Elena Milesi, Paggio in viaggio, Torino, Genesi editrice, 1991.

Un viaggio augurale

Si legge con gusto Paggio in viaggio di Elena Milesi; è una miniera di immagini che si rincorrono, si perdono, si cercano a rimpiattino con un gioco festoso e splendido come può esserlo il leit motiv di una sinfonia cromatica di altri tempi. È la musica che ci viene da lontano sul filo delle tradizioni da ritrovare di cui il Paggio è l’annunciatore felice con la sua spada d’argento in pugno per fugare le tenebri incombenti del nostro tempo perverso. Ci fa riprendere coscienza del contrasto con il nostro rumore assordante dove l’arrembaggio è parola d’ordine, e il disordine nel corpo e nella mente. Il Paggio dice basta a tutto questo e parte, lancia in resta a testa alta, fiero di precedere «un altro Angelo (che) sguainerà la spada/ contro questa peste». Paggio come Amore, come Angelo, Spirito guida per aiutarci a « scavare il pertugio d’oro / per l’occhio del sole».

Noi vediamo crescere i fanciulli con disappunto e dolore; gli anni dell’adolescenza ancora fusi all’infanzia e proiettati nell’ignoto del futuro rimangono delusi della realtà, il disamore li traumatizza mentre vorrebbero nutrirsi d’amore come la loro età li sollecita d’istinto. È l’età in cui prendono coscienza di un mondo violento e falso da abbordare loro malgrado; unificarvisi oppure cedere a paradisi artificiali per surrogare quelli dell’infanzia felice o mancata. Tutti i fanciulli del mondo sono piccoli paggi brutalizzati in questa civiltà corrotta che li priva di tenerezza e di comprensione.

I loro desideri sono fugati troppo 

presto dalla loro anima assetata di gioia cui vorrebbero uniformare il mondo per un futuro da conquistare a misura della loro umanità. Purtroppo solo i più fortunati riescono a equilibrare le loro nascenti pulsioni sul filo dei “palloncini colorati” da far scoppiare nel momento creativo di sensate iniziative. Il punto è avere i maestri giusti, altrimenti rimangono immensi nelle nevrosi e nelle inquietudini che ammalano l’anima per tutta la vita fino a scendere nell’abisso della violenza e del terrorismo, giusto quello che la società ha insegnato loro, e nel «delirio salpa la nave dei pazzi».

Paggio in viaggio sollecita alla memoria la visione di una gioventù felice ed appagata nelle sue pulsioni interiori proiettate al bene, e certo il viaggio non può essere che augurale della buona novella risanatrice verso una riconciliazione umanistica per l’edificazione del III millennio. Avanti, sembra dire, venite con me ad altre sponde.

Lasciamoci guidare dal Paggio fanciullo amico dei fanciulli. Egli viene alla testa di un corteo già formato di giovani ansiosi di marciare con lui verso la luce limpida del mattino per le nuove tenzoni dello Spirito ed esorta come Gesù. Il Paggio con passo lieve li condurrà «in alto là dove cadono le cose / splendono eterne, particelle divine».

L’attesa del sacro si fa voce per un futuro meno aberrante e caduco dove le nuove generazioni più attente alle profonde intuizioni dell’essere sappiano fare tesoro delle meravigliose risorse dello Spirito, il solo che unisce le genti nella ricerca di un dominatore comune, Dio. Purtroppo i nostri paggi sono ammalati: la morte di Dio come l’assenza del Padre è stata fatale alla loro evoluzione psichica, ma per fortuna c’è un Paggio Padre che li segue dall’alto; silenzioso e accorto illumina dove vuole perché la ricerca sia fruttuosa. Ecco l’invocazione salvifica: «Si è coricato il sole e non si sveglia / Paggio, teniamoci per mano in questo buio». A testa alta!, esorta il poeta, la dignità ormai è: «senza cinte: i costumi rilassati»; non attendiamo oltre. Tuttavia, quando tutto sembrerà perduto ci sarà sempre la salvezza per chi: «ritorna dentro l’uomo / alla scoperta del mistero», e per i bimbi ci sarà per sempre un Paggio ad attenderli a braccia aperte, e saranno «quelli che cambieranno il mondo».

