Considerazioni isagogiche su Elegia per me stesso di Rodolfo Vettorello

       Chi in punta di piedi entra nella poesia di Rodolfo Vettorello si trova davanti un diagramma spaziale-evolutivo, che apre il lettore a una nuova dimensione antropometrica, derivata, in gran parte, dal perenne assioma ontologico, presente in maniera dominante nell’alveo della riflessione tanatologica, nata dalla sempre presente, e ossessiva, lezione eraclitea. Questa idea già presente, e ampiamente trattata da Leopardi e acutamente sviluppata da Foscolo nel suo capolavoro lirico-poetico, trova degno e felice epilogo in quest’opera di Vettorello, con la quale, in un avvenire non troppo remoto, dovranno cimentarsi intelletti di ben altra levatura, per compiti ben diversi. 

      Se Foscolo nel carme Sui sepolcri dal continuo fluire del tempo e degli elementi aveva tratto spunti di intenso lirismo, che si possono riassumere in questa manciatina di versi:

e una forza operosa le affatica

di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe

e l’estreme sembianze e le reliquie

della terra e del ciel traveste il tempo,

nei quali serpeggia latente, ma terribilmente evidente col suo spettrale potere Thanatos, nella silloge vettorelliana la morte è presente in quasi tutte le liriche e convoglia l’animo e la riflessione dell’attento lettore verso orizzonti pregni di infausti, ma reali presagi. Nel raffinato componimento poetico l’autore non soggiace al trito e stucchevole sentire comune, ma da considerazioni meramente riduttive come aquila si eleva, per spaziare dalla cristallina purezza dell’infinito su quella forza operosa, cui soggiace in modo ineluttabile l’uomo col suo destino.   

      Su una tomba nella chiesa di S. Francesco, a Fondi, anni addietro ho letto con molta attenzione un epigramma, che ha lasciato una traccia indelebile nel mio animo:

        Tendimus huc omnes: metam properamus ad unam;   omnia sub leges mors vocat atra suas.

      Che si può rendere: «Tendiamo tutti verso questo luogo: andiamo in fretta verso un’unica mèta; la tenebrosa morte raduna tutti i viventi sotto le sue leggi». È, questo, il monito, che con cruda verità la Natura rivolge all’uomo: all’ignoto autore non sfuggiva il potere tanatocentrico comunemente concepito. 

      Dopo la lettura della significativa silloge, che invita a riflettere su una realtà sempre presente, l’uomo sembra ebbro del nettare degli dei omerici con aggiunta di nepente; e molti, impressionati dalla lirica compostezza e dal messaggio, veicolato dal vigoroso afflato poetico, se ne stanno tristi, cupi, preoccupati, come se fossero stati condotti via con la orza dall’antro di Trofonio. Gli stretti vincigli della Natura, infatti, angustiano il loro animo traballante, spaventato, incerto per la cupa prospettiva del futuro non adeguatamente preparato dal presente, che, come insegna Seneca, scorre incerto tra mille occupazioni, per lo più inutili, perché nessuno è veramente padrone di sé e del suo tempo. 

      Immerso nel turbinio di mille faccende, continua l’antico filosofo, nessuno dà giusto valore a tempo e alla sua giornata, e non si rende conto come egli muoia giorno dopo giorno. L’uomo, come ripete Vettorello, che certamente ha assimilato il dettato senecano, vive nella continua illusione che la morte sia un evento destinato a un futuro lontano, quando è sotto il suo sguardo, e gran parte di essa è già alle sue spalle. Tutto il passato è in potere della morte. Ma Vettorello rende attuale l’antico insegnamento, quando nella lirica La rimpatriata scrive:

Il tempo che è passato da quei giorni

che si giocava insieme nei cortili

ha lavorato su di noi con cura

per farci diventare quel che siamo …

La vita si costruisce e demolisce

                       le cose e le persone a suo piacere. 

       Nell’aria rarefatta del puro lirismo, che si infutura in un archetipo spesso sfuggente ed evanescente, il poeta riporta il lettore alla realtà del presente, che si potrebbe individuare, rovesciando in modo adeguato i rapporti, nel carpe diem oraziano. È proprio questo tema di fondo che inciprignisce e costringe il lettore a rugghiare per contrarietà, per lo più mal gestite. 

      Significativo, quindi, è il titolo Elegia per me solo, che Rodolfo Vettorello ha voluto dare alla pregevole silloge. Il critico, per lo più, concentra l’attenzione sul primo lessema elegia e cerca di trovare agganci e riferimenti con la poesia fiorita in Grecia e il Roma. Sotto questo aspetto, degna di nota è la dotta e ben documentata Prefazione, vergata da Santo Gros-Pietro, che va, necessariamente, tenuta presente per la profonda dottrina e lo stile impeccabile; può bastare a sollecitare il lettore per un primo approccio, per contestualizzare un genere letterario, che nella tradizione letteraria ha trovato geniali esponenti e visioni diverse, pur nell’inveterato solco della tradizione. 

       Per Vettorello l’elegia non è flebilis, secondo la felice intuizione di Ovidio, perché non effonde lacrime di dolore per l’abbandono della donna amata o per un amore non corrisposto. Il poeta svuota il lessema  dall’interno e lo riporta a origini e luoghi più remoti nel tempo e nello spazio, da dove è partita, per giungere prima in Grecia e, successivamente, a Roma. In questo senso, almeno esteriormente, si potrebbe accostare a Callimaco, ma il discorso condurrebbe molto lontano e metterebbe in ombra lo sforzo e l’originalità del poeta, il quale si riallaccia direttamente al genere della lamentazione, presente in tutte le letterature orientali, come quella, più documentata, ugaritica ed ebraica. 

       Tralasciando disquisizioni storico-letterarie, si richiama l’attenzione del lettore sulla natura antropologicamente dialettica della poesia vettorelliana, che già nella lirica incipitaria, Le infinite agonie, traccia l’iter del percorso poetico, nel quale pone in piena evidenza la sua polarità perfettamente speculare rispetto ad altre raccolte, pur pregevoli. Il carme, sapientemente intessuto con accorta e ben studiata disposizione metrica, nella quale sintagmi e lessemi formano figure indelebili e sfumano nel non troppo velato lamento sulla fuga del tempo e della vita; condensa in un’amara sequenza di versi il già riportato sintagma foscoliano:

Agonie della vita;

un giorno dopo l’altro si consuma

una nuova agonia,

una infinità

di anelli una catena disumana.

La morte ci umilia e ci devasta

annulla ciò che siamo e le memorie

di un velo di silenzio le ricopre.  

      Il poeta non a caso apre la lirica, e con essa la silloge, con un sintagma estremamente significativo, l’agonia, gli attimi che precedono il trapasso e avviano in modo irrimediabile alla fine della vita terrena. Già da questo primo accenno, cui bisogna necessariamente sottendere un velato pessimismo di derivazione leopardiana, nella tanatocrazia vettorelliana, come nel suo referente immediato, è del tutto assente quanto ha caratterizzato e plasmato la cultura italiana ed europea negli ultimi due millenni: la speranza e la credenza nella vita oltremondana. Questo concetto, molto dibattuto sotto l’aspetto sia filosofico che teologico negli ultimi due secoli, anche se non è mai accennato in modo esplicito, di tanto in tanto emerge e rivela, seppur velata, l’intima aspirazione di un ego, che si dipana nei rivoli dell’umana sofferenza e cerca una pur terrena immortalità. Per cui molta attenzione richiede l’anaptitico emistichio e le memorie, che, in un intenso endecasillabo fratto, rivela l’intima sofferenza, causata, come dirà qualche verso dopo, dal  

sottile malessere gentile

ch’è malattia del vivere, assassina. 

