro l, cap. 2) 

ELEUTHERlA – L’epigramma di Aristotele costituisce la più rivoluzionaria definizione di Stato nella storia del pensiero politico, La maggior parte degli Stati e, ancora di più, la maggior parte degli imperi sono stati fondati e governati per il bene dei governanti o per il bene della tribù. Sia la tribù che i governanti hanno sempre cercato di giustificare la loro azione di governo come volontà degli dei o di Dio. Si riteneva, naturalmente, che la volontà degli dei fosse per il bene dei sudditi. Tutto ciò era, nel migliore dei casi, un ripensamento o, più spesso, semplice propaganda. 

Non che il pensiero di Aristotele fosse originale. Perché almeno 250 anni prima del suo scritto la vita felice era già equiparata all’eleutheria, la libertà, definita sia come libertà del governo da regimi esterni che come libertà dei cittadini dalla tirannia, dal dominio senza leggi di un singolo governante o, a volte, di gruppi di governanti. Ciò che i Greci inventarono nel loro ordinamento politico, fu la cittadinanza, la polis o città-stato, vale a dire la partecipazione dei cittadini alla vita civica nel promulgare o far rispettare la legge, nell’approvare tasse e spese, nel prendere decisioni sulle relazioni con le città vicine e, se necessario, nel prestare servizio nell’esercito. Tutto questo avveniva tramite il dialogo, l’attività reciproca di parlare e ascoltare e le conclusioni razionali che scaturivano da tale attività. Era una relazione dinamica, aperta, incerta nelle sue conclusioni e che sempre correva il rischio di essere sopraffatta dal suo opposto: governo e servitù, comando e obbedienza, certezza e accettazione. 

Per i Greci solo la vita di questa cittadinanza partecipativa costituiva una vera libertà politica. In pratica, essi trovavano questa libertà – che Machiavelli nel XVI sec. avrebbe chiamato un vivere politico – difficile da raggiungere e quando ci riuscivano era solo all’interno del circolo ristretto della polis e dei suoi cittadini a pieno titolo. Donne, stranieri e schiavi erano esclusi, sebbene le donne fossero considerate libere se sposate con un cittadino. Aristotele era interessato solo alla polis. Quando mandava i suoi studenti a studiare le costituzioni fuori di Atene – uno dei maggiori programmi di ricerca mai intrapreso nel campo delle scienze politiche – li mandava solo in altre città-stato del Mediterraneo. 

La cosa rivoluzionaria era la sua definizione del principio dello scopo di uno Stato: la vita felice. 

Sin dalla riscoperta della Politica da parte della Cristianità latina, nel XII sec., essa ha avuto una profonda influenza sulla pratica e sul pensiero politico in 

Europa e, recentemente, in quelle civiltà al di fuori dell’Europa influenzata dal pensiero europeo, anche nei casi in cui tale influenza non è stata apertamente riconosciuta. A volte questo principio è stato deliberatamente ignorato, anche nella nostra epoca e, di solito, con conseguenze disastrose per gli abitanti dello Stato stesso e di quelli vicini. 

Nel Medioevo il principio di Aristotele cadde su un terreno fertile. I princìpi dell’eleutheria non erano mai andati del tutto perduti nell’Impero Romano. Negli Stati che nacquero dalle sue ceneri, questi princìpi furono rafforzati dalla pratica dei re germanici di convocare i propri liberi guerrieri in assemblee generali, per discutere le politiche perseguite dai re e per il consiglio (consilium) e l’aiuto (auxilium) che i vassalli potevano fornire. 

RAPPRESENTANZA – Tutto ciò andava bene per unità politiche relativamente piccole e questa pratica sopravvisse in alcune parti marginali d’Europa. In molte vallate alpine e in alcune aree costiere meno accessibili della Frigia, della Norvegia o dell’Islanda. Il problema era inventare una forma di relazione partecipatoria nelle unità politiche più grandi. La soluzione al problema era sfuggita agli abitanti della Grecia classica o, meglio, essi non l’avevano considerato un problema. Concentrando la loro discussione politica sulla polis, avevano considerato i grandi Stati, come l’Impero persiano o la Macedonia, in ogni caso privi del principio dell’ eleutheria. 

Nell’Europa medievale i principi della relazione feudale tra signore e vassallo non erano di per sé una base per l’eleutheria. La principale virtù medievale, l’ideale verso cui tutti i giovani uomini venivano educati, era tipicamente la lealtà. Non era un ideale da mettere in discussione. Il signore, o il re, era solito rivolgersi ai suoi vassalli per consigli e aiuto; ma per le discussioni e i dibattiti si circondava solo di pochi individui scelti con cura. C’era bisogno di qualcos’altro che potesse associare sezioni molto più ampie della società alla politica del re. Da questo bisogno nacque il principio della rappresentanza. 

Essa era in origine una pratica apolitica derivata dal diritto romano, in cui un avvocato rappresentava il suo cliente o clienti nelle cause civili. Non sorprende che tale pratica si trovi per la prima volta tra gli uomini di Chiesa, cioè, tra quella parte di società che conosceva il latino. I grandi ordini religiosi internazionali trovavano utile la rappresentanza per incrementare la reciproca coesione tra le varie case religiose. Così. nel XIII sec., i Domenicani svilupparono un sistema complesso formato da una gerarchia di consigli elettivi che rappresentavano le singole case, le assemblee provinciali e, infine, l’intero ordine. 

Anche prima che i Domenicani sviluppassero pienamente il loro sistema di rappresentanza, i papi del XII sec. convocavano i prelati dagli Stati papali per consultarli. Nel 1213 Innocenza III fece un ulteriore passo in avanti. Nel convocare il IV Concilio Laterano, egli invitò non solo il clero cristiano, rappresentato dai prelati. i vescovi e gli abati dei grandi monasteri, ma anche gli ambasciatori dei re e di alcune città-stato italiane. 

In modo ancora più incerto, i governanti cominciarono anch’essi a convocare i grandi vassalli in persona e talvolta i rappresentanti del clero e delle città. Se non l’avessero fatto, le conseguenze avrebbero potuto essere imprevedibili e nefaste. Nel 1158 l’imperatore Federico I Barbarossa convocò una grande assemblea feudale, una dieta, a Roncaglia, in Italia, per ottenere tasse su un certo tipo di commercio, sulla zecca e sui diritti delle miniere. Esse erano considerate tradizionalmente prerogative del re o dell’imperatore, le regalie. I notabili di Federico, per la maggior parte tedeschi, non ebbero difficoltà nell’imporre queste tasse alle città italiane dell’Imperatore. Ma queste città non erano state consultate. Esse formarono leghe contro l’Imperatore e lo contrastarono con successo, finché non ottennero virtualmente l’indipendenza dal suo dominio. 

Con maggior successo, alcuni principi riunirono delle assemblee in cui i prelati, i nobili e le città erano tutti rappresentati. Tale fu la prima Corte Spagnola del re di Leòn nel 1188. Questi incontri erano ancora sporadici e non istituzionalizzati. Furono i teologi, specialmente gli avvocati di diritto canonico, dal XII al XIV sec., a sviluppare teorie sistematiche sulla rappresentanza, collegandole all’ assunto aristotelico che lo Stato esiste per il bene dei suoi cittadini (sebbene i notabili e i prelati non avrebbero certo approvato questa affermazione) e furono essi ad impegnarsi in un dialogo moderno sul modello greco con i loro principi e tra loro stessi. 

C’erano buone ragioni perché il pensiero politico ecclesiastico del tardo Medioevo insistesse su quest’ argomento. Per cominciare, c’erano le parole di Gesù, secondo cui bisognava dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Ma questo precetto da solo non bastava a spiegare lo sviluppo di elaborate teorie politiche. Niente del genere avvenne nella teologia bizantina né nella sua erede, la Chiesa russa ortodossa. Nell’Impero bizantino e in Russia (e a fortiori negli Stati islamici successi vi all’Impero Romano) qualsiasi reale opposizione tra l’Imperatore e la Chiesa (o tra i califfi e le leggi dell’Islam) era impensabile. Ma in Occidente il collasso dell’Impero Romano nel V sec. aveva reso il capo della Chiesa, il papa, virtualmente indipendente dall’Imperatore. Anche se per gran tempo non si pensò in termini di opposizione, era impossibile che a lungo andare i loro interessi, politici o teologici, coincidessero sempre. 

Ci vollero parecchi secoli prima che venissero pienamente apprezzate le conseguenze intellettuali di questa situazione contingente e, nella prospettiva della storia mondiale, anomala. Ciò divenne inevitabile, però, quando dall’XI al XIV sec., sia i papi che gli imperatori del Sacro Romano Impero, e in seguito anche i re degli Stati europei indipendenti, cominciarono a richiedere la supremazia. Ogni tanto ci fu guerra aperta e in tutto quel periodo si ebbe un’ accesa campagna di propaganda da ambo le parti. Tutti i protagonisti del dibattito scrivevano in latino e tutti si rifacevano alla Bibbia come la fonte più autorevole in questo campo. Questa situazione costringeva gli uomini ad argomentazioni razionali. Inevitabilmente, specie dopo la riscoperta della Politica di Aristotele. che divenne un testo base nella formazione universitaria di diritto civile e canonico, queste argomentazioni razionali dovevano occuparsi della natura dello Stato e dell’ autorità politica. Ci si trovò a discutere in maniera fondamentale sia sul locus che sui limiti dell’autorità e su quali rimedi ci fossero se un tiranno ne abusava. Poiché, sebbene Gesù avesse affermato che tutto il potere viene da Dio, rimaneva da risolvere la questione pratica di come i re ottenessero il potere: se direttamente da Dio o indirettamente dalla volontà del popolo. E se il potere veniva dal popolo, che diritto aveva il popolo di toglierlo a un re tirannico o, perlomeno, di limitarne i poteri? Chi aveva l’autorità di fare le leggi? E il principe era soggetto alle leggi che lui stesso o i suoi predecessori avevano promulgato? In pratica, quali leggi poteva emanare, come imporre certi tributi, che non fossero in conflitto con le leggi naturali di Dio? E la legge naturale comprendeva significativamente i diritti sulla proprietà. 

Tali discussioni non venivano necessariamente portate avanti in ogni assemblea che il principe convocava. Ma costituivano le questioni fondamentali che determinavano lo scopo e le prerogative delle assemblee rappresentative. Esse erano sostenute da un principio derivato dal codice di Giustiniano: quod omnes tangit ab omnibus approbetur: ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti. Ancora una volta questa era già stata una procedura puramente tecnica nel diritto romano. Si applicava nelle cause civili, come la tutela di un minore da parte di diverse persone. Ma nel corso dei secoli XIII e XIV questo cavillo tecnico, qualche volta formulato in maniera leggermente diversa, diventò un principio politico. Si sarebbe rivelato un principio dagli effetti sconvolgenti. Era usato da coloro che adunavano le assemblee allo scopo di trovare sostegno da parte dei sudditi; fu questo il caso di Edoardo I d’Inghilterra quando convocò il Model Parliament nel 1295. Questo principio veniva usato regolarmente da coloro che ritenevano di dover essere convocati. Perché dare consigli aveva un duplice aspetto: era il dovere del vassallo nei confronti del suo signore o principe e finì per essere considerato un diritto. Così il principio del quod omnes tangit, associato a quello della rappresentanza, finì per riproporre il principio greco della partecipazione alle decisioni politiche cui si arrivava grazie al dialogo razionale e «approvato da tutti». 

ASSEMBLEE RAPPRESENTATIVE – Nel tardo Medioevo il principio della rappresentanza si diffuse in tutta l’Europa cristiana cattolica. Si adattava bene sia alle necessità dei principi che alle tradizioni dei vari governi locali. Queste tradizioni differivano enormemente dalla partecipazione dei lati fondisti inglesi alle corti della contea, all’autogoverno virtuale delle comunità dei villaggi in varie parti d’Europa e, soprattutto, alle corporazioni cittadine, con i loro statuti reali o episcopali, che stabilivano sia la natura che i particolari dei loro diritti. 

I principi, da parte loro, avevano bisogno di tutto l’aiuto possibile da parte dei loro sudditi nella feroce competizione militare che era diventata la norma in Europa dopo che i grandi imperi dei Franchi e dei Danesi erano scomparsi, sepolti in un irrepetibile passato. I principi ricevevano sia informazioni che aiuto dalle loro assemblee. Nel corso del XIII sec. divenne più comodo adunare non solo i notabili ma anche le città; perché erano proprio queste ultime a poter fornire più prontamente denaro per le imprese belliche dei loro prìncipi. 

Per le città era fastidioso e costoso mandare i propri rappresentanti alle assemblee; ma era anche una buona opportunità per far approvare i propri statuti, discutere argomenti di interesse comune, come i rapporti commerciali con le potenze straniere o il conio locale e, soprattutto, tenere il fisco entro limiti ragionevoli. Le città potevano formare leghe, come le hermandades di Castiglia, che si riunirono regolarmente a partire dal 1282 e che, alla fine, svilupparono istituzioni stabili per regolare la loro lega. Nelle Fiandre, i rappresentanti dei quattro membri, le città principali di Bruges, Ghent, Ypres e la zona degli agglomerati urbani e dei castelli tra Bruges e il mare, chiamata la Franc de Bruges (het Vrije van Brugge) tennero più di 4000 incontri tra il 1384 e il 1506, spesso in luoghi diversi e contemporaneamente. In Olanda, tra il 1401 e il 1433, si tennero più di 700 assemblee. Loro scopo principale era discutere di questioni commerciali. Nei principati più estesi e nelle zone prevalentemente rurali gli incontri erano per lo più gestiti dai notabili laici ed ecclesiastici, anche quando vi partecipavano alcune città. Queste riunioni erano molto meno frequenti, a volte con intervalli di parecchi anni, ma a differenza delle assemblee urbane erano molto più complesse e formali. Spesso le presenziava il principe in prima persona. 

La cosa sorprendente è che le città-stato italiane, pur sviluppando la loro indipendenza nella lotta contro gli imperatori tedeschi, non presero parte al movimento di costituzione delle assemblee rappresentative. Le loro leghe, come la Lega Lombarda che combatté Federico Barbarossa, erano poco più che alleanze di unità indipendenti, proprio come lo furono più tardi i membri della Lega Anseatica nel nord Europa. Questa Lega teneva i suoi raduni occasionali: assemblee dei rappresentanti di alcune città anseatiche, ma raramente vi parteciparono tutte. Queste riunioni non si trasformarono mai in istituzioni formali, con membri fissi. 

Le città-stato italiane svilupparono una forte tradizione di libertà politica. Proprio come l’eleutheria per i Greci, questa libertà era vista sia come libertà dall’oppressione straniera che come libertà dalla tirannia interna. I teorici politici umanisti italiani, compreso Machiavelli, non dubitarono mai che la vera libertà dovesse essere repubblicana. Le loro discussioni riguardavano piuttosto la natura del regime repubblicano: se dovesse essere aristocratico, democratico o misto. La rappresentanza era propria delle monarchie e dunque non era considerata un vivere politico, sebbene Machiavelli ritenesse che quando veniva perduta doveva essere ristabilita da un uomo di «virtù». 

Ma c’erano ragioni pratiche perché le città-stato in Italia rifiutassero la rappresentanza. Nei confronti delle aree circostanti il loro contado, esse si comportavano come principi. Le soggiogavano, le tassavano e le usavano come basi di arruolamento per i soldati che avrebbero combattuto per loro. Né le città del contado né la nobiltà rurale venivano consultate per queste guerre e i nobili erano convocati solo quando era necessaria la loro presenza individuale nell’esercito. Per quanto riguarda le città suddite, una che ne aveva in gran numero, come Firenze, non avrebbe mai convocato i rappresentanti delle città toscane insieme, dando loro modo di allearsi l’una con l’altra contro la città «imperiale». Questa tradizione anti-stato era così forte che impedì lo sviluppo delle assemblee rappresentative anche laddove una città-repubblica era diventata principato, come accadde a Milano e Verona e in altre città. Così, né una prevalenza di città, né di relazioni feudali, e nemmeno l’abbondanza di corporazioni ecclesiastiche e la presenza di giuristi canonici, possono da sole spiegare la comparsa di istituzioni rappresentative. Perché ciò avvenisse era assolutamente necessaria un’ulteriore condizione, un elemento inerente all’idea stessa di rappresentanze di località, corporazioni e Stati che si riunissero in assemblea. Mancava il senso della comunità di una struttura politica. Al di fuori delle città, che certamente svilupparono sentimenti comunitari, ma dove, come detto, la rappresentanza non si sviluppò, tale sentimento in origine poteva essere di tipo tribale. Ma più spesso, durante il Medioevo, le origini tribali vennero dimenticate in favore di tradizioni di cooperazione politica e militare e di obbedienza al principe locale. 