Il Paggio è una figura regale e la poesia di Elena Milesi gira attorno a problemi esistenziali drammatici con fare regale, li punzecchia anche con ironia come si addice dal’alto di una superiore forza, li stringe infine amabilmente nell’intento di entrare senza forzature nell’animo del lettore. Se sarà in grado di cogliere il messaggio, sfronderà da sé le scene delle parti per capirne l’essenzialità e farne tesoro. Un po’ per celia e un po’ per non morire, dunque, ma che l’abilità del poeta si avverte attenta e sagace al punto di servirsi di un’entità magica come il Paggio Spirito-Guida per aprirsi a sfere di conoscenza meditativa ed instaurare così una filosofia di vita nuova.

Il discorso raffinato fa risaltare la volgarità imperante ancora più disgustosa nel confronto di chi nella sua fragilità mostra una sapienza millenaria che ribadisce, in sostanza, che l’uomo può cambiare le carte della sua esistenza finché vuole, ma che sempre si troverà ad indagare nelle domande di sempre, dinanzi alle quali l’oracolo di Delfi dette una sola risposta, per prima cosa: Uomo, agnosce te ipsum.

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 60-61.




V. Esposito, Poesia non-poesia anti-poesia del ‘900 italiano, Foggia, Bastogi Ed.. 1992. pp. 696.

Edito dalla Bastogi è uscito nel mese di marzo del ’92 un grosso tomo antologico comprendente nella prima parte gli interventi critici di Vittoriano Esposito dal 1949 al 1991. Questo lungo periodo attraversa la storia letteraria di quasi tutto il secondo Novecento, assai movimentato in verità, le cui diatribe e polemiche si sono succedute a ritmo serrato, per quanto la forma poetica si sia messa a morte più volte e più volte si sia fatta risorgere più o meno malconcia. Di qui la sperimentazione, l’avanguardia, la parola innamorata, la parola in libertà del non-senso e del frammento e mille altre innovazioni escogitate per allontanarsi il più possibile dalla tradizione accanitamente ripudiata. 

Il fatto è che proprio la nostra storia umana e civile è stata travagliata per cui l’inquietudine ha condannato l’artista -ad una poetica incerta, … in bilico tra gioco e necessità; …oppositiva rispetto alla tradizione, la poesia del ‘900 è perpetuamente ribelle al passato, insoddisfatta del presente, poco o punto fiduciosa del futuro'(pag.152). 

Il periodo più cruciale della poesia è stato quello degli anni attorno al ’68 in cui si è inneggiato alla disgregazione sia dei contenuti che della forma poetica al limite di una realtà volgare e di prosa arida e senza senso attuata addirittura con ritagli di giornali presi a caso. Di proposito si è voluto sperimentare la non-poesia e la anti-poesia per dimostrare a se stessi di poter ricominciare da zero il discorso poetico. Un incipit Vita Nova non è stato possibile, dati i tempi smagati e violenti; alla frantumazione nulla è succeduto di positivo se non il ritorno alle considerazioni umane dell’essere e degli eterni perché della vita. La forma è approdata ad un’impostazione di alta poesia verso il neo-classicismo, dove l’allegoria suscita immagini oltre ogni immediatezza, dove la metafisica a volte si fa religione del sacro percepita in chiave di salvezza dal mondo oggettivato e corrotto. 

Il trascendente nell’arte e nella filosofia va oltre il pensiero, oltre la conoscenza per snodare le regioni dell’ignoto nel mistero dell’esistenza. Il progresso delle scienze in questo senso è agevolato nelle sue ricerche e d’altro canto tutto ciò che è percepibile dall’inconscio è a sua volta espressione di trascendenza. 

L’autore di questa antologia in esame si fa carico delle convinzioni e delle proposte di molti poeti e saggisti contemporanei di chiara fama, che al di là di ogni anacronismo formulato dalla critica militante e dalla critica accademica avvertono l’importanza di una fusione di valore nel senso che il giudizio critico e il giudizio estetico devono confluire verso un appagamento armonico totalizzante, ed è importante scoprire nella lettura di un testo -l’incognita parabola» (B. Marniti). 

Tra critica e poesia si identificano gli stessi principi estetici per potersi sintonizzare nell’arte poetica con uno scambio metafisico che consenta l’integrazione illuminante. Oggi le parole di Salvatore Quasimodo pronunciate nell’immediato dopoguerra risuonano più che mai di grande incitamento: -Rifare l’uomo», aveva detto, -quest’uomo che aspetta il perdono con le mani sporche di sangue!»; altre, ancora più attuali, quelle di Charles Péguy: – Réfaire la Rénaissance» sono grido e bandiera per una svolta necessaria; e Rubén Darìé: -Mentre contate su tutto, una cosa vi manca, Dio». Si riesce così a individuare a fine secolo la richiesta impegnativa di riavvicinamento alla poesia per la poesia: Arthur Rimbaud iniziatore e veggente. 