       In questo distico, preceduto da acute riflessioni sullo svolgimento quotidiano della vita, si avverte in modo palese l’ormai noto, e abusato, sintagma montaliano, che tanta fortuna ha incontrato presso ingegni, che potrebbero starsene tranquilli nella fresca grotta di Trofonio e mettere da parte il nepente.

       Come per Montale, anche per Vettorello il percorso della vita è piuttosto accidentato, per la continua presenza di dolori, di sofferenze, di imprevisti. Tra gli altri, la vera poesia si assume il compito di analizzare e portare a conoscenza di tutti la sofferenza, che travaglia l’animo dell’uomo, nella segreta speranza che trovi la possibilità di porvi rimedio. Ma questo, di solito, non avviene, perché non esiste una ricetta o una formula, che, per mezzo del linguaggio poetico, di solito scarno ed essenziale, possa risolvere il dolore o la conseguente crisi esistenziale.

        Per esprimere questo male e per portarlo alla conoscenza del lettore trofoniano, Vettorello si serve dell’anafora, della climax per lo più ascendente, della metafora, dell’anastrofe e dell’allitterazione. Nel calcolato gioco di luce e ombra, negli sfumati chiaroscuri, nelle fuggevoli reticenze, in modo non diverso da Montale, Vettorello con visione  e intento innovativo propone la sua elegia sull’essere contemporaneo, che sfida l’ardua scalata della vita, con la certezza che la sua fine è imminente, perché la morte gli è accanto e cammina con lui. 

        Più difficile, almeno per chi non è aduso a leggere la poesia, è cogliere l’io lirico, introiettarlo e assumerlo come oggetto di riflessione, di meditazione, di miglioramento: è un efficace antidoto contro la sofferenza, che in modo più o meno palese striscia tra le pieghe della psiche umana. Solo in questo modo l’oscura e incombente tanatocrazia perde il suo mordente e sfuma come nebbia del mattino nell’alba luminosa della propria coscienza di essere esistente, parlante, cogitante. La fiducia in sostituisce la fede in Dio e Dio stesso, come nella medesima lirica incipitaria il poeta, non senza rancore e delusione, dice con orgoglio: 

Dio se mi ascolti 

lascia che ti dica

che ti respingo.

voglio che mi basti

la mia coscienza libera e nient’altro.

      Il poeta, con determinata decisione, rivendica la propria libertà di coscienza, cui si accompagna, come corollario necessario, la libertà di pensiero e di religione. In linea con  le più recenti disposizioni a riguardo, stabilite da autorità internazionali e adottate, in linea di massima, da un nutrito gruppo di nazioni, Vettorello si inserisce in quest’alveo, per determinati aspetti, ancora vergine e si rende interprete di un messaggio, che travalica i confini personali e internazionali, e diviene, nella pletora ciangottante di buffi e coprolitici verbigeratori il corifeo dell’eguaglianza tra gli uomini, perché la morte è, per se stessa e per ciò che rappresenta, l’uguaglianza personificata. Alle ingiustizie della vita, prima o poi, rimedia la morte, che non guarda in faccia a nessuno, non per vendetta, ma per la sua disposizione naturale. Blaise Pascal, infatti, nel dotto e istruttivo volume, Pensieri, nei riguardi della morte scrive: «Tutto quel che so è che debbo presto morire; ma quel che ignoro di più è, appunto, questa stessa morte, che non posso evitare». L’Uomo, infatti, come si evince dalla lettura della silloge vettorelliana, vive come se non dovesse mai morire e, forte della sua presunta supremazia sui propri simili e sugli altri esseri, si abbandona senza remore a ogni sorta di violenze e villanie, che non commetterebbe, se si fermasse un attimo a riflettere che a breve deve presentarsi davanti all’inevitabile tribunale della morte, la quale non concede sconti a nessuno. 

   Nella sua speculazione filosofica, anche se rudimentale e appena accennata per non incidere in modo negativo sulla sensibilità del lettore, Vettorello connette la morte alla riflessione filosofica e cerca di edulcorare, pur con un linguaggio scarno e realistico, il problema e della morte e del destino. Difatti la riflessione sulla morte, come evento naturale non diverso dalla nascita, è stata il principale stimolo per molti filosofi. Arthur Schopenhauer, ne Il mondo come volontà e rappresentazione, che Rodolfo Vettorello ha certamente letto, scrive che la cognizione sperimentale della morte, non dissociata dalla vista del dolore e della miseria, che caratterizza la vita di tanti esseri indifesi, ha senza dubbio impresso l’impulso più forte alla riflessione filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo. Del resto se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi perché il mondo esista e perché sia costituito proprio così, perché tutto cadrebbe nella banalità e nell’ovvietà.

  Movendo su questo sentiero, per certi aspetti impervio e di difficile soluzione, Rodolfo rinnova il concetto di elegia e le apre un altro orizzonte, in parte ignoto sia ai Greci, sia ai Romani. Per avere un’idea delle innovazioni apportate al genere letterario dal poeta milanese, accanto all’io lirico, che  scandisce il ritmo espressivo e compositivo prima del verso e, in un secondo momento, della lirica bisogna sfilacciare la tramatura narrativo-semantica ed esaminare i singoli lessemi, inglobati in strutturati e sostanziosi sintagmi, resi fluidi e fruibile dall’impeccabile struttura metrica, per la quale si può considerare il navalastro della più alta espressione poetica contemporanea.

  Consapevole dell’inesorabile scorrere del tempo, Rodolfo vi ritorna con accorata insistenza in tutta la silloge, come se il virgiliano «sed fugit interea, fugit irreparabile tempus» gli martellasse di continuo nella mente e gli procurasse una certa ansia e inquietudine, come si può evincere dal messaggio, che vivifica la lirica Non è giunta ancora, della quale qui si riportano solo i più significativi lacerti:

Mi dico che sarà l’ultima volta,

me lo dico sovente,

come si fa con ciò che si vorrebbe

ripetere per sempre, all’infinito.

Andare via da questo luogo d’ora

avrà il sapore amaro dell’addio

ed ogni addio nasconde la paura

che andarsene sia un modo di morire,

    sia pure solo un poco e a poco a poco…

Potrei forse rinascere alla vita

se avessi la speranza che davvero

l’ultima volta non è ancora giunta.