Nel 1128, durante una crisi dinastica nelle Fiandre, i membri della nobiltà e molte grandi città formarono leghe per gestire la crisi ed eleggere il nuovo conte delle Fiandre. Fino a quel momento le leghe non erano assemblee rappresentative (anche se alcuni storici le hanno considerate veri e propri pre-parlamenti) e non ci sono prove che la massima quod omnes tangit venisse applicata. Ma tali eventi costituivano in sé una collaborazione tra la nobiltà e le città ed evitarono che le Fiandre si spezzettassero in una serie di città-stato indipendenti come accadde in 

Italia settentrionale. Ciò è più sorprendente se si considera che le città principali, Bruges, Ghent e Ypres, si comportavano in buona misura come se fossero città-stato, dominavano e sfruttavano le campagne e i villaggi circostanti come un contado italiano. A partire dalla fine del XII e per tutto il XIII sec. i conti furono spinti a cooperare regolarmente con le assemblee dei loro Stati per potersi difendere dai re di Francia che cercavano di ristabilire il loro dominio nel Paese. 

In questo caso, come spesso accadeva nei rapporti tra i principi e le loro assemblee rappresentative, il corso degli eventi e l’equilibrio finale dei poteri non furono determinati soltanto dalla storia interna del Paese in questione, ma anche dall’intervento esterno. La storia dei principi e dei parlamenti non si svolge quasi mai in un sistema chiuso. 

Questo vale anche per i parlamenti delle isole. La storia della Magna Carta forse sarebbe stata diversa se la rivolta dei baroni contro re Giovanni , nel 1215, non fosse stata sostenuta dalla Francia. Nello stesso tempo, e ciò evidenzia in maniera cruciale lo spirito di comunità che c’era nel Paese, i diritti e i privilegi che i baroni estorsero al re, specialmente il processo davanti ai propri pari secondo la legge. sarebbero valsi per tutti gli uomini liberi della nazione. Alla morte di Giovanni, il governo di reggenza per conto del figlio minore riemanò la legge altre tre volte. Anche se le tre versioni differivano in alcuni dettagli, le copie furono inviate a tutti i tribunali delle contee, quindi coinvolsero deliberatamente la comunità di tutto il regno. 

Fu questo il modo in cui la Magna Carta finì per essere interpretata. I parlamenti successivi insistettero per promulgarla ancora. La reputazione del parlamento e della Magna Carta, entrambi considerati a salvaguardia dei diritti fondamentali dei cittadini inglesi, si rinforzavano l’un l’altro, e si svilupparono insieme fino a formare la tipica simbiosi dell’idea di governo di diritto, dei diritti e privilegi dei sudditi e della rappresentanza dell’intera comunità. 

Ci volle tempo perché venissero stabilite in Inghilterra adunanze regolari del 

Parlamento e lo stesso valeva per le altre assemblee rappresentative sul Continente. Inevitabilmente esse si svilupparono in tempi diversi, dal XIII al XV sec. Vi erano i tre stati classici: clero, nobiltà e popolo; ma vi era anche il principato d’Olanda in cui le assemblee erano di solito limitate alla nobiltà e alle sei città maggiori (sebbene a volte venivano convocate anche le città più piccole) e non aperte al clero. In Polonia solo la nobiltà veniva considerata come rappresentativa della comunità. Le città venivano lasciate fuori dalla Sejm, la dieta di tutto il regno, anche se dominavano l’assemblea provinciale della Prussia Reale. In Svezia, al contrario, il clero era costituito non solo dai prelati ma anche dal clero locale, e c’era persino uno stato dei contadini. Molto dipendeva dallo sviluppo degli stati come gruppi o raggruppamenti auto-consapevoli all’interno dello Stato stesso, come la divisione tra notabili (ricos hombres) e bassa nobiltà (hijosdalgo) nelle Cortes di Aragona. 

C’erano assemblee rappresentative dappertutto al di fuori delle città-stato, a parte alcune comunità contadine nelle valli alpine e le paludi della costa settentrionale della Frigia, nel mare del Nord, che conservavano antiche tradizioni di riunioni degli uomini liberi. 

Le assemblee rappresentative non erano mai democratiche. Solo in Inghilterra c’era qualcosa di simile alle elezioni dei membri effettivi del Parlamento e nessuno immaginava che queste elezioni fossero democratiche. La democrazia era apprezzata da alcuni umanisti. Ma, al di fuori di alcune città-stato italiane e svizzere e delle poche comunità contadine indipendenti, la democrazia era disprezzata ed evitata. La rappresentanza era presente negli ordini ecclesiastici e nelle monarchie. Certamente aveva il compito di coinvolgere le comunità nella vita politica, ma mai nessuno pensava che dovesse cambiare la struttura sociale della comunità. Era rivoluzionaria nel senso aristotelico che dava l’opportunità di una vita felice difendendo le libertà, i privilegi particolari di corporazioni e gruppi, all’interno della comunità. Doveva preservare la comunità dal governo arbitrario del principe. Ma la rappresentanza non era intesa come uguaglianza o uguali diritti. La forma esatta delle assemblee e i loro rapporti col principe dipendevano dalla struttura sociale delle comunità che rappresentavano. Questi rapporti, a loro volta, erano spesso influenzati dalle alleanze e dall’intervento delle comunità limitrofe. Una volta stabilite, le assemblee tendevano ad assumere una forma istituzionale. Come tali, cominciarono a sviluppare una loro vita propria con certe forme tradizionali talora rigide, e ciò accadeva persino quando le condizioni socio-politiche originarie erano cambiate. Se la comparsa delle assemblee rappresentative dipese dall’esistenza di un certo senso della comunità, le assemblee aumentarono questo sentire. 

I principi avevano un atteggiamento ambivalente verso le loro assemblee. Le consideravano utili per assicurarsi il sostegno della comunità, l’osservanza delle leggi e in misura ancora maggiore, per la concessione di denaro sotto forma di tasse. Nel 1282 i Siciliani rovesciarono il loro re della casa francese di Anjou (Vespri Siciliani) e si rivolsero al re d’Aragona perché prendesse la corona e li aiutasse a mantenere la loro indipendenza. Pietro III d’Aragona, pur reclamando la corona di Sicilia per diritto ereditario, convocò molti parlamenti in Sicilia per farsi confermare re. Questi parlamenti evitarono che il regno si spezzettasse in una miriade di città-stato, come nell’Italia settentrionale, e così ottennero da re Pietro un certo numero di privilegi, in cambio di somme di denaro per finanziare la guerra con la casa di Anjou che si trovava ancora a Napoli. Non sorprende che Pietro d’Angiò abbia convocato anche un’assemblea nel suo principato di Catalogna allo scopo di ottenere supporto finanziario per la sua politica in Sicilia. 

Eppure i principi erano ben consapevoli del pericolo costituito dalle assemblee che potevano diventare potenziali rivali dell’autorità. Sia essi che i loro avvocati erano sempre molto suscettibili a questo argomento. Se la massima romana del quod omnes tangit era ormai generalmente accettata, lo era anche quella del diritto romano che considerava il principe come legibus solutus, al di sopra della legge. Secondo alcuni giuristi, questo principio era rinforzato dal detto del Codice Giustinianeo: quod principi placuit leges habet vigorem, poiché piace al principe ha forza di legge. Cosa realmente significassero queste massime romane era un argomento di costante dibattito e di sottili e colte argomentazioni da parte di magistrati civili e canonici. Più comunemente, si sosteneva che solo il principe aveva il diritto di formulare le leggi che poi l’ assemblea rappresentativa aveva il dovere di confermare. 

Ma cosa accadeva alle leggi che risultavano dalla presentazione di lamentele? Questa presentazione era una delle funzioni riconosciute alle assemblee. I principi erano ansiosi di non perdere il proprio diritto di accettare o rifiutare i suggerimenti delle assemblee. Talora, specie, quando si trattava di una disputa dinastica, le assemblee si riunivano di loro iniziativa. Ma i principi scoraggiavano simili azioni indipendenti e insistevano che solo essi avevano il diritto di convocare, prorogare o sciogliere il parlamento. Ma i parlamenti e le assemblee rappresentative non erano uguali ad un consiglio regale. In assenza di una vera e propria amministrazione civile, i parlamenti tornavano utili alla politica proprio perché rappresentavano interessi, informazioni e autorità indipendenti da quelli del principe e del consiglio che lui nominava. Essi costituivano un’opportunità di dialogo politico per la comunità. 

CONCILIARISMO – L’ambiguità fondamentale di questo equilibrio dei poteri tardo-medievali, divenne evidente nella prima metà del XV sec. nella storia dei grandi consigli ecclesiastici e del loro confronto con la monarchia papale. Non era un confronto intenzionale. I leader dell ‘Europa cristiana, sia religiosi che laici, decisero di porre fine allo scisma papale (1378). Un concilio a Pisa (1408-’09), convocato da un gruppo di cardinali, fu rigettato da entrambi i papi e finì per aggiungere un terzo papa ai due in lotta. Il concilio successivo a Costanza (1414-1418) fu convocato su iniziativa del Sacro Romano Imperatore e vi parteciparono un certo numero di re e principi europei o i loro rappresentanti, oltre una sfilza impressionante di prelati e teologi. Allora i papi e gli antipapi furono deposti con successo e ne fu eletto uno nuovo, Martino V, che fu accettato da tutti. Questo è molto simile all’operato delle assemblee rappresentative locali, come quello delle Fiandre, che aveva deposto un principe indegno e ne aveva eletto uno nuovo. Adesso, col Concilio di Costanza ciò era avvenuto su scala più vasta. Frequentato o, perlomeno, seguito avidamente dal fior fiore degli intellettuali europei, il concilio produsse naturalmente una giustificazione teorica alle sue decisioni. Essa si trova nel famoso decreto Haec Sancta (6 aprile 1415), dove si afferma che il concilio derivava la sua autorità direttamente da Cristo e questa autorità era superiore a quella del papa, il successore di San Pietro e vicario di Cristo. I padri della Chiesa erano attenti a reclamare tale autorità solo per le questioni di fede, ma come si potevano distinguere tali questioni da quelle organizzative e politiche? Il concilio procedette a riorganizzare la Chiesa e ad eleggere un nuovo capo. 

Questi erano i problemi fondamentali sulla natura dell’ autorità che i teologi avevano dibattuto per secoli in senso astratto. Erano problemi essenzialmente analoghi a quelli dell’autorità del principe e dell’assemblea rappresentativa. Il confronto divenne più aperto nel corso del concilio successivo, a Basilea (1431-1449). Naturalmente gli scontri ora si svilupparono per il tentativo del papa Eugenio IV di sciogliere il concilio, mentre quest’ultimo replicava che solo lo stesso concilio poteva decretare il proprio scioglimento o la propria proroga. Si finì per formulare un decreto ancora più innovativo dellHaec Sancta, in cui si stabiliva che il concilio aveva semplicemente un’autorità superiore a quella del papa. 

La posizione conciliare fu discussa soprattutto nelle università, in special modo nella facoltà di teologia di Parigi. Alla fine i teologi non poterono opporsi al potere del papa di usare le diverse potenze temporali l’una contro l’altra. Inoltre, egli aveva il vantaggio, nella propaganda spirituale, di avere concluso da poco un accordo apparentemente riuscito con la Chiesa greca ortodossa (1437). Già a metà del XV sec., il papato era riuscito ad emergere come monarchia autocratica dal confronto con i principi della rappresentanza dei conciliaristi. Nessuno poteva prevedere che il papato diventasse ora vulnerabile, non solo a causa dei riformatori della Chiesa – tutti concordavano nella necessità di riforme – ma anche nella ricerca da parte dei principi di indipendenza ecclesiastica e di controllo sulle loro chiese. 

A riflettere sul dibattito del XV sec., l’aspetto sorprendente non è la partita persa dal movimento conciliarista. Gli interessi dei protagonisti erano troppo diversi. Le mere dimensioni dell’ operazione conciliare e l’enorme territorio sul quale doveva essere coordinata, erano troppo persino per i più accaniti sostenitori. Così Nicola di Cusa, una delle menti più brillanti di quell’epoca, abbandonò i conciliaristi e si schierò dalla parte del papato. La vera sorpresa invece è quanto in avanti fossero riusciti a spingersi i conciliaristi. Era un segno della vitalità dell’idea di unità dei Cristiani, un segno analogo a quello comunitario che sarebbe stato essenziale per la nascita della rappresentanza nei singoli Stati europei. 

Allora l’idea di rappresentanza fu sconfitta assieme all ‘ idea di conciliarismo? La storia non è così logica né così simmetrica. La nozione di un concilio sopravvisse come idea, come aspirazione, come un mezzo per guarire i mali del tempo. Era ancora un’idea forte nella prima generazione della Riforma, e rimase tale da ambo le parti del dibattito riforrnista. Ma poi la connessione tra concilio e rappresentanza svanì sempre più sullo sfondo, cedendo alle sempre maggiori certezze dei dogmi di entrambi gli schieramenti. Al Concilio di Trento (1545 – 1564) pochi erano interessati alla rappresentanza, tranne che per la necessità dei Protestanti di far udire la propria voce e dei Cattolici di negarla. 

STATI COMPOSITI E STATI GENERALI 

I concili ecclesiastici del XV sec. furono dei grandiosi, ma inefficaci, tentativi di creare un’istituzione rappresentativa composita. L’idea stessa, comunque, era tutt’altro che morta, né i Concili di Basilea e di Costanza furono i soli esempi. Le assemblee rappresentative composite furono la conseguenza logica della comparsa di monarchie composite o multiple. Nel tardo Medioevo, queste monarchie erano diventate la forma più importante di organizzazione politica in Europa. Più era potente la monarchia – e il potere era l’obiettivo internazionale nella maggior parte delle monarchie – meno probabile era che fosse uniforme. 

Le parti costitutive di una monarchia multipla, nella maggioranza dei casi, si univano insieme per volere comune, come nel caso della Sicilia o d’Aragona, o più spesso per eredità dinastica o di matrimonio, come la maggior parte dei domini della Casa d’Austria, o nel caso dell’Inghilterra e della Scozia con la successione di Giacomo VI e I nel 1603. 

In tutti questi casi il principe giurava di osservare le leggi e i privilegi preesistenti del suo nuovo Stato. Nel XV sec. queste leggi e questi privilegi di solito comprendevano un’assemblea rappresentativa che considerava suo dovere difendere i propri interessi e quelli dei suoi membri. Nei pochi casi in cui una monarchia acquisiva uno Stato o una provincia per conquista, si riteneva ci fosse il diritto di abrogare tutte le leggi e i privilegi preesistenti. In pratica, comunque, i poteri della monarchia erano limitati dalla necessità di riconciliare a sé almeno una parte dell’élite del nuovo territorio. Machiavelli consigliava al suo principe o di distruggere la nuova provincia, o di risiedervi lui stesso (e dispensare generoso patronato ai nativi), oppure lasciarla vivere secondo le proprie leggi. Persino quando gli abitanti di una provincia, che passava da una mano all’altra, non venivano consultati sul cambiamento, ci si aspettava che queste leggi venissero osservate. Nel 1482 Maria di Borgogna fu costretta dai suoi Stati Generali a firmare il Trattato di Arras e cedere l’Artois e la Franche-Comté alla 

Francia, come dote per la figlia neonata che avrebbe sposato il delfino. Al futuro sposo (che nel caso specifico non sposò mai la principessa Margaret) fu chiesto «di tenere in particolare considerazione le contee di Artoi s e Borgogna e i poveri abitanti che troverete essere i migliori e più leali sudditi» . 

In questo modo i principi potenti, abili o semplicemente fortunati , potevano aggiungere alloro regno provincia su provincia, e Stato su Stato, ognuno con le sue leggi e le sue istituzioni ben consolidate. Per ottenere una maggiore coesione dei suoi domini, il principe spesso trovava utile convocare insieme tutti i membri delle assemblee rappresentative. Non poteva dare per scontato che tutte le province sostenessero la sua politica, specialmente la guerra che per il principe era essenziale. Così nel 1485 le terre della Prussia Reale, una provincia di lingua tedesca che sin dal 1466 viveva felicemente sotto il regno di Polonia, rifiutarono di sostenere la guerra con i Turchi Ottomani. Essi affermavano persino che, secondo i loro privilegi, il re di Polonia era obbligato a proteggerli dall’aggressione, ma non il contrario. 