Il repertorio della poesia regionale passa in rassegna le varie scuole e tendenze che al presen.te denotano connotazioni di tutto rispetto. L’antologia dedica la seconda parte alle molte schede e profili che l’Autore ha scritto per poeti noti e meno noti nell’ambito della critica ufficiale e non. Suddivisi per gruppi e tendenze artistiche Vittoriano Esposito riconosce suo malgrado di aver ottemperato per necessità pratiche all’esclusione di molti nomi per quanto riguarda il Novecento -minore»; poco o nulla conosciuto nulla ha da invidiare a quello ufficiale spesso deludente e povero di imputo Egli stesso si fa paladino di tali ingiustizie ed auspica che ciò dovrebbe almeno insegnare qualcosa nell’ambito dell’editoria intesa a far soldi soltanto con nomi già affermati, ma disattenta a chi il talento ce l’ha per davvero. Comunque i nomi qui considerati sono già moltissimi e tra essi l’Autore si dichiara soddisfatto di far conoscere da queste pagine un congruo numero di poeti che meriterebbero di salire la ribalta della considerazione che meritano. 

L’antologia a questo punto sarebbe ben fornita, ma una terza sezione raggruppa una categoria a parte dove leggiamo i nomi e le schede di donne poetesse. Se la poesia è nel potere del sentimento, dell’immaginazione e della maturità riflessiva indipendentemente dalle differenze sessuali, credo che le donne qui inserite avrebbero avuto piacere trovarsi tra “poeti” e non tra “donne”. Passata l’impennata femminista non si giustifica più questa separatezza di fronte al talento creativo i cui valori sono comuni a tutti. Comunque in questa sezione anche le poetesse sono divise per tendenze artistiche fino a risalire alle più giovani esponenti ancora in fase di sviluppo estetico ma con chiare impostazioni di scavo interiore. 

È interesse prendere atto del lavoro dei giovani nell’attuale malessere della società che li disorienta con falsi profeti e falsi valori. Tuttavia il rapporto dei giovani con la poesia è migliore di quello che si crede: sentono imperioso il desiderio di colmare il vuoto dell’esistenza affidando alla forma poetica la ricerca della propria identità perduta; l’impegno è di cimentarsi per una chiara coscienza umana per affermare dei valori che non riscontrano nel deserto morale che li circonda. Le prove non mancano, e molti di essi mirano proprio con uno sforzo di volontà a scalzare la crisi in atto. 

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 58-60.




Riflessioni sull’opera poetica di Artur Rimbaud 

La poesia moderna e tutte le poetiche in generale, pure appoggiandosi all’idealismo kantiano, attuano una ricerca all’interno della ragione umana. 

Gli studi dello strutturalismo e della linguistica moderna con la teoria della semantica e della semiologia, ma anche della filosofia e della psicologia, sollevano la poesia al rango delle scienze umane più alte e sofisticate nonché stimolanti. 

La poesia che punta sul significato del significato, secondo l’insegnamento del De Saussure, deriva dalla poetica di Mallarmée di Rimbaud, quel pazzo scatenato e ostinato a cogliere con una critica radicale le relazioni tra parola e mondo, l’uomo e il suo destino, la parola essenziale e significativa per le sue speranze avveniristiche, sempre minacciate. Ecco che il linguaggio che non riesce a sciogliere la contingente umana, e non ne vuole far parte, si interiorizza, si fa difficile per esplicitare ciò che è altro dal mondo esterno e diventa rivelazione, creazione. Il je suis un autre di Rimbaud sta alla base di questa ricerca per un ritorno alla sorgente ontologica, anteriore all’uomo stesso, anteriore al battesimo, quando il terrore dell’inferno non era preda della malizia umana. Tra la parola e il mondo corrono abissi di infrastrutture inquinanti per cui la parola ritrova il suo alveo d’amore primordiale con le analogie da decifrare nel profondo inconscio, per attingere il linguaggio in una forma comprensibile con quel tanto di chiarezza ascetica. 

La società brutale e superficiale ha ridotto la nostra identità ad una finzione, la poesia non può aderire ad essa, anzi deve essere rivelazione di questa finzione nel senso di ri-levare, togliere i veli della maja con intuizione spesso profetica sul tagliente filo del silenzio del mitico vate. 