Anche a un’attenta lettura della lirica, riferita solo in parte, sembra che il poeta voglia richiamare l’attenzione del destinatario con la martellante insistenza sull’imminenza della morte e sull’intensità della sua bruttezza. Questa realtà, che l’uomo sperimenta e tocca con mano in ogni momento della giornata, non viene collocata in un ambente determinato, nel quale l’Uomo, oggetto e soggetto di questa tremenda realtà, fornisce la misura per gli altri. Essa diventa tramite d’una realtà e intensità febbricitante. La sua rappresentazione, reiterata con crudo realismo e un sotteso e nervoso timore dell’aldilà, si insinua sensibilmente nell’anima e crea sconcerto, confusione, incertezza; diventa una straziante lamentazione nel bugno della silloge, che avvince il lettore in attesa di luminosi squarci di cielo. Ma anche l’aspetto della bruttezza, che turba i sogni soprattutto di chi ha varcato una certa età, rivela momenti di intensa liricità, che schiudono la mente a respiri liberatori soprattutto quando alle sofferenze ordinarie non si riesce a trovare una via d’uscita. E domina in questi casi la bellezza, che permette di percepire il profondo e rasserenante respiro della Natura, per lo più intesa e proposta in senso leopardiano. Sono, questi momenti, residui reali dei veri componimenti poetici. 

       Non solo nella silloge in oggetto, ma in tutte le raccolte poetiche di Vettorello si riscontrano belle pericopi, accattivanti per le immagini o anche per il canto della lingua. Sorprende, però, che essi non stanno soli, non formano un unico in sé, ma sono, necessariamente, parte di un’unità nella quale il poeta fonde pressanti richiami alla fugacità della vita e alla bruttezza del male di vivere. Bello e brutto, sebbene siano nella loro obiettività categorie opposte, nella poesia di Vettorello non forniscono stimoli contrastanti e inquietanti, perché sono accantonati, come la differenza tra vero e falso. 

         Lo stretto ed inevitabile accostamento del bello col brutto produce un’illuminante dinamica di contrasto, che diviene di volta in volta l’elemento più importante, l’asse che unisce mittente e destinatario. È ovvio che in Vettorello il brutto, la visione pessimistica della vita, il costante richiamo alla morte, diviene il tramite, col quale con innata maestria e mano sicura conduce sull’eccelsa vetta del Parnaso, a diretto contatto col puro cielo della divinità ispiratrice. 

        Il lettore, dopo pochi versi, si accorge subito che il brutto di Vettorello non è il grottesco o l’orrido, che ha caratterizzato per un certo periodo la letteratura italiana, e non  solo. Si pensi al Tersite dell’Iliade o all’Inferno di Dante, alla produzione poetica dell’alto medioevo, la quale raffigurava brutto chi non entrava nel novero dei cortigiani. Il diavolo, ovviamente, era brutto, e rimane ancora brutto. Vettorello, inserendosi sulla scia di Novalis prima e poi di Rimbaud, il brutto diviene un tramite interessante e necessario, per andare incontro e comprendere l’intensità e l’espressività della volontà artistica, che con la sua meliggine vellica il potere indagatore e immerge l’io lirico narrante nell’animo del fruitore. Con la sua assiologia la poesia di Vettorello ora serve, ora desta, ora allontana l’energia sensitiva, che aspira a una lettura obiettiva del reale e del sensibile, cui si avvicina e cerca di avvicinare. La produzione lirica contempla tanto i contenuti, quanto, e soprattutto, le relazioni, che ingenerano tensione sovraoggettive. Accenna al brutto della morte, perché con esso, come sfida al naturale senso del bello, insito nella vita, produce quella drammaticità sorprendente, che deve stabilirsi tra l’io lirico del poeta e il lettore. 

       La bruttezza e la deformità della morte, quale si riscontra nella poesia di Vettorello, è tratta dalla realtà, dalla diretta esperienza ricavata dall’esistenza quotidiana di un mortale qualsiasi, il quale vede la nascita d’una nuova vita e, in controluce, la morte, che accompagna il neonato fino al suo trapasso. Mancano nella silloge gli Esseri plurali del dovunque e del sempre: protagonista è l’uomo, la donna, il bambino, che non sono scheletri informi e cupi, ma persone vive e palpitanti, come quando, parlando in prima persona, il poeta dice in Ingannare la morte:

Amo i sogni di altrove

e cambiare ogni volta orizzonte

per riuscire a ingannare la morte.

Non mi trovi, se spera

di trovarmi nel luogo che crede

Tutto questo soltanto

per eludere ancora la morte.

        L’io lirico si esprime, in questo caso, con scherno, con disprezzo, con stizzosa alterigia davanti a una realtà assiologica, che viene calata nella quotidianità con un’efficace dissonanza tra la melodia e l’immagine, tra il possibile e il reale, tra il caduco e l’eterno. Il lettore in questo breve stralcio assapora i residui del bello, ma vede in controluce la tristezza della realtà, la bruttezza della morte, il dolore causato dal suo arrivo. Il poeta si sofferma con compiaciuta insistenza sulla dissonanza di quanto evoca e diventa egli stesso dissonante, quando unisce nella tramatura lirica primordiali potenze liriche e osservazioni, che, solo nell’apparenza, sembrano banali. 

     Commisurare i contenuti figurativi vettorelliani alla realtà non può avere che un valore euristico. Quando l’ermeneutica spinge il lettore a penetrare nel profondo, questi deve riconoscere di non esaurire la conoscenza lirica con concetti meramente legati al reale o all’irreale, ma col riferimento a valori immutabili insiti nell’ens cogitans, che diviene motore immobile di un processo analitico strettamente personale. 

        Nella silloge Elegia per me solo non esiste traccia di realtà deformata, anche se molto spesso il discorso declina verità per lessemi ben orchestrati, che confluiscono in sintagmi specifici, nei quali ogni singola parte o parola ha una qualità netta, sensibile. Tuttavia siffatti sintagmi combinano ciò che è realmente conciliabile sia con l’esperienza sensibile, sia con la logica aristotelicamente intesa. Con l’alta qualità delle immagini e con la loro strutturazione sul piano narratologico il poeta intesse un fitto dialogo sulla realtà, che cade sotto il vigile sguardo dell’interlocutore. Esse, e per qualità e per quantità, superano di gran lunga quella particolare libertà, che, grazie alle forze metaforiche fondamentali della lingua, sono magistralmente coniugate con immagini contemplabili. E ciò può avvenire solo nella poesia, mediante la quale riescono a trasmettere un’efficacia più tagliente alle caratteristiche presenti nelle realtà stesse, e tuttavia la loro direzione non è rivolta verso un ideale, bensì segue una dinamica riflessiva, la quale, per così dire in mancanza dell’Ignoto invisibile, rende il reale stesso un ignoto, sensibilmente eccitato ed eccitante mediante la dissoluzione dei confini tra le figure, mediante il logico accostamento degli estremi. Nella composizione lirica Vettorello cerca di scandagliare l’ordinamento reale, pur restando nel reale e nel sensibile, mediante procedimenti noti alla precedente poesia. In ogni lirica della silloge, però, si trova per lo più in germe a quanto nelle altre raccolte è pienamente sviluppato, per rendere la realtà più sensibile e pregna d’una semplicità d’urto, come si legge nella lirica conclusiva, La cagna rossa: 

domani sarà il giorno del trasloco,

andremo via di qua per altri luoghi.                                                                          

O.A. B.