La monarchia francese aveva già fatto esperienze simili nel XV sec. Alcune delle province francesi non avevano alcun interesse nella guerra contro l’Inghilterra e preferivano tenere per sé le proprie risorse. I re francesi allora convocarono molte assemblee in tutto il Paese, les états généraux, solo raramente e non sempre con grande successo. Inoltre c’era il pericolo che gli Stati Generali, un’assemblea composita per un regno grande e complesso, potessero diventare molto potenti e cominciare ad usurpare l’autorità reale. Ciò accadde in Francia anche quando re Giovanni II fu fatto prigioniero dagli Inglesi nella battaglia di Poitiers (1356). Gli Stati Generali approvarono l’imposizione di tasse per poter continuare la guerra e per pagare l’enorme riscatto per liberare il re. Nello stesso tempo cercarono di riformare il governo centrale la cui incompetenza aveva portato alla disfatta militare. Ma gli Stati Generali per un Paese così esteso e vario come la Francia si rivelarono troppo impacciati, e il nuovo energico re Carlo V preferì regnare facendone a meno. La monarchia francese era l’unica, a parte alcuni principati italiani, che era riuscita a mettere su un’amministrazione tributaria che funzionasse nella maggior parte del Paese. Sin dal tempo di Carlo V, esso aveva acquisito la reputazione di dominium regale, un regime che poteva imporre liberamente tassazioni importanti. Al contrario, in un dominium politicum et regale la monarchia non aveva tale diritto. La linea di demarcazione tra i due tipi di regime non era sempre così netta, ma gli esperti del tempo indicavano chiaramente che tale differenza esisteva e anche da quale lato si poneva la Francia. 

Forse la situazione si può meglio riassumere con l’aneddoto di un ambasciatore veneziano, che Francesco I era solito ripetere. Egli diceva che l’imperatore Massimiliano gli aveva riferito che lui, l’imperatore, era il re dei re, perché nessuno eseguiva i suoi ordini; Ferdinando il Cattolico era il re degli uomini, perché gli uomini gli obbedivano solo quando decidevano di farlo; ma Francesco, re di Francia, era il re delle bestie, perché tutti gli obbedivano sempre. 

Questa battuta era ovviamente un’ esagerazione. Lo storico ha ben ragione di chiedersi, però, perché Francesco lo raccontasse così spesso. Il giudice Fortescue, a cui si deve la pal1icolare formulazione della definizione dei due diversi tipi di regime nel XV sec., non si inventò certo l’idea. L’aggettivo «politico » derivava dalla Politica di Aristotele ed era usato di frequente sul continente per indicare un regime limitato o misto. 

Se i governanti delle monarchie multiple nutrivano sentimenti ambivalenti verso le assemblee rappresentative multiple, così era anche per le proprietà delle singole province. Quelle degli Asburgo d’Austria, nell’Europa centrale, erano spesso riluttanti a mandare i loro deputati al di fuori dei propri confini. I Boemi, per esempio, si rifiutavano di andare in Austria. I privilegi che i governanti avevano giurato di mantenere erano sempre i privilegi locali di quella particolare provincia. Non si mettevano da parte tali privilegi con leggerezza, per paura di perderli del tutto. Se si riteneva necessario farlo, si pretendevano altri privilegi maggiori. Se negli incontri degli Stati Generali le province più piccole in genere seguivano le indicazioni di quelle più grandi, per esempio, nella concessione di tasse, tutti opponevano strenua resistenza verso qualsiasi mozione di voto di maggioranza, specialmente in questioni finanziarie. 

Questa è un’altra ragione per cui, con pochissime eccezioni, gli Stati Generali funzionavano solo in territori contigui. Una striscia di mare tra due territori sotto la stessa corona, costituiva un serio ostacolo. Ma anche in questi casi, le storie di Inghilterra e Irlanda, di Svezia e Finlandia e di Aragona e Sardegna dimostrano che il mare non era una barriera assoluta. Questi esempi, però, erano relativamente rari e la ragione principale era che i membri degli 

Stati Generali, ancor più di quelli delle unità singole, insistevano nel restringere i poteri dei deputati e pretendevano che sulle questioni importanti essi si consultassero con coloro che li avevano mandati. C’erano buone ragioni per tutto ciò. I borgomastri, i sindaci e i segretari comunali trovavano naturalmente più facile far valere il loro coraggio all’interno della propria comunità, rispetto a quando si trovavano a viaggiare come deputati e ad affrontare i grandi signori del consiglio reale o persino lo stesso re o il suo reggente. Respingere le richieste dell’autorità era più facile se si poteva affermare di non avere il potere di decidere personalmente. Al contrario, era più facile per il governo intimidire i singoli deputati che dover affrontare l’intero consiglio di una grande città. Nonostante ciò, non era sempre chiaro chi rappresentassero i deputati. Le assemblee provinciali o le città parlamentari e le corporazioni ecclesiastiche? Né era sempre chiaro il ruolo dei notabili nelle assemblee, specialmente se essi facevano parte anche del consiglio del re. La storia degli Stati Generali non può quindi essere separata nettamente dalla storia delle assemblee delle province costituenti di una monarchia multipla. Gli uomini non cedono volentieri il potere che esercitano o che pensano di dovere esercitare. Se l’ideale di dominium politicum et regale era cooperare per il bene della comunità, ci potevano essere idee molto diverse riguardo a chi e che cosa fosse la comunità. 

Ci potevano anche essere svariate e appassionate idee riguardo a cosa fosse il bene, aristotelico o meno. E se queste differenze conducevano a conflitti aperti, come spesso accadeva, era inevitabile che gli Stati vicini fossero coinvolti in tali conflitti. Lo storico, dunque, osserva certe tendenze e certe regolarità in queste storie. Ma le contingenze influenzavano sempre il risultato. Ciò che lo storico non può fare è predire l’esito di queste storie, né per l’Europa né per i singoli Stati. 

Una storia comparata ed esaustiva degli Stati Generali sarebbe quindi equiparabile alla storia politica dell’Europa moderna. Anche se fosse possibile scriverla – e finora non esiste – non ci fornirebbe una legge generale dei rapporti storici tra monarchia e parlamento. Per questa ragione ho scelto un formato diverso: quello di descrivere in modo approfondito  i rapporti fra la monarchia e gli Stati Generali dei Paesi Bassi in un periodo di duecento anni. La ragione di questa scelta è la storia infinitamente varia di questo rapporto. Ci troviamo davanti a un’organizzazione politica multipla all’interno di uno Stato multiplo, aperto sia alle idee che all’ intervento esterno. Il leone per una volta è riuscito ad alienare tutti i leopardi dal suo comando. Metà di loro scelsero di ritornare a lui, per svariate ragioni, non ultima quella della paura di pecore con denti di cane. L’altra metà dei leopardi scelse di non ritornare sotto il comando del leone perché scelse di non nascondere le proprie macchie. Tutti scelsero di tenere le pecore, con o senza i denti, all’oscuro. Il Riccardo Il di Shakespeare riassume quest’atteggiamento quando caratterizza la stranezza della ribellione di Bolingbroke: 

Ho avuto modo di osservare io stesso, 
e con me anche Bagot, Green e Bushy, 
com’ ei riesca a corteggiare il popolo, 
e penetrare in fondo ai loro cuori 
con umili ed affabili maniere; 
e prodigarsi a loro in grandi gesti 
corteggiando quei poveri artigiani 
con l’arte del sorriso. 

RICCARDO Il (I, 4) 

(Trad. italiana di Bruna P Scimonelli) 

Helmut Koenigsberger

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 5-17.

 




 Helmut Koenigsberger e Virgilio Titone 

I due scritti che Helmut Koenigsberger ci ha voluto regalare e che oggi si pubblicano, A Homeric encounter e A journey to Benedetto Croce, ci riportano a tempi lontani, molto diversi da quelli attuali: sono preziosi documenti di umane relazioni molto rare, la testimonianza di un grande storico e di un grande scrittore. Hanno un significato particolare per ritrovare l’anima di Virgilio Titone: da parte mia, vi rivedo l’uomo che ho conosciuto e del quale sento la mancanza. 

Era il 1947 quando il giovane Koenigsberger venne la prima volta in Sicilia, per esplorare gli archivi per la sua tesi di dottorato: l’argomento “La Sicilia durante il regno di Filippo II”, lo stesso del suo libro, ormai classico, uscito a Londra nel 1951, The government of Sicily under Philip II of Spain. Studente all’Università di Cambridge (1937-40), era rimasto colpito da un corso sul Rinascimento italiano, come egli stesso ricorda: «Probabilmente già predisposto ad essere affascinato dal tema, giacché ero stato allevato con il culto dell’Italia, di Roma antica e del Rinascimento da mio padre (che ne subiva il fascino, come tutti i tedeschi della sua generazione, e ancor più in quanto architetto), decisi di continuare: ma in che settore? (Le confessioni di uno storico, in “Il pensiero politico”, gennaio-aprile 1990, p.93). Fu il suo professore C. W. Previté-Orton a suggerirgli la Sicilia del Cinquecento: il giovane fu attratto soprattutto dall’idea di un viaggio nella nostra isola: .Mi sembrava una bellissima regione da visitare. Ben presto mi resi conto che la storta della Sicilia nel Cinquecento era tanto spagnuola che italiana». 

Dai primi giorni della sua permanenza a Palermo, lo studente di Cambridge cominciò a frequentare Virgilio Titone, che conosceva di fama: gli aveva inviato un suo articolo sulla rivolta palermitana del 1647 (The revolt of Palermo in 1647, pubblicato in “The Cambridge Historical Journal”, III, 3, 1946) e il professore tanto esigente vi aveva apprezzato soprattutto la conoscenza delle fonti, non nascosta al giovane la sua convinzione che anche a lui fosse sfuggito il vero carattere di quei moti: era abituato a dire quello che pensava. Né poteva accettare certi suoi giudizi, come ebbe a scrivere nella recensione che pubblicò nella “Nuova critica” (II, 1) e ripubblicò nel libro La Sicilia spagnuola (Mazara 1948, pp.145-153): dopo avere ricordato gli studiosi di quella rivolta, mostrandone l’inadeguatezza dei giudizi. e proposta la sua interpretazione di quei moti. Titone così concludeva:
Questi gli avvenimenti cui il Koenigsberger si riferisce. E la sua ne è una analisi acuta e bene informata, che non solo tiene conto di tutte le fonti finora conosciute e dei risultati degli studi più recenti. ma aggiunge ancora a qualche testimonianza ignorata dai nostri studiosi, come le lettere del cardinale Mazarino, considerazioni degne di rilievo: e ciò sebbene debba osservarsi che il vero carattere di quei moti gli sfugga, come è sfuggito ai precedenti studiosi. E si potrebbe anche notare che chi sappia quanta parte le maestranze ebbero nel governo delle nostre città, e più nel fatto che nel diritto, non potrebbe accettare giudizi come questo: “The mass of the people, as artisans in the whorks… , were without political rights”. Spesso invece ne avevano più del necessario». 

Ricordiamo che nell’appendice III della stessa Sicilia spagnuola, riportando il testo delle Istruzioni al vicerè Maqueda, Titone così ringraziò il giovane studioso (p. 221): «Debbo qui ringraziare il sig. H. Koenigsberger, che gentilmente ha trascritto per me a Simancas questo documento». 

A Palermo Koenigsberger sperimentava la generosità, l’umanità di Virgilio Titone: ne possono parlare tutti coloro che lo conobbero: la testimonianza di Koenigsberger : «Titone era stato molto generoso riguardo ai miei sforzi di studente. A Palermo si occupava di me, indicandomi libri e manoscritti e aiutandomi anche a trovare un posto poco caro e sicuro dove vivere nella Palermo postbellica» (A journey to Benedetto Croce; mi si perdoni la traduzione: potrà servire a chi meno di me ha dimestichezza con l’inglese). Chi ha conosciuto Virgilio Titone sa quanto fosse difficile familiarizzare con lui, ma quei pochi che vi riuscivano avevano tanto da lui, molto più di quello che possono dare le relazioni di parecchi individui messi insieme. 

Titone dovette vedere che in molte cose Koenigsberger gli rassomigliava. Chi fosse quel giovane straniero risulta evidente dai due scritti che si pubblicano; leggendo A Homeric encounter, ho ripensato a quello che il mio maestro mi raccontava. di quando scendeva le balze del monte Pellegrino, per andarsi a bagnare nel mare azzurrissimo, ora in tanti tratti precluso, per il gran numero di ville abusive a strapiombo sulla spiaggia: se ne rammaricava quando attraversavamo la strada per andare a Mondello. Anche lo studente di Cambridge era affascinato dal mare e dal cielo della nostra Sicilia; aveva la stessa carica di un giovane meridionale, desideroso di vivere, di scoprire, di amare, incurante dei pericoli. Ma prima il dovere. Passava le sue giornate in una stanza buia, umida, come sempre, dell’Archivio di Stato di Palermo, utilizzando al massimo il suo tempo: lo tentava l’aria soleggiata delle splendide giornate di novembre, alle quali siamo abituati noi siciliani e che non conoscono in Inghilterra. Ma doveva trovare una giustificazione per uscire da quell’Archivio. Non gli era difficile trovarla: «Mi giustificavo dicendomi che dovevo ‘immedesimarmi’ del paese sul quale stavo lavorando, oltre a leggere documenti governativi del sedicesimo secolo». La stessa cosa è capitata anche a me: quando sono stato nelle fredde sale degli archivi, ho sempre sentito più forte il bisogno di uscire al sole, tuffarmi nei vicoli, nelle piazze, nei mercati, per vederli in faccia gli uomini, dei quali nelle carte generalmente si parla come entità numeriche, buone per i patiti delle statistiche. 

E uno di quei giorni, di quella che si chiama l'”estate di S. Martino”, il giovane studioso prende a piazza Verdi (alloggiava li vicino) un autobus per Monreale: un viaggio incantevole, che non ha potuto dimenticare, attraverso gli aranceti e i limoneti, che lasciavano intravedere a distanza il mare splendente. Ripensò Koenigsberger a Goethe, che venne in Sicilia nella primavera del 1787: anche dalla lettura dell’Italienische Reise era stato alimentato il suo desiderio di visitare l’Italia. Ma per lo studente di Cambridge fu una travolgente scoperta il Duomo di Monreale con i suoi mosaici: «Goethe, che cercava solo l’arte classica, non se ne interessava minimamente e nemmeno menzionò la cattedrale di Monreale quando scrisse il suo ltalienische Reise trent’anni più tardi». E sottolinea Koenigsberger come un altro viaggiatore, lo scozzese Patrick Brydone, del quale Goethe aveva letto il Tour through Sicily and Malta, fosse solo colpito dall’ “incredibile spesa” dei mosaici. Tante volte che mi sono trovato con gli spagnoli, mi ha disturbato il fatto che davanti ad un’opera d’arte, anche i più colti e studiosi di storia dell’arte, per esprimere la loro ammirazione, non trovano aggettivo più efficace di precioso, che non può non far pensare al precio (prezzo) e alla maledetta ossessione degli spagnoli per il denaro. 

Ma torniamo alla gita di Koenigsberger. Pranzò in una piccola trattoria: decise di salire ancora sulla montagna, per potere ammirare la Conca d’Oro. Ne fu dissuaso dal padrone della trattoria, che gli ricordò come tutta quella montagna fosse infestata dai banditi. Il giovane rise di quelle paure: che poteva temere uno studente straniero senza denaro? Il padrone voleva metterlo in guardia: non conosceva il paese. Ma vedendo la sua determinazione, mostrò ancora la sua sollecitudine, offrendogli una possibilità, di andare in compagnia di un suo cognato, che si doveva recare proprio da quelle parti. Non poté non pensare Koenigsberger ancora al Brydone, affidato da un principe ai banditi e da essi scortato per i sentieri della Sicilia. Finì con l’accettare, per l’insistenza. Si avviò dunque con quello sconosciuto, un suo bambino, tre muli e un cane. Ma ad un certo punto volle continuare per conto suo, per andare più in alto. Si arrampicò per la montagna “felicemente”, con la disinvoltura che si può avere quando si è ragazzi. Cominciò a fare freddo; si allungavano le ombre della montagna. Senti la tromba di un autobus, ma non vedeva la strada. Meno male che incontrò un capraro! Un capraro, che parlava francese, inglese e greco (era albanese). Invitò lo straniero smarrito a casa sua, per aspettare l’autobus per Monreale: «La sua casa era una piccola capanna, molto semplice e pulita, molto diversa dalla capanna dei contadini che avevo visto qualche settimana prima alle falde dell’Etna, dove la gente, le capre e le galline dividevano allegramente l’unica stanza abitabile. Il mio nuovo amico teneva rigorosamente gli animali fuori. Volevo del latte di capra o delle arance? Fui contento di due magnifiche arance, molto apprezzate dopo la mia gita attraverso le montagne senza bere». Quando arrivò l’ora, n capraro accompagnò lo straniero alla fermata e fece segno all’autobus di fermarsi. Koenigsberger apprezzò molto quell’ospitalità, espresse la sua gratitudine, diede al nipote del capraro n pacchetto di Chesterfield che aveva ottenuto dal consolato britannico a Palermo, al capraro n libro di Agatha Christie che leggeva quando pranzava da solo, come faceva Virgilio Titone. 