Se la Parola – era in principio – può anche condurci alla fine con le conseguenze facilmente intuibili: una civiltà dalla parola svalutata e menzognera è dopo la parola, ha perduto il Verbo; la verità della parola non è più qui. «Io sono un altro», dice Rimbaud perché vuole dare forma e sostanza alla propria raison d’être. 

La poesia non è commento, è l’essenza dell’essere che viene ad essere; riesce a prolungare la sua eco all’infinito; solo le poesie deboli, incapaci di penetrare il mistero dell’uomo, non si espandono e muoiono nel loro significato già scontato. Non si tratta di rivelare dati occulti o stregoneschi (come dice chi non sa captare il linguaggio dell’inconscio), ma riuscire a trarre da sé la melodia che viene ad abitare il poeta, la parola adatta a significarla, ri-velazione di una presenza reale. Per Platone il rapsodo è un posseduto dal dio, il daimon che entra nell’artista dominandolo, oltrepassando i confini della sua persona. Il mistero della creazione poetica e artistica è in questa ricezione vitale, sempre sofferenza dal momento ispirativo alle infime ragioni della morte! Sfida e lotta con la Creazione è quella di Giacobbe con Dio; come la sfida della poesia è data dalla sinfonia interiore, così l’arte di Michelangelo ha potuto riversarsi nella Cappella Sistina. «Dio, l’altro artigiano», disse Picasso; in effetti, se il modernismo non sperimenta più Dio come competitore, non può che lottare con l’ombra di se stesso: donchisciotti alla sbarra di un mulino senza vento. 

La lotta di Rimbaud con Dio è stata eroica, dallo scoramento più profondo alla grandiosa intuizione cosmica; scrive: «Perché Cristo non mi aiuta dando alla mia anima nobiltà e libertà» e piange sulla corruttibilità del mondo che ha perduto il Vangelo, e dice: «aspetto Dio con ingordigia». 

L’espressione lirica di Rimbaud nasce sfida come linguaggio privilegiato sulle orme di Mallarmée di Baudelaire che, saltando sdegnosamente il materialismo contingente e opportunista e l’arrivismo economico intesero chiudersi in una torre d’avorio per purificare il linguaggio dalle devastanti infiltrazioni e rifugiarsi in un ideale assoluto nella réerie o imagination, detta “fantasia” da Croce per l’impossibilità di poter cambiare il mondo reale; tentativo operato da Rimbaud fin tanto che la sua giovanile esperienza gli ha suggerito, dopodiché è prevalso l’orrore e il conseguente – cattivo sangue – l’ha portato ad immergersi in quell’orrore. 

Rimbaud era maturato in fretta, dai sedici ai ventitrè anni la sua produzione poetica, poi il crollo delle sue speranze e l’abbandono definitivo dalla scena letteraria. Era maturato in fretta con la frequentazione intensa di lirici latini e greci, francesi, inglesi. La poesia per Rimbaud non deve seguire, ma precedere l’azione, secondo l’indicazione dell’antico vate, per modificare il progresso dalle sue strutture, e farsi carico del dolore degli uomini miti. Purtroppo, il poeta sperimenta solo indifferenza e delusione; il Bateau ivre, dopo avere scoperto oceani immensi, arcobaleni fioriti, affonda in una pozzanghera di fango. In questo il poeta ritrova il dolore del bimbo alle prese con la sua barchetta di carta che affonda miseramente, come lui stesso fragile e insicuro, con la nostalgia dell’infanzia, la sua etàdell’oro intravista e persa. 

Une saison en enfer, sua penultima opera, trae dalla prosa evangelica di Betsaide la sua drammaticità Gesù il divino Maestro, non può restare a lungo in questo luogo di perdizione, di dannati, bisogna uscirne, è pericoloso, tutto diventa cattivo; liberarsi del mondo diventa per Rimbaud liberarsi della Croce per sentirsi libero. Ma quale libertà Quella degli infelici, tanto vale vivere tra gli infelici, i semplici, lui angelo decaduto, fuori di ogni convenzione. Disprezzo e carità diventano il suo credo, il suo biglietto valido per accedere ad un posto in cima alla scala angelica di valori, quelli dello Spirito. Rimbaud è molto convinto di ciò il resto è un fuggire continuo, per finire tra i figli di Cam per ritrovare solo in Africa la propria natura primitiva. 