Cenni sulla poesia di Laura Ficco

         Le pochissime liriche, che qui si prendono in esame mediante una lettura attenta e coerente, sono tutte inedite. Per cui si richiamerà l’attenzione del lettore su una manciatina di versi, ripresi solo da due liriche. Troppo poche per scandagliare il complesso e articolato mondo poetico di Laura Ficco. Ma, anche l’attenzione un po’ più approfondita su una sola lirica richiederebbe una trattazione molto più lunga ed esaustiva. Mentre chiedo venia ai lettori per il poco, che riesco a offrire, ringrazio la poetessa per la fiducia accordata alla mia persona per quel poco, che riesco a esprimere. Colgo, quindi, l’occasione sia per complimentarmi con la poetessa per l’originalità e per la profondità dei temi affrontati con particolare sensibilità, sia per il privilegio di avere sotto gli occhi liriche che nessuno fino a questo momento ha avuto occasione di leggere, gustarne la bellezza, arricchirsi del messaggio, che, sempre vivo e attuale, veicola con purezza di immagini e sinteticità sintagmatiche. È, ancora, un’occasione unica sia per il lettore raffinato e intenditore di poesia, sia per quanti si accingono a leggere per la prima volta un aspetto della poliedrica sfaccettatura offerta dalla produzione poetica della poetessa sarda, che riflette nella produzione lirica l’assiduo ripiegamento, a volte doloroso, sulla complessa e travagliata vicenda del vivere.    

         Non è compito facile anche per un critico e un lettore attento tracciare anche per sommi capi le tematiche affrontate dalla poetessa, Laura Ficco. È arduo, se non impossibile, sfiorare i segreti moti dell’anima, che, di volta in volta, si concretizzano in versi scarni, taglienti come rasoi. Ogni verso è una picconata, che lascia tracce profonde anche nel lettore frettoloso e distratto. Penetrare nella genesi e nel travaglio interiore, che costituiscono la base e i moventi invisibili e inavvertibili dell’afflato lirico prima e successivamente scritto; scandagliare i reconditi avvii di un percorso poetico e lirico di rara suggestione, che coinvolgono e, nel medesimo tempo, travolgono il lettore nella meditazione sui temi più suggestivi della Poesia, non è agevole per le diverse implicanze culturali, sociali, filosofiche. 

      Leggere una lirica diversa, che non sgorga da romantiche illusioni o da triti argomenti riciclati o cicalati nei crocicchi, è prima di tutto un piacere spirituale, perché si incontrano spazi puri, cieli incontaminati, sentimenti, che denunciano un animo sensibile agli stimoli della più amara, e vera, riflessione sull’uomo, visto sotto angolature diverse. Nella poesia, essenziale e priva di orpelli retorici, di fronzoli inutili, di lungaggini senza senso, si avverte sincero e commosso l’animo lirico, che vive e crea sprazzi di autentica poesia, racchiusi in pochi versi, destinati a destare vive emozioni nell’animo del lettore e a lasciarvi segni indelebili. 

        La poetessa, però, non si ferma qui: la sua attenzione si sosta su più registri e cambia sensibilmente piano di lettura: dalla continua, e necessaria, presenza dell’uomo, passa con deciso movimento dell’animo alla natura, nella quale l’uomo vive e della quale è parte essenziale per il ruolo, che riveste, perché fornito di ragione e, in modo particolare, di libero arbitrio. Immersa nella riflessione sulla complessa, e inspiegabile, realtà dell’Uomo, colto nel suo ambiente naturale e vitale, la poetessa cerca in tutti i modi di scandagliarne con sensibilità prettamente femminile i segreti moti dell’animo. Ma, davanti all’insondabile mistero dell’esistenza, avverte la limitatezza e l’impossibilità di giungere alle cause prime dell’agire, dettate dall’egoismo e dalla cattiveria, e si chiede con lucida consapevolezza il perché di atteggiamenti e azioni non sempre consoni alla legge naturale, che vive nell’animo di ogni uomo: non danneggiare il prossimo, vivere nell’onestà, attribuire a ciascuno il proprio merito. Avverte in tutta la sua potenza la presenza della legge naturale, ma non riesce a trovare la ragione sui motivi, che spingono l’uomo a violare consapevolmente quanto è in lui impresso dalla natura, della quale è parte non secondaria. 

        La poetessa nell’assidua meditazione sull’Uomo, sulle cause prime delle sue azioni, della sua presenza e in modo particolare del ruolo, che ha nella società, non sempre riesce a trovare la spiegazione logica e si angoscia mediante versi molto vicini alla disperazione. Consapevole, a livello personale e universale, del limite imposto a ogni essere dalla natura, esprime questo stato con violenta protesta, per richiamare il proprio simile alla rettitudine, all’ordine stabilito dalla natura, alla presa di coscienza di essere parte della società, alla responsabilità del proprio ruolo: la poetessa, infatti, individua e descrive l’ordine, la regolarità, nonché la tendenza a interpretare i fenomeni più o meno complessi, presenti nell’ambito della vita sociale. 

     A queste osservazioni si aggiunge la vibrante denuncia determinata delle continue violazioni perpetrate a danno della legge positiva sotto varie forme. L’uomo sia per egoismo, sia per ignoranza sovente infrange in maniera eclatante la serie di norme, che la società civile si impone, perché siano rispettati i diritti di ogni essere partecipe d’una  determinata società. La poetessa, che vive e sperimenta tutte le dimensioni e le tensioni della società nella quale vive, non esita a denunciare con chiarezza e con decisione le deviazioni e le contraddizioni. È, questo, il motivo, per il quale lirica, intitolata Forme deformi, nella prima strofa non esita a riflettere e ad invitare a una seria meditazione:

L’essenziale imbrigliato alla ragione,

dalle forme disadorne ed imperfette della mente

cercano l’ordine logico

contrastato dalla ribellione

ad una droga maldestra ed umbratile

che attanaglia membra, cuore, psiche,

per poi lasciarla inerme

su terreno umido e melmoso 

con incubi sanguinolenti.

       L’acuta e, nello stesso tempo, amara considerazione della poetessa sembra che sfoci in un velato e latente pessimismo, che attanaglia l’animo, quando si vede invischiato nella ricerca di cause, che non sempre consentono alla ragione di cogliere l’intrinseca logica delle apparenti discordanze, riscontrate nelle più banali azioni dell’uomo. L’agire del quale, il più delle volte, non è dettato da particolari esigenze, né legato a un ordine logico, che ne determini tanto il motivo, quanto la conseguenzialità. È faticoso e spesso impossibile rintracciare anche pallidamente un nesso logico, che leghi in modo corretto e coerente l’atto della mente con l’azione compiuta sovente in maniera irriflessa. Questo modo di agire, anche se trova una giustificazione nella complessa logica della psiche, sfugge all’analisi razionale e getta nello scompiglio l’ordine e la logica stessa, che la mente razionale si aspetterebbe. Leggendo questo brano molto intenso e pregno di allusioni non troppo velate alle impossibilità e ai limiti della mente umana, sembra scorgere l’accorata, e vera, riflessione, che Dante in Purg. III, 37-39 mette in bocca a Virgilio:

State contenti, umana gente, al quia;

ché, se potuto aveste veder tutto,

mestier non era parturir Maria.