Ripensò Koenigsberger a quell’incontro: «ora capivo meglio perché Omero avesse chiamato Eumeo “n divino porcaro”. Il mio “divino capraro”, ne ero sicuro, sarebbe stato leale come Eumeo con Ulisse. Forse la famiglia veniva da Itaca?» Ma la Sicilia è stata sempre la terra dei più sconvolgenti, lancinanti contrasti. E l’incanto subito si rompe. Da quell’idillio il giovane sognatore fu scosso due giorni dopo, quando apprese che il bandito Giuliano e i suoi uomini erano scesi a Palermo e avevano rapito un medico e sparato al figlio che cercava di resistere. E ripensò all’avvertimento del padrone della trattoria di Monreale. 

Lo studioso continuava a dialogare con Virgilio Titone. 

«Magari andiamo insieme a Napoli il lunedì, per visitare il Croce»: queste parole che Titone gli rivolse in quel lontano dicembre del 1947, Koenigsberger le ricorda perfettamente, in italiano, come si può leggere all’inizio di A Journey to Benedetto Croce. Quel “magari” suonò strano al giovane straniero, che ne chiese la spiegazione al professore; mi torna all’orecchio e al cuore, quando ripenso alla mia conversazione con Virgilio Titone: era uno dei termini del suo linguaggio ed esprimeva la sua infinita discrezione, la coscienza dell’imprevedibile, della precarietà delle iniziative e di tutte le cose umane. Avevano parlato più volte di quel viaggio; Koenigsberger doveva vedere gli archivi napoletani, ma trovava soprattutto allettante dover viaggiare con Titone ed essere presentato al suo maestro, nientemeno a Benedetto Croce. 

Lo storico ricorda i particolari del viaggio: «Lunedì eravamo in treno, almeno due ore prima che partisse, per trovare posti ad angolo. Anche la seconda classe aveva soltanto sedili di legno spogli, in quegli austeri giorni postbellici, e la carrozza si riempì presto. Nelle carrozze di terza classe la gente era già seduta sulle valigie e sugli scatoloni nei corridoi. Io vivevo con una borsa di studio del governo britannico e l’ultimo pagamento non era arrivato. Ero a corto di denaro, ma ero ugualmente contento che Titone avesse insistito per la seconda classe per il viaggio di ventiquattro ore. 

Appena ci fummo seduti nei nostri sedili, uscì una lettera per me da parte di mio fratello ch’era in India, al quale avevo dato l’indirizzo del professore dal momento che non sapevo dove sarei stato a Palermo e le lettere dall’India ci mettevano circa sei settimane. Con mio grande stupore la lettera era quasi marrone e accartocciata agli angoli. “L’ho messa al forno per sterilizzarla”, spiegò Titone. “In India c’è un’epidemia di colera”. 

Dopo un po’ una ragazza venne dove eravamo seduti. “Professore, sono così contenta di averla trovata. All’Università mi hanno detto che doveva partire e lei mi aveva promesso di aiutarmi per la mia tesi”. “Sì, certamente” rispose con faccia impassibile ma con un piccolissimo accenno a me. 

“Questo è il signor Koenigsberger da Londra. Mi ha invitato in Inghilterra e adesso sto andando con lui”. Per un momento sembrò delusa, ma poi capì e ci fece un sorriso brillante. “Una ragazza affascinante, non è vero?” disse dopo che se n’era andata rassicurata del fatto che il suo professore sarebbe tornato entro la fine della settimana». 

Durante quello scomodo, freddo, interminabile viaggio, parlarono della teoria di Titone, dell’espansione e contrazione. Koenigsberger scrive di essere stato stimolato da quanto egli gli diceva, ad occuparsi del Rinascimento e del barocco, anche se non era in tutto d’accordo con lui. Arrivarono a Napoli finalmente, il martedì, un mattino freddo e buio: c’era molta miseria: «Le conseguenze della guerra, la povertà e la miseria apparivano anche più grandi che a Palermo. Una donna con un bambino stava seduta per terra, appoggiata ad un pilastro della stazione, e mendicava. “Ricatto morale” disse Titone: ma notai che le diede una banconota di taglio piuttosto alto. Mi sistemò in una casa dove conosceva la padrona, forse dai giorni in cui era studente. La vecchia donna era in cucina e stava cucinando della pasta. La stanza era pulita e poco cara e la pasta della padrona di casa, quando la servì la sera, era eccellente». 

Titone andò a trovare in un convento di Posillipo un sacerdote ch’era stato suo alunno. Anche il mio maestro mi parlava di quel viaggio e di quella visita: me ne parlava il pomeriggio dell’8 marzo 1985, a casa sua, come leggo (ora, per la prima volta) nel mio diario di quelle conversazioni; osservai che cose del genere non dovevano restare sconosciute, note solo a me o a qualche altro (alla conversazione di quel giorno era presente l’amico Nicola Di Lorenzo), che erano più importanti di tante notizie che si cercano affannosamente negli archivi. Titone mi fissò con i suoi occhi di fulmine e mi disse: «Tu, le scriverai». D’allora, mi diceva, la sua amicizia con Koenigsberger divenne saldissima. Ma sentiamo lo stesso Koenigsberger, testimone della sollecitudine del professore per il giovane sacerdote che si preparava all’abilitazione all’insegnamento: «”Fu richiamato e mandato a combattere in Russia durante la guerra. Adesso merita un po’ di aiuto” mi disse Titone più tardi. Ormai avevo capito che andava subito al cuore di un problema umano. Questo da parte sua era proprio voluto. “In Inghilterra voi avete virtù civiche ed è per questo che avete libertà politica. Noi troviamo ciò difficile, però, noi siamo più umani [anche questo è in italiano nel testo)”». 

Titone accompagnò Koenigsberger alla fermata del tram e gli promise che lo avrebbe richiamato nel pomeriggio del giorno dopo. Il giovane passò la giornata negli archivi e andando in giro per Napoli, che ora gli appariva molto più attraente di prima, piena di vita, brulicante di gente. Arrivarono le 18, lo ricorda preciso Koenigsberger, l’ora in cui Titone doveva chiamare. Ma non chiamava: passarono due, tre ore e il giovane naturalmente cominciò a preoccuparsi che fosse successo qualcosa al professore: «Il suo modo di attraversare una strada trafficata lo rendeva molto probabile. Prendeva un giornale, lo teneva decisamente davanti alla faccia e s’infilava nel traffico senza guardare né a destra né a sinistra. Lo faceva ancora all’età di ottant’anni, quando lo vidi per l’ultima volta, nel 1985. Forse in realtà era questa la maniera migliore di affrontare il traffico?» Un altro atteggiamento tipico, indimenticabile di Virgilio Titone. Non concepiva che uno non s’interessasse degli avvenimenti del mondo. Ogni giorno comprava quattro – cinque giornali. del Sud e del Nord, del mattino, del pomeriggio e della sera; ricordo quelli che leggeva più spesso: il “Giornale di Sicilia”, “L’Ora”, “La Sicilia”, il “Corriere della Sera”, “Il Tempo”, “Il Giornale” di Montanelli, “Il Giornale d’Italia”. E non voleva aspettare un solo minuto per leggerli; era tutto preso da essi, mentre camminava, mentre viaggiava, mentre mangiava: quando mangiava, mi diceva, leggeva spesso le storie dei paesi e gli pareva di visitarli. 

Nessuno poteva immaginare fin dove arrivasse l’imprevedibilità di Virgilio Titone: non amò mai ndeterminato, l’immutabile. Lo studente di Cambridge a Napoli cominciò a sapere anche questo, si spiegò quel “magari”: «Si fece vedere la mattina seguente. Era stato troppo stanco e c’era stato troppo freddo per avventurarsi fuori di nuovo, ma sarebbe certamente venuto la sera e avremmo cenato insieme e poi saremmo andati a far visita a Croce, che riceveva visite la sera. Alle 18 non c’era traccia di lui e due ore dopo rinunciai ad aspettare e andai al cinema, all’ultimo spettacolo. 

«La mattina dopo si fece vedere di nuovo. Nessuno al convento aveva avuto n tempo di accompagnarlo al capolinea del tram ed era troppo pericoloso andare da soli per la strada buia e solitaria. “Ci sono banditi”. Ma si sarebbe rifatto. Saremmo andati a Sorrento e dopo, la sera, da Croce». 

Andarono a Sorrento; era una giornata piovosa, ma fra le nuvole ogni tanto faceva capolino n sole. dietro di esse appariva e spariva il Vesuvio; il mare era in tempesta. Spettacolo particolarmente suggestivo per il giovane Koenigsberger. singolare sfondo alla gita dei due. ma Titone non se ne mostrava soddisfatto: «Titone mugugnò: “Un panorama classico con un tempo romantico! Tutto sbagliato!”. In effetti, penso che lo apprezzasse quanto me, anche se, come sapevo. avrebbe voluto mostrarmi la Baia di Napoli con un tempo classicamente sereno». 

A Sorrento pranzarono e bevvero vino in abbondanza, e camminarono per ore lungo le scogliere, fino a sera. Arrivarono tardi a Napoli. troppo tardi e troppo stanchi per andare a far visita a Croce. Lo avrebbero visitato sicuramente n giorno dopo! Ma la mattina del giorno dopo, era ormai venerdì, Titone disse che non era il caso di andare allora da Croce, dato che aveva saputo che non aveva ancora letto lo scritto che gli aveva mandato qualche settimana prima: non voleva sembrare insistente; aggiunse che doveva tornare a Palermo e avrebbe preso n treno della sera, ma che lui sarebbe potuto restare a Napoli e andare solo da Croce, ché “il grande vecchio era sempre contento d’incontrare giovani studiosi. Ma Koenigsberger decise di tornare a Palenno con Titone: era molto soddisfatto della sua prima visita a Napoli, così com’era avvenuta. 

Titone appariva a Koenigsberger un po’ mortificato per la mancata visita a Croce. Ad una fermata del treno sali un individuo, che attaccò subito discorso con i due viaggiatori, informandoli che aveva inventato un metodo per imparare qualsiasi lingua, anche quelle che ancora non erano state decifrate, anche l’etrusco. Titone lo stuzzicava. Scendendo alla stazione successiva, l’individuo annunziò anche che stava pubblicando un libro dal titolo Ho parlato con Marte. Koenigsberger scrive che di questo libro non ha trovato traccia in nessuna biblioteca. Arrivarono a Palermo il sabato pomeriggio: trovarono barricate in alcune strade: le macchine della polizia correvano veloci e rumorose. «Ripensando alla visita a Napoli, era stata molto serena» conclude Koenigsberger. 

Alla distanza di tanti anni, Koenigsberger ha scritto di Titone anche nelle sue Confessioni di uno storico (“Il pensiero politico” cit., pp. 97-98): «In Sicilia, durante quella prima visita, incontrai Virgilio Titone, grandissima personalità, allievo di Benedetto Croce, vecchio liberale ed antifascista, che era da poco divenuto professore di Storia all’Università di Palermo. Siamo rimasti amici fino alla sua morte, avvenuta pochi mesi fa, all’età di ottantaquattro anni. Era un uomo singolare, “an eccentric”, come si dice in Inghilterra, e tuttavia eccellentissimo storico, uomo di lettere e giornalista, autore di più di venti libri, fra i quali storie siciliane nella tradizione di Verga, ed una novella picaresca, Le notti della Kalsa di Palermo (Palermo, Herbita Editrice, 1987), che a me pare superiore a quelle del più celebrato Sciascia». 

Di Sciascia Titone non ebbe una buona opinione; leggeva i suoi libretti – perché amava documentarsi – e li trovava insignificanti, mentre venivano accolti con giudizi straordinariamente entusiastici da tanta critica. Ma Titone era abituato ad andare contro corrente. Per lui Sciascia era rimasto un maestro elementare, men che mediocre; era un esibizionista, e Titone non concepiva la teatralità o gli atteggiamenti femminei in un uomo, tanto meno in uno scrittore. Nei libretti di Sciascia vedeva il bisogno dell’autore di apparire intelligente, originale, brillante, la volgarità appunto dell’esibizionismo (si legga l’articolo del Titone Su alcuni indirizzi della letteratura italiana contemporanea, in “Nuova Antologia”, marzo 1976). Io ero d’accordo col mio maestro; molte circostanze hanno contribuito a fare considerare Sciascia quello scrittore che non è stato. Non è il caso che qui mi soffermi sull’argomento; per altro me ne sono occupato una quindicina di anni fa. Anche Guglielmo Lo Curzio, un autore pur tanto influenzato dalle mode e dalle opinioni correnti, in un suo libro, introvabile, Scrittori siciliani (Palermo 1989, pp.260-64), si chiede il perché della “favolosa celebrità” di Sciascia e si sofferma sul carattere saggistico della sua opera e sull’impegno dell’autore; considera Le parrocchie di Regalpetra e Il giorno della civetta le sue “due opere di assoluto rilievo” e “fuori da idolatrici abbagli di critici e comuni lettori”, pensa che “si possa riconoscere che lungo una trentina d’anni la fama di Sciascia narratore viva ‘di rendita’ ” su di esse. Effimere fondamenta! Potrà rendersene conto chiunque si provi a leggere quelle opere con un po’ di libertà dai condizionamenti della moda, della critica e della propaganda, oggi purtroppo, quasi sempre, una sola cosa; né si dimentichi il tipo di cultura e di politica editoriale degli anni in cui Sciascia pubblicava le prime sue opere. 

Varie volte Koenigsberger ha scritto su Titone: sul suo Il libro e l’antilibro (Palermo 1979), che considera «una magnifica interpretazione della storia culturale dai Greci ai nostri giorni» (Le confessioni cit., p. 981, e anche prima sullo stesso libro e su La Sicilia e la questione settentrionale (Caltanissetta-Roma 1981), in “European History Quarterly”, vol.15 [1985] (ricordò fra l’altro le difficoltà di Titone nel periodo fascista, quando fu sequestrato il suo libro Espansione e contrazione: la condanna fu il silenzio in cui il regime lasciò l’autore); sulle Vecchie e nuove storie siciliane e sulle Notti della Kalsa di

Palermo (Palermo 1987), nel prestigioso Supplemento letterario del “Times” del 18-24 dicembre 1987, dove sottolineò il verismo «fatto della persuasa malinconia di uno scrittore, che comprende le ragioni storiche per le quali le caratteristiche attitudini dei siciliani derivano da un’opprimente realtà a loro superiore […] fatto di simpatia e di comprensione della condizione umana- e l’assenza dei falsi sentimentalismi anche oggi di moda, più di quanto non si voglia far credere (rimando al mio articolo apparso nel “Giornale di Sicilia” del 22 gennaio 1988 e nell”‘Amico del Popolo” del 7 febbraio 1988). 

Koenigsberger parte dai presupposti che lo sviluppo politico e istituzionale di un paese europeo va visto sempre nel contesto europeo e che la storia culturale non si può separare dal contesto sociale e politico; a forgiare queste sue idee, non poco contribuirono i suoi viaggi in Spagna e in Sicilia, come egli stesso dichiara (Le confessioni cit., p. 93). Studiando la storta di Sicilia, meditò sull’orgoglio dei siciliani per il loro Parlamento, da essi ritenuto il più antico d’Europa. Koenigsberger, è noto, alla storta dei parlamenti ha dedicato studi fondamentali; dal 1955 al 1975 è stato segretario generale e dal 1980 Presidente dell”’International Commission for the History of Parliaments and Representative Institutions”. 

Molti i punti in comune nelle esperienze e negli interessi di Koenigsberger e Titone, di convergenza nelle loro idee, ma vi sono anche, ovviamente, le opinioni diverse. 

Koenigsberger iniziò la sua carriera accademica insegnando Storia economica nelle università di Belfast e di Manchester: a quegli anni risale il suo studio sull’evoluzione della proprietà nel Quattro e Cinquecento, in Piemonte e nell’Hainaut. Insegnò Storia moderna nell’Università di Nottingham, poi nell’Università Cornell; dal 1973 al 1984 nel King’s College di Londra; nel 1984 fu chiamato come “stipendiato” all’Historisches Kolleg di Monaco. Numerosi i corsi da lui tenuti in varie università americane. Uno storico di fama internazionale: non occorre che qui mi soffermi a ricordare le sue opere, dovunque note, tradotte in diverse lingue, anche in italiano; nel 1966 cominciò a pubblicare con l’Elliott gli esemplari Cambridge Studies in Early Modern European History; notevole anche la sua collaborazione alla New Cambridge Modem History. 

