FRANCESCO GRISI, L’affettuoso sentiero – poesie, Palermo, Thule ed., 1994.

L’affettuoso contemptus di Grisi 

Scoprire l’«affettuoso sentiero» che Francesco Grisi ci invita a percorrere è cosa difficile ed insieme facilissima. Difficile, perché nella raccolta non esiste una poesia eponima o per lo meno una nella quale ricorra l’espressione del titolo. Ma se guardiamo al trans-correre delle ventitre liriche, ci accorgeremo facilmente che il “sentiero” che costituisce la guida e quasi l’anima degli “affetti” che accendono la fantasia del poeta è l’ordine stesso con cui quelle liriche sono state raccolte e presentate al lettore.

La prima lirica (“Veleggiavo una mattina…”) sembra dire che la vita del poeta trova “ormai” significato soltanto nella “disperata memoria” del passato, negli anni dell’adolescenza calabrese dello scrittore. Ma se così fosse la poesia di Francesco Grisi sarebbe come quella di tanti altri, anzi, una di quelle voci “prometeiche” e pagane che, non sapendo dare un significato alla “realtà della morte” nella vita degli esseri e del mondo intero, si inventano favole di immortalità terrestre e battaglie baroccheggianti contro il tempo, la Morte e l’oblio nel tentativo “disperato” di essere ricordato dai posteri o di richiamare in vita il passato, il tempo perduto: magari illudendosi ed illudendo, come il buon Proust, che il sapore del tempo è superiore al tempo stesso e che il ricordo è l’unica realtà in un esistere ridotto a mera apparenza, senza più alcun barlume di trasparenza.

Il culto della memoria, per quanto seducente, è religione da disperati – dice Grisi; “allarga il cuore”, ma lascerebbe vuota la nostra esistenza, se il veleggiare nel mattino all’ombra degli ulivi di Crotone, si fermasse alla pura memoria, se non tendesse a trascendere il fatto o il ricordo in sé, se non diventasse mito facente parte di una globale armonia, nella quale il tempo non si divide più in “stagioni” perché gli uomini «siamo nati invece per non morire»; anzi, in verità, malgrado la presenza della morte e proprio grazie ad essa «siamo quelli della resurrezione». Ecco, Francesco Grisi non rimpiange, né ci attrista con il suo rievocare l’infanzia, la figura del padre, quella della madre, o le cadenze e i ritmi musicali del mare di Calabria (“Allora. Il mare”). La rievocazione non è canto dolente, né il “così sia” che egli scandisce e quasi frantuma con amabile, irriverente ironia, significa rassegnazione, bensì capacità di cogliere i ritmi dell’universo nella bellezza che contraddistingue le figure, le scene, gli accadimenti, le cose. Tutto e sempre, di là e oltre, la pura (o stupida) peculiarità di ciò che serve a caratterizzare un individuo o una civiltà, un momento della nostra vita o una tranche della storia.

Il poeta è così sereno dinanzi alla prospettiva della morte da affermare che allora, quando che sia, egli tra giorni sarà “greco in Cielo”; ma noi vorremmo aggiungere che egli è greco, nobile figlio della Magna Grecia, anche per il suo sentimento di una vita che ha inchiodato Prometeo «per secoli/ a una rupe rassegnata» ed ha rifiutato l’atteggiamento implorante di  Orfeo («Orfeo implorante più non mi appartiene») per ricercare alla fine il Dio Ignoto della Resurrezione, rivelato agli Ateniesi da Paolo.

E allora, se la realtà vera è la resurrezione, la morte non fa più paura, né la vecchiaia si carica di attributi poco lusinghieri, né in essa e di essa si rilevano le sofferenze o gli acciacchi. Essa è un sereno avanzare per “i sentieri del ritorno” verso il Padre, dopo che la giovinezza e la maturità hanno esaurito quella carica, cosiddetta vitale, che ci aveva portato, come folli tralci, ad allontanarci dalla Vite-Vita, e ad inorridire della morte. Scrive il poeta: «Per ignoto privilegio / accolgo anche la morte / e docilmente la scrivo / in forme di vita».