  Esemplare la presa di coscienza della poetessa, la quale, davanti all’impossibilità di cercare la spiegazione logica e razionale degli accadimenti umani, adopera una metafora di rara efficacia evocativa:

per poi lasciarla inerme

su terreno umido e melmoso 

con incubi sanguinolenti.

     Nel prosieguo dell’amara considerazione, si riporta la seconda pericope, che costituisce anche la seconda la seconda parte della lirica. In questa strofa Laura Ficco, a ragione, aggiunge ancora un’amara considerazione, logica conseguenza di quanto in precedenza espresso: 

Confusione d’identità

un velo oscuro mi veste,

è ermetico non riesco ad uscire,

a liberarmi.

Rimpiango le valli coperte di neve 

ed il vento che soffiava libertà sul volto

mentre l’anima volteggiava lucida e sazia di senno.

Mi devo svegliare ed uscire dal tunnel,

la vita mia attende.  

     L’intelletto razionale nella ricerca affannosa di conoscere le cause di ogni azione, nonché gli effetti conseguenti alle scelte effettuate, si trova impaniata in grovigli irrazionali, logici solo in apparenza, perché l’animo nella logica razionalità non sempre ha ben chiari e delineati i presupposti, sui quali riporre le argomentazioni necessarie per trarre logiche e valide conseguenze, applicabili sempre e dovunque. Ma, quando l’animo, cosciente dei propri limiti, si rende pienamente conto che il proprio essere è circoscritto entro confini difficilmente superabili, trova la piena realizzazione nell’integrazione totale nella natura. La poesia, come per incanto, acquista luminosità, sonorità, armonia. La poetessa schiude allo sguardo del lettore un mondo incontaminato, ammantato dal magico candore della neve. La vita riprende il suo ritmo, ravvivato dal leggero soffio del vento, che  suscita nell’animo le sensazioni più vive ed esaltanti. La poetessa con pochi tocchi, mediante un’accurata scelta lessematica e un’idonea disposizione sintagmatica, conduce all’improvviso il lettore nella dimensione panica e lo invita a respirare a pieni polmoni il bello, che la natura circostante gli pone sotto gli occhi. 

     Ma, quando attanagliato dalla logica conseguenzialità dei gesti ritorna alla logica stringente, avverte la limitatezza, si trova ancora su terreno umido e melmoso / con incubi sanguinolenti. Sgorga allora spontaneo e sincero il desiderio di uscire dal tunnel e di vivere la vita che l’attende. È, questo, un possente incitamento a guardare fiduciosi al futuro e vedere, accanto al male, il bene che si profila all’orizzonte. La lirica si chiude con il riscatto e la ferma fiducia a sperare che alla fine del tunnel ci sia sempre la luce, fonte di riscatto e di realizzazione.

       La poesia, che a volte sfiora l’ermetismo, diviene più intensa ed evocativa  quando si abbandona alla fantasia e richiama alla mente immagini e concetti adusi tanto al lettore, quanto al critico, che non deve penetrare nei reconditi penetrali della psiche, delusa e amareggiata, frustrata nei desideri e sopraffatta da incombenti necessità. Anche se qua e là emerge la presenza del dolore, la poesia diviene più limpida, più facilmente fruibile, come la lirica, intitolata Il silenzio dei filari.

        In questa poesia, densa e pregnante, si avverte un certo disagio del vivere a contatto con realtà non sempre piacevoli, che lacerano l’animo e procurano ferite, che non sempre il tempo riesce a rimarginare. La coscienza del dolore e, in modo particolare, l’impossibilità di uscire dal groviglio dei diversi malesseri, che avvincono lo spirito in una spirale senza fine, rendono i versi amari e, nel medesimo tempo, gradito companatico per affrontare i disagi, cui l’uomo durante la vita va necessariamente incontro. La vis vitalis tuttavia, sempre presente, soprattutto nelle occasioni più tetre, rende meno amaro il cammino, meno difficoltosa la via per affrontare il percorso reale tracciato dalla sorte. La poetessa con immagini vive, plastiche, suggestive, suscita nel lettore la coscienza della propria esistenza e lo invita a sollevare la testa, per affrontare quello che Eugenio Montale definiva male di vivere, perché accomuna tutti gli uomini nello stesso destino di sofferenza e di malessere. La poetessa, consapevole che questo destino grava su ogni uomo, è cosciente di non poterlo debellare, ma solo alleggerire mediante il progressivo distacco dalla realtà, sempre, e comunque, fonte di dolore. Come Montale, anche Laura Ficco prende le mosse da immagini quotidiane, dimesse, per porre all’attenzione del lettore il male, cui ogni giorno va necessariamente incontro. È opportuno, a questo punto, soffermare l’attenzione sui versi della prima strofa, per assimilare nella disposizione delle immagini il messaggio veicolato con lessemi oculatamente scelti e disposti in versi:

Filari di linfa

aggrappati a filo spinato

fobie in occhi di cenere,

lacrime arse

annaspano sulla soglia

del dolore.

Un rimpianto,

scava in anni luce

ricordi di delizie.

Smorfia su mute labbra

silenzio assordante

che trapana le meningi,

il tacere chiude la porta

alla vergogna.

Sale la febbre nella

solitudine dell’anima.

    Come già accennato la poetessa si china cosciente sulla vita d’ogni giorno e con parole vibranti di commozione partecipa al percorso che attende ogni uomo, dalla nascita alla morte. Gli uomini nel loro cammino quotidiano, mediante un ardita metafora, sono definiti filari di linfa / aggrappati a filo  spinato. L’immagine desta nella mente del fruitore la visione di una lunga teoria di uomini, che, a somiglianza delle viti, sono attaccati a un filo, perché non striscino per terra. A differenza delle viti, gli uomini fin dalla nascita sono attaccati al filo spinato dell’esistenza. Sono chiamati in causa qualche verso più avanti nel significativo e pregnante sintagma annaspano sulla soglia / del dolore. Nella strofa, divisa in tre periodi di diversa estensione, la poetessa condensa ed esamina con mente lucida e compartecipe gli ingredienti sottesi al male cosparso nella vita di ogni giorno. 

      La lettura di questa manciata di versi sembra collegare inconsciamente il lettore a quanto si legge nel libro della Genesi, dove, dopo il peccato, Dio dice ad Adamo che la terra gli produrrà triboli e spine. Nella lirica, però, emerge anche qualche sprazzo di gioia, che allevia per qualche istante le amarezze della vita. Ma il ricordo rinnova il dolore e lo rende più cocente, penetrante, lancinante se, mediante un efficace ossimoro, il silenzio assordante trapana le meningi. 

    Al ricordo delle gioie passate l’anima precipita nel baratro della disperazione e, per non rendere gli altri consapevoli dei propri travagli interiori, tace e chiude la porta / alla vergogna. 