L’altro grande interesse di Koenigsberger è stato sempre rivolto alla storia culturale, nel senso più comprensivo: non trascura, per esempio, la musica, generalmente ignorata dagli storici italiani; lo dimostrano i suoi originali studi sul Rinascimento. Koenigsberger ha sostenuto l’interessante teoria dell’avvicendamento culturale, per cui non si deve parlare di una decadenza del genio italiano alla fine del Rinascimento, ma di uno spostamento di interesse delle forze creative dalle arti figurative, letteratura e filosofia politica, alle scienze naturali e alla musica. Lo storico basa la sua teoria su due sue ipotesi di fondo: l’uguaglianza biologica dei talenti in tutti i gruppi etnici e il legame psicologico tra individui e società. Si rivela un profondo conoscitore dell’uomo, studioso della mentalità. 

Virgilio Titone cominciò giovanissimo a scrivere saggi su diversi autori della nostra letteratura, contrastando le opinioni più diffuse; ebbe l’approvazione del Croce. Nel 1934 pubblicò Espansione e contrazione, in cui esponeva la sua teoria sulla storia: l’alternarsi dei periodi di espansione e contrazione, in tutti gli aspetti 

della vita. Seguirono diversi altri libri, fra i quali ricordiamo Cultura e vita morale (Palenno 1943); La Sicilia spagnuola (Mazara 1948). che stimolò la nuova ricerca sul rapporto Spagna-Sicilia; La politica dell’età barocca (Palermo 1949); La Sicilia dalla dominazione spagnola all’unità d’Italia (Bologna 1955); Storia, mafia e costume in Sicilia (Milano 1964); Storia e sociologia (Firenze 1964); nconformismo (Milano 1966); La storiografia dell’illuminismo in Italia (Milano 1969). 

Per molti anni insegnò Storia moderna all’Università di Palermo. Fu apprezzato elzevirista dei più autorevoli quotidiani italiani, dal “Corriere della sera” al “Tempo”, e collaborò alle riviste più prestigiose, dal “Mondo” di Pannunzio alla “Nuova Antologia”; fondò e diresse tre riviste palermitane: “La nuova critica”, “L’Osservatore”, “Quaderni reazionari”, quasi interamente scritte da lui. Degli ultimi suoi libri ricordiamo: Dizionario delle idee comuni (Milano 1976), Il libro e l’antilibro (Palermo 1979), La festa del pianto (Caltanissetta-Roma 1983). Scritti di Titone sono stati tradotti in inglese e spagnolo. 

Anche Virgilio Titone rivolse il suo interesse all’economia (è del 1947 Economia e politica nella Sicilia del Sette e Ottocento, del 1961 Origini della questione meridionale. Riveli e platee). La storia per Titone non è solo l’avvenimento, ma l’immagine di un popolo in tutti gli aspetti della vita. Ogni generazione eredita la sua storia da quelle che l’hanno preceduta; accanto a questa eredità storica ce n’è un’altra: «un’eredità biologica, che, se non può negarsi per i singoli individui, per lo stesso motivo non è possibile negare per i popoli. Se ci sembra evidente ammettere che i figli ereditino in tutto o in parte il carattere, le attitudini, l’aspetto o la costituzione fisica dei genitori o di un avo anche lontano, non si vede perché questa stessa ereditarietà fisica e morale a un tempo, del resto scientificamente dimostrata, debba negarsi per quell’insieme di individui, comunque politicamente organizzato, che è un popolo» (Dizionario delle idee comuni, vol. II, p.124). Fra i temi più ricorrenti nell’opera di Titone la critica all’intellettualismo di moda. 

Le Storie della vecchia Sicilia (pubblicate da Mondadori in più edizioni negli anni 1971-72; ripubblicate con altre “nuove storie” da Herbita nel 1987; tradotte anche in spagnolo, Editorial Fundamentos di Madrid, 1989) hanno rivelato a molti le capacità dello scrittore Virgilio Titone, narratore credibile e veridico della sua Sicilia, la sua solitudine virile e la ricerca religiosa del passato. Il vero storico è un vero scrittore. Storici, critici e scrittori sia Koenigsberger che Titone. 

Più che dai libri ho cominciato a conoscere Helmut Koenigsberger dalla frequente conversazione che ho avuto il privilegio di avere, per anni, con Virgilio Titone. Di lui mi parlava sempre più negli ultimi tempi. Nell’autunno del 1988 mi mostrava sue lettere di più di quarant’anni fa, che andava ritrovando. Era molto contento per la presentazione che doveva fare all’edizione italiana del libro di Koenigsberger sulla Sicilia, che sembrava finalmente imminente, e per l’introduzione che dovevo fare io, su segnalazione dello stesso Koenigsberger. E ancora il 7 gennaio 1989, col solito entusiasmo che lo rendeva incredibilmente giovane, mi mostrò un nuovo libro, in tedesco, che Koenigsberger gli aveva mandato con dedica e una cartolina di auguri. Di Helli e della sua moglie Dorothy mi parlava come dei suoi più grandi, pochi amici; mi parlava dell’umanità di Koenigsberger, della sua cultura, dei suoi libri: “Ha la capacità” mi diceva “di dire tutto in poche parole”. Me ne parlò fino all’ultima volta che l’andai a trovare, nella casa di via Giusti. Nella sua prediletta solitudine, sentiva il calore dell’amicizia di Helli e Dorothy, voleva che anch’io divenissi amico con loro e l’amicizia continuasse dopo la sua morte, che sentiva imminente. 

Fra le carte che scrisse negli ultimi suoi giorni, ho trovato la presentazione per l’edizione italiana di The government of Sicily under Philip II of Spain. La intitolò Ricordo di un vecchio amico e sottolineò la “straordinaria estensione” degli interessi di Koenigsberger a tutti gli aspetti della storia, da quelli economici alle manifestazioni artistiche e alla componente estetica, sessuale, morale dei giudizi. e la sua “capacità di comprendere, talvolta in poche righe, lo spirito, l’anima, il carattere proprio di un’istituzione o di un costume, di poeti, principi, governanti, avventurieri”. 

Helmut Koenigsberger e la gentilissima Dorothy, anche lei sensibile studiosa del Rinascimento e del barocco (in particolare della storia dell’arte), amavano ritornare a rivedere Virgilio Titone in Sicilia. Koenigsberger poteva confrontare la Palermo che conobbe negli anni Quaranta, con la nuova, deturpata dalla selvaggia edilizia. 

Non potrò mai dimenticare quel marzo del 1985 in cui doveva venire lo storico. Col professore Titone pensammo insieme cosa si dovesse scrivere nel biglietto d’invito alla conferenza che Koenigsberger doveva tenere alla Storia Patria, organizzata dallo stesso Titone. Mi diceva il professore che se il tempo fosse stato buono, avrebbe portato l’illustre ospite e la moglie alla Triscina; voleva che vi andassi pure io. Si preoccupava che tutto fosse preparato a puntino e insieme telefonavamo continuamente. 

Arrivò quel lunedì 25 marzo. Con la mia macchina giungemmo all’hotel Politeama, con mezz’ora di anticipo rispetto all’appuntamento con Koenigsberger. Aspettammo in via Amari, ovviamente, parlando, come sempre: degli Ebrei, popolo di grande genio; della conferenza (Titone m’informò di quello che avrebbe detto nella presentazione). Il professore diede uno sguardo all’edificio del Politeama: non gli piaceva lo stile; chiedeva il mio parere. Arrivò l’ora stabilita; girammo intorno al teatro, scese il professore per andare a chiamare Koenigsberger. C’incontrammo con gl’illustri ospiti, ai quali mi presentò il professore; ci mettemmo in macchina e ci avviammo alla Storia Patria. 

Era un marzo molto freddo; pareva che la primavera non volesse tornare. Il professore diceva che la Sicilia senza sole non è Sicilia; chiedeva a Helli e a Dorothy se volevano andare a Selinunte il giorno dopo: avrebbe dato loro le chiavi di due sue ville della 1ìiscina e avrebbero potuto sceglierne una; vi avrebbero trovato del vino, il miglior vino d’Europa: solo di questa sua produzione, aggiunse, era orgoglioso. Helli e Dorothy si mostravano grati di tanta affabilità e promettevano che avrebbero bevuto sicuramente quel vino. TItone parlava delle ricchezze dell’Italia, del reddito pro capite degli italiani, fra i più alti del mondo, secondo le ultime statistiche. Volle parlare di me, dei miei versi in greco, dei miei lunghi viaggi, e parlammo di diverse nazioni, dalla Spagna ai Paesi del Nord, alla Grecia. Koenigsberger diceva di aver visto quella mattina due scioperi a Palermo, uno al Comune, l’altro al Palazzo dei Normanni; Titone parlò del primato italiano degli scioperi; io ricordavo quello che i greci dicevano quando vedevano un italiano: ò’m:p’)ia (sciopero). 

Arrivammo a piazza San Domenico. Ebbe inizio la conferenza. Prese la parola il professore per la presentazione ufficiale. Esordì ricordando la difficile giovinezza di Koenigsberger: «Helmut Koenigsberger, nato a Berlino, a sedici anni, nel 1934, è costretto a fuggire per non finire nei campi di sterminio nazisti. 

In quegli anni si era rifugiato in America Alberto Einstein, con due altri ebrei, Marx e Freud, uno dei fondatori del pensiero o della scienza moderna, anche se talvolta quest’ultima degeneri, non però nel grande fisico, in una creduta o falsa scienza. Ma ad Einstein dovremmo aggiungere molti dei più illustri rappresentanti della cultura contemporanea, né soltanto tedeschi o, piuttosto, nati in Germania. Nessun popolo è stato in ogni tempo tanto oppresso e perseguitato. Pochi popoli hanno tanto contribuito al progresso umano in ogni campo». 

Ricordò le tappe salienti dell’attività di Koenigsberger, le sue opere, e si soffermò in particolare su quella sulla Sicilia: «Non ho ancora parlato dell’opera sua che come siciliani più da vicino c’interessa. Il governo della Sicilia sotto Filippo II di Spagna, pubblicata a Londra nel 1951, tradotta in spagnolo nel ’75. purtroppo non ancora tradotta in italiano. E non fa certo onore alla nostra cultura che un libro sulla Sicilia sia stato tradotto in Ispagna e non ancora in Sicilia. Di questa traduzione con l’editrice Sellerio si è occupato il prof. Giuffrida. Me ne sono occupato anch’io. Ciò nonostante la traduzione ancora non l’abbiamo, sebbene quel libro resti il solo che, tra l’altro, tratti compiutamente dei rapporti tra la Sicilia e l’impero spagnolo e delle teorie che li hanno ispirati o regolati». 

Continuando a scandire le parole con la sua energica, incisiva, inconfondibile voce, così concluse: «Ma più che per tante sue opere egregie e famose ricorderò il Koenigsberger per un episodio, che forse egli ha dimenticato e che si può considerare come un documento della sua anima. Le opere degli studiosi muoiono. “Che fama avrai tu più”, ripeterò con Dante…… pria che passin mill’anni?”. L’anima non muore. Una sera di molti anni fa ci trovavamo a Napoli per le nostre ricerche. Stavamo nello stesso albergo. Mi aveva chiesto di esser presentato a Benedetto Croce. Gli dissi che gliel’avrei presentato. Ma prima dovevo fare una visita a un gentilissimo sacerdote, che si era laureato con me e dirigeva a Posillipo una comunità religiosa con una scuola e un convitto di orfani. Mi aveva scritto e sapeva che in quei giorni dovevo andare a Napoli. Posillipo non era stato ancora coperto dai casermoni costruiti nell’ultimo ventennio e la villa del mio amico era in aperta campagna. Non riuscii facilmente a trovare la stradetta campestre che dovevo fare. Perciò perdetti più tempo di quello che avevo previsto. Era già sera. In quei luoghi e a quell’ora Napoli, per chi va solo, non era meno pericolosa di quello che è oggi. È nella tradizione, una tradizione plurisecolare. Koenigsberger si preoccupò del ritardo. A mezza strada del ritorno lo vidi che mi era venuto incontro. Dopo tanti anni trascorsi lo rivedo e lo rivedrò sempre in quella sera, in quella stradetta buia di Napoli». 

Titone fu a lungo applaudito; molti rimasero sorpresi della sua riapparizione e della sua forza: da tempo non si faceva vedere alla Storia Patria. Ringraziò Koenigsberger, ricordò i suoi amici siciliani, in particolare Carlo Alberto Garufi, per il quale ebbe parole sentite di apprezzamento, e soprattutto Virgilio Titone. Iniziò dunque il suo discorso sui Parlamenti italiani nell’età moderna, con la sua competenza indiscussa; parlò per quasi un’ora. Dopo concesse un’intervista ad un inviato del “Giornale di Sicilia”; nel mentre mi congratulavo col mio maestro, ci sedemmo vicini: era contento, mi fece vedere un elegante, monumentale libro sul barocco, regalatogli dall’autrice, la signora Dorothy, e mi fece leggere la sua dedica. 

Quella sera Dorothy, Helmut Koenigsberger, il professore Titone e io, andammo a cenare insieme, al Charleston. Ci avviammo verso il piazzale Ungheria con la mia macchina bianca, sotto la pioggia (si appannavano i vetri, non ci si vedeva), parlando di tante cose. 

La conversazione continuò a tavola. Ad un certo punto Titone chiese a Koenigsberger se ricordava quell’episodio di Napoli; Koenigsberger non solo lo ricordava, ma aggiunse qualche particolare. «Vedi!» mi disse il mio maestro. Capivo perché, tanto schivo e solitario, amasse stare in compagnia di Dorothy e di Helli. Accompagnandolo a casa, gli mostravo il mio compiacimento nel constatare ch’era stato per cinque ore ininterrotte sul campo, senza dare segni di stanchezza. “E ho ottant’anni!” mi disse quella sera, prima che scendesse davanti al suo portone. 

Calogero Messina 

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 25-39.




Manfredo Bertazzoni, La terra è un luna park (uss’ fà accsé par scòrrar – si fa per dire -) Bologna, Girardi ed., 2007.

 “Si fa per dire” o, meglio, temi e problemi della vita di tutti i giorni
L’Autore, romagnolo, nato a Faenza, porta nel cuore i colori, gli odori, i sapori e, persino, gli umori e i rumori della sua terra e della gente che vi abita. È veramente un fiume in piena che minaccia di straripare ma si contiene, trascinando verso il mare ciò che gli capita lungo il tragitto. Questa è l’impressione che dà a primo acchito, la lettura del libro La terra è un luna park (uss’fà accsé par scòrar – si fa per dire -), un caleidoscopio di discorsi che abbraccia tutto, filosofia e storia, società e costume, divagazioni varie e, poi, argomentazioni rientranti tutte nell’attualità Anche quelle che apparentemente sembrano molto lontane, per l’arco di tempo a cui si riferiscono, esse fanno da ponte per risalire a riflessioni che toccano da vicino l’uomo. 

Il libro, più che un saggio, è una raccolta di scritti che rotea attorno al luna park che effettivamente è la terra. Azzeccato nel titolo, esso consiste nell’«organizzare una serie di pensieri in maniera un poco organica – scrive Manfredo Bertazzoni – o un po’ meno casuale, ha costanti riferimenti alla cronaca spicciola, alla politica e alle istituzioni, all’uomo con i suoi pregi e difetti, tutti riflessi sull’attuale, e per lo più letti in scenari a noi vicini, Bologna e la Romagna». Evidentemente, per cognizione di causa, si riferisce a Bologna e alla Romagna che è la sua terra, così come uno di Palermo può riferirsi alla Sicilia. Non c’è campanilismo, perché il discorso verte sull’uomo e come potrebbe cambiare in meglio la società in cui vive. In questo Bertazzoni ha fiducia; esamina la realtà con le difficoltà che presenta, ma non trascura le potenzialità che possono aiutare al cambiamento e al miglioramento. 

Già nel sottotitolo c’è l’argomentare che costituisce l’ossatura del libro, ed è l’argomentare della gente che nei vari momenti del giorno affronta i temi e i problemi della vita di tutti i giorni con semplicità e tanta spontaneità senza pretese, ma con quella sapienza propria di chi la vita la conosce e la pratica. Perciò non c’è da parte del suo autore, un voler prevenire; egli scrive come parla, a ruota libera, così come i tanti altri anonimi che capita di veder parlare o sentire e che ricorrono spesso al “si fa per dire”. Che, poi, è un modo rilassante di fare e di vedere le cose e il mondo, con un distacco che aiuta ad affrontare la vita e ad avvicinarci alla verità. 