Restaurando la propria infanzia, egli identifica una esperienza primordiale, vero negro in rivolta, libero dalla civiltà corrotta e dal linguaggio immondo di mostruosi sfruttamenti, industriali e commerciali, dove la farsa continua del vivere sarebbe pianto amaro. Non gli è più possibile sottomettervisi ancora, dice, se è chiaro che questa civiltà sarà seguita dallo sterminio del pianeta. Veggenza? Stregoneria poetica? Purtroppo non ebbe la meglio sulla stregoneria politica che doveva coinvolgere con i suoi tentacoli tutto il mondo occidentale; non potè assistere a quest’altro sfacelo, la sua chiave esoterica indebolita dal male, anziché aprirsi a possibilità polemiche, si rinchiuse definitivamente in un sepolcro di rinuncia. Implora il coraggio di amare la morte! 

Nel 1980 uscì il libro di Giovanni Testori Conversazione con la morte in cui l’Autore si pone dei quesiti in parallelo a Une saison en enfer di Rimbaud, poeta che finora è stato interpretato in una chiave sbagliata. Testori, per altro quasi dimenticato perché scomodo con le sue teorie spiritualistiche, dice di Rimbaud: «è l’ultimo grande poeta profeta che abbia parlato all’uomo. E non è un caso che egli, proprio nell’ultimo capitolo del suo poema abbia ritrovato le parole della Bibbia e che le abbia messe in corsivo come sigillo al suo grido di rivolta e di dolore». 

Degli amori menzogneri di cui finalmente può ridere, Rimbaud lancia un grido di gioia perché dice, finalmente potrà possedere la verità in un’anima e in un corpo. Ora questo grido bisogna intenderlo nell’unica chiave che gli dà senso: la chiave religiosa. Rimbaud aveva già capito tutto in anticipo e, per questo, Testori lo chiama profeta. È stato Dio che lo ha illuminato, riferisce Testori, ed è fuori di dubbio che anche le Illuminations rimbaudiane abbiano avuto lo stesso mittente. Dopo aver toccato il fondo si intravede per lui l’antica sfida che qualcuno seppe leggere nei Fiori del male di Baudelaire: tirarsi un colpo di rivoltella, o fare un giusto ritorno ai valori umani. 

È questa la condanna e la svolta richiesta dall’anonimato della vita di questo ultimo scorcio del XX secolo, 

dove l’alienazione illude di risolvere ogni problema in permissività e violenza. Anche della Ragione e dell’Intelligenza abbiamo finito col servircene più male che bene, approdando purtroppo aridamente alla «illuminata demenza della Ragione», afferma sempre Testori. 

Tremiamo. Il “Viaggio in Paradiso”, descritto in Conversazione con la morte, gareggia con la Saison en enfer: i fiori del male scompaiono nel “popolo di nebbia” testoriano. Solo il Mostro, lei, la Ragione, ansima, rugge, compie stragi e ne compirà più avanti, «infinite nascite orrende / infiniti orridi genocidi / per poter salire là/ dove siede l’ombra del Perduto, / il suo vuoto: / la meta della Bestia è il suo trono». L’Apocalisse si profila all’uomo del XX secolo cosìcome il Battista avvertìnel deserto: «Se voi vincerete la Bestia, il vuoto si riempirà». 

Da questo disagio, il male potrà dissolversi e lo Spirito trionfare, tornare al primitivo splendore innocente nel grembo materno. Come Rimbaud, dice Testori della morte: «Non bisogna averne paura, se voi provaste a chiamarla prima sottovoce, quindi portando la bocca sulle sue orecchie, più sottovoce ancora; se voi le sussurraste Madre, anzi Mamma, così Mamma! Che musica dolce, ondulante, quasi una nevicata sommessa ed infinita, quasi una lontanissima piva dei Natali che abbiamo distrutto, ucciso, sepolto… È un esercizio d’amore, l’unico che arrivato dove sono posso insegnarvi. Quella emme che mormora e bela, quella su cui ci si può distendere sempre, in ogni ora, dopo ogni gesto, perfino dopo un delitto; poi, due mormorii che la seguono, uno dentro l’altro, uno sull’altro come il gesto che ci cullava bambini e non avevamo ancora capito, ancora eravamo illusi di non aver capito che quelle mani ci stringevano per consegnarci a una resa». 