In questa prospettiva autenticamente cristiana, attraverso la celebrazione mitica dell’infanzia, di Crotone, della nativa Cutro, del suo mare e del suo cielo, di Todi e dell’Umbria, terra di fede, attraverso il canto della donna, dell’amore, delle bellezze della natura, il poeta perviene ad una sorta di contemptus mundi rovesciato, dove l’attesa dell’altra vita e l’ansia della resurrezione non comportano il distacco dalla vita di ogni giorno o il disprezzo dei beni materiali, ma piuttosto un più attento e vigile amore per le cose del mondo, un disincantato “affetto” ricco di ironia, il quale, fra l’altro, ci fa scoprire che fra le verità religiose e le seduzioni terrestri non c’è contrasto ma complementarietà e che – anche in questa vita – la creazione e il mondo nei suoi infiniti aspetti di bellezza e bontà fanno parte di un piano armonico tutto da scoprire e da gustare: Dio – dice il poeta in forma potentemente suggestiva – è un racconto senza fine.

Vincenzo Monforte

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 64-65.




 Marinetti cinquantanni dopo 

Il due dicembre del 1944 alle prime luci dell’alba moriva. Sono trascorsi cinquantanni. C’era la guerra e la Repubblica sociale. Dalla piccola casa di Bellagio sul lago di Como venne portato a Milano nel castello Sforzesco in una cassanera-ebano. I funerali furono imponenti. C’erano scrittori e popolo. Saluti romani per Marinetti. Una corona di fiori di Benito Mussolini accompagnava il poeta. Aveva dettato un patriottico componimento per l’Italia. 

Il suo oroscopo lo obbligava all’eroismo. La radice era sempre l’eroico nel privato, nel pubblico, nel politico e nel letterario. Non temeva la retorica. Spesso la cercava per condire con aceto forte la parola. Nato ad Alessandria d’Egitto aveva succhiato dalla civiltà araba il fanatismo. Vissuto a Roma ne aveva assorbito il paganesimo. Innamorato di Parigi ne aveva sognato la poesia. 

La vita gli era stata generosa. Gli aveva dato su un piatto d’argento anche quattro guerre. Partecipava per vincere. E racconta con il tentativo sonoro di fare ascoltare nelle pagine le cannonate, gli assalti alla baionetta e il crepitio delle mitragliatrici. Lo scrivere era fare musica. La grammatica non c’entra. E le parole devono essere inventate. Il vocabolario è sempre troppo piccolo. E il vento della storia si porta via i quinterni. 

Aveva intuito che Parigi allora era il centro del mondo. E il 20 febbraio del 1909 sul “Figaro” lancia il manifesto del futurismo. In una Europa ancora tranquilla aveva irinescato una bomba ad alto potenziale. Fu confortato dalle polemiche. E continuando con il terrorismo letterario obbligò gli artisti a non archiviare la ribellione. C’è solamente l’utopia con la quale giustificare l’amore per la vita. Il passato (che è anche il presente) è il tempo delle apparenze. Gli antiquari devono trasferirsi nel museo delle cere. L’incendio deve distruggere i palazzi dove sono sistemati, nei dorati salotti, i letterati e i politici. 

Giovane e radicale non accetta discussioni. Ama la lotta e l’audacia. Da volontario partecipa alla prima guerra mondiale sognando la rivoluzione. Scrive un romanzo definito “liberty eroico”. Si intitola L’alcova d’acciaio che suscitò interesse. Oggi è un documento. C’è la prima guerra mondiale, la partecipazione attiva dei futuristi e la polemica che Marinetti godeva nell’attizzare. Croce, ad esempio, viene definito un “malinconico carabiniere che predica la libertà rivoluzionaria”. 

È un romanzo “vissuto” (così nel sottotitolo) dove amore e morte si mescolano nel combinare una miscela esplosiva. Ci sono le mitragliatrici e le case di appuntamento. Nell’autoblinda affidata al tenente Marinetti dopo Vittorio Veneto e dopo la cattura di un intero corpo d’armata austriaco a Stazione Carnia, 11talia nuda si concede all’eroico soldato. L’automitragliatrice blindata che diventa mistica e infuocata “alcova d’acciaio”. 

Ma per intendere il rapporto tra letteratura e la prima guerra mondiale questo pregevole romanzo è insufficiente. Il “liberty eroico” è solamente un fremito di vita. La letteratura del tempo non si propone in esame contestativo della guerra ma, in generale, accetta la situazione. Preoccupata di scavare nel reale per liberarsi dalla prigionia del mito (rappresentato da Carducci, Pascoli, D’Annunzio), la letteratura vede nella guerra una occasione per collegarsi all’Europa (in particolare alla cultura francese) e per tentare un passaggio poetico. 

“La Voce” di Prezzolini si muove essenzialmente in un processo di liberazione dalla “provincialità” e l’esperienza poetica (da Ungaretti a Alvaro) si affanna nella convinzione che la guerra possa contribuire alla formazione di urta nuova cultura. 