     Si rileva, in questa strofa, la mancanza della fede, la carenza della speranza, la chiusura alla comunicazione e alla compartecipazione del proprio malessere. Si vive lo stato d’isolamento e l’uomo, chiuso in se stesso, non si rivela più l’essere sociale, che vive e condivide con il prossimo tanto le gioie quanto, e soprattutto, il dolore. Si può dire che Laura Ficco coglie e denuncia la brutta realtà dell’uomo attuale, il quale, nascosto nel suo guscio vive nella solitudine più tetra, perché si chiude sempre più nell’isolamento, dal quale stenta a uscire. Non a caso la poetessa chiude la densa strofa con un marcato segno di pessimismo: sale la febbre nella / solitudine dell’anima, che prosegue anche nella strofa successiva, chiusa dall’amara constatazione dell’abbandono anche da parte del Verbo, cioè da Dio: il Verbo mi ha abbandonato? In questo verso si avverte il grido lacerante e della solitudine e dell’abbandono. La poetessa, chiusa in se stessa a meditare sulle sofferenze della vita, non alza lo sguardo verso la luminosità del cielo e sulla luce, che pura e cristallina un’anima così sensibile potrebbe cogliere in tutto il suo splendore. È assente dalla limitatissima produzione lirica il tema della Provvidenza, la presenza del divino nel mondo, troppo materializzato e pervaso da egoismo e violenza. 

                                                          Orazio Antonio Bologna

da “Spiragli”, Nuova Serie – Anno IV 2023 NN. 1-2, pagg. 18-22




Natura e colore in Luigi Marcucci 

Nel complesso e contraddittorio panorama dell’arte contemporanea una posizione di non secondaria importanza acquista la presenza di Luigi Marcucci, un nome, come tanti, sconosciuto al grosso pubblico, ma noto a quanti apprezzano il tracciato preciso dei suoi paesaggi, ispirati ad un impressionismo tutto soggettivo, lontano dai rigidi schemi d’una logorante, asfittica ed esausta tradizione scolastica. 

Parlare, oggi, d’un artista che coltiva con amore e dedizione la pittura e avanza sicuro nel complesso mondo dell’arte contemporanea, è estremamente arduo e difficile e per i risvolti non sempre chiari e per le antinomie che ogni corrente e manifestazione necessariamente genera e vivifica. Ma parlare di Luigi Marcucci, che non pochi hanno apprezzato in diverse mostre e concorsi di pittura, consente al critico, anche più severo ed esigente, di leggere manifestazioni artistiche non ancora inquinate da esperienze e da ispirazioni pseudoculturali che. in un impasto cromatico non sempre chiaro e lineare, rivelano spesso mancanza di senso artistico e di ispirazione e, soprattutto, di gusto non solo nella scelta, ma anche nella trattazione degli argomenti; permette a quanti amano il paesaggio e la natura morta di immergersi in un’idillica campagna ancora vergine, dove l’uomo ritrova per un attimo se stesso, in stretto contatto con la parte più intima della sua psiche. 

Queste componenti, primarie per l’aggettivazione d’un complesso e, sovente, indecifrabile mondo interiore, da cui prende vita e via ogni movimento esteriore, sottendono un’accurata ricerca. sceverando quanto non è pertinente con i moti propri della psiche colta nella sua diacronica realizzazione. La lettura e scelta dei temi è dettata dal moto interiore, cui sono legate vicende ed esigenze che, non di rado, rimangono oscure allo stesso operatore finché non realizza con il suo linguaggio quanto urge e travaglia il SUO spirito creativo. È, questo, quanto si può leggere nella pittura di Luigi Marcucci, che alterna a periodi di pacata riflessione momenti d’impulsiva e rapida realizzazione, con tratti sicuri e incisivi tendenti a innervare e rendere immediatamente leggibili gli incontrollati moti d’una natura non ancora doma dal razionalismo di schemi precostituiti. 

Lo studio accurato del vero, esaminato con impressione ed esattezza quasi fotografica, offre all’Artista una tavolozza piena di cromie, che, ora calde, ora tenue, ora violente si fissano sulla tela di getto, filtrate da un’innata sensibilità, avvezza ad avvertire anche le sfumature più impercettibili. Nascono così i meravigliosi paesaggi, che si colgono al primo chiarore d’un frizzante mattino di novembre o nell’impercettibile penombra della sera o nelle assolate giornate agostane. Nel rendere l’esatta volumetria delle case l’Artista si ispira, per lo più, all’Ottocento italiano, senza legarsi ad una corrente o ad un maestro preciso. Tutto è mediato dal contatto continuo con l’ambiente, vissuto sempre con drammatica concentrazione, e quando il paesaggio sfuma nelle tenui nebbie mattutine e quando evoca la selvaggia solitudine di distese inondate di luce. I morbidi contrasti tonali, che inondano l’opera e disvelano, in volumi tendenti verso reali punti focali, costituiti, per lo più, da chiese o cascine con i segni tangibili della laboriosità e presenza umana, rivelano l’intenso travaglio interiore: la luce soffusa di tenui paesaggi tipicamente virgiliani, che, vibranti di intensi e vigorosi contrasti tonali, ammorbiditi da un’equilibrata fuga d’alberi e case, trasmettono viva la sensazione d’una ricerca di un pacato equilibrio sempre teso alla sublimazione di una realtà che, dominata e sconvolta dalla contingenza, si presenta allettante nelle sue periodiche e necessarie evoluzioni. 

Si legge nell’opera pittorica di Luigi Marcucci un equilibrato sviluppo diacronico della tematica propria di un’indole spontaneamente e naturalmente portata alla riflessione sui più autentici valori della vita: non a caso nelle opere espressivamente più mature e più vive per la solita impostazione e rappresentazione figurale e volumetrica, il punto focale è rappresentato dalla chiesa, dalla cascina o dalla sofferta espressione del Cristo flagellato o dallo sguardo perduto nel nulla d’un anziano che attende appoggiato alla balaustra o al balcone ciò che non verrà più: la vita. Proprio in questo punto, in cui convergono e in cui dipartono dense sintesi di travagliata meditazione, le coordinate che sfociano nell’affermazione inconscia del Principio regolatore e dell’esistenza e dell’ispirazione. 

Nell’opera di Luigi Marcucci domina la complessa e sofferta affermazione della dimensione umana, che, sottesa al luminoso colore d’un ricco impasto cromatico, svela un profondo travaglio interiore, non sempre appagato, ma dominata da sentimento e intelligenza. La materia, trasfigurata dall’ispirazione, ricrea effetti propri d’una sensibilità ignota alle elucubrazioni accademiche su problemi pseudoesistenziali, che rendono l’opera pressocché illeggibile e indecifrabile per la sua collocazione fuori dei limiti dianoetici facilmente accessibili. 