Il libro, composto di sei sezioni (“Gente”, “Storie”, “Bologna”, “Costume”, “Società”, “Prospettive”) che sono ampiamente sviluppate, affronta temi vari che sono sotto gli occhi di tutti, dove l’Autore espone aspetti e punti di vista molto condivisibili per la gran parte, oggetto di discussioni e di approfondimenti per tanti altri. Tanto per fare un esempio, il capitoletto dell’inizio, ha una verità di fondo, ben visibile e palpabile; cioè la microstoria ha un peso fondamentale nella storia vera e propria, anzi è quella che la determina, senza darlo a vedere, perché non ha altri scopi ed è per questo, obiettiva; mentre quella che di solito è conosciuta, spesso è orientata da interessi di parte che la condizionano. Ma più avanti, quando parla di Bologna e della Romagna in genere, il pensiero va all’Impero d’Occidente che in questa terra ebbe il suo fulcro centrale e che qui lasciò tracce indelebili. 

È normale che dietro tutto c’è l’amore per la propria terra, e valorizzarla più di quanto si fa significherebbe darle il dovuto lustro che la storia le ha riservato. Scrive Bertazzoni: «Bologna utilizza poco il suo motore per se stessa e per gli estranei, fatto di piccole scoperte che appaiono ad ogni angolo a chi presta un poco di attenzione; occasioni che avrebbero il dono di vivacizzare un patrimonio disperso ed ignorato. […] Una piccola città come Bologna avrebbe bisogno di maggior contributo partecipativo, senza la trappola inutile del “fare per poi disfare” dove a rimetterci è sempre il vanagloriato e poco applicato concetto del “ciò che è di tutti». Un’osservazione che richiama all’uso che si dovrebbe fare del bene pubblico, spesso in balì e depredato dai cattivi amministratori che sono spesso i nostri politici di turno. 

Discutibili – dicevamo – sono, invece, altre considerazioni e affermazioni, come, per esempio, quelle a proposito di Oriana Fallaci e delle posizioni assunte nei confronti dell’Islam e del fondamentalismo. Questo è il volto bello della democrazia, quella vera, che dà a ciascuno l’opportunitàdi dire e di esprimere le sue idee e convinzioni per un aperto dialogo con gli altri che possono condividere o rigettare, ma in ogni caso è sempre un momento di confronto e di crescita nel rispetto di tutti, frutto di quella che i Greci chiamavano “politèa”, di cui lo Stato e la popolazione si facevano forti. Proprio quel sistema politico a cui Manfredo Bertazzoni guarda fiducioso, perché possibile, solo se l’uomo riacquisti la capacità di pensare con la propria testa e di agire con la forza della razionalità. È questo il filo conduttore del libro che ha una forte valenza umana e culturale che il lettore non può non rilevare e apprezzare. 

Salvo Marotta

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 53-54.




Le chiavi dell’anima

 L’uomo ha diverse chiavi a sua disposizione. Diversi mediatori che aprono le porte che conducono nelle due fasi opposte. Il cervello, in senso generico, la mente o, comunque, il proprio sé, mediano le due realtà: quella esteriore e oggettiva con il vissuto interiore soggettivo. Ciò significa che ogni realtà non solo diventa una realtà diversa per ognuno, ma anche lo stesso individuo può viverla in diversi modi dipendenti strettamente dal suo stato d’animo” o “mentale” che dir si voglia. Esiste dunque una realtà per ognuno di noi: una realtà che sfugge dalla sua oggettività, caricandosi di tutti quei significati che noi gli attribuiamo. “L’oggetto osservato non può prescindere dall’osservatore”, affermava Groddek. Questa la porta di entrata che usa il mondo per penetrarci. 

La chiave che l’uomo usa invece per entrare a far parte della realtà oggettiva, o per aprire la porta di uscita dal sé, è rappresentata dalla parola. La parola è il medium, il mediatore tra pensiero e oggettivazione del pensiero. Con questa chiave noi possiamo penetrare in altre menti, dare informazioni che ci riguardano, scoprire una parte di noi, non sempre la più vera. La parola è un “segno” unanimemente riconosciuto, ma non per questo perfetto. Anzi, essa è un mezzo assai limitato se pensiamo che deve racchiudere il pensiero, astratto ed infinito, riconducendoci al contrasto più volte rappresentato della convivenza degli opposti. 

Della parola e del suo uso corretto o scorretto si è detto tutto o quasi (Gesù: “Che la vostra parola sia: Sì, sì – NO, no.) Per quanto limitata essa sia, è anche l’unico mezzo che abbiamo per comunicare, per mostrare realtà soggettive. Per assurdo, essa può essere usata per nascondere invece che per mostrare. La parola è in grado di mascherare il pensiero, la verità, essa può vendere piombo per oro. L’uso della chiave della parola ci costringe, pur con tutti gli intenti di sincerità, ad essere interpretati, a costringere l’infinito nel finito. La parola è delimitazione, ma unita all’intuizione, legata all’arte, è in grado di mostrare la nostra piccola parte di verità, può “pescare” nell’inconscio collettivo. 

Se al segno scritto, concretizzazione del suono, partecipa anche il nostro mondo interiore, la parola smette di essere segno per diventare simbolo: 

allora essa è in grado di librarsi, come accade nella poesia e nella letteratura, se le opere sono tali da mostrare tra le righe l’anima comune: se sono tali da cogliere sentimenti universali, attimi che sono uno specchio nel quale ricercarsi soli per ritrovare il mondo, essere uno e divenire moltitudine. L’arte è una delle manifestazioni dell’interiorità umana, un raro momento in cui si dà voce all’infinito che è in noi. 

Se in qualche caso la parola può divenire “voce dell’anima”, per la maggioranza 

dei casi essa viene usata nel suo ruolo specifico di “segno”. Se, per esempio, esprimiamo delle teorie matematiche, essa può razionalmente contenerle, poiché il “segno” attribuito ha un valore unico per tutti. Ma se “sconfiniamo” come normalmente accade e cominciamo ad esprimere sentimenti o sensazioni, ecco che essa diviene interpretabile, passibile di valutazioni personali che mettono in gioco il filtro delle esperienze personali di chi ascolta. Una carta difficile da giocare senza bluffare. 

L’altra chiave, la più densa di misteri interpretativi, è il simbolo, voce dell’intuizione, parola dell’anima. Essa apre la porta che conduce dall’incoscio al conscio, dall’infinito al finito, dall’interno all’esterno. Così come l’intelletto serve all’uomo per adattarsi alla realtà e alle condizioni di vita, così l’intuizione insegna 

che la realtà non si limita al suo aspetto fisico e materiale. Essa viene sfuggita perché scuote le nostre pseudo-verità, le nostre labili certezze. Essa offre sicurezze, offre dubbi, speranze, paure, meraviglie. È umiltà e non ribellione a Dio: tentativo di avvicinare il segreto senza violarlo, poichè questa é la parola che conduce a Dio, la “strada stretta” del Vangelo, il mezzo attraverso il quale si acquistano “occhi per vedere” ed “orecchie per sentire”. Ciò significa che non tutte le orecchie sono in grado di ascoltare, che non tutti gli occhi sono in grado di vedere, perché offuscati dalla propria razionalità, dal proprio smisurato orgoglio. L’intuizione riconosce Dio come Padre, fa nascere il bisogno di ritorno allo spirito. Ma è, comunque, una chiave molto, molto difficile da usare. 

Il simbolo, mediatore e chiave dell’intuizione, parla attraverso i sogni, ma non esclusivamente così: passa per l’anima e si dirige verso la nostra coscienza, mascherato con qualcosa di comprensibile. È la maschera della verità, una verità forse troppo grande per noi, che per toccarci senza distruggerci, deve nascondersi sotto il velame simbologico. 

Nel Dizionario dei simboli Chevalier – Gheerbrant, il simbolo viene così definito: “Il simbolo è bipolare… Coglie relazioni che la ragione non coglie. Ha forza centripeta stabilendo un centro di relazioni al quale il molteplice si riferisce trovando la sua unità. È elemento unificatore… perché è in grado di farsi comprendere da chiunque, qualunque lingua parli… esso non usa parole ma solo ciò che di vero in comune hanno gli, uomini. E si comunica solo in proporzione alla misura e all’apertura delle capacità personali”. E ancora: “… [L’intuito] risveglia energie che il simbolo concretizza. Esso va indagato con l’anima ed ogni anima vi nasconde le sue verità”. G. Durand lo definisce in “dinamismo organizzatore”; J. Jacobi afferma che “mantiene sempre viva la tensione tra i contrari che è alla base della nostra vita psichica”. “Il simbolo separa e unifica, ha in sé l’idea di separazione e riconciliazione”. Ha quindi un’importanza determinante in un mondo dominato dalla legge degli opposti, poiché ha un potere equilibratore, ma non impedisce il “movimento” dell’energia psichica. 

Secondo Jung, esistono dei simboli comuni all’intera umanità, che definisce “archetipi”: Più il simbolo è arcaico e profondo più diventa collettivo e universale”. Esistono quindi delle basi comuni, che poi vengono “elaborate” dalla cultura e dal contesto sociale e religioso di ognuno. L’archetipo è comune retaggio, ma non mostrandosi uguale per tutti, diviene assai importante saperne riconoscere la radice. 

Anni fa, discutevo con un ragazzo egiziano conosciuto casualmente di come a volte i problemi religiosi possano condurre, al di là dell’apparente ricerca del bene, a guerre sanguinose e fratricide. Era da poco tornato dalla guerra e l’esperienza era ancora molto viva in lui, pregna di emozione. Io, da parte mia, ero molto disponibile all’ascolto. emozionalmente partecipe. Forse proprio per questo, senza quasi avvedercene, iniziammo a comunicare in maniera molto profonda, quasi che le nostre anime o i nostri inconsci fossero entrati in contatto diretto. superando le difficoltà linguistiche e poi il bisogno stesso di parole. Difatti, diverse volte comunicammo telepaticamente. 

Fu un’esperienza assai insolita che ci lasciò una sensazione di fratellanza. O che, comunque, aveva stabilito un legame che andava al di là di ogni limite umano. Eravamo proprio sulla stessa “lunghezza d’onda” e lo eravamo già da tempo, probabilmente ancor prima di conoscerci, perché, parlando scoprimmo di aver fatto dei sogni molto simili che, ad un’analisi più approfondita, ci mostrarono delle “verità”. In un sogno fatto molti anni prima, avevo ricevuto un messaggio da un “angelo”. Era un messaggio, il cui contenuto non riporto, che riguardava la mia persona. Fu con grande sorpresa che A. mi disse di aver ricevuto lo stesso messaggio, che però lui aveva ascoltato da una voce proveniente dal sole. L’elemento in comune, oltre al messaggio, era anche la luce, una luce sconosciuta, indimenticabile. 

Era la stessa energia ad essersi manifestata in noi, seppure simboleggiata in due modi differenti legati alla nostra cultura socio-religiosa. Come non pensare infatti, alla lunga tradizione storica religiosa e culturale egiziana, nella quale il sole, Ra, era considerato un Dio? Quella tradizione che A. portava in sé, forse geneticamente, forse in maniera più ancestrale, aveva dato vita a quel simbolo, tanto diverso ma tanto simile al mio. Sorridemmo pensando che allora, un induista poteva aver ricevuto lo stesso messaggio da una Mucca Sacra, ma comprendemmo una cosa assai importante e cioè, che pur essendo due persone appartenenti a due gruppi etnici diversi, provenienti da culture e religioni differenti, in momenti diversi delle nostre “storie”, avevamo trovato quell’anello che legava le nostre esistenze: la fratellanza, quella vera, data dall’essere figli di un unico Creatore. E, inoltre, che il messaggio ricevuto conduceva ad un’unica fonte, conteneva una verità comune ad entrambi e a tutti quegli esseri sparsi per il pianeta che si fossero trovati in grado di riceverla in quel momento (infatti, per uno strano “caso” avevamo fatto quel sogno la stessa notte di molti anni prima). Questa strana simbiosi di anime era scevra da qualsiasi altra implicazione di tipo più umano. Ed ebbi la prova della non casualità della cosa, quando, con l’aiuto inconsapevole del ragazzo stesso, riuscii a salvare la vita in una situazione molto difficile. 

Non l’ho più visto. Credo che ormai sia tornato al suo Paese, ma il nostro incontro è stato determinante, ha acquisito un significato profondo e una magia che sembrano inspiegabili. Da parte mia, una profonda riconoscenza, che vorrei dimostrargli. Ma so che è impossibile, poiché all’epoca non ci scambiammo né indirizzi né cognomi. Sembrava che tutto ciò che ci riguardasse si fosse esaurito lì: in quello strano incontro finalizzato alla “conoscenza” di alcune cose. E che noi ne fossimo consapevoli, seppure a un livello molto lontano dalla coscienza razionale. 

Questa esperienza mi insegnò che le differenze di espressione non tolgono ai simboli il loro aspetto di specchi della verità, di universalità, poiché la mente, una volta entrata a contatto con energie che non conosce e che non è in grado di afferrare, le simbolizza in qualcosa di accettabile, di comprensibile. Nella stessa Bibbia. Dio appare a Mosè sotto diverse forme, come il fuoco, la nube ecc. Era Dio a mettersi alla portata dell’uomo o viceversa era l’uomo stesso a simbolizzare, a trasformare cioè la realtà superiore in una realtà finita. più consona ed abituale alla sua natura? 

In questo senso. ogni religione. ogni cosmogonia. può essere spiegata completamente e razionalmente. perché una volta logicizzata perderebbe il suo valore spirituale di comunicazione tra le anime. E il messaggio non è per tutti. Cristo spiegava agli apostoli i misteri della fede. ma parlava in parabole agli uomini comuni. Così facendo Egli operava una scissione, una scelta tra chi sia in grado di “comprendere” e chi no, tra chi sia dotato di spirito e chi sia racchiuso ancora nel suo piccolo mondo materiale. “Non date perle ai porci”. Questo insegna il Vangelo. Ed anche: …..affinché guardino bene, ma non vedano, odano bene, ma non intendano, perché mai avvenga che si convertano e sia loro perdonato” (Mc N, 11-12). 

Uno dei tanti motivi della caduta della fede sta proprio in questo voler razionalizzare Dio, in questo credere come Tommaso, solo se ci viene offerto il costato. Ma la chiesa, qualunque essa sia, non può confrontarsi con la scienza. Non possiamo pretendere di spiegare la “genesi” con le leggi scientifiche. alle quali, in ogni caso, l'”origine” sfuggirebbe comunque. Ciò significa che anche se accettassimo il “Big-Bang” come “inizio”, non potremo comunque spiegare il pre-esistere dell’energia e della materia che costituivano la massa informe in seguito esplosa formando i pianeti del nostro sistema solare. È come dire che il Caos si evolse, ma ciò non spiega l’esistenza del caos stesso. 

É il confine tra esistenza e non esistenza che sfugge ad ogni nostra volontà 

d’indagine. È l’amletico “essere o non essere”. 

Così come dal caos biblico emerse una volontà organizzatrice, lo spirito di Dio librato sulle acque dell’abisso che fecondò le acque originando la vita, così dentro di noi, nel nostro caos interiore, fusione di bene e male (Plinio: il bene è commisto al male), di natura e spirito, emergono quelle forze organizzatrici o distruttrici. Il caos è porta della vita, ma contiene anche l’idea dell’abisso, la fase disgregativa, la porta della morte, proprio come la figura femminile, rappresentazione dell’istinto, contiene in sé l’aspetto di datrice della vita, ma anche il suo opposto, poiché “Eva” offre ai suoi figli una vita mortale. Una vita che contiene in embrione il suo opposto. È essa stessa rappresentazione, nel teatro simbologico, di un’evoluzione involutiva. 

Ma non possiamo comprendere a fondo il concetto di vita e, di morte, di essere e non essere, se ci arrocchiamo su posizioni prestabilite, se non ci apriamo spiritualmente, se non ci svuotiamo lasciandoci liberamente penetrare dalla verità; se non smettiamo di opporgli dei muri a difesa della nostra roccaforte personale legata all’io e alla difesa strenua dell’io. 