La letteratura si sente impegnata nell’avvenimento che impone un confronto tra accademia e vita, tra parnaso e morte (Serra e Jahier lo testimoniano diversamente). Non è in discussione il problema di Trento e Trieste e il nazionalismo. Per la letteratura esiste l’occasione rigenerante. 

Da questa premessa, il discorso letterario inizia timidamente con marcata audacia e con sfrenata retorica. Si tratta di una adesione alla guerra avanzata per ragioni indipendenti della guerra stessa. C’è il paradosso di fantasia che sfiora pericolosamente l’anima letteraria. 

Durante il conflitto la letteratura si trova in un confronto drammatico. I motivi che avevano suggerito l’adesione trovano conforto. La letteratura italiana si collega con quella europea (l’ermetismo), si rinnova linguisticamente e spiritualmente. Ma la letteratura prende coscienza che la morte è anche il gesto crudele dell’uccidere. San Martino di Ungaretti, Il mio Carso di S. Slataper, Wirmusser di Jahier, A un compagno di Alvaro, Sul fianco biondo del Kobilek di Soffici, Nino di Saba, Valmerbia, discorrendo il tuo fondo di Montale, Canto proletario italo-francese di Campana sono alcuni esempi di questa inaspettata presa di coscienza. 

La guerra se consente una riconquista letteraria di portata europea e una liberazione dal mito decadente, tuttavia è rifugio della vita e disperazione dell’umano. Durante la guerra la letteratura rivede i motivi che l’avevano spinta all’adesione. In particolare la meditazione critica trova certificazione nello Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra. 

La coscienza inizia nella quiete della biblioteca di Cesena e viene portata a termine in zona di guerra tra malattie, disagi e trincea. Costitisce il testamento spirituale dello scrittore romagnolo nel quale l’amore alla vita trionfa profeticamente nella inutilità della guerra. Il tenente di fanteria Renato Serra, il 20 luglio del 1915, cade fulminato da un colpo in fronte sul Podgora e, alla sua memoria, viene concessa la medaglia d’argento. 

Lo scrittore contesta l’occasione con polemia dolorosa, con fatale rassegnazione, con vigorosa fierezza. L’esempio più indicativo, a questo proposito, è Clemente Rebora. Durante la guerra 1915-18, Rebora viene richiamato. Con il grado di sottotenente viene inviato tra le truppe combattenti sul fronte di Gorizia. Nel 1913 il poeta aveva già ottenuto un meritato riconoscimento con la pubblicazione nei quaderni de “La Voce” di Prezzolini dei Frammenti lirici (già stampati in parte sulla stessa rivista). Il rapporto tra biografia e vita, prima della guerra, già si presenta in questi “Frammenti lirici” da non consentire divagazioni e distrazioni. La guerra accentua questo rapporto con una frenesia impietosa. La vita e la poesia si caricano di errore per il dramma che si presenta sul fronte. 

La inquietudine morale si trasferisce con estrema coerenza nei Canti anonimi nei quali la parola si tortura e l’immagine perde ogni forma di letterarietà. La tragedia personale si universalizza nella disperazione inutile dell’uomo. L’esperienza vitale dello scrittore si allarga, spesso, ai confini della poesia. Lo sguardo raccoglie il sentimento e l’angoscia della morte accompagna le ore. Il fante Giuseppe Ungaretti, a vent’anni, sul Carso si incontra con il suo destino di poeta. “L’Allegria” pubblicata con una prefazione di Benito Mussolini distrugge il verso tradizionale, concede lo slancio lirico, frantuma la retorica. 

Ma allora che cosa significa questo romanzo così “Alcova” e così “Acciaio” di Marinetti? Significa anche letteratura come vita. Ma soprattutto permette di capire la gioventù di quella stagione. Marinetti è il giovane che racconta il suo sogno. 

La radice è sempre l’eroico nel privato, nel pubblico, nel politico e nel culturale. Non teme la retorica. Nato ad Alessandria d’Egitto aveva succhiato dalla civiltà araba il fanatismo. Vissuto a Roma ne aveva assorbito il paganesimo. Innamorato di Parigi ne aveva sognato la poesia. La vita è generosa. Partecipa per vincere. Racconta con il tentativo sonoro di fare ascoltare nelle pagine le cannonate, gli assalti alla baionetta e il crepitio delle mitragliatrici. Scrivere è fare musica. La grammatica non c’entra. E le parole devono essere inventate. Il vocabolario è sempre troppo piccolo e il vento della storia si porta via i quinterni. 