Un discorso a parte meritano le nature morte, nelle quali Marcucci riesce a cogliere la straordinaria capacità esecutiva e inventiva, unitamente alla bravura d’interpretare frammenti di natura con una sensibilità e partecipazione pregne d’intenso lirismo. Stilisticamente e coloristicamente ineccepibili, i pezzi di natura morta si impongono per la capacità di svolgere un discorso narratologico mediante una sintassi scarna ed essenziale, basata su linee quasi impercettibili che i diversi volumi, soli o affiancati, emanano con intensità cattivante. Se nei paesaggi e nella struttura iconografica traspare qualche incertezza e durezza. avvertibili immediatamente grazie alla sicurezza del tracciato, nella natura morta Luigi Marcucci realizza con maggior semplicità e con immediatezza un discorso completo. I motivi vengono trattati senza retorica, senza gli orpelli d’un accademismo asfittico, per permettere al fruitore di raccogliere con un colpo d’occhio il complesso mondo interiore dell’uomo e dell’artista. Il discorso, allora, diviene più semplice e stilisticamente più accattivante. Percorrendo questa strada, più che nei paesaggi e nelle rappresentazioni iconografiche. Luigi Marcucci può raggiungere vertici difficilmente eguagliabili per la purezza formale e stilistica con cui esegue quanto l’ispirazione gli detta e impone di realizzare. 

Antonio Orazio Bologna

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 57-59




G. Scursi, Liber carminum

Dopo circa quattro secoli di silenzio, è tornato alla luce, ad opera di uno studioso, che da anni sta profondendo le sue energie alla riscoperta ed alla valorizzazione della cultura fiorita nella parte meridionale dell’Italia nei secoli XVI e XVII, ed in particolar modo della Calabria, l’opera completa di Giandomenico Scursi, forse l’ultimo epigono dell’umanesimo e rinascimento napoletano e meridionale in genere. Di Scursi, medico e poeta, aveva in un paio di occasioni soltanto accennato Vito Capialbi, che, nella prima metà dell’800, parlando di avvenimenti e personaggi di Vibo Valentia, ne riportava due brevi carmi di non ignobile fattura. 

La scoperta del manoscritto autografo, cui nei tempi successivi al Capialbi, non si era data eccessiva importanza, e si credeva addirittura perduto, è opera di G. Scalamandrè. Questi, come si è detto, da tempo si sta dedicando alla scoperta ed alla valorizzazione di poeti ed uomini di cultura fioriti in Calabria nei secoli XVI e XVII; e, prima che gli venisse tra le mani il codice inedito di Scursi, si è a lungo occupato di Domenico Pizzimenti, un altro eminente personaggio di Vibo Valentia, alla cui influenza, che risaliva al magistero del Minturno, Scursi deve molto della sua formazione culturale e poetica. L’ ambiente era piccolo e facili le influenze. 

L’ editore, però, non ha fatto solo opera di trascrizione ed edizione del codice; ma ha profuso impegno ed energie per collocare nella giusta luce un poeta ancora ignoto. Con pazienti e faticose ricerche in archivi pubblici e privati, in biblioteche ed opere di coetanei e conterranei, ha tracciato nell’introduzione un quadro vivo e scientificamente ineccepibile dell’ambiente di Vibo Valentia e di Napoli, dove Scursi ha trascorso gli anni più importanti della sua giovinezza e vi ha assimilato quella cultura che rendeva la città partenopea un centro di primissimo piano e meta preferita di artisti e poeti .. 

Oltre all’ambiente del paese natio, allora un centro ricco e fiorente e commercialmente e culturalmente, Scursi è stato suggestionato soprattutto dal fascino della cultura napoletana, dove ancora viva era l’eco del Pontano e del Sannazzaro. Ma prima di dedicarsi alla lettura ed allo studio di così grandi umanisti, Scursi aveva già una buona conoscenza della poesia latina: Virgilio, Ovidio, Tibullo, Properzio e Marziale sono continuamente presenti nei carmi del poeta calabrese. 

I CV Carmi che Scursi ha affidato al suo manoscritto sono vari, nel contenuto, nell’ispirazione e nella fattura: risentono dei diversi stati d’animo del poeta, dell’occasione e, soprattutto, della persona cui sono dedicati. La loro lettura, comunque è scorrevole e piacevole. 

Un accenno particolare merita la traduzione, condotta con gusto e fedeltà, senza indulgere a rifacimenti personali anche là dove l’intervento dello studioso sarebbe stato necessario. Oltre al verso latino, molto spesso di squisita fattura, il lettore può parimenti ammirare la traduzione, opera poetica anch’essa, non indegna di Scursi. 

Orazio Antonio Bologna




Entusiasmo sconvolto 

Erano trascorsi tre mesi dacché ero uscito dal seminario. Avevo terminato gli studi teologici ed aspettavo una sistemazione: a ventiquattro anni, dopo aver dedicato il periodo più bello della vita agli altri, ne avevo diritto. L’avvenire, però, non si presentava roseo e le condizioni in cui versavo non erano, certo, le più adatte a prospeltam1i un futuro quale avevo desiderato e sognato durante i tredici anni trascorsi in seminario: l’ordinazione sacerdotale, fissata per il primo di agosto, era stata sospesa a mia insaputa. 

Volendo essere al corrente delle cause che avevano determinato una decisione tanto repentina ed inattesa quanto grave, il vescovo mi rispose: “Non siete voi, figliuolo, a scegliere: è la Chiesa che vi chiama; e voi dovete rispondere. Non siete voi a proporre, ma la Chiesa, io, a decidere. Aspettate. Potranno passare due, tre, quattro mesi, forse un anno. È un periodo di prova che voglio da voi. Lo chiedo io. lo chiede la Chiesa, lo chiede Cristo. È lo spirito del Concilio, questo”. 

La risolutezza, con cui pronunciò le ultime parole, mi fecero capire che non c’era da sperare se non che la ‘tempesta si calmasse. 

“Sono stati spediti tanti inviti, eccellenza … “, sibilai con un fil di voce, temendo di infastidirlo e di scatenare una reazione difficilmente contenibile. Tirò un sospiro profondo; avrebbe voluto investirmi con una valanga d’improperi, ma si frenava e controllava come non mai, come potei intuire dal rumore dei denti stretti e dalla labbra nervosamente compresse. “Trovate una scusa qualunque. Sapete scrivere bene, voi. Vi dilettate di letteratura e, come mi è parso di capire, le parole non vi mancano”, disse e continuò con amara ironia: “Inviate una poesia, magari. .. “. 

“Va bene”, risposi a fior di labbra. “Aspetterò come vuole il Concilio”. Baciai l’anello ed uscii senza chiedere la benedizione, cui teneva più della riverenza e della genuf1essione. Il vescovo divenne più cupo e nervoso; avrebbe voluto rimproverarmi, e l’occasione era buona, ma si controllò, chiudendo di nuovo violentemente le labbra. 

Fu un colpo terribile. Crollarono tutti i sogni e le illusioni che mi avevano creato in seminario e mi trovai in fondo ad un baratro. Dimenticai di colpo il discorsetto preparato per chiarire alcune divergenze e malintesi. Ero confuso e, quando lasciai il vescovo, la mente era schiacciata da due pensieri, uno più orribile dell’altro: resistere o dimettermi. 

“Io mi dimetto!” fu la prima reazione mormorata a denti stretti, mentre chiudevo la porta dell’anticamera. Attraversando una lunga sala riccamente tappezzata, ove su panche addossate alle pareti era gente in attesa d’essere ricevuta, incominciai un utopistico soliloquio ed una furibonda e spietata requisitoria contro il vescovo e quanti avevano, con calunnie e frecciatine, contribuito alla inattesa e drammatica decisione. Quando non riuscii a trovare una parola adatta per dipingere quel viso ipocritamente atteggiato ad un affettato pietismo e quegli occhi grifagni penetranti come lame, che avevo appena lasciato nello studio tappezzato di damasco rosso, ove, con semplicità e pacatezza mi era stato creato un dramma ed un trauma difficilmente guaribile, fui assalito da un altro pensiero, più terribile del precedente: ” Gli invitati… Mille partecipazioni… Un paese in attesa. Quanti soldi sprecati e gettati al vento!”. 