Ancora ci fremono dentro le parole profetiche di Testori quando, con quella genialità che gli è propria e che dopo Rimbaud non s’era piùavuto modo di ritrovare, confessava: «L’uomo non può essere tutto imprigionato dentro la materia del suo corpo mortale. Il corpo è il supporto che regge l’anima; quando si cerca di soffocarla il corpo o meglio la Ragione non ha più pace, si ammala ed escogita nefandezze; ma se prima o poi l’anima rompe la pressa che la serra tenderà a rivelare il suo mistero eterno, quindi a profetizzare sulla nostra cecità». 

Cos’è che angosciosamente preme in noi se non uno spasmodico desiderio di verità Gli scettici chiusi nella loro mentalità frontale senza una forte volontà di uscirne, mai potranno addivenire alle bellezze dischiuse ed infinite dell’anima soave. La disperazione delle Illuminazioni, profusa da Rimbaud, traccia l’inquietudine dei giovani moderni. 

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 33-36.




Omaggio a Jacques Maritain 

Formulare un omaggio ad un filosofo dal pensiero ricco e vitale come Jacques Maritain ci sembra doveroso per approfondire la sua opera più serenamente che nel passato. 

Un anno dopo la sua morte avvenuta nel 1972, si aprì ad Ancona un convegno di studi organizzato dall’Istituto Internazionale francese “Jacques Maritain” che fece convergere su di lui !’interesse degli studiosi italiani in un clima di rinnovato fervore. Da allora si sono succeduti altri convegni e seminari a Brescia, a Milano, a Venezia, ecc. Si sono così moltiplicati saggi e monografie che testimoniano l’esigenza di porre tutta l’opera maritainiana a nuova verifica per cogliere nella più giusta dimensione le note peculiari del suo pensiero definito tomista. 

Questa definizione aveva dato adito alla critica di relegare il pensiero di Maritain come sorpassato conseIVatore, ma alla luce dei nuovi studi si è chiarito come invece fosse sì di derivazione tomista, ma con una carica esistenziale e innovatrice di grande attualità. In tutti i periodi della sua vita questa carica vitale è stata la caratteristica ben precisa del suo pensiero, anche se talvolta ha cambiato punto di osservazione, come è naturale che avvenga in uno spirito eccezionale aperto alla capacità di analisi e di sintesi, riuscendo a cogliere i diversi aspetti esistenziali dell’uomo e del suo destino. 

È stato prevalentemente contemplativo e, quindi, temperamento di artista, ha saputo immergere la sua conoscenza nei più svariati campi delle aspirazioni del nostro tempo con lo stesso amore della verità e della cultura in quan~o la sua voce diffusa dalle sue molteplici opere ha indagato sia nel campo politico, sia nel campo pedagogico che nel campo artistico con valenze poliedriche universali. Tutto questo in un modo livellato, dove l’uomo schiacciato dall’aridità di una tecnica senz’anima ha perso la sua disponibilità ad inserirsi in una “civiltà dell’amicizia”, secondo una sua felice espressione. Tutto il suo lavoro è improntato a profondo amore per l’uomo moderno alla ricerca incessante dell’essere nella sua, completa eccezione, che dalla conoscenza razionale alla conoscenza artistica possa risalire la via della quiete interiore per un approccio, con Dio. 

Tralasciando i dati strettamente biografici, ci soffermeremo a considerare il suo prezioso insegnamento. D’accordo con Mounier e Péguy, affermava che l’amore basato sul “donarsi” ha perduto questa verità, tanto che anche l’intelligenza ha finito per diventare una proprietà massificata e ciò a causa di molte disgrazie umane. È necessario quindi rifare “la rinascenza”, ossia gettare le premesse per un nuovo rinascimento spirituale dell’umanità. L’opera più nota di Jacques Maritain ‘Umanesimo Integrale’ è impostata sul concetto del ritorno dell’uomo all’uomo, dell’uomo che sente di appartenere intimamente al mondo dello spirito con atteggiamento critico e costruttivo per edificare, non per distruggere, con l’adesione non costruttiva al mondo del lavoro e dell’arte, senza di che si incappa inesorabilmente nella follia. Tanto è vero che i fautori del nichilismo puro hanno tutti terminato la loro vita o col suicidio o con la demenza totale. 