C’è l’utopia con la quale giustificare l’amore per la vita. Il passato è il tempo delle apparenze. Gli antiquari devono trasferirsi nel museo delle cere, l’incendio deve distruggere gli archivi e i dorati salotti. Giovane e radicale non accetta discussioni. Ama la lotta e l’audacia. In “Alcova d’Acciaio” ci sono i giovani che muoiono e che cantano sulle Alpi. Ci sono tutte le verità dell’eroismo. C’è la passione furiosa, l’individualismo anarchico, la Patria, la rivoluzione. 

Incontra, dopo la prima guerra mondiale, Benito Mussolini per caso. E l’occasione diventa per Lui un destino. Lo seguirà sempre nella buona e nella cattiva sorte. Quando vince e quando perde. Nel 1919 viene rinchiuso a Milano nelle carceri di San Vittore con Mussolini, Vecchi, Bolzon e altri quindici arditi per delitto di attentato alla sicurezza dello Stato e organizzazione di bande armate. E nella prigionia scrive un manifesto-opuscolo che sarà edito sul giornale “La testa di ferro” nell’agosto del 1920. 

Ci sono tutte le verità del suo eroismo. C’è la passione furiosa, l’individualismo anarchico, la Patria, la rivoluzione. Resta fedele alle sue verità anche quando si rese conto che il fascismo doveva fare i conti con la monarchia e il vaticano. 

Soffrì e accettò il suo compromesso salendo le scale dell’Accademia d’Italia nel 1929 con Salvatore Di Giacomo, Luigi Pirandello, Giuseppe Tucci. E dove incontrò passatisti, ciceroni e professori da lui sempre disprezzati (Emilio Cecchi, Massimo Bontempelli, Giuseppe Ungaretti o Giovanni Papini). Fu la fine del futurismo. Il movimento continuò poi, sfilacciandosi e rompendosi in mille rivoli. Ma quel fuoco che aveva acceso nel lontano 1909 e che aveva alimentato con l’utopia la speranza non si spense. Anche oggi il viandante perduta la bussola di orientamento guarda verso il fuoco sacro. 

Dopo tanto vivere sulle rive del lago, Marinetti chiudeva gli occhi colpito al cuore. Fuori c’era la guerra civile. Gli uomini puri vivevano la passione. Gli altri si imboscavano. E il poeta viveva con dolore la sua solitudine. 

Era stato sul fronte russo con il raggruppamento “Camicie Nere XXIII marzo”. Nell’autunno del 1942 era ritornato ammalato. Il tempo dell’agonia arrivato. Lungo e irrevocabile. Tornava nel seno materno. Una grande pietà era nel suo orizzonte. C’era maestosità in una Repubblica dove si moriva. C’era la sconfitta della patria. E c’erano ricordi come ombre leggere nel tramonto. 

Pochi mesi prima di morire scrive L’aeropoema di Gesù tra il 1943 e il ’44. Era ormai al tramonto dopo avere attraversato un sentiero avventuroso. Era arrivato vicino la sponda dove ogni futuro diventa presente. 

L’aeropoema di Gesù non è un testamento da convertito. Forse è il tentativo di assommare nella figura di Gesù il misticismo eroico, l’idea della patria da salvare (che fu di molti nella Repubblica sociale), la contemplazione divina in movimento, un frammento di romanticismo utopistico (che sottintende al futurismo) e un vago orizzonte di innocenza religiosa. 

Con L’aeropoema di Gesù non c’è più il prometesimo futurista (annotato e comprovato nel nostro “I futuristi”). C’è il destino che spezza le ali della passione in una Venezia desolata che non concede niente all’eroico anche religioso. 

Marinetti si abbandona alle confidenze nella Venezia lunare. Nelle parole c’è l’eco di una musica che entra nelle pietre corrose e le fa diventare fughe disperate verso antiche nostalgie. Già in questo poema (come nelle pagine coeve) il Marinetti ritorna alla madre e alla “devozione a Gesù”. 

Percorso il grande cerchio della vita ritorna verso il punto di partenza. Lo attende il seno materno. Il passato è meno della madre che attende. Gesù è il compagno di un viaggio che volge al termine. Gli uomini si coprono di broccati tngemmati sulle camice nere. Vivaldi è agli ultimi accordi per una pia orfanella. Un profumo di zagare marcite viene dalle acque velenose della notte. A Marinetti, tornato dalla guerra nel fronte russo, non rimane che Gesù, il tricolore, il poema eroico per i ragazzi della X Mas, la madre, e la rassegnazione. 

Aveva sessantotto anni e suscitava ancora polemiche dentro e fuori il fascismo. É stato un intellettuale rumoroso. 

Francesco Grisi

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 24-28.