La natura ci mostra come ad ogni fine corrisponda un nuovo inizio, scandito dal continuum, dall’eternità del tempo. “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Questa legge scientifica, che a prima vista sembra negare Dio. poiché nega il potere creativo, invece, forse involontariamente, la preesistenza del “tutto”, l’assenza della “fine”, della morte, sostituita dal “mutamento di stato”. Essa mostra l’universo e noi, parte di esso, in moto, in continua trasformazione, in evoluzione. Il moto circolare, forza creativa dell’universo, tendenza di ogni pianeta, è come il serpente che si morde la coda. È metamorfosi senza fine, poiché la fine di un ciclo conduce in un altro ciclo, la fine di un’esperienza conduce in un’altra esperienza che è suo prodotto, risultato finale di quella anteriore. 

Così si esprime H.P. Blavatsky nella Dottrina segreta: .All’inizio di un periodo attivo avviene un’espansione di questa essenza divina dall’interno all’esterno, in obbedienza all’eterna e immutabile legge, e l’universo fenomenico o visibile è l’ultimo risultato di una lunga catena di forze cosmiche messe così, progressivamente, in moto. In egual modo, quando riprende una condizione passiva, avviene una contrazione dell’essenza divina e il precedente lavoro di creazione è gradualmente e progressivamente distrutto. L’universo visibile si disintegra, il suo materiale viene disperso, e la “tenebra” solitaria e unica si raccoglie ancora una volta sulla faccia dell’abisso. Per usare una metafora che chiarirà ancor più l’idea, una espirazione dell”‘essenza” produce il mondo, e una inspirazione provoca la sua scomparsa. Questo processo avviene da tutta l’eternità, e il nostro attuale universo è solo uno di una infinita serie che non ha inizio e non avrà fine •. Ma in questo aprirsi e chiudersi di porte del nostro spaziotemporale, dietro quale porta cercare Dio? 

Il famoso “conosci te stesso” è la risposta implicita alla nostra annosa domanda. “Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo”, ci insegnavano a recitare all’oratorio. 

Dio è anche in noi, Dio è una parte di noi, Dio è nell’uomo che si fa Buddha, Dio è nell’uomo che supera le prove iniziatiche che la vita gli pone. Dio è quell’essenza che lotta per venire alla luce, e non è assurdo pensare che saremo noi stessi a giudicare le nostre azioni e le nostre opere; ma non con la nostra attuale coscienza egoista, parziale e interessata, che ci induce ad essere tanto benevoli con noi stessi quanto malevoli siamo con il prossimo, che ci mostra la pagliuzza nell’occhio altrui ignorando la trave conficcata nei nostri occhi che ci impedisce di “vedere”. 

Sarà la nostra parte divina, la verità ora nascosta a giudicare. E giudicheremo noi stessi con lo stesso metro con il quale avremo giudicato gli altri. Questo è il potere della nemesi, la vera giustizia, la legge di causa-effetto, il karma o che dir si voglia. Soltanto il vero può giudicare il falso, poiché il falso non può conoscere la verità. 

Uscirà dal fondo dell’uomo l’anticristo che condurrà all’apocalisse. E sarà una battaglia tra le forze del bene e del male, non necessariamente combattuta a livelli atomici o mondiali. Sarà la lotta che ognuno già conduce dentro di sé, nel suo luogo segreto e interiore; una guerra che separerà i “giusti” dai “malvagi”, in cui il bene sarà scisso dal male, poiché le “forze” in noi si stanno accrescendo, stanno emergendo, stanno maturando un’evoluzione su due binari opposti. Forse allora il bene non sarà più commisto al male, e l’apocalisse non avrà più il significato che gli è sempre stato attribuito ingiustamente. Apocalisse significa rivelazione. Ma attenzione: rivelare significa svelare, sollevare il velo del segreto, ma anche ri-velare, riscoprire, rinascondere. Ciò significa che il “segreto” si mostra per attimi sfuggenti, si illumina e scompare di nuovo nel mistero. L’apocalisse si preannuncia dunque come una rivelazione: come il raggiungimento della verità. Il punto finale di uno stato di cose che prelude ad un nuovo inizio piu consapevole. 

Ci attende, ed è inevitabile, una “revolutio”, e sarà un’esplosione o un’implosione. Un buco nero o il Big-Bang di un nuovo inizio. Una battaglia che a livello esoterico si annuncia combattuta sui campi dell’anima, dove nella lotta tra gli avversari solo uno dovrà soccombere. 

La rivelazione è già iniziata, sebbene pochi se ne avvedano. Pensiamo alle parole di Cristo: «…Quando sentirete parlare di guerre vicine o lontane, non abbiate paura: tutto ciò deve accadere, ma non sarà ancora la fine… Ci saranno terremoti e carestie in molte regioni. Sarà come quando cominciano i dolori del parto… E quando vi arresteranno per portarvi in tribunale, non preoccupatevi di quel che dovete dire: dite ciò che in quel momento Dio vi suggerirà, perché non sarete voi a parlare, ma lo Spirito Santo». “Cristo annuncia quindi la “discesa” dello Spirito Santo negli ultimi tempi. Questa è la “forza”, la “luce” che si sta accrescendo e che ci condurrà a quanto fu annunziato per mezzo di Gioele: «Ecco – dice Dio – ciò che accadrà negli ultimi giorni: manderò il mio Spirito su tutti gli uomini: i vostri figli e le vostre figlie avranno il dono della profezia, i vostri giovani avranno visioni, i vostri anziani avranno sogni. Su tutti quelli che mi servono, uomini e donne, in quei giorni io manderò il mio Spirito ed essi parleranno come profeti…». Finalmente i doni dello Spirito saranno rivalutati, il veggente vedrà compresa l’origine della sua luce interiore, perché chi è stato scelto per “intendere”, intenderà. 

È bene precisare che anche in questo campo sarà saggio applicare la parabola 

dell’albero e dei suoi frutti. Bisognerà, cioè, saper discernere alla luce della propria verità e coscienza, i frutti del male che apparentemente sono assai simili a quelli del bene. Non dimentichiamo che il “falso profeta” ha conosciuto il cielo, ha collaborato alla “creazione”, ed è un buon imitatore dei poteri divini, sa mescolare la verità alla menzogna, sa illuderci che il nostro male sia il nostro bene. Non saranno i “negromanti” le stelle da seguire nella navigazione della notte dei “tempi bui”, ma ancora quelle “voci che gridano nel deserto” nel deserto di silenzio interiore della nostra epoca. 

Ma come uscire dal labirinto di confusione che è dentro di noi, quel labirinto formato da strade vane, da nozioni culturali e religiose acquisite passivamente? lo non possiedo il filo di Arianna, né ho la presunzione di conoscere la verità. Posso soltanto limitarmi a mostrare la strada scelta per ritrovare verità comuni, delle conoscenze vicine o lontane nel tempo e nello spazio. La ricerca parallela tra scienza, arte, religione, filosofia, mitologia e scienze esoteriche mi è sembrata un buon mezzo di conoscenza. L’uso costante di intuito e ragione mi ha aiutato a mettere da parte i pregiudizi, ad aprirmi ad ogni possibilità di verità, nella ricerca della libertà, nella libertà. La libertà offerta da un cammino non ostacolato da freni di imposizioni culturali o religiose. Uno svincolarsi da ogni sovrastruttura mentale per far affiorare il sentire più vero. Una ricerca dell’Amore compiuta con amore. 

Il centro del labirinto, meta da raggiungere è il tempio simbolico dello Spirito santo; è illuminazione, rivelazione, raggiungimento di Dio. È Buddhità, Nirvana o che dir si voglia, concesso a chi si accinge al viaggio e alle sue prove, con coraggio, amore, apertura mentale. Il labirinto è simbolo delle strade sbagliate, dei vicoli ciechi, delle anse del nostro cervello, ricerca di un centro di attrazione comune, di iniziazione spirituale, di superamento delle “prove” imposte dalla vita. Esso è il sogno di libertà (“Così conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”, Gv VIII – 32). 

Sono d’accordo: non si devono offrire perle ai porci, ma occorre almeno far conoscere la possibilità di salvezza a chi desidera tentare il cammino ma è offuscato dal rigido dogmatismo privo di anima, dalla scienza lontana di Dio. Con la speranza che per qualcuno il velo si sollevi, la mitica porta si apra. Ma attenzione: per vincere dobbiamo uccidere il mostro metà uomo e metà animale che è in noi, posto a guardia del segreto. Dobbiamo, cioè, combattere la nostra natura animale. E non limitarci all’uso della scienza. Icaro con le sue ali di cera si illuse di contrastare le forze della natura. Ma il sole lo abbatté, la legge di gravità lo precipitò di nuovo sulla terra. Ciò significa che non possiamo sfuggire alle prove che la vita ci impone. Sono proprio quelle prove lo scopo della nostra vita. Ed esse sono lì per renderci liberi. 

Diana Garland 

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 31-39.

 




VINCENZO MESSINA, Con rispetto spar- lando, Ila Palma, Palermo, 2006.

 Un libro sconsigliato dall’autore, che si consiglia come diversivo 

Con rispetto sparlando è un esilarante spaccato di vita quotidiana, e lo stile del libro è già rivelato dalle due righe che arricchiscono la copertina: «Questo testo contiene espressioni dialettali scurrili e sgrammaticate. Se ne sconsiglia la lettura a chi è avvezzo a tuccarisilla c’a cammisa; frasi che sicuramente non introducono ad un’ opera arci filosofica e tediosa. L’ autore racconta con tresemplici episodi, tutti e tre ambientati in Sicilia, alcune caratteristiche che facilmente si possono riscontrare nella vita quotidiana. 

Il primo racconto si svolge a Palermo e il protagonista è lo stesso autore che decide volontariamente di imbarcarsi nel lungo e complicato percorso per ottenere la famosa placchetta «H»; non perché ne abbia realmente bisogno ma perché misteriosamente utile e potente. In chiave comica e satirica l’autore tratta il tema tristemente attuale del «tocca e fuggi » per ottenere ciò che si vuole pur non avendone diritto, e della estrema facilità di chi, pur non avendone diritto, riesce ad ottenere la misteriosa «H». 

Il secondo brano è ambientato a Pantelleria. Protagonisti un gruppo di musicisti palermitani che si imbarcano, nel senso letterale del termine, per l’isola per una notte … pantesca. Un transfer tristemente comico a causa di una serie di inconvenienti che attanagliano i musicisti siciliani. Anche qui, a mio parere, si mette in luce la tendenza, diffusa un po’ ovunque, di provare a fregare l’altro; soprattutto quando l’ altro non è della zona. 

Il terzo ed ultimo brano è un episodio tragi-comico che intreccia due realtà della vita maschile: la difficile convivenza tra il sesso maschile e quello femminile e la prostata. Particolarmente piacevole la conversazione tra il protagonista ed il medico, in cui le uscite in dialetto dell’ autore colorano ed aumentano la comicità della situazione. 

Consiglierei il testo ai siciliani ma non solo, grazie anche al «glossario» finale che spiega i coloriti ed appropriati termini dialettali utilizzati. 

Con rispetto sparlando è un libro che si legge d’un fiato, che diverte senza cadere nel banale e che, nello stesso tempo, fa riflettere su piccoli-grandi spunti che emergono dalla lettura. 

Elisa Fontana 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 64-65.




Una rilettura in chiave poetica di uno sport a due ruote

Una rilettura in chiave poetica di uno sport a due ruote 

I soliloqui del passista. Breve storia del ciclismo in versi di Antonino Cangemi è una raccolta di poesie corredata di brevi note biografiche dedicate ai grandi campioni dello sport su due ruote. L’autore, a cui non manca una buona dose di autoironia, invoca in apertura l’intervento della musa, come un cantastorie dell’antichità classica, affinché lo assista nell’impresa che si accinge a compiere: «Cantami o diva / lo stridore dei tubolari / sull’asfalto / la leggenda popolare / di storie vecchie e nuove». 

Cangemi affida alla sublimazione letteraria uno sport che inaspettatamente si rivela permeabile a una profonda rilettura in chiave poetica e leggendaria. E questo in virtù soprattutto della particolare natura della disciplina che, nata povera e lontana dai fasti degli sport più alla moda, conserva tuttora un fascino impagabile derivante non solo dalla fatica smisurata che mette a nudo l’umanità dei suoi novelli eroi, ma anche dal contatto con lo scenario naturale che le fa da sfondo, di cui essa mette in risalto la bellezza suggestiva, spesso ancora selvaggia e incontaminata. 

Le note biografiche accompagnano di pari passo i ritratti poetici, completando e illuminando con rara arguzia situazioni e caratteri. Ampio spazio è dedicato alla figura di Coppi, alla sua rivalità con Bartali e all’amore travagliato con la «dama bianca», di cui furono piene le cronache rosa degli anni Cinquanta. Coppi incarnò il mito del ciclismo. Proprio nella poesia a lui intitolata, il personaggio reale sembra volutamente eclissarsi per cedere il passo al mito, felicemente reso dall’Autore nell’immagine dell’uomo che «si lasciava guardare negli occhi / nessuno osava a quel punto parlare / gli occhi che videro – gli ultimi occhi – / su quei tornanti Coppi arrivare». Gioco sottile di specchi che insinua atmosfere surreali di dialoghi muti fra anime. 

Cangemi non dimentica nessuno, neanche i gregari e i cronisti del Giro. E neppure la pioniera del ciclismo femminile, Alfonsina Strada, «paladina remota / di nobile causa / un giorno proclami / s’alzeranno nel cielo / uguali diritti / tra uomini e donne / stessi poteri / a chi porta le gonne». Eroica, perché vinse 36 corse contro ciclisti di sesso maschile e nel ’24, già in pieno fascismo, le fu consentito di partecipare al suo unico Giro d’Italia, figurando fra i 30 su 90 partecipanti che riuscirono a completarlo. 

Gli anni Sessanta vedono il trionfo di un altro eroe leggendario del ciclismo italiano, Felice Gimondi: «vanitoso e fiero / come una donna / sul viale di Sanremo / mentre la folla / che tanto l’ amava / lo inondava di fiori». Poi, nel decennio successivo, il fenomeno del doping giunge a gettare ombre inquietanti sul binomio ciclismo-poesia, contaminandolo e affliggendolo fino ai giorni nostri con i suoi risvolti tutt’altro che sublimi ed eroici. 

Riuscirà il ciclismo a vincere il confronto con le tentazioni sempre più invadenti di una gloria effimera e di basso profilo? È questa la domanda che si pone il poeta, lasciando però spazio, nell’ultima lirica (quella dedicata a Damiano Cunego) alla luce della speranza: «chiediamo di più / la vittoria senza inganno / siringhe o pastiglie / il volto pulito / sporco di sudore / d’eterno ragazzo». 

Brigida Fagone 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 58-59.




 La proliferazione delle leggi 

Mai come nel presente impietoso periodo storico, sullo scorcio di questo diabolico XX secolo – che ha annientato tutte le garanzie civili ed umane poste a guardia dell’umanità, dopo le sacre Rivoluzioni: americana, francese, italiana, russa, per non parlare delle altre meno conosciute ma altrettanto seminatrici di ideali – si è visto una proliferazione di leggi talmente soffocante da stordire il cittadino al punto che la stessa Corte Costituzionale, poco tempo addietro, ha dovuto riconoscere che, talvolta, ignorare la legge è un sacrosanto diritto della gente. 

Ma non è tanto il fatto che il Legislatore – o meglio. coloro che spingono i Deputati e i Senatori ad affastellare una sull’altra tutte le leggi possibili e immaginabili – usi del suo potere per dare un volto giuridico alla Nazione, quanto il misfatto dell’abuso che lo stesso Legislatore va perpetrando da anni a carico della collettività italiana con uno stillicidio di leggi, novelle, leggine, sottonovelle 

e poi, di nuovo, superleggi, sottoleggi non da mozzafiato ma da voltastomaco, proprio perché è come se ti dessero un autentico pugno sullo stomaco, dal momento che non ce la fai a digerire questo vero e proprio malloppo legislativo. 

Ora, io mi domando: coloro che siedono in Parlamento e in Senato hanno mai letto Tacito, Cicerone, Sallustio, Tertulliano e poi Giustiniano? Hanno mai letto un po’ di storia del diritto romano? Sanno chi era il Pretore romano e cosa faceva questo Pretore, laggiù nel foro, dove una causa, civile o penale che fosse. si risolveva immediatamente. senza possibilità di appello, dove si faceva giustizia rapida ed esemplare e che era ritenuta la migliore del mondo? 

Sanno i nostri Legislatori ciò che diceva Celso, famoso giureconsulto, quando affermava il principio: «Scire leges non est verba earum tenere, sed vim et potestatem» («Conoscere le leggi non significa tener dietro allo sproloquio delle loro parole, ma significa dar loro forza e potestà»)? 