In ‘Umanesimo Integrale’ calca la mano e l’accento sul fatto che l’uomo, nella sua limitante condizione umana, deve essere sì aperto al dialogo col mondo, ma nello stesso tempo ha bisogno della grazia divina per superare le sue contraddizioni e ritrovarsi coerente con la norma morale di una società civile. Così la storia è animata da un movimento orizzontale che porta l’umanità ad una sempre più completa realizzazione mediante il lavoro e la cultura, e da un movimento verticale per cui il singolo trascende la società per immergersi nella contemplazione della verità e della bellezza. Questa, in fondo, è la concezione di S. Paolo cui Maritain si ispira e che svilupperà poi con la filosofia di S. Tommaso. È il concetto di personalismo: Maritain è infatti il prosecutore non scolastico della filosofia tomista per il carattere di esistenzialità del suo pensiero. L’esistenzialità dell’essere non può trovare appagamento se non nella misura in cui supera la sua condizione storica, mentre la saggezza gli offre il salto della qualità sulla quantità. La mancanza della qualità determina le crisi delle società. 

Sono questi i temi fondamentali che Maritain ha svolto durante il ritiro di Tolosa, che hanno indotto molti studiosi a rivedere le loro posizioni polemiche e la loro conseguente scoperta sui rapporti tra la vita attiva e la vita contemplativa. Tra l’azione politica e l’azione religiosa correlata c’è tutto Maritain. 

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 55-56




Le donne della poesia

Il curatore di questa Antologia, Domenico Cara, studioso d’Arte e di Letteratura, raccoglie il lavoro poetico di poco più di un centinaia di poetesse, una centuria di scrittrici in qualche modo etereogenea, ma in cammino verso un’elaborazione di pensiero che dal greto di un’esistenza perversa a volte urla la sua sete di trascendenza e di sogno. Pur nella diversità degli argomenti e delle occasioni, dirò meglio, del proprio spazio-tempo, alla fine tutto si coagula in una richiesta d’amore, dove l’armonia d’amore è la fiaccola tesa più che mai al cuore femminile. Anche se l’amore si aggira ancora circospetto nei residui e teme la rima con il cuore in una sorte di virilità violentata, è già nel segno di un superamento riparatore, sul bilancio soppesato delle pulsioni oltre il femminile. 

Il pensiero inevitabile per servire l’idillio, nonché il fatiscente per sperimentare la capacità di rinnovare i registri e le manifestazioni di stile della scrittura, si fa canto, cauto e riflessivo al massimo. 

Da un campo minato si muovono le disuguaglianze rivelatrici di una meta di avvicinamento comune in quanto il dire poetico punta sempre su una verità annunciata nell’intimo di ogni creatura. Questa Antologia giunge dopo l’emblematico periodo femminista – e cerca di captare oltre il femminile – il nuovo senso dell’epoca decorticata di valore per redimere il silenzio dal rumore, le compronùssioni aspre dal quotidiano, oltre l’urto con il mondo rifiutato, con la passione dichiarata per l’estasi silenziosa. 

Il sogno è di inseguire l’inquietudine come “l’arte alla luce della coscienza ritrovata: – tu l’afilato,/l’audacia, l’eterno” (A. Santoliquido). Ecco, diciamolo pure chiaro e forte, oltre la nebbia degli indifferenti la donna poeta ha fatto tesoro della propria storia occulta nel processo restaurativo della sua creatività. Nell’equilibrio della ricerca c’è la donna amazzone di Maria Grazia Lenisa che mette in guardia la fanciulla dalle penne d’oro e turchine: “La donna è senza terra, dovrà / andare oltre davvero il potere delle nuvole, oltre la tela… ” (pag. 139). “Preparammo forse il nuovo tempo, l’uscita /tra i corvi con molte fionde, con gridi, colori / e l’appuntita intelligenza”. Nella catarsi docile di Helle Busacca: “La fiumana / di ombre indistinte e incolori su cui si spiana il silenzio” e di Liana De Luca: “La morte della morte nella morte / la morte per unica sorte” (p. 50), si innesta la riflessione dell’uomo e la sua effimera fragilità. 

Maura Del Serra così conclude una poesia: “… ebbi per madre la piaga di tutti/e per figlio illegittimo il veggente dolore” (pag. 46). 

Concludiamo anche noi con due versi della già citata Anna Santoliquido: “ho solo frammenti di mia madre/ vivrò per ricomporli …” 

Tutte alla ricerca dell’oltre della pura contingenza fisica per assurgere al mondo dell’assoluto dove le vibrazioni dell’essere si accordano all’armonia dell’universo, con le nostre piccole schegge luminose vaganti e pulsanti in quell’altrove per ricongiungersi nella defluente unità del tutto. 