Camminavo adagio, trascinando i piedi sul pavimento di marmo levigato, lucido e cerato. Quanti erano ad attendere mi guardavano con una certa pietà: e, arguendo dal mio stato quanto il vescovo mi aveva detto, guardandosi negli occhi, mormoravano, tentennando la testa: “Povero giovane…… Il mio dramma aveva fatto il giro della diocesi, come potei desumere dallo sguardo dei preti lì presenti. Quegli stessi, che qualche giorno addietro, in occasione del diaconato, mi avevano osannato e festeggiato, non mi degnarono d’uno sguardo e d’una parola. Il loro silenzio e il sorriso malizioso con cui mi seguirono fino all’uscita mi fecero sentire un verme, un essere spregevole, reo eli non so quale delitto. Quelli, certo, non erano santi: di tutti conoscevo episodi poco edificanti, che, probabilmente, non erano giunti all’orecchio del vescovo. 

Mentre scendevo le scale di mam10, fui assalito da un altro pensiero, che m’inchiodò dov’ero, sospeso tra un gradino e l’altro: “E gli invitati che verranno per il primo di agosto dove li metto? Questo, forse, il vescovo non lo sa”. 

Mi venne il capogiro, la borsa mi cadde di mano e si fermò sul pianerottolo, a pochi gradini da me. Mi accasciai sulla ringhiera di marmo e, con la faccia tra le mani, immaginavo lo scontento degli invitati: alcuni avevano anticipato, altri posticipato le ferie, altri vi avevano rinunciato. 

Ero sommerso da questi ed altri pensieri, quando mi sentii scuotere per un braccio: “Se non stai bene, vattene al manicomio, così non metti nei pasticci chi non c’entra! Giacché ci sei” sappi che il vescovo ti ha sospeso l’ordinazione. Ora puoi riflettere di più e dedicarti alla fotografia, al disegno, alla musica, all’eloquenza, alla letteratura… Sappi che tutto questo è indegno per un prete. A riguardo il Concilio parla chiaro”. 

Come scosso da un lungo sonno, distinsi appena i lineamenti di quel prete, cercando di ricordame il nome. Finsi di non sentire e, senza rispondere, continuai a scendere lentamente le scale. 

Saliva allora una ragazza, pallida, emaciata, con le labbra livide e gli occhi incavati. I capelli, lunghi e spioventi sul petto ansimante, coprivano abbondantemente i seni appena abbozzati e compressi sotto una maglietta scura, semitrasparente, Raccolse la borsa, me la porse e, tendendomi la mano, sospirò: “Sono ammalata.. , Ho fame”. 

“Non darle niente e mandala via!”, sentii urlare dalla cima della scala. Solo allora conobbi il prete che mi aveva scosso e mi impediva di aver compassione d’un’infelice, forse, più di me , Mentre frugavo in tasca, fissai a lungo quegli occhi tristi, che seguivano il prete allontanarsi imprecando. 

“È il prete più cattivo, egoista ed avaro che io conosca. Non mi ha dato mai nulla e mi odia”, disse traendo un sospiro. Spostò i capelli vezzosamente sulle spalle e soggiunse: “Se non vi sentite bene, appoggiatevi a me. È inutile che vada dagli altri preti: lì sono tutti uguali, a cominciare dal vescovo. Eppure la domenica raccolgono le offerte per gli affamati della città”. 

Le poche parole bisbigliate tra un sospiro e l’altro mi sollevarono e gettarono nell’animo un raggio di speranza, Non ero solo a soffrire in questo mondo: avevo incontrato una creatura più infelice di me. 

Conoscevo bene quel prete: era stato il mio professore di lettere alle medie, era un saccente così presuntuoso che, nonostante i principi cristiani, avevo odiato profondamente. In quel triste momento mi vennero in mente tutte le bacchettate ricevute sulle mani, soprattutto quando avevo i geloni e mi facevano male. Per le sue torture passava per il professore più severo e formativo. Durante tutti gli anni delle scuole medie, nonostante sgobbassi maledettamente, per una parola mormorata e una battuta fuori posto, non mi aveva dato mai la soddisfazione d’essere promosso a giugno. Voleva che abbandonassi gli studi e che andassi via dal seminario. La sua avversione nei miei riguardi era tale che, quando giungeva 

il mio turno, pur di non vedermi, si sceglieva di persona i chierichetti, che dovevano servirlo mentre celebrava la Santa Messa. Per me, allora, era un’umiliazione gravissima, anche perché in classe, davanti a tutti i compagni, faceva notare e metteva alla berlina tutti quelli che, secondo lui, erano i miei difetti. Ma avevo un carattere forte e sopportavo tutto in silenzio. 

Feci cadere in mano alla ragazza le poche monetine che avevo e soggiunsi: “Adesso non ho più un centesimo, neppure per tornare a casa”. 

“Grazie”, disse, diventando rossa in viso. Mi fissò per un attimo stupita ed andò via, scendendo lentamente. 

Al pensiero di preparare altri stampati per avvisare gli invitati, di comperare altri francobolli e disimpegnare quanto già impegnato, mi sentivo impazzire. “Ha ragione Dante di subissarli tutti nell’inferno! Che razza infame!”, mormorai frenando un singhiozzo. In tasca non avevo soldi e quei pochi a casa non potevano essere utilizzati: li avevamo chiesti in prestito e dovevamo restituirli. Provai non poca vergogna ed imbarazzo nel trovarmi in quell’ingresso lussuoso e tornare nella mia povera casa, dove aspettavano in ansia i miei genitori, che avevano affrontato già troppi ed enormi sacrifici. A mezzogiorno o a sera, a casa si mangiava una sola volta e, dopo il primo piatto, il pasto era finito. La carne si mangiava solo se moriva qualche gallina e tre volte all’anno: a Natale, a Pasqua e durante la festa del Protettore. I contadini allora conducevano una vita molto misera e la farne era sempre in agguato. 

Con un bagliore improvviso, mi si presentò davanti agli occhi una giornata della vita che mi attendeva: sacrifici, umiliazione, farne. 

La mattina, quando il sole sorgeva e il vescovo si alzava, io ero già stanco di raccogliere covoni e spighe, di caricare carri di fieno, di paglia e di letame, di zappare. A mezzogiorno, dopo una stentata colazione di pane nero indurito al sole, dovevo raccogliere lumachini per pescare le anguille. La sera, dopo cena, mentre i miei compagni di seminario ed il vescovo sazi e spensierati si intrattenevano davanti al televisore fino a tarda notte sprofondati in soffici poltrone, io studiavo fino a che cadevo addormentato sui libri. 

Il vescovo, questo, non lo sapeva ed il Concilio non lo aveva suggellato. 

Antonio Orazio Bologna

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 61-64