Nel caso nostro, delle nostre leggi, non si tratta ora soltanto di sproloquio ma di diluvio totale di tali e tante parole che servono solo a fare confusione, a creare disagio, a interporre dubbi, a oscurare la norma giuridica che deve essere, invece, rapida, semplice e breve. 

Bastavano pochi ed essenziali concetti a rendere un ordinamento giuridico degno di dare a tutti i consociati l’eterna buona nuova della «certezza del diritto», così come la concepivano i nostri antichi padri, così come pare l’abbiano recepita i popoli anglosassoni, a scorno dei nostri Governanti passati ed anche presenti. Basti per tutti fare l’esempio dell’atteso codice di procedura penale (denominato «nuovo») che dovrà entrare in vigore nel prossimo autunno 1989 e che ricalca, qua e là, alcuni canoni dei codici anglosassoni e che ha rivoluzionato il c.d. «rito inquisitorio» ribaltandolo in «rito accusatorio» (che si traduce in maggior libertà istruttoria d’azione per l’avvocato e per l’imputato e dove il giudice sta a guardare quello che fanno le parti per poi emettere una sentenza che si avvicini quanto più possibile alla verità e alla giustizia). Ce ne sono voluti di anni per arrivare a questo traguardo! 

Ma la sostanza rimane la stessa. Alla qualità i nostri Legislatori hanno sempre sostituito la quantità. Non un lago di leggi, il nostro ordinamento è un oceano di disposizioni legislative che, facendo finta di rimangiarsi le precedenti, a queste stesse rinviano per accrescere ancora di più la difficoltà di interpretazione, in una farragine di concetti dove ognuno, ogni operatore del diritto, interpreta come vuole non la legge ma la «sua» legge, al punto che questa diventa anarchia! 

Uno Stato come il nostro che ricorrentemente ha bisogno di concedere l’amnistia, non per un evento importante della vita della Nazione, ma soltanto per prosciugare migliaia di processi penali delle Preture e dei Tribunali, non è uno Stato serio. E dove vanno a finire le garanzie legali di un cittadino che ha sperato nella sveltezza del processo penale e nel suo epilogo di giustizia per risolvere i suoi problemi, al fine anche di non farsi giustizia da sé, quando poi giunge, ingiusto ed ipocrita, un provvedimento di clemenza generale in cui i malfattori la fanno franca e la persona onesta è costretta a subire l’ennesima ingiustizia proprio da parte di uno Stato che dovrebbe essere il simbolo della somma di tutte le garanzie di vita di un popolo? 

Ecco che cosa producono le proliferazioni delle nostre leggi: una sommatoria di oscuri concetti giuridici, dove trovare certezza, garanzia e giustizia è come trovare un ago in un pagliaio! 

Penso che basterebbero per tutti i «Dieci Comandamenti», giunti come siamo a questo punto della nostra dolorosa storia di uomini proiettati, alla soglia del 2000, verso un avvenire oscuro, gravido sempre più di incognite disumane, dove in agguato sembrano essere accovacciati, per l’ultimo micidiale balzo, i quattro spietati cavalieri dell’Apocalisse. 

Antonio Della Rocca 

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 57-58.




V. GALLO, Di la Bata ranni a la Marina – Usi e tradizioni di Sciacca, 2005.

Usi e tradizioni popolari locali, studi da incoraggiare 

Il volto di una città non lo compongono soltanto i suoi edifici, le sue vie, le sue piazze, ma anche i multiformi aspetti della vita dei suoi abitanti. Elementi statici quelli, dinamici questi, che infatti si esplicano nella varia mobilità di particolari momenti del pensare e dell’agire umano, connessi fondamentalmente a un passato ora più ora meno antico che al tempo stesso essi conservano e innovano, salvando una sostanziale coerenza che ne assicura la consistenza e la vitalità, oltre a produrre una certa diffusione nei centri viciniori, nei quali poi assumono peculiarità più o meno marcate e talora anche distintive. 

Si costituiscono così, nelle comunità, usanze e tradizioni di varia specie, un vero e proprio patrimonio di cultura, che ha meritato l’attenzione di valenti studiosi, animati da curiosità e interesse e dal conseguente legittimo desiderio di operare per conservarne le caratteristiche e la memoria di generazione in generazione. 

Rientra meritamente in questo tipo di studi il recente libro di Vincenzo Gallo, un impegnato docente di lettere nonché appassionato cultore di storia, tanto sensibile a quella che Dante chiamò «carità del natìo loco». 

Dotato di buona attitudine all’osservazione dei tanti aspetti della vita locale, si è dedicato da anni alla ricerca di notizie e curiosità di ogni tipo, relative a quell’ambito e, consapevole del loro valore documentario, sociale, civile, educativo, ne ha raccolte una quantità davvero considerevole, le ha riunite in apposite categorie, riferendo adeguatamente, anche sotto l’aspetto del loro formarsi storico, sulle singole voci. 

Il lettore ha così passibilità di apprendere le numerosissime ‘nciurie, cioè i soprannomi assegnati a un cospicuo numero di famiglie saccensi o a qualcuno dei componenti, lo svolgersi all’aperto di tanti giochi di ragazzi, le varie fasi del costituirsi di un nuovo nucleo familiare, dal fidanzamento al matrimonio, talvolta con specifici atti notarili, tal altra, specie a livelli sociali modesti, dopo la classica fuitina. 

Inoltre lo studioso registra, opportunamente commentandole, superstizioni e credenze, ricette mediche, filastrocche, testi di proverbi e modi di dire, aggiungendo alla fine un utile glossario. 

L’opera che Vincenzo Gallo ha prodotto è da considerare ben valida sia come testo di piacevole lettura sia come documento che illustra e consegna alla memoria un vasto materiale di indubbio interesse etnografico ed etnostorico, come hanno rilevato, in apertura, l’avv. Gaspare Falautano, il dott. Enzo Fontana, presidente della Provincia di Agrigento, e il prof. Enzo Puleo. 

In questo libro, valido, ben articolato, gradevolmente comunicativo, quasi compendio delle usanze e delle tradizioni della sua gente, Sciacca ha trovato un ritratto fedele di tanta parte della sua fisionomia umana. 

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 52-53.




Una prosa d’impegno 

I. Marusso. Un uomo per una folle speranza Mafia e droga nella Sicilia occidentale viste da vicino, Ed. Bastagi. Foggia. 1990. pagg. 100. 

Con questo libro Irene Marusso ha mantenuto la promessa. La “Trilogia del malessere”. già annunciata qualche anno fa, ora è completa, ed anche felicemente perché il libro che la conclude ha diversi motivi di validità, come cercherò di dimostrare. 

Quali sono questi motivi? Prima di ogni altro, il modo di mantenere e integrare la coerenza e la organicità del disegno. Sono volumi legati fra di loro da quella che potrebbe dirsi una struttura profonda, cioè, un motivo di base che li percorre tutti e che si identifica con la sensibilità per certi problemi umani che nella sostanza sono problemi di sempre, ma che oggi, per il duplice motivo che, purtroppo, li conosciamo direttamente nella vastità del loro manifestarsi, li viviamo quasi quotidianamente. ci sembrano esclusivi del nostro tempo. 

È così che, dopo averci presentato con “Una moglie frigida” le complicazioni di un esistenziale rapporto coniugale reso difficile dalla routine e dall’intrecciarsi di situazioni scabrose, e dopo averci fatto riflettere con “Umanità alla sbarra” sul rifiuto che questa nostra società oppone ad esseri umani segnati, contro la loro volontà, da passioni amorose sconvolgenti, Irene Marusso ora, con questo “Un uomo per una folle speranza” sollecita le nostre considerazioni sulla problematicità di un riscatto morale e sociale che, pure perseguito ad alta voce da tanti programmi e dichiarazioni ufficiali, tarda, purtroppo, ad arrivare a soluzione. ed anzi pare allontanarsene ogni giorno di più. 

Sotto la spinta dell’interesse per i problemi umani. che è alla base di tutte le opere, non soltanto di narrativa, ma anche nelle liriche e negli scritti giornalistici. Irene Marusso si è soffermata sulla vicenda di un uomo che lotta per dare realtà a una speranza veramente bella. ma che alla fine si rivela solo “folle”. Ma il titolo non deve fuorviare. 

Un libro come questo va considerato sotto due aspetti: quello letterario e quello storico-sociale. Sono due aspetti che sembrano abbastanza distinti, ma se si guarda più a fondo nel caso specifico si scopre che l’ambientamento spazio-temporale è parte integrante del racconto, e gli fa da imprescindibile base. Tale ruolo è svolto, per un lato, da una Sicilia tratteggiata nei suoi elementi più tipici, essenziali e realistici, in un modo che si evidenzia l’amore di Irene Marusso per la sua terra. dall’altro dal richiamo di taluni eventi caratterizzanti la storia più recente. In questo quadro le due vicende di amore vissute dai protagonisti. sia quella brevissima ma intensa con la dolcissima Cincin. la giovane vietnamita conosciuta nella giungla sconvolta dalla guerra, sia quella più durevole e determinante intrattenuta con Caterina, costituiscono l’ordito su cui vengono a interessarsi le trame sottili di un messaggio che consiste non nella rivelazione di un sistema risolutorio. ma nella indicazione di un problema di vasta portata sociale animata dall’intento di richiamare su di esso la necessaria attenzione da parte di tutti. 

Io non credo che Irene Marusso abbia raccontato solo per il gusto di raccontare. Ha raccontato certo perché ne ha l’attitudine e nello scrivere si realizza, ma il suo racconto ha dato. secondo me, consapevolmente, il valore di un invito ad aprire gli occhi sull’epoca in cui viviamo, sì da andare a capire com’è che essa è quella 

che è. attraverso quali eventi e per quali eventi e per quali più o meno palesi ragioni essa sia arrivata ad essere tale, invogliandoci, quindi a vivere con utile consapevolezza e adeguata maturità. Se così non fosse, avrebbe dato al suo romanzo quel sottotitolo che campeggia così ben circostanziato sulla copertina: “Mafia e droga nella Sicilia occidentale viste da vicino”. Così il triste fenomeno risulta documentato negli accadimenti e nella crudezza dei suoi effetti, constatato nella disumanizzazione di cui è causa, accusato in tutta la sua perfida potenza di disgregazione e di annientamento. Ed è proprio per assicurare la chiara percezione di questa base storico-sociale che qua e là il racconto cede spazio a sintetici ma lucidi richiami di eventi storici che, se pur coevi a molti di noi, noi stessi abbiamo quasi dimenticato sotto l’urgere degli obblighi quotidiani. il progressivo rinchiudersi nel privato e l’incalzare di nuove esperienze. 

Sono passi che hanno l’impronta di excursus storici e il pregio della sobrietà e della chiarezza, nonché quello dell’oggettività, in quanto da essi non traspare, tantomeno emerge. alcuna presa di posizione preconcetta contro chicchessia. Quel che invece balza fuori ben chiaro. attraverso l’evidenza assicurata a certi dati raccapriccianti, è la denuncia degli errori in cui gli uomini incorrono a dei danni di vario genere che tali errori inevitabilmente producono. Si vedano, per esempio, i flashs sulla guerra del Vietnam: narrazioni e descrizioni soltanto, ma tanto efficaci quasi quanto le insistite sequenze che una recente cospicua filmografia di produzione americana ha mandato in giro per il mondo quasi a confessare un sanguinoso reato contro l’umanità innocente, e a recitare il mea culpa. E si leggano tra le righe anche le notizie dei delitti di mafia, scarne ed essenziali, annotate come in un rapporto di cronaca, eppure così funzionali a produrre avversione contro un così triste e discreditante fenomeno. Per contro, non mancano parole di plauso, e quasi di gratitudine, per chi offre attiva collaborazione e aiuti concreti a iniziative animate dal serio proposito di togliere di mezzo ogni motivo di malessere. 

Comunque, il contributo migliore al trionfo della causa giusta viene dall’andamento della vicenda che fa da nucleo sostanziale a tutta l’opera. 

Questo giovane mutilato che sopperisce con la fede nei suoi giusti principi, con la vivacità della sua intelligenza. con la fermezza del carattere e la tenacia dei sentimenti alla quasi impossibilità di muoversi. e che, nonostante l’immobilità fisica cui è condannato. riesce a muovere tante di quelle persone che l’avvicinano, e che egli arriva ad avvicinare, e a dare ad esse tanta fiducia nella vita, è un tipo umano che si propone come esempio a una società che sempre più spesso va perdendo la nozione e il senso di quel che significa veramente impegno civile ed umano. Purtroppo, alla fine egli soccombe, e così pare che il male sia invincibile o, che è lo stesso, che le sue forze siano superiori a quelle del bene. Visto che il successo che arrideva agli onesti propositi di questo benefattore viene meno, pare legittimo che il pessimismo tomi ad avere il sopravvento. Per altro, se sospendiamo la lettura del libro e poniamo mente alla cronaca di tutti i giorni, e alle brutte esperienze che spesso ci tocca fare per strada, negli uffici, e persino dentro le stesse pareti domestiche, dobbiamo, se pure a malincuore, riconoscere che il pessimismo sul nostro presente e, ahimè, sul nostro futuro, ha maggiore fondatezza dell’ottimismo. Ne è rimasta condizionata pure Irene Marusso, che certo sarebbe rimasta fuori della realtà se avesse concluso trionfalmente la sua storia. Anche perché chi conosce le sue opere sa bene che da esse è bandito sistematicamente il lieto fine, forse anche per adesione a quel principio cui diede massima notorietà, in epoca di neorealismo, un critico cinematografico quale Giuseppe Chiarini, quando scrisse: “il lieto fine è immorale”. 

C’è, però, una precisazione da fare: la fine tragica del protagonista non deve assolutamente significare sconfitta e invito alla resa. Vale, invece, come testimonianza e come avvertimento. Vorrei che ci riportasse fuori dal gretto materialismo imperante ai nostri giorni verso quei bei tempi di realismo romantico di cui gli eroi, anche se soccombenti, deliberatamente votatisi al sacrificio, erano in realtà i veri vincitori: primo, perché a differenza dei loro nemici potevano agire fuori dalle tenebre e dall’ombra ed, anzi, alla piena luce del sole, poi, perché la loro fine, quando si verificava, era il principio della riscossa, di una lotta più coraggiosa e sagace per l’affermazione dei propri ideali. Penso specificatamente, in letteratura, agli eroi alfieriani e, nella storia di tutti i tempi, anche i più recenti, e di tutti i luoghi, alla folta schiera di martiri che presto o tardi riescono a prevalere e ad ottenere il riconoscimento del giusto diritto dei propri ideali e del grande valore delle azioni da essi ispirati. 

In questa ottica credo che Irene Marusso chieda si legga la conclusione della “trilogia» di cui è autrice, e in particolare quella del suo terzo momento. Rifiuto decisamente l’idea di una Irene Marusso che presta la sua voce a certo pessimismo progrediente. Che se poi qualcuno dei lettori gradisce solo racconti di vicende di singoli, narrazioni di fatti di amore con tutta la vasta e varia gamma dei loro momenti, può trovare pure questi nel libro di cui parliamo; e sono fatti raccontati con buona perizia letteraria nell’impostazione e conduzione dei dialoghi e nella caratterizzazione dei personaggi; tanto gli uni che gli altri hanno quasi tutti i requisiti necessari per interessare e piacere. Si tratta infatti di una storia d’amore raccontata con garbo, con discrezione, con misura, senza nessuna concessione a quell’erotismo che oggi è tanto di moda, neanche in quei passi in cui pur ce ne sarebbe stata l’occasione. Una storia che bada ai sentimenti, più che ai sensi, e li pone in primo piano, e li esprime con mezzi semplici, con il parlare di tutti i giorni, con rapidi tocchi e accenni fugaci, battute essenziali, lasciando che emergano di per sé, e di per sé si impongano all’attenzione di chi legge, e di per sé si imprimano nella sua memoria. Una tecnica narrativa, insomma, di tutto rispetto, e che mi pare anche si presti bene ad una sceneggiatura cinematografica, e quasi la prepari. Ma chi si ferma a leggere questa storia solo come fatto sappia che, in realtà, viene a sottrarre al libro il valore che gli deriva da quell’impegno morale e quindi civile che lo anima pacatamente e che il breve giudizio stampato sull’ultima pagina di copertina pone in opportuna evidenza. 

In altri termini, chi limita la sua attenzione alla vicenda, godrà certo i pregi letterari del racconto ma perderà di vista, colpevolmente e con suo danno, la presenza di quell’impegno di cui dicevo sopra, e che, seppure non enfatizzato, certo è elemento integrante del libro, e quindi merita e richiede di essere adeguatamente valorizzato. 

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 45-49