Se ciò era da mettere in evidenza secondo le intenzioni del curatore, è qui testimoniato con somma trasparenza dai molti nomi illustri o appena esordienti: allora accettiamo come – oltre il femminile o l’oltre il maschile – nulla è più confutabile nello scambio complementare di trasalimenti sia pure “con la fatica di scaldare il gelo in ogni dove ristagni l’ombra”. 

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 77-78.




Il mistero dell’ultima guglia 

La nostra società si sta rendendo conto come l’espressione del pensiero sia esso stesso il miracolo Spazio-Tempo nella sua accezione scientifica. Di fronte all’infinito del mondo, oggi gli scienziati sono anche filosofi e solo nella fede ravvisano la catarsi dell’inquietudine: l’umanesimo del Duemila sarà la continua convergenza tra scienza e filosofia. 

Michele Federico Sciacca in Atto ed Essere sviluppò una ricerca con una ricca speculazione impegnata a testimoniare le possibilità della ragione in un orizzonte di fede, con un ritorno all’interiorizzazione che trascenda i valori e riconduca l’uomo al rispetto di sé. per sé e per gli altri. Einstein ha avuto un atteggiamento di reverenza verso la Natura, di cui si sono svelate solo alcune cose, ma non il mistero che l’avvolge. 

Oggi ogni scienziato sa bene che l’ultima guglia sarà sempre avvolta nella nuvola dell’insondabile: al mistero ci riconduce la fede per non esserne schiacciati. Battista Mondin afferma che solo un umanesimo così intenso potrà contrapporsi ai feroci tradimenti perpetrati contro l’uomo. Con l’abolizione dei riferimenti tra cielo e terra, tra materia e spirito, si è instaurata l’infelicità umana con tutte le reazioni di violenza e di degradazione come sistema di vita. eludendo le aspettative iniziali. Ci conforta solo la saggezza di Confucio che per primo intuì la verità della massima evangelica – non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te – che è poi il modo pratico per combattere il male sulla terra. Il progetto è nella meditazione, nella parola che parli alla luce dello spirito, nella decifrazione del mistero vita-energia, morte-energia, energia-cosmo. L’universo irradiato da radiazioni fotoniche si offre oggi come atto finale della ricerca verso un cammino verticale per approdare ad un atteggiamento pensoso per la salvezza. 

Il libro della psicologa americana ShenyThurkle, Il secondo Io, sottotitolato: Il computer e l’uomo: convivere capirsi amarsi. è un programma d’amore che lascia perplessi in quanto scaturisce da quella che sembrava una ricerca positivistica del tutto materialista alla quale era conformata la mentalità della gente, e ci pone una domanda inquietante: il computer sta cambiando il cervello dell’uomo? La scienza, evidenziando la nostra dimensione dualistica, corpo-mente, materia e spirito, fusi in un unico circuito di energia, ci farà assistere al miracolo di un cambiamento radicale che salverà tutti dalle secche unidirezionali? 

Al centro dell’attenzione e dell’elaborazione si fa strada il pensiero psicologico superando la linea di demarcazione sin qui perseguita, per cui bisogna arguire che se la macchina intelligente non può amare né odiare, per accedere ad una differenziazione gratificante (dato il suo deserto interiore che lo accomuna ad un robot) l’uomo si deve riappropriare di tutto il suo bagaglio emozionale, del suo essere uomo, identificandosi con l’alter ego misconosciuto. Per questa profonda esigenza va ripigliando fiato il respiro degli uomini giusti. La ragione rinasce sperimentale nella rifondazione di un umanesimo consono ai tempi, ravvede la necessità di riguadagnare il tempo perduto, reintegra il linguaggio letterario e filosofico nel linguaggio scientifico per dissolvere con invenzione le scienze dell’uomo nelle scienze della natura. 

L’uomo nuovo oggi è chiamato a questa responsabilità: scendere e mordere la radice della vita in tutta la sua so1Terenza alla ricerca della creatività indagante negli orizzonti interiori per appropriarsi di ciò che è più antico tra le cose antiche. Se gli dei non ci sono più perché sopraggiungiamo troppo tardi e siamo soli (Heidegger), è ancora possibile il riconoscimento dell’io profondo invocato come evento di armonia nell’orizzonte disponibile all’ascolto. 

Il linguaggio dello scienziato diventa filosofia, e la filosofia poesia perché ormai il pensiero è l’acrobata senza rete che si esibisce negli spazi immensi da esplorare: dall’estremo arretramento delle origini fino all’ultimo atto che lo attende nel seno dell’unità, in un percorso convinto del senso del sacro con tutta l’umiltà di cui sarà capace.

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 5-6.